Intervista al Coordinatore della Grande Marcia per il diritto al Ritorno

Patrizia Cecconi

23 febbraio 2019, Pressenza

Il 22 febbraio si è svolto a Milano un incontro pubblico con l’avvocato Salah Abdel Ati, residente a Gaza, che ha portato la sua testimonianza sulla Grande Marcia del Ritorno e sulla situazione nella Striscia.

Alla fine dell’incontro Patrizia Cecconi ha fatto alcune domande all’avvocato S. A. Ati che riteniamo interessante proporre anche nel nostro sito. L’articolo integrale con la cronaca della serata milanese è stato pubblicata su Pressenza.

D. Lei è un giovane avvocato ma ha già molti anni di esperienza nelle lotte per i diritti umani in Palestina. Vuole raccontarci un po’ della sua vita a Gaza?

R. Veramente non sono tanto giovane, ho 44 anni e due dei miei quattro figli sono già all’università. Il ragazzo studia ingegneria e la ragazza è al primo anno di farmacia. Noi vogliamo che i nostri figli studino e tutte le famiglie a Gaza vogliono questo. Non tutti però possono date le condizioni economiche, ma la percentuale di iscritti all’Università, maschi e femmine, è molto alta. 

D. Lei fa parte delle famiglie arrivate a Gaza in seguito alla cacciata dovuta alla Nakba o è originario della Striscia? 

R. Sono uno di quel 75% di gazawi che vive in un campo profughi in quanto la mia famiglia è arrivata a Gaza dopo essere stata cacciata dalla Palestina storica. Da allora viviamo nel campo profughi di Jabaliya, al nord della Striscia.

D. Jabaliya è il luogo da cui partì la prima intifada, cioè la rivolta delle pietre, come venne chiamata, dopo l’uccisione di alcuni palestinesi investiti da un camion dell’esercito israeliano nel dicembre del 1987, è così? 

R. Sì, la rivolta partì da Jabaliya. La situazione era già carica e quella fu l’occasione che fece esplodere la rabbia palestinese. Inoltre, il giorno dopo l’investimento, gli israeliani spararono, uccidendolo, a un bambino che aveva lanciato delle pietre e da Jabaliya la rivolta si allargò e si espanse in tutti i territori occupati. Io ero un ragazzino e, come tutti gli altri ragazzini, partecipai alla rivolta. La mia gamba destra porta ancora i segni lasciati da Israele. 

D. Durante e dopo la prima intifada si occupò di politica in modo sistematico o rimase nelle fila della rivolta spontanea?

R. Mi occupai di politica. Entrai nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e venni eletto rappresentante degli studenti. Sono rimasto nel Fronte popolare fino ad alcuni anni fa. 

D. Il PFLP ha sempre rappresentato l’anima laica e di sinistra della Palestina, è vero?

R. Sì, il PFLP è stato il primo partito ad avere delle donne tra i suoi massimi dirigenti, però ora non faccio più parte dell’organizzazione politica, ma continuo a svolgere le attività in cui ho sempre creduto e per le quali ho lavorato anche nel Fronte Popolare.

D. Per esempio?

R. Per esempio la formazione politica e sociale dei giovani, i tavoli di formazione e di dialogo con le donne. Lo studio dei diritti umani e le violazioni che Israele, ma anche le autorità che governano la Palestina, sebbene in forma e numero diversi, commettono. Tutti i programmi che svolgiamo nel sociale. Insomma tutto ciò che dovrebbe preparare alla vita in una società libera, quella per la quale lavoriamo e per la quale abbiamo iniziato l’esperienza della Grande Marcia del Ritorno.

D. Lei è coordinatore per gli aspetti legali della Grande Marcia del Ritorno. Ci può dire come e da chi è nata l’idea di questa marcia che finora ha visto circa 250 martiri e oltre 25.000 feriti? E chi realmente la porta avanti? Le faccio questa domanda perché i nostri media, a parte quelli “di nicchia” ne parlano come di un progetto imposto da Hamas alla popolazione gazawa. Un progetto crudele che manda a morire tanti innocenti. 

