Dentro il campo di tortura israeliano per i prigionieri di Gaza

Yuval Abraham

5 gennaio 2024 – + 972 Magazine

I palestinesi arrestati nel nord della Striscia di Gaza descrivono gli abusi sistematici dei soldati israeliani sia sui civili che sui combattenti, dalle gravi deprivazioni alla crudele violenza fisica.

Allinizio di dicembre sono circolate in tutto il mondo immagini che mostravano decine di palestinesi nella città di Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza, mentre venivano svestiti e lasciati in mutande, fatti inginocchiare o sedere piegati in avanti, poi bendati e caricati come bestiame sul retro di camion militari israeliani. Come confermato in seguito da funzionari della sicurezza israeliani la stragrande maggioranza di questi uomini era costituita da civili senza affiliazione ad Hamas, portati via dallesercito senza che le loro famiglie venissero informate sul luogo di detenzione. Alcuni di loro non sono mai tornati.

+972 Magazine e Local Call hanno parlato con quattro dei civili palestinesi apparsi in quelle foto, o arrestati vicino al luogo del fatto e portati nei centri di detenzione militare israeliani, dove sono stati trattenuti per diversi giorni o addirittura settimane prima di essere rilasciati per tornare a Gaza. Le loro deposizioni, insieme a 49 testimonianze video pubblicate da vari media arabi di palestinesi arrestati nelle ultime settimane in circostanze simili nei distretti settentrionali di Zeitoun, Jabalia e Shujaiya, rivelano abusi e torture sistematiche da parte dei soldati israeliani contro tutti i detenuti, sia civili che militanti.

Secondo queste testimonianze i soldati israeliani hanno sottoposto i detenuti palestinesi a scosse elettriche, ustionato la loro pelle con gli accendini, sputato loro in bocca, li hanno privati del sonno, del cibo e dellaccesso ai bagni fino a costringerli a defecarsi addosso. Molti sono stati legati a una recinzione per ore, ammanettati e bendati per gran parte della giornata. Alcuni hanno testimoniato di essere stati picchiati su tutto il corpo e che gli sono state spente delle sigarette sul collo e sulla schiena. Si è saputo che in seguito a tali condizioni di detenzione diverse persone sono morte.

I palestinesi con cui abbiamo parlato hanno detto che la mattina del 7 dicembre, quando sono state scattate le foto a Beit Lahiya, i soldati israeliani sono entrati nel quartiere e hanno ordinato a tutti i civili di lasciare le loro case. Gridavano: Tutti i civili devono scendere e arrendersi’”, ha detto a +972 e Local Call Ayman Lubad, un ricercatore in legge presso il Centro Palestinese per i Diritti Umani, arrestato quel giorno insieme al fratello minore.

Secondo le testimonianze, i soldati hanno ordinato a tutti gli uomini di spogliarsi, li hanno riuniti in un unico luogo e hanno scattato le foto che sono state poi diffuse sui social media (alti funzionari israeliani hanno poi rimproverato i soldati per aver diffuso le immagini). Nel frattempo è stato ordinato a donne e bambini di recarsi all’ospedale Kamal Adwan.

Quattro diversi testimoni hanno riferito separatamente a +972 e Local Call che mentre erano seduti ammanettati per strada i soldati sono entrati nelle case del quartiere e appiccato il fuoco; +972 e Local Call hanno ottenuto le foto di una delle case bruciate. I soldati hanno detto ai detenuti che erano stati arrestati perché “non si erano trasferiti nel sud della Striscia di Gaza”.

Un numero imprecisato di civili palestinesi è rimasto nella parte settentrionale della Striscia nonostante gli ordini di espulsione israeliani che sin dalle prime fasi della guerra hanno portato centinaia di migliaia di persone a fuggire verso sud. Coloro con cui abbiamo parlato hanno elencato diversi motivi per cui non sono partiti: paura di subire il bombardamento da parte dell’esercito israeliano durante il viaggio verso sud o mentre vi si trovavano rifugiati; paura di essere presi di mira dai combattenti di Hamas; difficoltà motorie o disabilità tra i membri della famiglia e lincertezza della vita nei campi di sfollati nel sud. La moglie di Lubad, ad esempio, aveva appena partorito e loro temevano i rischi insiti nel lasciare casa con un neonato.

In un video girato sul posto a Beit Lahiya un soldato israeliano con in mano un megafono è di fronte agli abitanti prigionieri, disposti in fila nudi, in ginocchio e con le mani dietro la testa, e proclama: L’esercito israeliano è arrivato. Abbiamo distrutto Gaza [City] e Jabalia a vostro discapito. Abbiamo occupato Jabalia. Stiamo occupando tutta Gaza. E’ questo quello che volete? Siete dalla parte di Hamas?” I palestinesi ribattono che sono dei civili.

“La nostra casa è bruciata davanti ai miei occhi”, ha detto a +972 e Local Call Maher, uno studente dell’Università Al-Azhar di Gaza, che appare in una fotografia dei prigionieri a Beit Lahiya (ha chiesto di usare uno pseudonimo per paura che lesercito israeliano si vendichi contro i suoi familiari, ancora reclusi in un centro di detenzione militare). Testimoni oculari hanno detto che il fuoco si è diffuso in modo incontrollabile, la strada si è riempita di fumo e i soldati hanno dovuto spostare i palestinesi legati a qualche decina di metri dalle fiamme.

“Ho detto al soldato: ‘La mia casa è andata a fuoco, perché state facendo questo?’ E lui ha risposto: ‘Dimentica questa casa’”, ricorda Nidal, un altro palestinese presente anche lui in una fotografia a Beit Lahiya che ha chiesto di usare uno pseudonimo per gli stessi motivi.

“Mi ha chiesto dove mi faceva male e poi mi ha colpito con violenza”

Si sa che attualmente sono detenuti nelle carceri israeliane più di 660 palestinesi di Gaza, la maggior parte dei quali nella prigione di Ketziot nel deserto del Naqab/Negev. Un ulteriore numero, che l’esercito si rifiuta di rivelare ma potrebbe arrivare a diverse migliaia, è detenuto in diverse basi militari tra cui quella di Sde Teyman vicino a Be’er Sheva, dove si presume avvengano gran parte degli abusi sui prigionieri.

Secondo le testimonianze, i detenuti palestinesi di Beit Lahiya sono stati caricati su camion e portati su una spiaggia. Sono stati lasciati lì legati per ore e un’altra loro foto è stata scattata e diffusa sui social media. Lubad racconta come una delle soldatesse israeliane abbia ordinato a diversi detenuti di ballare e poi li abbia filmati.

I prigionieri, ancora in mutande, sono stati poi portati in un’altra spiaggia all’interno di Israele, vicino alla base militare di Zikim, dove, secondo le loro testimonianze, i soldati li hanno interrogati e picchiati duramente. Secondo quanto riportato dai media, i primi interrogatori sono stati condotti da membri dell’Unità 504 dell’esercito, un corpo di intelligence militare.

Maher ha raccontato la sua esperienza a +972 e Local Call: Un soldato mi ha chiesto: Come ti chiami?e ha iniziato a darmi pugni allo stomaco e calci. Mi ha detto: Fai parte di Hamas da due anni, dimmi come ti hanno reclutato”. Gli ho risposto che ero uno studente. Due soldati mi hanno aperto le gambe e mi hanno dato un pugno lì e in faccia. Ho iniziato a tossire e mi sono reso conto che non riuscivo a respirare. Ho detto loro: Sono un civile, sono un civile”.

“Ricordo di aver fatto allungato la mano lungo il corpo e di aver sentito qualcosa di pesante”, continua Maher. Non mi ero reso conto che era la mia gamba. Non riuscivo più a sentire il mio corpo. Ho detto al soldato che mi faceva male e lui si è fermato e ha chiesto dove; gli ho risposto allo stomaco e allora mi ha colpito forte allo stomaco. Mi hanno detto di alzarmi. Non riuscivo a sentire le gambe e non potevo camminare. Ogni volta che cadevo mi picchiavano di nuovo. Sanguinavo dalla bocca e dal naso e sono svenuto”.

I soldati hanno interrogato alcuni prigionieri in questo stesso modo, li hanno fotografati, hanno controllato le loro carte d’identità e poi li hanno divisi in due gruppi. La maggior parte, compresi Maher e il fratello minore di Lubad, sono stati rimandati a Gaza dove hanno raggiunto quella stessa notte le loro case. Lo stesso Lubad faceva parte di un secondo gruppo di circa 100 prigionieri di Beit Lahiya che quel giorno sono stati trasferiti in una struttura di detenzione militare all’interno di Israele.

Mentre erano lì i prigionieri sentivano regolarmente aerei che decollavano e atterravano”, quindi è probabile che fossero trattenuti nella base di Sde Teyman accanto a Beer Sheva, che comprende un aeroporto; secondo lesercito israeliano questo è il luogo in cui i prigionieri di Gaza vengono trattenuti per essere esaminati, vale a dire per decidere se devono essere classificati come civili o combattenti illegali”.

Secondo lufficio del portavoce dellesercito israeliano, le strutture di detenzione militare sono destinate solo agli interrogatori e allo screening iniziale dei prigionieri, prima che vengano trasferiti al servizio carcerario israeliano o fino al loro rilascio. Le testimonianze dei palestinesi trattenuti allinterno della struttura, tuttavia, dipingono un quadro completamente diverso.

Siamo stati torturati per l’intera giornata”

All’interno della base militare, i palestinesi sono stati trattenuti in gruppi di circa 100 persone. Secondo le testimonianze, sono rimasti ammanettati e bendati per tutto il tempo, e potevano riposare solo tra mezzanotte e le 5 del mattino.

Uno dei detenuti di ciascun gruppo, scelto dai soldati in base alla conoscenza dell’ebraico e denominato “Shawish” (un termine gergale per servitore o subordinato), era l’unico senza benda sugli occhi. Gli ex detenuti hanno spiegato che i soldati che li sorvegliavano avevano delle torce laser verdi che usavano per indicare chiunque si muovesse, cambiasse posizione a causa del dolore o emettesse un suono. Gli Shawish portavano questi detenuti dai soldati che si trovavano dalla parte opposta della rete di filo spinato che circondava la struttura per essere puniti.

Secondo le testimonianze, la punizione più comune consisteva nell’essere legati ad una recinzione e costretti a tenere le braccia sollevate per diverse ore. Chiunque le abbassasse veniva portato via dai soldati e picchiato.

“Siamo stati torturati per tutto il giorno”, riferisce Nidal a +972 e Local Call. Stavamo inginocchiati, a testa bassa. Quelli che non ci riuscivano venivano legati alla recinzione, [per] due o tre ore, finché il soldato non decideva di lasciarli andare. Sono rimasto legato per mezz’ora. Tutto il mio corpo era coperto di sudore; le mani sono diventate insensibili.

A proposito delle regole Lubad ricorda: Non puoi muoverti. Se ti muovi, il soldato punta un laser verso di te e dice allo Shawish: Portalo fuori, sollevagli le braccia. Se abbassi le braccia lo Shawish ti porta fuori e i soldati ti picchiano. Sono stato legato alla recinzione due volte. E ho tenuto le mani alzate perché c’erano persone intorno a me che erano state ferite. Una persona è tornata con una gamba rotta. Si sentivano i colpi e le urla provenire dall’altro lato della recinzione. Hai paura di guardare o sbirciare attraverso la benda. Se ti vedono guardare, c’è una punizione. Portano fuori anche te o ti legano alla recinzione”.

Un altro giovane rilasciato dalla detenzione ha detto ai media dopo essere tornato a Gaza che le persone venivano torturate continuamente. Sentivamo le urla. Loro [i soldati] ci hanno chiesto: Perché siete rimasti a Gaza, perché non siete andati a sud?” E io ho risposto: Perché dovremmo andare a sud?” Le nostre case sono ancora in piedi e non siamo legati ad Hamas”. Ci hanno detto: ‘andate a sud; il 7 ottobre avete festeggiato [per lattacco guidato da Hamas]”.

In un caso, dice Lubad, un prigioniero che si rifiutava di inginocchiarsi e abbassava le braccia invece di tenerle alzate è stato portato ammanettato dietro la rete di filo spinato. I prigionieri sentivano le percosse, poi hanno sentito il detenuto imprecare contro un soldato e poi uno sparo. Non sanno se il detenuto sia stato effettivamente colpito né se sia vivo o morto; in ogni caso non è tornato per il resto del tempo in cui sono stati trattenuti lì coloro con cui abbiamo parlato.

Nelle interviste con i media arabi degli ex prigionieri hanno testimoniato che altri reclusi sono morti accanto a loro. Lì dentro sono morte delle persone. Un prigioniero aveva una malattia cardiaca. Lo hanno buttato fuori, non volevano prendersi cura di lui”, ha riferito una persona ad Al Jazeera.

Anche diversi prigionieri che si trovavano insieme a Lubad gli hanno raccontato di questa morte. Hanno detto che prima del suo arrivo un uomo anziano del campo profughi di Al-Shati, che era malato, è morto nella struttura a causa delle condizioni di detenzione. I detenuti hanno deciso di iniziare uno sciopero della fame per protestare per la sua morte e hanno restituito ai soldati le razioni di formaggio e pane. I prigionieri hanno riferito a Lubad che di notte i soldati sono entrati e li hanno picchiati duramente mentre erano ammanettati, e poi hanno lanciato contro di loro bombolette di gas lacrimogeno. I detenuti hanno smesso di scioperare.

L’esercito israeliano ha confermato a +972 e Local Call che dei prigionieri provenienti da Gaza sono morti nella struttura. “Sappiamo di casi di morte di persone recluse nel centro di detenzione”, ha detto il portavoce dell’esercito. Secondo le procedure, per ogni morte di un detenuto viene condotta un’indagine che comprende una verifica sulle circostanze della morte. I corpi dei prigionieri vengono trattenuti in conformità con l’ordinamento militare”.

Nelle testimonianze video i palestinesi rilasciati a Gaza descrivono casi in cui i soldati spegnevano sigarette sui corpi dei prigionieri e davano loro persino scosse elettriche. “Sono stato detenuto per 18 giorni”, ha detto un giovane ad Al Jazeera. [Il soldato] vede che ti addormenti, prende un accendino e ti brucia la schiena. Mi hanno spento delle sigarette sulla schiena un paio di volte. Uno dei ragazzi [che era bendato] ha detto [al soldato]: ‘Voglio dell’acqua da bere‘, e il soldato gli ha detto di aprire la bocca e poi ci ha sputato dentro”.

Un altro detenuto riferisce di essere stato torturato per cinque o sei giorni. Racconta che gli veniva detto: “Vuoi andare in bagno? Proibito”. [Il soldato] ti picchia. Ma io non sono Hamas, di cosa ho la colpa? Ma continua a dirti: ‘Tu sei Hamas, tutti quelli che rimangono a Gaza [City] sono Hamas. Se non fossi stato Hamas saresti andato a sud. Ti avevamo detto di andare a sud.'”

Shadi al-Adawiya, un altro prigioniero poi rilasciato, ha riferito a TRT [l’azienda radiotelevisiva di Stato turca, ndt.] in una testimonianza videoregistrata: Ci spegnevano le sigarette sul collo, sulle mani e sulla schiena. Ci prendevano a calci nelle mani e in testa. E c’erano le scosse elettriche”.

Non puoi chiedere nulla”, ha detto ad Al Jazeera un altro detenuto rilasciato dopo essere arrivato in un ospedale di Rafah. Se dici: Voglio bere, ti picchiano su tutto il corpo. Non c’è differenza tra vecchi e giovani. Ho 62 anni. Mi hanno colpito alle costole e da allora ho difficoltà a respirare”.

“Ho provato a togliermi la benda e un soldato mi ha dato una ginocchiata in fronte”

I palestinesi arrestati da Israele a Gaza, siano essi combattenti o civili, sono detenuti ai sensi della Legge sui combattenti illegali” del 2002. Questa legge israeliana consente allo Stato di trattenere combattenti nemici senza concedere loro lo status di prigioniero di guerra e di trattenerli per lunghi periodi di tempo senza regolari procedimenti legali. Israele può impedire ai detenuti di incontrare un avvocato e rinviare l’esame giudiziario fino a 75 giorni o, su approvazione di un giudice, fino a sei mesi.

Dopo lo scoppio dellattuale guerra in ottobre questa legge è stata modificata: secondo la versione approvata dalla Knesset il 18 dicembre, Israele può trattenere tali detenuti anche fino a 45 giorni senza emettere un ordine di detenzione: una disposizione che comporta preoccupanti conseguenze.

Scompaiono per 45 giorni”, ha detto a +972 e Local Call Tal Steiner, direttore esecutivo del Comitato Pubblico Contro la Tortura in Israele. Le loro famiglie non vengono informate. Durante questo periodo le persone possono morire senza che nessuno lo venga a sapere. [Si deve] provare che sia successo davvero. Tante persone possono semplicemente scomparire”.

L’ONG israeliana per i diritti umani HaMoked ha ricevuto chiamate da persone di Gaza riguardanti 254 palestinesi detenuti dall’esercito israeliano e i cui parenti non hanno idea di dove si trovino. Alla fine di dicembre HaMoked ha presentato una petizione allAlta Corte israeliana chiedendo che lesercito pubblichi informazioni sugli abitanti di Gaza detenuti.

Una fonte del Servizio Carcerario Israeliano ha detto a +972 e Local Call che la maggior parte dei detenuti prelevati da Gaza sono trattenuti dai militari e non sono stati trasferiti nelle carceri. È probabile che lesercito israeliano stia cercando di ottenere informazioni di intelligence dai civili utilizzando la legge sui combattenti illegali per tenerli prigionieri.

I detenuti che hanno parlato con +972 e Local Call hanno affermato di essere stati trattenuti nella struttura militare insieme a persone che sapevano essere membri di Hamas o della Jihad islamica. Secondo le testimonianze, i soldati israeliani non fanno distinzioni tra i civili e i membri di queste organizzazioni e trattano tutti allo stesso modo. Alcuni degli arrestati in uno stesso gruppo a Beit Lahiya quasi un mese fa non sono stati ancora rilasciati.

Nidal descrive come, oltre alla violenza subita dai detenuti, le condizioni di detenzione fossero estremamente dure. “La toilette è una sottile apertura tra due pezzi di legno”, dice. Ci mettevano lì ammanettati e bendati. Entravamo e facevamo pipì vestiti. Ed è sempre lì che bevevamo”.

I civili rilasciati dalla base militare israeliana hanno raccontato a +972 e Local Call che dopo pochi giorni sono stati portati da una struttura all’altra per essere interrogati. La maggior parte ha affermato di essere stata picchiata durante gli interrogatori. È stato loro chiesto se conoscevano agenti di Hamas o della Jihad islamica, cosa pensavano di quanto accaduto il 7 ottobre, quale dei loro familiari fosse un agente di Hamas, chi fosse entrato in Israele il 7 ottobre e perché non fossero fuggiti a sud come ordinato.”

Tre giorni dopo Lubad è stato portato a Gerusalemme per l’interrogatorio. “L’inquirente mi ha dato un pugno in faccia e alla fine mi hanno portato fuori e mi hanno bendato”, dice. Ho provato a togliermi la benda perché mi faceva male e un soldato mi ha dato una ginocchiata in fronte, quindi l’ho lasciata.