R. No, non è un progetto di Hamas. Io ho molti contatti con l’Occidente e so bene come vengono manipolate le notizie. Intanto diciamo che in questo modo la colpa delle uccisioni non si dà agli assassini ma si scarica su una parte della società gazawa, quella che ne rappresenta il governo di fatto. Hamas può essere accusato di restrizioni e di una visione reazionaria rispetto ai valori della sinistra laica, ma non può essere accusato degli omicidi israeliani. Israele uccide manifestanti inermi, si è accanita su due dei giornalisti più competenti e conosciuti anche all’estero, due reporter che mandavano foto inequivocabili alle agenzie internazionali. Non è un caso. I suoi cecchini colpiscono il personale sanitario mentre presta soccorso. Sparano sui bambini. Sono tutti crimini contro l’umanità e se il diritto internazionale non sanziona Israele per questi numerosi e continui crimini, Israele continuerà a commetterli e queste violazioni peseranno anche sulle vostre democrazie. Comunque la grande marcia non è un progetto di Hamas, ma il movimento di Hamas partecipa, al pari di membri di Fatah, del Fronte Populare, del Fronte Democratico, degli altri movimenti politici e delle organizzazioni della società civile che hanno aderito in grande numero alla marcia.

D. Le ripeto la domanda che le avevo fatto e alla quale già mi ha risposto, ma solo in parte. Abbiamo capito che non è nata da Hamas e che non è governata da Hamas, ma come è nata l’idea della Grande Marcia?

R. È nata alla fine del 2017 discutendo sulla situazione che ci vede schiacciati sotto l’assedio. Acqua quasi totalmente non potabile, elettricità somministrata a piacere di Israele tre, quattro ore a caso durante il giorno o la notte col chiaro intento di rendere più difficile possibile la vita dei gazawi. Campi continuamente distrutti o dalle ruspe o dagli aerei che spargono diserbanti. Bombardamenti israeliani a piacere. Disoccupazione altissima. Salari tagliati anche dall’Anp. Il grado di esasperazione dei giovani e degli adulti che si alterna a fenomeni di depressione per mancanza di futuro. Insomma una situazione insostenibile. Discutendo veniva fuori che in questi 70 anni in tutta la Palestina e, in particolare, in questi 12 anni di assedio a Gaza, nessuna lotta è mai riuscita vincente. 

La resistenza è un nostro legittimo diritto ma né la resistenza armata, né la non violenza hanno mai portato all’ottenimento dei diritti spettanti al nostro popolo. Allora abbiamo pensato, discutendo e anche litigando, che un vero movimento popolare, un movimento di massa, senza uso di violenza, avrebbe potuto aiutarci ad ottenere quel che ci è dovuto. Abbiamo pensato che un diritto riconosciutoci dall’ONU già nell’anno della Nakba rappresentava tutti i palestinesi, la Risoluzione 194, cioè il nostro diritto al ritorno nelle terre, nelle case da cui siamo le nostre famiglie sono state cacciate. Così abbiamo pensato, organizzandoci in comitati, a organizzare questa grande marcia, ricreando lungo il confine dell’assedio, gli accampamenti in cui le tende portavano il nome dei villaggi e delle città da cui siamo stati cacciati. Sarebbe stato un grande movimento e forse il mondo delle istituzioni ci avrebbe finalmente dato ascolto. La grande marcia non vuole divisioni tra fazioni politiche e questo è un altro nostro importante obiettivo. 

D. Ma non avete messo in conto che Israele avrebbe potuto fare una carneficina? 

R. Israele ci ammazza ogni giorno e il mondo sta in silenzio. I nostri giovani hanno ideato il fumo nero degli pneumatici per coprire la vista ai cecchini, ma il mondo non ferma Israele, anzi lo protegge e addirittura abbiamo letto sui vostri giornali che i nostri giovani sono violenti perché incendiano gli pneumatici! Il nostro popolo ama la vita, non vuole morire, ma la morte è messa in conto. Lei ha visto durante la proiezione dei filmati [presentati durante l’incontro di Milano] che abbiamo adottato la vostra canzone “Bella ciao”? Ebbene l’ultima strofa della vostra canzone è quella che ci porta a lottare a rischio della vita, morire per la libertà. 

D. Caro avvocato, è eroico e mi azzarderei a dire commovente quel che mi sta dicendo, ma il mondo delle istituzioni non sembra capirlo.