“Mezz’ora dopo hanno portato un altro prigioniero, un professore universitario”, continua Lubad. A quanto pare non ha collaborato con loro durante linterrogatorio. Lo hanno picchiato davvero senza pietà accanto a me. Gli hanno detto: ‘Stai difendendo Hamas, non rispondi alle domande. Mettiti in ginocchio, alza le mani.Ho sentito due persone venire verso di me. Pensavo che fosse il mio turno di essere picchiato e nell’attesa ero contratto in tutto il corpo. Qualcuno mi ha sussurrato allorecchio: Di’ cane”. Ho detto che non capivo. Mi ha risposto: Di‘: il giorno verrà per ogni cane’”, intendendo morte o punizione.

Lubad è stato poi riportato nella cella di detenzione. Secondo lui le condizioni a Gerusalemme erano migliori che nella struttura a sud. Per la prima volta non è stato ammanettato né bendato. “Avevo così tanto male ed ero così stanco che mi sono addormentato, e basta”, dice.

Siamo stati trattati come galline o pecore”

Il 14 dicembre, una settimana dopo essere stato portato via dalla sua casa a Beit Lahiya dove aveva lasciato moglie e tre figli, Lubad è stato messo su un autobus per tornare al valico di Kerem Shalom tra Israele e la Striscia di Gaza. Ha contato 14 autobus e centinaia di prigionieri. Lui e un altro testimone hanno riferito a +972 e Local Call che i soldati hanno detto loro di scappare e che chiunque si guarderà indietro, gli spareremo”.

Da Kerem Shalom i prigionieri si sono recati a Rafah, una città che nelle ultime settimane si è trasformata in un gigantesco campo profughi dovendo ospitare centinaia di migliaia di palestinesi sfollati. I prigionieri rilasciati indossavano pigiami grigi e alcuni hanno mostrato ai giornalisti palestinesi ferite ai polsi, alla schiena e alle spalle, esito evidente della violenza subita durante la reclusione. Indossavano braccialetti numerati che avevano ricevuto appena arrivati al centro di detenzione.

Euro-Med Monitor, un’organizzazione per i diritti umani con sede a Ginevra con diversi ricercatori sul campo a Rafah, ha dichiarato a +972 e Local Call che si stima che nelle ultime settimane almeno 500 abitanti di Gaza siano stati rilasciati e rientrati in città dopo essere stati trattenuti in centri di detenzione israeliani, riportando testimonianze di feroci torture e abusi.

I prigionieri hanno detto ai giornalisti che a Rafah non sapevano dove andare o dove fossero le loro famiglie. Molti di loro erano scalzi. “Sono rimasto bendato per 17 giorni”, ha riferito uno di loro. Siamo stati trattati come galline o pecore”, ha detto un altro.

Uno dei detenuti arrivati a Rafah ha detto a +972 e Local Call che dal momento del suo rilascio due settimane fa vive in una tenda di nylon. “Solo oggi ho comprato delle scarpe”, dice. A Rafah, ovunque guardi, vedi tende. Da quando sono stato rilasciato, per me è stata psicologicamente molto dura. Un milione di persone sono stipate qui, in una città di 200.000 abitanti [prima della guerra]”.

Lubad appena arrivato a Rafah ha chiamato sua moglie. Era felice di sapere che lei e i suoi figli erano vivi. «In carcere continuavo a pensare a loro, a mia moglie che si trova in una situazione difficile, sola con il nostro bambino appena nato», spiega.

Ma al telefono ha capito che c’era qualcosa che i suoi familiari non gli dicevano. Alla fine, Lubad ha scoperto che unora dopo che suo fratello minore era tornato dalla prigionia a Zikim Beach era stato ucciso da un proiettile israeliano che ha colpito la casa di un vicino.

Ricordando l’ultima volta che aveva visto suo fratello, Lubad dice: “Vedevo come eravamo seduti lì in mutande, e faceva un freddo terribile, e gli ho sussurrato: ‘Va bene, va tutto bene, tornerai sano e salvo.’

Durante la sua detenzione la moglie di Lubad ha detto ai figli che lui era in viaggio allestero; Lubad non è sicuro che ci credessero. Quel giorno suo figlio di 3 anni lo ha visto per strada senza vestiti. Mio figlio desiderava tanto andare allo zoo, ma a Gaza non c’è più nessuno zoo. Allora gli ho detto che durante il mio viaggio avevo visto una volpe a Gerusalemme – e in effetti la mattina, durante il mio interrogatorio, passavano alcune volpi. Gli ho promesso che, quando tutto sarebbe finito, avrei portato anche lui a vederle.

In risposta alle affermazioni fatte in questo articolo secondo cui i soldati israeliani avrebbero bruciato le case dei palestinesi arrestati a Beit Lahiya, il portavoce dellesercito ha commentato che le accuse saranno prese in esame”, aggiungendo che negli appartamenti delledificio sono stati trovati documenti appartenenti ad Hamas e una grande quantità di armi” e che dalledificio sarebbero stati sparati colpi contro le forze israeliane.

Il portavoce dellesercito ha affermato che i palestinesi di Gaza sarebbero stati arrestati per coinvolgimento in attività terroristiche” e che ai detenuti che risultano non coinvolti in attività terroristiche e per i quali un prolungamento della detenzione non è giustificato viene permesso di tornare nella Striscia di Gaza alla prima occasione.”

Per quanto riguarda le accuse di maltrattamenti e torture il portavoce dell’esercito ha affermato che tutte le accuse di condotta impropria nella struttura di detenzione vengono indagate approfonditamente. I detenuti vengono ammanettati in base al loro livello di rischio e alle condizioni di salute, secondo una valutazione quotidiana. Una volta al giorno la struttura di detenzione militare offre ai detenuti che la richiedano una consulenza medica per verificarne le condizioni di salute”.

Tuttavia, i prigionieri che hanno parlato con +972 e Local Call hanno affermato di essere stati visitati da un medico solo al loro arrivo nella struttura e di non aver ricevuto alcun trattamento medico successivo nonostante le ripetute richieste.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele rastrella centinaia di ragazzi palestinesi e li fa scomparire

Redazione di MEMO

7 dicembre 2023 – Middle East Monitor

Immagini e riprese video scioccanti che circolano online mostrano ragazzi e uomini senza i loro indumenti intimi e seduti per terra con le gelide temperature invernali di Gaza.

Centinaia di ragazzi e uomini sopra i 15 anni sono stati radunati dalle forze di occupazione nella parte nord di Gaza, privati dei loro vestiti e portati via.

Immagini e riprese video scioccanti che circolano online mostrano ragazzi e uomini senza i loro indumenti intimi e seduti per terra con le gelide temperature invernali di Gaza.

Li si vede circondati da soldati dell’occupazione israeliana pesantemente armati che stanno urlando loro degli ordini.

Altre immagini mostrano un furgone militare per il trasporto di persone pieno di uomini che vengono portati via.

Non è chiaro quanti ragazzi e uomini siano stati fatti scomparire, ma alcuni rapporti indicano la cifra di 700. Si dice che siano stati presi dalle scuole [usate come] rifugio nella parte nord di Gaza, dove migliaia di civili sfollati sono stati obbligati a rifugiarsi in seguito ai bombardamenti e alla distruzione dei loro quartieri e delle loro case.

Ci sono informazioni secondo cui tra coloro che sono stati presi ci sarebbe Diaa Al-Kahlot, capo redazione del giornale Al-Arabi Al-Jadeed a Gaza. Utenti dei social media affermano di averlo riconosciuto nelle immagini diffuse con una giacca e con i suoi indumenti intimi tra le fila degli uomini.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele arresta quasi tanti palestinesi quanti ne ha rilasciati durante la tregua

Zena Al Tahhan

28 novembre – Al Jazeera

Nei primi quattro giorni dello scambio di prigionieri tra Israele e Hamas, Israele ha rilasciato 150 palestinesi e ne ha arrestati 133

Ramallah, Cisgiordania occupata – Mentre si svolgeva lo scambio di prigionieri con Hamas, il gruppo armato con sede a Gaza, Israele ha continuato ad arrestare decine di palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est.

Nei primi quattro giorni della tregua tra Israele e Hamas, iniziata venerdì, Israele ha rilasciato 150 prigionieri palestinesi – 117 minori e 33 donne.

Hamas ha rilasciato 69 prigionieri: 51 israeliani e 18 persone di altre nazionalità.

Negli stessi quattro giorni, secondo le associazioni dei prigionieri palestinesi, Israele ha arrestato almeno 133 palestinesi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.

Finché ci sarà occupazione, gli arresti non si fermeranno. La gente deve capirlo perché questa è una politica fondamentale dell’occupazione contro i palestinesi per schiacciare qualsiasi tipo di resistenza”, dice ad Al Jazeera Amany Sarahneh, portavoce della Associazione dei Prigionieri Palestinesi.

“E’ una pratica quotidiana, non solo dopo il 7 ottobre”, aggiunge. “Ci aspettavamo che durante questi quattro giorni arrestassero più persone”.

La tregua mediata dal Qatar è arrivata dopo 51 giorni di incessanti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza assediata, iniziati il 7 ottobre, il giorno in cui Hamas ha lanciato un attacco a sorpresa sul territorio israeliano uccidendo circa 1.200 persone.

Da allora Israele ha ucciso più di 15.000 palestinesi nella Striscia di Gaza, la maggior parte dei quali donne e minorenni.

Lunedì la tregua, originariamente di quattro giorni, è stata prorogata di altri due, durante i quali si prevede che verranno rilasciati altri 60 palestinesi e 20 ostaggi.

Dall’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, che dura da 56 anni, le forze israeliane effettuano incursioni notturne nelle case palestinesi arrestando da 15 a 20 persone nelle giornate “tranquille”.

Nelle prime due settimane dopo il 7 ottobre Israele ha raddoppiato il numero dei palestinesi in detenzione, passando da 5.200 a più di 10.000. Il numero include 4.000 lavoratori di Gaza che lavoravano in Israele e sono stati detenuti prima di essere successivamente riportati a Gaza.

Avvocati dei prigionieri palestinesi e gruppi di monitoraggio hanno registrato 3.290 arresti in Cisgiordania e Gerusalemme Est dal 7 ottobre. A metà novembre, Eyad Banat, 35 anni, è stato arrestato mentre trasmetteva in diretta su TikTok. Successivamente è stato rilasciato.

Nessuna garanzia con l’occupazione”

Dall’inizio della tregua le strade di Ramallah si sono riempite di persone che accolgono i prigionieri liberati.

Ma la preoccupazione per i prigionieri palestinesi non finisce dopo il loro rilascio. La maggior parte delle persone liberate in genere viene nuovamente arrestata dalle forze israeliane nei giorni, nelle settimane, nei mesi e negli anni successivi al loro rilascio.

Decine di coloro che erano stati rilasciati in uno scambio di prigionieri tra Israele e Hamas nel 2011 sono stati nuovamente arrestati e la loro pena è stata confermata.

Sarahneh afferma che non è ancora chiaro se Israele abbia fornito garanzie che non arresterà nuovamente coloro che sono stati rilasciati.

Non ci sono garanzie con l’occupazione. Queste persone rischiano di essere nuovamente arrestate in qualsiasi momento. L’occupazione riarresta sempre le persone che sono state rilasciate”, sostiene.

“La prova più evidente che queste persone potrebbero essere nuovamente arrestate è che la maggior parte delle persone ora detenute sono prigionieri già liberati”, aggiunge.

Dal 7 ottobre le condizioni dei palestinesi agli arresti o in detenzione sono gravemente peggiorate. Molti hanno denunciato pestaggi, mentre sei prigionieri palestinesi sono morti durante la custodia israeliana.

Molte delle donne e dei minori rilasciati durante la tregua hanno testimoniato degli abusi subiti nelle carceri israeliane.

Nelle ultime settimane hanno circolato anche diversi video di soldati israeliani che picchiano, calpestano, maltrattano e umiliano palestinesi detenuti che sono bendati, ammanettati e parzialmente o interamente denudati. Molti utenti dei social media hanno affermato che le scene hanno riportato alla mente le tecniche di tortura utilizzate dalle forze statunitensi nella prigione irachena di Abu Ghraib nel 2003.

Oltre ai violenti pestaggi, secondo le associazioni per i diritti, le autorità carcerarie israeliane hanno sospeso le cure mediche ai prigionieri palestinesi almeno per la prima settimana dopo il 7 ottobre, anche a quelli che sono stati picchiati. Le visite dei familiari e le visite di routine degli avvocati sono state interrotte, dicono le associazioni.

Secondo i gruppi per i diritti umani in precedenza ai prigionieri venivano concesse tre o quattro ore fuori dalle celle nel cortile, ma ora hanno meno di un’ora.

Le celle sovraffollate spesso ospitano il doppio del numero di detenuti per cui sono state costruite, molti dormono sul pavimento senza materassi, affermano.

Le autorità carcerarie israeliane hanno anche tagliato l’elettricità e l’acqua calda, condotto perquisizioni nelle celle, portato via tutti i dispositivi elettrici inclusi televisori, radio, piastre da cucina e bollitori, e chiuso la mensa, che i prigionieri usano per acquistare cibo e beni di prima necessità, come il dentifricio.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Quello che gli israeliani non vogliono credere sui palestinesi liberati in cambio degli ostaggi

Orly Noy

23 novembre 2023 – +972 Magazine

La lista dei palestinesi destinati a essere scambiati con israeliani dovrebbe far riflettere sul ruolo degli arresti di massa nell’occupazione.

Stamattina Israele e Hamas hanno definito i dettagli di un accordo per sospendere le ostilità nella Striscia di Gaza a quasi sette settimane dall’inizio della guerra. L’accordo include un cessate il fuoco di quattro giorni e lo scambio di 50 ostaggi israeliani con 150 “prigionieri di sicurezza” palestinesi con la possibilità di altri scambi in un secondo tempo. Questi sono i termini che Hamas avrebbe offerto a Israele settimane fa nelle prime fasi della guerra, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu ha preferito lanciarsi in una guerra totale contro la Striscia assediata, uccidendo oltre 14.000 palestinesi, anche a scapito della salvezza e del benessere degli ostaggi israeliani, prima di prendere in considerazione un accordo. 

Israele ha pubblicato i nomi dei 300 prigionieri palestinesi che intende liberare come parte dell’accordo o in seguito alla liberazione di altri ostaggi israeliani, per permettere la presentazione di ricorsi nei tribunali israeliani contro il rilascio di specifici individui. Per il momento tutti gli ostaggi e i prigionieri da scambiare sono donne e minori. Tuttavia molti della destra israeliana e forse nell’opinione pubblica credono che il governo stia facendo una significativa concessione liberando pericolosi “terroristi” per il bene di pochi ostaggi.

Leggendo la lista dei prigionieri palestinesi scelti per il rilascio la prima cosa che colpisce è la loro età. La gran maggioranza, 287, ha 18 anni o meno, compresi cinque quattordicenni, cosa che solleva la domanda: come può un quattordicenne essere un “prigioniero di sicurezza?”

I nomi sulla lista includono persone che apparterrebbero a fazioni politiche palestinesi come Hamas, Fatah, Jihad Islamica e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e anche molti che non sono affiliati ad alcun gruppo. Nessuno è stato condannato per omicidio. Alcuni sono stati condannati per tentato omicidio mentre la maggioranza è stata accusata di reati minori, fra cui molti arrestati per il lancio di pietre. Uno di loro, un diciassettenne, è stato dietro le sbarre per due anni per aver gettato pietre contro un veicolo militare israeliano a Gerusalemme, la stessa città dove i coloni ebrei possono scatenare disordini contro i palestinesi che raramente finiscono con indagini, men che meno arresti.

Ma soprattutto la lista è una sorprendente testimonianza di come arresti e incarcerazioni siano centrali nell’occupazione e nel controllo israeliano sui palestinesi. Secondo i dati dell’organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked, nel novembre 2023 Israele detiene 6.809 “prigionieri di sicurezza.” Di questi 2.313 stanno scontando una pena, 2.321 non sono ancora stati condannati dal tribunale, 2.070 sono in detenzione amministrativa (incarcerazione indefinita senza prove o giusto processo) e 105 sono “combattenti illegali” arrestati durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele.

Quasi tutti i 300 palestinesi destinati al rilascio sono prigionieri relativamente recenti, arrestati negli ultimi due anni. Fanno eccezione 10 donne di Gerusalemme e Cisgiordania che sono in prigione dal 2015-17, in maggioranza con l’accusa di aver commesso o tentato di commettere attacchi all’arma bianca contro soldati israeliani, alcuni senza aver causato alcun danno, mentre altri hanno provocato lesioni da lievi a moderate.

Va ricordato che tutto ciò è supervisionato dallo stesso sistema giuridico che, fra innumerevoli altri esempi, ha deciso di chiudere il caso contro un colono israeliano che ha accoltellato a morte un giovane palestinese nel maggio 2022 perché “non è possibile escludere la versione [del sospettato] di aver agito per legittima difesa.” È lo stesso sistema che a luglio di quest’anno ha assolto un poliziotto israeliano che ha ucciso Iyad al-Hallaq, un palestinese affetto da autismo, nonostante chiare testimonianze e video che provavano che era disarmato e non rappresentava un pericolo di alcun genere. 

Ciò va ad aggiungersi al fatto che i “prigionieri di sicurezza” sono giudicati da un sistema separato di tribunali militari che vanta un tasso di condanne tra il 95 e il 99%. Agli occhi del regime di apartheid israeliano la tolleranza è un diritto riservato solo agli ebrei.

Mentre gli ebrei che causano disordini, che attaccano e persino uccidono palestinesi godono dell’immunità, la lista dei prigionieri ci ricorda che i palestinesi possono essere arrestati in massa solo in base alle “intenzioni” di compiere un atto violento. Uno di quelli sulla lista, una donna di 45 anni di Gerusalemme, è stata in carcere per oltre due anni perché “è stata colta nella Città Vecchi con un coltello in mano,” e “ha detto che intendeva compiere un attacco.” Intanto il ministro kahanista [dell’estrema destra che si ispira al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.] della Sicurezza Nazionale israeliana incita gli ebrei ad armarsi mentre distribuisce armi come caramelle e molti israeliani di destra stanno scrivendo innumerevoli messaggi, pubblici e privati, annunciando allegramente la loro intenzione di “ammazzare quanti più arabi possibile.”

Talvolta sul capo d’accusa non appare neanche “l’intenzione”. Un diciottenne di Gerusalemme è stato “arrestato con altri perché gridava ‘Allahu Akbar.” Una diciottenne della Cisgiordania è stata imprigionata per mesi per “incitamento su Instagram.” Fra gli israeliani, per contro, espliciti inviti al genocidio sono considerati un modo legittimo per sollevare il morale nazionale, mentre i palestinesi con cittadinanza israeliana possono essere arrestati per aver semplicemente postato la foto di una shakshuka [uova speziate, piatto magrebino poi introdotto in Israele e nord-Africa,] accanto a una bandiera palestinese.