R. È per questo che sto facendo questo viaggio. Domani sarò a Bruxelles perché abbiamo bisogno di lobbies politiche che ci aiutino a imporre a Israele le giuste sanzioni secondo la normativa giuridica internazionale. Senza sanzioni che costringano Israele al rispetto dei diritti umani non ci saranno né giustizia né pace. 

D. Lei a Gaza dirige il centro Masarat, giusto? Qual è l’attività di questo centro?

R. Il Masarat – Palestinian Center for Policy Research & Strategic Studies  segue una filosofia di apertura in tutte le direzioni e l’obiettivo prioritario su cui stiamo lavorando da molti anni è quello di raggiungere la riconciliazione tra le due fazioni più importanti, i cui leader governano rispettivamente la Cisgiordania (Fatah) e la Striscia di Gaza (Hamas). Noi siamo convinti che senza unificazione tra tutte le forze politiche non ci sarà alcuna possibilità di battere l’occupazione. Sul fronte interno, dal punto di vista politico, lavoriamo per questo. Sul fronte esterno lavoriamo per ottenere il rispetto dei diritti umani da parte di Israele, ma se cogliamo violazioni dei diritti umani da parte delle autorità palestinesi non esitiamo a denunciarle e a chiedere che vengano ripristinati i diritti violati. Recentemente abbiamo denunciato come violazione dei diritti umani anche il taglio degli stipendi agli impiegati di Gaza da parte dell’ANP.

D. Questo tipo di denunce non può acuire le distanze tra Fatah e Hamas?

R. No, perché noi non denunciamo per conto dell’una o dell’altra fazione politica, ma in nome del rispetto del popolo palestinese che è un dovere rispettare, quale che sia l’orientamento politico dei singoli cittadini. Noi abbiamo un programma con obiettivi precisi e strategie precise. Critichiamo i comportamenti che ledono il popolo palestinese e sono quelli che acuiscono le intolleranze politiche. Il nostro obiettivo finale è la fine dell’occupazione perché è da questa lunghissima occupazione che genera la corruzione, l’esasperazione e sfiducia.

Abbiamo un numero altissimo di diritti riconosciuti sulla carta ma mai applicati. Domani a Bruxelles, dove speriamo di poter avere presto una sede, e nei giorni successivi a Ginevra (Commissione dei diritti umani) andrò con questo compito, quello di segnare un passo concreto verso la fine dell’occupazione.

D. E se l’obiettivo interno per cui lavorate da anni non si realizzerà?

R. Se si realizzerà avremo una chance, non la certezza, ma una chance di abbattere l’occupazione. Se invece non si realizzerà resteremo in una situazione continuamente precaria, Israele seguiterà a mangiarsi la Cisgiordania e seguiterà lo stillicidio di vite palestinesi sia lì che a Gaza. Ma a Gaza potrebbe anche prendere forma la sempre minacciata nuova guerra di aggressione, e allora non sarà solo Gaza a pagarne le conseguenze. Noi vogliamo l’unificazione, ma sappiamo che in realtà non abbiamo delle leadership democratiche. In Palestina abbiamo delle figure di grande intelligenza, ma non si riesce a uscire dalla logica del personalismo, mentre avremmo bisogno di una struttura democratica. Noi lavoriamo per questo ed è per questo che operiamo in tutte le direzioni che poi è il significato che ha il nome dell’associazione che presiedo, “Masarat”, cioè “in ogni direzione”.

D. Vorrei farle un’ultima domanda. Vedo che ormai è notte fonda e domattina presto dovrà partire, ma può dirmi cosa pensa dei Paesi arabi rispetto alla situazione di Gaza e della Cisgiordania?

R. Sarò necessariamente sintetico. I Paesi arabi sono l’essenza della conflittualità poliedrica. Prendiamo ad esempio il Qatar. Il Qatar ha interessi sia in Cisgiordania che nella Striscia, offre finanziamenti, ricostruisce interi quartieri distrutti dai bombardamenti ma, al tempo stesso, collabora con Israele. Questa è una situazione che in modo più o meno evidente ritroviamo in quasi tutti i Paesi arabi. Non abbiamo altri alleati credibili che noi stessi, per questo il nostro obiettivo è l’unità dei palestinesi e quindi la riconciliazione. 