Delle accuse elencate solo poche sono relative all’uso di armi e di aver sparato contro l’esercito israeliano (e persino in questi casi, non ci sono state vittime). La grande maggioranza degli episodi riguarda il lancio di pietre o molotov, lanciare fuochi di artificio e causare “disturbo alla quiete pubblica.” È valsa la pena di lasciar languire a Gaza gli ostaggi israeliani, donne e bambini, per alcune settimane per poter continuare a tenere in prigione un ragazzo che ha osato gridare “Dio è grande?”

Naturalmente questa lista è composta da prigionieri “deboli”, che non solleveranno molta opposizione pubblica, mentre i prigionieri palestinesi che sono stati accusati di reati ben più gravi e di omicidio restano nelle carceri israeliane. Ma i 300 nomi che Israele è riuscito a mettere insieme, quasi tutti giovani, arrestati negli ultimi due anni e imprigionati per qualche forma di resistenza popolare, dovrebbero indurre gli israeliani alla riflessione. 

Dopo tutto, c’è un chiaro legame fra la mano pesante usata per reprimere ogni espressione di opposizione da parte palestinese e il rafforzarsi dei gruppi armati che vedono la violenza come l’unico modo di sfidare seriamente gli occupanti. Ma questo richiederebbe che l’opinione pubblica israeliana finalmente cogliesse il fatto fondamentale che se l’oppressione continua, inevitabilmente, continuerà anche la resistenza.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Come nelle carceri israeliane i prigionieri palestinesi sono vittime di incuria

Lubna Abdelwahab Abuhashem

29 0ttobre 2022 We are not Numbers

Souad al-Amour, 65 anni, ha atteso a lungo il rilascio del figlio, Sami al-Amour, detenuto dal 2008. Le sue speranze, tuttavia, sono state distrutte perché Sami è morto in una prigione israeliana.

Il 39enne detenuto palestinese, condannato a 19 anni, è morto nel 2021 per un disturbo cardiaco. L’Israel Prison Service (IPS) [il servizio carcerario israeliano, sotto la giurisdizione del Ministero della Pubblica Sicurezza, è responsabile della supervisione delle carceri in Israele, ndt.] ha affermato che Sami aveva una malattia cardiologiaca congenita. “Nel corso dei 25 anni in cui ha vissuto con me Sami non è mai andato in ospedale per disturbi cardiaci”, racconta Souad. Ogni giorno si arrampicava e scendeva dalla erta collina a forma di cono vicina alla nostra casa”.

Souaad sapeva solo che in prigione suo figlio soffriva di problemi di stomaco e ipertensione. Nessuno sa come sto vivendo adesso. Non posso credere che sia morto. Non me lo sarei mai aspettato; non sapevo che negli ultimi tre mesi la sua salute si fosse deteriorata”, dice Souad.

Hussain al-Zuraei, un ex detenuto che si è trovato per un po’ insieme a Sami nella stessa prigione, ha detto a The Palestine Chronicle: Negli ultimi giorni Sami pesava 37 chilogrammi pur non conducendo nessuno sciopero della fame. Era strano. Abbiamo lottato con l’IPS affinché ricevesse le cure necessarie”.

Il giorno prima della sua morte l’IPS ha trasferito Sami all’ospedale con il Bosta, il veicolo carcerario israeliano con sedili di metallo, dove i detenuti palestinesi restano ammanettati per tutto il tragitto. E’ stato costretto a trasportare da sé la sua borsa con i vestiti.

Sami e gli altri detenuti sul Bosta hanno dovuto aspettare ore davanti all’ingresso per motivi di sicurezza. I detenuti hanno detto a Hussain che durante l’attesa le condizioni di Sami sono peggiorate, per cui hanno picchiato rumorosamente contro il metallo per far venire un’infermiera o chiunque altro. Nessuno ha risposto.

Hassan Kenita, a capo del dipartimento per gli affari dei detenuti e degli ex detenuti dei governatorati meridionali, ha detto a The Palestine Chronicle: Sami è un vivido esempio di una politica di incuria sanitaria. Logicamente, si dovrebbero seguire le procedure più immediate per portare un paziente in ospedale. Se avessero avuto davvero l’intenzione di salvarlo, le cose sarebbero andate diversamente. Invece lo hanno trasferito col Bosta, che non è attrezzato per i pazienti”.

Souad non ha ancora ottenuto il corpo di suo figlio poiché l’IPS rifiuta la richiesta di rilascio di un cadavere fino a quando non ha scontato tutti gli anni della pena.

Aspetto il suo corpo. Voglio vederlo. Piango fino all’ultima lacrima ogni giorno, si lamenta sua madre. Cosa accadrebbe se lo rilasciassero dal momento che è morto? Prendetevi cura degli altri detenuti. Mio figlio è morto. Eppure sono tanti i detenuti ancora nelle carceri”.

Ancora viva solo per aspettare

In lacrime, una madre palestinese ricorda come continui a contare insonne i giorni e le ore nell’attesa del prossimo incontro con suo figlio. Ogni due mesi compie un lungo ed estenuante viaggio di nove ore per fargli visita per 45 minuti.

La madre del detenuto israeliano chiede a Palestine Chronicle di non menzionare il suo nome poiché l’IPS le impedirebbe di far visita a suo figlio, condannato all’ergastolo, e per la preoccupazione che la pubblicazione delle sue sofferenze all’interno del carcere possa dar luogo a delle rappresaglie nei suoi confronti.

Nella mia ultima visita, il 23 agosto 2022, sembrava così stanco e mi ha detto che era rientrato dalla clinica tre giorni prima. C’era stato per essere sottoposto a ventilazione polmonare in seguito ad un attacco d’asma”, dice la madre del detenuto. Nel sentire questo non ho potuto fare a meno di scoppiare in lacrime. Non sono vicino a lui. Nessuno dei suoi fratelli è con lui”, afferma con dolore.

Suo figlio, in prigione dall’età di vent’anni, prima della detenzione non soffriva di alcuna malattia. Tuttavia ora, dopo aver scontato 21 anni di pena, soffre di ulcera allo stomaco, attacchi d’asma, anemia ed emorroidi. Ha subito quattro operazioni per le emorroidi ma tutte senza successo; non riesce ancora a sedersi correttamente.

“Ad ogni visita, gli dico: ‘Voglio rompere questo vetro che ci separa.’ Voglio solo allungare la mano verso mio figlio e toccarlo. È mio figlio e non posso toccarlo”, dice.

La madre è consapevole di non avere informazioni complete sulla vita in prigione di suo figlio. Mio figlio non mi dice tutto per evitare che io non mi abbatta”.

Tuttavia, Peraltro Alaa AbuJazer, un ex detenuto e rappresentante dei detenuti per il periodo 2006-2021, ha affermato che secondo le statistiche del 2019 il 90% dei detenuti nelle prigioni israeliane soffre di diversi tipi di problemi allo stomaco. La carne di pollo che mangiano i carcerati è disgustosa e non nutriente. Non ha nulla a che vedere col pollo”, dice Alaa.

Alaa spiega perché molti detenuti soffrono di anemia ed emorroidi: Una volta al mese ogni detenuto può acquistare tre chilogrammi di frutta e verdura. Quindi, ognuno compra circa due chili di verdure come cipolle e patate e un chilo di frutta. E a ciascuno di noi vengono consegnati a proprie spese 180 grammi di un qualche tipo di frutta al giorno. Per sentirci sazi facciamo affidamento principalmente su riso e pane”.

Tanti hanno le emorroidi poiché nel periodo dell’istruttoria i detenuti dormono per terra, che è umida. Con il pretesto di “motivi di sicurezza” le finestre delle stanze della prigione sono troppo piccole quindi il vapore proveniente dalla cucina e dalle docce calde le riempie. Non c’è ventilazione, così tanti detenuti hanno attacchi d’asma.

Mohammed Abuhashem, ricercatore legale presso il Centro palestinese per i diritti umani, ha chiarito: La Quarta Convenzione di Ginevra, nei suoi articoli (89-92), impone allo Stato detentore l’obbligo di garantire il diritto alla salute dei carcerati fornendo loro la necessaria assistenza medica, nonché condizioni sanitarie adeguate, tra cui un’alimentazione corretta ed equilibrata, misure di prevenzione sanitaria e strutture di detenzione adeguate. Tali diritti non possono essere alienati in nessun caso, nemmeno col pretesto di ragioni di sicurezza”.

Alcuni detenuti contraggono l’influenza molte volte senza essere curati. Quando diciamo loro che qualcuno ha l’influenza, dicono che deve prendere un antidolorifico e bevande calde. L’infiammazione in sede polmonare non trattata si aggrava e si trasforma in un attacco d’asma”, rivela Alaa.

La madre racconta che in una delle visite suo figlio le ha detto che se verrà rilasciato vuole che lei gli prepari delle verdure ripiene, una torta di spinaci e somaqia, un piatto palestinese. Continuo a pregare Allah di lasciarmi vivere fino a quando non verrà rilasciato per potergli preparare tutto il cibo che gli manca, dice la madre.

Kenita dice: Nel 1987 Ibrahim Alyan, un ex detenuto, ha sofferto di disturbi cardiaci e ha subito un intervento chirurgico a cuore aperto che ha avuto successo. È ancora vivo ed è molto attivo. Oggi, sotto i nuovi governi israeliani che impongono nuove politiche, se un detenuto ha l’ipertensione o il diabete, ci si aspetta il peggio: la morte. Nonostante Israele sia ora sicuramente più evoluto in campo medico che in passato”.

Abuhashem aggiunge: Le testimonianze secondo cui i detenuti subiscono le conseguenze di una sistematica e intenzionale incuria medica costituiscono forti indizi sulla possibile configurazione di crimini di guerra e potrebbero equivalere a un genocidio contro i detenuti palestinesi; tuttavia devono essere raccolte delle prove che dimostrino tali crimini. L’IPS deve aprire le carceri ad ispezioni e indagini internazionali in modo che il mondo intero possa sapere cosa sta succedendo contro i detenuti palestinesi all’interno delle carceri israeliane”.

Questo articolo è co-pubblicato insieme con Palestine Chronicle.

(tradotto dall’inglese da Aldo Lotta)




I palestinesi promettono di sfidare l’ordine israeliano sulla questione dei pagamenti ai prigionieri

MEE e agenzie

9 maggio 2020 – Middle East Eye

L’ordine militare israeliano sospenderebbe i sussidi destinati a sostenere i prigionieri e le loro famiglie

Venerdì notte i leader palestinesi hanno promesso di sfidare un ordine militare israeliano che potrebbe sospendere i pagamenti straordinari destinati a sostenere i prigionieri, i loro parenti e le famiglie delle persone uccise durante i disordini.

L’ordine, che dovrebbe entrare in vigore sabato, minaccia multe e carcere per chiunque effettui tali pagamenti e nei giorni scorsi ha sollecitato le banche palestinesi a chiudere i conti dei prigionieri e delle loro famiglie. Israele considera il programma [di sussidi] una ricompensa per la violenza e da tempo cerca di eliminarlo.

Il Times of Israel ha riferito che Ramallah [il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ha promesso di proseguire i sussidi a circa 11.000 persone e famiglie, descrivendoli come una forma di welfare sociale e di compensazione per ciò che sostiene essere un iniquo sistema di giustizia militare.

I prigionieri e le loro famiglie sono per lo più considerati eroi da molti palestinesi e la chiusura dei conti bancari ha scatenato una furiosa reazione. Due filiali di una banca, la Cairo Amman Bank, sono state attaccate nella notte; una è stata data alle fiamme e l’altra presa a colpi di fucile.

Ci sono 13 banche attive nelle zone della Cisgiordania governate dall’Autorità Nazionale Palestinese. Il Times ha riportato che sette di esse sono di proprietà palestinese, cinque sono giordane e una egiziana.

Secondo l’Associazione dei prigionieri palestinesi, quattro banche hanno iniziato a chiudere i conti.

In un comunicato visionato dalla agenzia Reuters l’esercito israeliano ha affermato che l’ordine militare gli consente di sequestrare le risorse appartenenti a coloro che commettono un crimine contro la sicurezza.

Ma venerdì notte il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha detto che le banche hanno accettato di riaprire i conti. “Le famiglie dei prigionieri possono attivare i loro conti bancari a partire da domenica,” ha affermato in una dichiarazione. “Respingiamo le minacce israeliane alle banche riguardo fondi destinati ai prigionieri e ai martiri e non ci piegheremo ad esse.”

Samer Bani Odeh, un cinquantunenne rilasciato nel 2011 dopo aver trascorso 16 anni in un carcere israeliano per appartenenza ad un gruppo armato, ha detto alla Reuters che la Cairo Amman Bank gli aveva comunicato la chiusura del suo conto.

Un dirigente della banca di Nablus ci ha incontrati (un gruppo di prigionieri) e ha detto: ci dispiace, ma dobbiamo chiudere i vostri conti. Questo non dipende da noi,” ha detto Odeh.

L’Associazione delle Banche in Palestina ha difeso la chiusura dei conti in quanto finalizzata a proteggere i beni dei prigionieri dal sequestro e le banche dalla punizione israeliana. Ha invitato l’ANP a trovare un altro modo per effettuare i pagamenti.

L’Autorità Nazionale Palestinese dispone di un limitato autogoverno in alcune parti della Cisgiordania, terra occupata da Israele dalla guerra del 1967 ed in cui vivono circa 3 milioni di palestinesi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Nella giornata dei prigionieri palestinesi, la lotta dovrebbe riguardare la richiesta di libertà, non il Covid-19

Ramona Wadi

16 aprile 2020Middle East Monitor

L’annuale commemorazione della Giornata dei Prigionieri Palestinesi potrebbe facilmente trasformarsi in una celebrazione farsa. Quest’anno il 17 aprile sarà segnato da dichiarazioni che chiedono il rilascio dei prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane per motivi umanitari dovuti alla pandemia di coronavirus. Tuttavia vi sarà una scarsa consapevolezza che il principio umanitario, quando collegato a circostanze momentanee, non è una base sufficiente per rivendicare il rispetto dei diritti umani. È la lotta legittima che dovrebbe sostanziare la richiesta di libertà, non il Covid-19.

Nel 2020 Israele ha già incarcerato 1.324 palestinesi; 5.000 persone in totale sono attualmente detenute delle carceri israeliane. A marzo, in coincidenza con lo scoppio del coronavirus nei territori palestinesi occupati, Israele ha incarcerato 357 palestinesi, compresi minori e donne.

Israele ha costruito una falsa narrazione sulla resistenza palestinese per promuovere la propria narrazione sulla sicurezza, di qui l’etichetta di “terroristi palestinesi”. In realtà i palestinesi hanno un legittimo diritto a condurre una lotta anticoloniale con qualunque mezzo a disposizione. Nella Giornata dei Prigionieri Palestinesi questo deve essere portato all’attenzione del mondo prima di far ricorso al paradigma umanitario, che sfrutta e offende i prigionieri privilegiando la pandemia rispetto alla loro libertà politica, ai loro diritti e alla liberazione della loro terra.

Se i principi umanitari fossero veramente umanitari, la lotta anticoloniale farebbe parte della narrazione internazionale. I prigionieri palestinesi sono stati descritti sulla base di singoli eventi e circostanze, invece che di principi politici e della causa palestinese, forse per accondiscendere alla tendenza della comunità internazionale a pretendere i diritti umani in base ai programmi umanitari. Di qui l’ampia pubblicizzazione data agli scioperi della fame, per esempio, o ad un possibile diffondersi del coronavirus tra i prigionieri palestinesi, che certamente sarebbe catastrofico. Tuttavia questi non sono che aspetti della più ampia narrazione della lotta per la libertà, ed enfatizzare situazioni momentanee piuttosto che la causa che sta alla radice della questione danneggia sia i prigionieri palestinesi che la causa anticoloniale.

Le giornate di commemorazione sono inutili se la celebrazione si limita ad una singola occasione senza un piano per un’azione costante. Quando vi è un contesto diverso dalla lotta dei prigionieri per la liberazione della Palestina, in questo caso la pandemia, è facile rovesciare le priorità in modo tale che essa prenda il sopravvento rispetto ai prigionieri e ai loro diritti. Se i palestinesi fossero sostenuti nella loro lotta anticoloniale dalla comunità internazionale, come dovrebbe essere, il discorso relativo al coronavirus e ai palestinesi sarebbe differente. Inoltre, quando la pandemia finirà, la richiesta di liberazione dei prigionieri politici palestinesi continuerà? Oppure essa scomparirà perché l’attivismo, nonostante tutte le buone intenzioni, ancora una volta si è servito della pandemia per mettere in luce temporaneamente le continue violazioni e negligenze del sistema penitenziario israeliano?

La Giornata dei Prigionieri Palestinesi dovrebbe essere celebrata come momento culminante per evidenziare una coerente strategia per la liberazione. Dopotutto, i prigionieri politici palestinesi hanno abbracciato la lotta anticolonialista in modo permanente. Devono essere rilasciati perché il loro anticolonialismo è una causa legittima e non è una violazione del diritto internazionale. Sostenere che i prigionieri palestinesi devono essere liberati per motivi umanitari durante la pandemia di coronavirus è scorretto, dal momento che è ben noto che i principi umanitari sono soggetti alle interpretazioni politiche della comunità internazionale. Perciò nella Giornata dei Prigionieri Palestinesi 2020 dobbiamo politicizzare i principi umanitari dal punto di vista della memoria collettiva e della narrazione del popolo palestinese, in modo da poter elaborare una strategia coerente che non dipenda da circostanze esterne.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Salvateci dal Coronavirus prima che le nostre celle diventino le nostre tombe!

Appello dei prigionieri palestinesi, ammalati e detenuti nelle carceri dell’occupazione israeliana, indirizzato alle organizzazioni internazionali per i diritti umani e a tutti i liberi del mondo

Giorno dopo giorno, ora dopo ora, e con la propagazione del Coronavirus, avvertiamo un pericolo sempre crescente per le nostre vite nelle carceri israeliane. La pandemia sta minacciando il mondo intero. Mentre il governo israeliano e tutti gli altri governi diramano indicazioni ai rispettivi popoli nel tentativo di rallentare la diffusione del virus, non sentiamo e non vediamo alcuna azione seria che risponda alla nostra domanda: cosa sarà di noi se il virus dovesse diffondersi qui, dentro le prigioni? Quali saranno le azioni pratiche e umane che l’amministrazione carceraria israeliana metterà in campo nei nostri confronti?

Si sente parlare solo di misure precauzionali messe in atto da parte dell’amministrazione carceraria. Ma quali sono realmente queste precauzioni? Si tratta, secondo noi, di “semplice fumo negli occhi. Dentro le prigioni ci sono diverse centinaia di prigionieri affetti da varie problematiche sanitarie, alcune delle quali anche gravi. Altri hanno problemi respiratori e cardiaci per non parlare di quelli che sono colpiti dall’ipertensione, dal diabete o da molte altre patologie croniche.

Ci appelliamo al mondo intero e a tutti coloro che si occupano dei diritti dell’uomo in quanto esseri umani. Con la malattia che ci minaccia giorno dopo giorno, di quali diritti godiamo? Non è stata adottata alcuna misura reale di tutela e non abbiamo visto un minimo segnale di buon senso e di prevenzione nei nostri confronti. La negligenza sanitaria e il ritardo nelle cure perseguitano da sempre le/i detenute/i palestinesi nelle carceri israeliane. Già in passato molti prigionieri sono deceduti proprio per la mancanza di cure mediche. Figuriamoci ora che le autorità sanitarie israeliane hanno già dichiarato di non essere in grado di assorbire il crescente numero dei pazienti colpiti dal virus.