D. Bene, la ringrazio e le auguro buona fortuna a Bruxelles e a Ginevra.

R. Vorrei chiudere affidandole un messaggio per il popolo italiano. Al popolo italiano vorrei dire: potete sostenerci boicottando Israele affinché capisca che la società civile non sostiene i suoi crimini, e potete sostenerci chiedendo alle vostre istituzioni di esprimersi a favore della nostra causa, cioè a favore della giustizia.

 




Perché Israele ha paura di Khalida Jarrar?

Ramzy Baroud

8 novembre, Nena News 

da Dissident Voice

Roma, 8 novembre 2018, Nena News – Quando, il 2 aprile 2015, i soldati israeliani fecero irruzione in casa di Khalida Jarrar, parlamentare e avvocato palestinese, lei era assorta nella sua ricerca. Da mesi, Jarrar guidava l’iniziativa palestinese volta a portare Israele davanti alla Corte Penale Internazionale (ICC). La sua ricerca, proprio quella sera, verteva su quel genere di condotta secondo cui un gruppo di soldati può ammanettare una rispettabile intellettuale palestinese e mandarla in galera senza processo, e non è considerato responsabile di tale azione.

Venne rilasciata nel giugno del 2016, dopo aver passato oltre un anno in prigione, solo per essere nuovamente arrestata il 2 luglio 2017. Si trova tutt’ora in un carcere israeliano.

 Il 28 ottobre di quest’anno, la sua “detenzione amministrativa” è stata rinnovata per la quarta volta.

Ci sono migliaia di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, la maggior parte dei quali detenuti al di fuori dei Territori Palestinesi Occupati, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Peraltro, circa 500 palestinesi rientrano in una diversa categoria, visto che sono detenuti senza processo per periodi di sei mesi che vengono rinnovati, a volte a tempo indeterminato, dai tribunali israeliani senza alcuna motivazione legale. Jarrar è una di questi detenuti. Non implora la libertà ai suoi carcerieri. Anzi, è impegnata a istruire le sue compagne prigioniere sulla legislazione internazionale, dando lezioni e rilasciando al mondo esterno dichiarazioni che rispecchiano non solo la sua mente raffinata, ma anche la sua risolutezza e forza di carattere.

Jarrar è inarrestabile. Nonostante le sue precarie condizioni di salute, – ha avuto più infarti ischemici, soffre di ipercolesterolemia ed è stata ricoverata a causa di una grave emorragia da epistassi – la dedizione alla causa della suo popolo non si è in alcun modo indebolita, né ha mai ha vacillato.

L’avvocato palestinese cinquantacinquenne ha sostenuto un discorso politico che è sostanzialmente inesistente nella faida in corso tra la fazione di maggioranza dell’Autorità Palestinese, Fatah, in Cisgiordania e Hamas nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Come membro del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) e membro attivo all’interno del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), Jarrar sostiene un tipo di politica non disconnessa dalla gente e, soprattutto, dalle donne, che rappresenta con forza e senza compromessi.

Secondo lei, nessun funzionario palestinese dovrebbe impegnarsi in alcuna forma di dialogo con Israele, perché tale coinvolgimento aiuta la legittimazione di uno Stato che si fonda sul genocidio e sulla pulizia etnica, e che sta tuttora compiendo vari tipi di crimini di guerra; proprio quei crimini che lei ha tentato di denunciare alla Corte Penale Internazionale.

Com’era prevedibile, Jarrar rifiuta il cosiddetto “processo di pace”, un’operazione inutile, priva di qualsiasi intenzione o meccanismo per “l’applicazione di risoluzioni internazionali relative alla causa palestinese e il riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi”. Va da sé che una donna con una posizione così sagace e decisa rifiuti fermamente il “coordinamento per la sicurezza” tra l’Autorità Palestinese e Israele, considerando tale iniziativa un tradimento della lotta e dei sacrifici del popolo palestinese.

Mentre i funzionari dell’Autorità Palestinese continuano a godere dei vantaggi della “leadership”, tentando disperatamente  di rianimare l’ormai deceduto dibattito politico su “processo di pace” e “soluzione dei due Stati”, Jarrar, una leader palestinese donna di autentica lungimiranza, sopravvive nel carcere di HaSharon. Lì, insieme a decine di altre donne palestinesi, sperimenta ogni giorno l’umiliazione, la negazione dei diritti e le varie tecniche israeliane volte a piegare la sua volontà.