Come si sa, l’unico modo – e forse l’unica speranza – per ridurre il contagio e la propagazione del Coronavirus è quello di fare attenzione, prendere le adeguate misure precauzionali e cautelative ed applicare rigidamente una serie di pratiche igienico-sanitarie. Ma l’amministrazione carceraria israeliana non fornisce nulla: nessun mezzo per la sterilizzazione e nessuna mascherina. Siamo di fronte ad azioni formali che si avvicinano di più a minacce vere e proprie piuttosto che a degli accertamenti sanitari o reali pratiche preventive. L’unico nostro contatto col mondo esterno è rappresentato dai nostri carcerieri. Loro non esitano ad entrare in contatto con noi, senza rispettare la distanza di sicurezza, con il rischio appunto di contagiarci. Gli agenti dell’amministrazione carceraria hanno la possibiltà eventualmente di isolarsi e sottoporsi alle dovute cure. Noi, ovviamente, no!

La responsabilità di questa situazione è tutta dell’amministrazione carceraria, del governo israeliano e tutti coloro che si proclamano difensori dei diritti dell’uomo.

Ci appelliamo a tutte le persone libere: non lasciateci morire nelle nostre celle, senza alcuna misura protettiva col contagio che si sta propagando.

O forse dobbiamo fare come hanno già fatto in altre prigioni nel mondo? Rivoltarci per poi morire colpiti dalle pallottole, prima ancora di essere uccisi dal Coronavirus?

Il nostro è un grido rivolto al mondo intero. Alleghiamo un elenco dei nomi di alcune/i prigioniere/i affette/i da svariate patologie. Chi è interessato può così rendersi conto delle nostre pessime condizioni sanitarie all’interno delle carceri israeliane. In realtà, l’elenco è molto più lungo.

Comitato dei prigionieri palestinesi per la difesa dei diritti dell’uomo

Alcuni nomi dei detenuti malati:

1. Mo’tasim Raddad/ tumore intestinale e immune-depresso,

2. Khaled al-Shawish/ disabile, cateterizzato, iperlipemia e allergia sanguigna,

3. Mansour Moqadi/ disabile, protesi gastrica e cateterizzato,

4. Kamal abu Wa’r/ tumore laringeo con problematiche respiratorie,

5. Ahmad Sa’adeh/ infarto cardiaco,

6. Walid Daqqa/ patologie cardiocircolatorie, problematiche respiratori e in trattamento chemioterapico,

7. Sa’di al-Gharabli/ prostatite, ipertensione, diabete e problemi geriatrici,

8. Zamel Shallouf/ aritmie cardiache con pace maker, problemi respiratori,

9. Miqdad al-Hih/ ictus cerebrale emisfero sinistro, dispnea e problemi gastrointestinali,

10. Khalil Msallam Baraq’ah/ problemi respiratori e polmonari,

11. ‘Ala’ Ibrahim ‘Ali/ tubercolosi, complicanze respiratorie e problemi gastrointestinali,

12. Ayman Hasan al-Kurd/ paraplegico, problemi nel sistema nervoso e problemi gastrointestinali,

13. Saleh Daoud/ epilessia, problemi respiratori,

14. Mohammad Jaber al-Hroub/ epatite per incuranza medica,

15. Ra’ed al-Hutari/ problemi respiratori, emicrania, gotta,

16. Hamza al-Kalouti/ gotta gastroenterite, dispnee,

17. Ibrahim ‘Isa ‘Abdeh/ patologia nervosa, gotta,

18. ‘Ezzeddine Karajat/ respirazione artificiale,

19. Mutawakkel Radwan/ infarto e problemi respiratori,

20. Usama abu al-‘Asal/ problemi respiratori e cardiaci,

21. Khalil abu Ni’meh/ problemi respiratori,

22. Fawwaz Ba’areh/ cancro cerebrale con momenti di sincope/coma,

23. Mahmoud abu Kharabish/ crisi respiratoria,

24. Fu’ad al-Shobaki/ problemi geriatrici,

25. ‘Abd al-Mu’iz al-Ja’abeh/ infarto cardiaco, iperlipemia,

26. Nasri ‘Asi/ problemi alle tiroidi,

27. Mamdouh al-Tanani/ diabete, ipertensione, iperlipemia, problemi renali e altre patologie,

28. Ahmed E’beid/ problemi circolatori, ipertensione, iperlipemia,

29. Muwaffaq al-‘Erouq/ tumore intestinale,

30. Ibrahim abu Mukh/ leucimia,

31. Musa Sufan/ polmonite,

32. Israà Ja’abis/ ustione su tutto il corpo, amputazione alcune dita,

33. Yousef Iskaf/ cardiopatico,

34. Nabil Harb/ intestino artificiale,

35. Yusra al-Masri/ infiammazione ghiandolare.

Rete Samidoun – Palestina Occupata

Traduzione a cura dell’Unione Democratico Arabo Palestinese – UDAP




“Queste catene saranno spezzate”: il libro di Ramzy Baroud sui prigionieri palestinesi – Recensione del libro

Michael Lescher

10 febbraio 2020 – Palestine Chronicle

(These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene verranno spezzate: storie palestinesi di lotta e resistenza nelle carceri israeliane], di Ramzy Baroud, Clarity Press, Inc., 2020)

Fyodor Dostoevsky ha scritto che “il grado di civiltà in una società può essere giudicato visitando le sue prigioni” – un’osservazione in nessun luogo più tristemente vera che in una società la cui stessa esistenza comporti il confinamento di un altro popolo. Il nuovo libro di Ramzy Baroud, “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons”, illustra con una straziante immediatezza il motivo per cui la Palestina contemporanea si riveli nel modo più chiaro all’interno delle prigioni che Israele ha costruito per coloro che resistono alla sua occupazione della loro terra. Viste attraverso il libro di Baroud, queste gabbie raccontano una doppia storia: da un lato, lo squallore di una società eretta sulle fondamenta di un’espropriazione; dall’altro, l’aspra determinazione dei palestinesi che, contro ogni previsione, si rifiutano di essere cancellati dalla storia.

“These Chains Will Be Broken” è una raccolta di testimonianze di prima mano che descrivono le esperienze dei detenuti palestinesi, prese o dai prigionieri stessi o da altri che li conoscono da vicino. (La storia di Faris Baroud, argomento del capitolo finale del libro e di un lontano parente dell’autore, è raccolta dagli scritti di sua madre Ria, morta nel 2017; suo figlio è morto quasi due anni dopo, ancora dietro le sbarre.)

Baroud, giornalista, studioso e consulente nel settore dei media, ha dedicato diversi precedenti libri alla lotta palestinese vista dal punto di vista degli stessi palestinesi. In “These Chains Will Be Broken”, fa un ulteriore passo avanti, tenendo sospesa la propria voce narrante in modo che i detenuti possano raccontare la propria storia a modo loro, trasportando così il lettore direttamente nella loro esperienza. Il risultato è un toccante e profondamente inquietante promemoria su come, in fondo, la storia della Palestina sia un costante ripetersi di prigionia e resistenza.

“La prigionia”, scrive Khalida Jarrar (lei stessa una dei protagonisti del libro) con una premessa illuminante, “rappresenta una posizione morale che deve essere presa ogni giorno e non può mai essere lasciata alle proprie spalle”. Che sia un avvertimento: il lettore di “These Chains Will Be Broken” è ripetutamente costretto ad assumere tale posizione morale mentre, capitolo dopo capitolo, i prigionieri palestinesi mettono a nudo le loro privazioni, le loro speranze, le loro delusioni e la loro determinazione a resistere.

Perfino quelli che hanno familiarità con le realtà della lotta possono trovarsi impreparati alle sue asprezze se le percepiscono, come accade a questi palestinesi, dietro le mura della prigione piuttosto che sepolte dentro la rete della propaganda israeliana. In un articolo denigratorio pubblicato (ahimè) dalla prestigiosa Yale University Press nel 2006, il portavoce della WINEP [organizzazione di esperti americana con sede a Washington DC che si occupa della politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, ndtr.] Matthew Levitt ha liquidato con poche parole Majdi Hamad definendolo “un terrorista di Hamas condannato all’ergastolo per aver ucciso a Gaza dei compagni palestinesi, presumibilmente sospetti informatori.” Ma quando Hamad compare per la prima volta nel libro di Baroud attraverso gli occhi del compagno prigioniero Mohammad al-Deirawi, dà un’impressione molto diversa: “Veniva trascinato nella sua cella nel carcere sotterraneo di Nafha da un buon numero di guardie armate. Lo picchiavano e lo prendevano a calci dappertutto e, nonostante le sue catene, reagiva come il leone che era. Il suo volto era coperto di sangue. “(Apprendiamo dal libro che questo “leone” è anche “dolce e gentile con i suoi compagni”.)

Allo stesso modo i lettori occidentali possono essere sorpresi della dignità dello stesso al-Deirawi, a cui, dopo aver ricevuto una condanna a 30 anni in un tribunale militare israeliano, viene chiesto dal giudice non se abbia qualcosa da dire ma se sia disposto a “chiedere scusa”.

“Non ho nulla di cui scusarmi”, così al-Deirawi riferisce di aver risposto al giudice. “Non mi scuserò mai per aver resistito all’occupazione, per aver difeso il mio popolo, per aver lottato per i miei diritti rubati. Ma dovete scusarvi voi, e devono scusarsi coloro che demoliscono le case mentre i loro proprietari sono ancora dentro. Coloro che uccidono i bambini, che occupano la terra e commettono crimini contro persone disarmate e innocenti, sono loro che devono scusarsi.” “La mia risposta non gli è piaciuta”, aggiunge al-Deirawi, in uno dei rari momenti di ironia del libro.