Ma Jarrar è un’esperta di resistenza a Israele tanto quanto lo è nella sua conoscenza della legge e dei diritti umani.

Nell’agosto 2014, mentre Israele portava avanti uno dei suoi più atroci atti di genocidio a Gaza – uccidendo e ferendo migliaia di persone nell’operazione bellica chiamata “Margine Protettivo” – Jarrar ricevette una visita indesiderata da parte dei soldati israeliani. Pienamente consapevole del lavoro di Jarrar e della sua credibilità come avvocato palestinese di portata internazionale – è la rappresentante palestinese al Consiglio d’Europa – il governo israeliano scatenò la campagna di persecuzione contro di lei, finita con l’incarcerazione. I soldati le consegnarono un decreto militare che le ordinava di lasciare la sua casa ad al-Bireh, vicino a Ramallah, e trasferirsi a Gerico.

Fallito il tentativo di metterla a tacere, venne arrestata nell’aprile dell’anno successivo, dando inizio a un capitolo di sofferenza, ma anche di resistenza, che non è ancora finito. Quando l’esercito israeliano andò a prelevare Jarrar, la sua casa venne circondata da un numero spropositato di soldati, come se l’eloquente attivista palestinese fosse, per Israele, il più grande “pericolo per la sicurezza”.

La scena era piuttosto surreale, e rappresentativa della vera paura di Israele: paura di quei palestinesi, come Khalida Jarrar, capaci di trasmettere un messaggio chiaro, che smaschera Israele agli occhi del mondo. Ricordava la frase iniziale del romanzo di Franz Kafka, “Il Processo”: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato” (“Il Processo”, F. Kafka, trad. Primo Levi, Einaudi 1983, n.d.t.)

La detenzione amministrativa in Israele è la ricostruzione all’infinito di quella scena kafkiana. Joseph K. è Khalida Jarrar con le migliaia di altri palestinesi che stanno pagando per il semplice fatto di aver rivendicato i diritti e la libertà del loro popolo.

Sotto pressione internazionale, Israele fu costretta a processare Jarrar, sollevando contro di lei dodici capi d’accusa, tra cui l’aver visitato un detenuto liberato e aver partecipato a una fiera del libro. L’altro arresto e le quattro proroghe della sua detenzione sono dimostrazione non solo della mancanza di prove concrete contro di lei, ma anche del fallimento morale di Israele.

Ma perché Israele ha paura di Khalida Jarrar?

La verità è che Jarrar, come molte altre donne palestinesi, rappresenta l’antidoto alla narrativa israeliana preconfezionata che promuove inesorabilmente Israele come un’oasi di libertà, democrazia e diritti umani in contrapposizione a una società palestinese che, presumibilmente, sarebbe l’opposto. Jarrar, avvocato, attivista per i diritti umani, importante esponente politica e sostenitrice delle donne, con la sua eloquenza, il coraggio e la conoscenza profonda dei propri diritti e di quelli del suo popolo, demolisce il castello di bugie israeliano.

È la quintessenza del femminismo: ma il suo “essere femminista” non è mera identità politica, o un’ideologia di facciata che evoca diritti “vuoti” ad uso e consumo delle platee occidentali. Al contrario, Khalida Jarrar lotta per le donne palestinesi, per la loro libertà e il loro diritto a ricevere una formazione adeguata, a cercare opportunità di lavoro e a migliorare la propria vita mentre affrontano gli enormi ostacoli dell’occupazione militare, il carcere e la pressione sociale.

“Khalida” in arabo vuol dire “Immortale”, definizione che calza a pennello per un’autentica combattente, incarnazione dell’eredità di generazioni di grandi donne palestinesi, la cui “sumoud” – determinazione – sarà sempre d’esempio per un’intera nazione. Nena News

Ramzy Baroud, scrittore e giornalista, è l’autore di “The Second Palestinian Intifada: A Chronicle of a People’s Struggle” e del più recente “My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story”.

(traduzione di Elena Bellini)