I racconti nella raccolta di Baroud contengono descrizioni inevitabili di torture e maltrattamenti, ma alcuni dei dettagli più sconvolgenti riguardano atti di sadismo del tutto gratuito. Una guardia si offre di portare una tazza di tè a un prigioniero e poi versa acqua bollente sulla sua mano tesa. Una caviglia ridotta in frantumi viene “trattata” con un impacco di ghiaccio. Ad un minore incarcerato viene falsamente detto, la notte prima della sua liberazione, che sta per essere condannato all’ergastolo. Una donna tenuta in isolamento è costretta ad osservare un gatto con cui ha stretto amicizia mentre muore insieme ai suoi cuccioli dopo che sono stati avvelenati dalle guardie.

Per di più, i racconti dei prigionieri confermano che queste non sono azioni isolate; nascono dalla logica di un sistema progettato per disumanizzare le sue vittime e anche per intimidirle. Prigioniero dopo prigioniero, per esempio, offrono una descrizione orribile della “bosta” – il veicolo speciale usato per trasportare i palestinesi dalla prigione al tribunale militare e viceversa. La stravagante crudeltà di questa prigione su ruote non ha uno scopo dal punto di vista giudiziario; evidentemente per i loro carcerieri tenere i palestinesi rinchiusi in posizioni anguste, ammanettati e incatenati, dentro minuscole gabbie di metallo surriscaldate per 8-12 ore ogni volta, è fine a se stesso.

Ma tutto questo è solo una parte della storia raccontata nella raccolta di Baroud. Ci sono momenti notevoli di bellezza e coraggio. Un prigioniero separato dalla sua giovane figlia per decenni descrive la felicità provata nel sentire che sua figlia, frequentando la prima elementare, ha appreso la vera ragione della sua prigionia. Sottoposti a continui tormenti, alcuni prigionieri riescono a conseguire il diploma di scuola superiore. Una donna detenuta insulta “un omone” che le guardie hanno fatto entrare nella sua cella: “Se vuoi violentarmi, vai avanti; hai violentato la mia terra e la mia gente, quindi vai avanti e violentami.” La sua sfida mette fine alle minacce sessuali anche se le guardie hanno continuato a torturarla, dice, con sigarette e scosse elettriche sul seno.

Un altro prigioniero dedica quasi tutto il suo tempo allo studio delle lingue, traducendo libri e articoli su una vasta gamma di argomenti politici – un compito che persegue con immutato zelo anche dopo che il suo intero negozio di 4.000 articoli è stato confiscato (senza spiegazione) dalle guardie israeliane con un’incursione. Ancora, un altro prigioniero descrive come lui e i suoi compagni hanno perseverato nello sciopero della fame, nonostante le aggressioni e l’alimentazione forzata, fino a quando le loro richieste sono state finalmente soddisfatte.

La decisione di Baroud di non suddividere i suoi protagonisti in base alla natura dell’azione di resistenza per la quale sono stati imprigionati, violenta o non violenta, messa in atto all’interno di Israele o nei Territori Palestinesi Occupati, metterà a disagio alcuni lettori. Ciò è chiaramente intenzionale. Nella sua introduzione, Baroud insiste sul fatto che “sarebbe assolutamente ingiusto ingabbiare i prigionieri palestinesi in comode categorie di vittime o terroristi, in quanto le classificazioni rendono un’intera Nazione sia vittima che terrorista, un concetto che non riflette la vera natura della pluridecennale lotta palestinese contro il colonialismo, l’occupazione militare e il radicato apartheid israeliano”.

La spietata forma in prima persona di queste narrazioni conferma l’intuizione di Baroud. In mezzo alle ineludibili abiezioni e ai diritti violati della reclusione prolungata, le convinzioni politiche sono destinate a essere vissute in termini di passione condivisa, non di dettagli. Questo libro sostiene che chiunque ricerchi dei parametri diversi per comprendere la Palestina e le prassi dei suoi difensori deve prima distruggere le gabbie che pongono dei confini all’agire dei palestinesi. Fintanto che l’occupazione israeliana renderà la Palestina una vasta prigione, la resistenza sarà in ogni caso l’unico criterio in base al quale una vita palestinese possa essere valutata.

E i prigionieri qui rappresentati ne sono ben consapevoli. Come la poetessa (ed ex prigioniera) Dareen Tatour esclama alla fine del suo capitolo in “These Chains Will Be Broken”:

Lo spirito non si inchinerà,

la sua tenacia non morirà…

Per lune che sorgeranno nei nostri cieli

Dobbiamo vivere in questa oscurità.

Michael Lesher, scrittore e avvocato, ha pubblicato numerosi articoli che trattano di abusi sessuali su minori e altri argomenti, incluso il conflitto Israele-Palestina. È autore del recente libro Sexual Abuse, Shonda and Concealment in Orthodox Jewish Communities (McFarland & Co., Inc.) [Abuso sessuale, vergogna e copertura nelle comunità ebree ortodosse, ndtr.], incentrato sulla copertura di casi di abuso tra ebrei ortodossi. Vive a Passaic, nel New Jersey.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come alcuni medici israeliani rendono possibile la tortura da parte dello Shin Bet

Ruchama Marton

7 ottobre 2019- +972

Dall’autorizzare brutali tecniche di interrogatorio al redigere referti medici falsi, alcuni medici israeliani hanno assunto un ruolo attivo nella tortura dei prigionieri palestinesi.

Se lo Shin Bet [servizi di sicurezza interni israeliani, ndtr.] gestisce una scuola per i propri agenti ed addetti agli interrogatori, il curriculum deve sicuramente includere una lezione su come dire una menzogna. Sembra che i testi insegnati non siano cambiati nel corso degli anni. Nel 1993, rispondendo alle accuse secondo cui lo Shin Bet aveva brutalmente torturato il detenuto palestinese Hassan Zubeidi, l’allora comandante delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] del comando nord Yossi Peled disse al giornalista israeliano Gabi Nitzan che “in Israele la tortura non c’è. Ho fatto il soldato per 30 anni nelle IDF e so quello di cui sto parlando.”

Ventisei anni dopo, il vice capo dello Shin Bet ed ex-addetto agli interrogatori dello Shin Bet Yitzhak Ilan ha ripetuto la stessa frase al conduttore del telegiornale della televisione nazionale Ya’akov Eilon mentre parlava di Samer Arbeed, un palestinese di 44 anni che è stato ricoverato in ospedale in condizioni critiche dopo essere stato, a quanto pare, torturato dallo Shin Bet. Arbeed è sospettato di aver organizzato un attentato mortale che in agosto ha ucciso una ragazza israeliana ed ha ferito suo padre e suo fratello presso una sorgente in Cisgiordania. Ilan si è molto arrabbiato all’idea che lo Shin Bet sia in qualche modo responsabile delle condizioni di Arbeed.

Lasciando da parte queste assurde forme di negazione, come medico e fondatore di “Medici per i diritti umani-Israele”, sono sempre rimasto scosso da come in Israele medici israeliani collaborino e consentano le torture.

Nel giugno 1993 organizzai a Tel Aviv una conferenza internazionale per conto di MEDU contro la tortura in Israele. Alla conferenza presentai un documento medico dello Shin Bet scoperto per caso dalla giornalista israeliana Michal Sela. Nel documento al medico dello Shin Bet veniva chiesto se il prigioniero in questione avesse una qualche limitazione di carattere medico riguardo al fatto di tenerlo in isolamento, se potesse essere legato, se il suo volto potesse essere coperto o se potesse essere lasciato in piedi per lunghi periodi di tempo.

Lo Shin Bet negò che questo documento fosse mai esistito. “Non c’è nessun documento. Era un semplice documento sperimentale che non è in uso,” sostenne l’istituzione. Quattro anni dopo venne alla luce un secondo documento, simile in modo sospetto al primo. Quel documento chiedeva ai dottori di autorizzare la tortura in base a una serie di condizioni precedentemente concordate.

Il primo documento, insieme ad altre risultanze, venne pubblicato nel libro intitolato “Tortura: diritti umani, etica medica e il caso di Israele.” Il libro non si può trovare in Israele: Steimatzky, la più antica e grande catena di librerie di Israele, ha vietato la sua vendita. Forse è un’ulteriore prova che in Israele non si pratica la tortura.

Dopo che il documento venne scoperto, MEDU si rivolse all’associazione dei medici di Israele e chiese di unirsi alla lotta contro la tortura. L’IMA [Israel Medical Association] pretese che il MEDU consegnasse i nomi dei medici dello Shin Bet che avevano firmato il documento in modo che la questione potesse essere gestita internamente.

Mi rifiutai di consegnare i nomi e dissi all’avvocato dell’IMA di non essere interessato a perseguire medici di base – volevo cambiare l’intero sistema. Ciò significava l’abolizione della legittimità concessa alle confessioni estorte sotto tortura, educare i membri dell’IMA riguardo alla non collaborazione con i torturatori, e in particolare fornire aiuto concreto a quei dottori che denunciassero sospetti di torture o interrogatori brutali.

All’epoca l’IMA si accontentò di far circolare le nostre dichiarazioni senza fare niente per impedire ai medici dello Shin Bet di cooperare con la tortura. Oltretutto l’organizzazione non rispettò i suoi obblighi di creare un ambito di discussione in cui i dottori informassero su sospette torture.

Un fallimento etico, morale e pratico

Ma non sono solo i medici nello Shin Bet e nel servizio carcerario israeliano che collaborano con la tortura. In tutto Israele i medici dei pronto soccorso stilano falsi pareri medici in sintonia con le richieste dello Shin Bet. Prendete ad esempio il caso di Nader Qumsieh, della città cisgiordana di Beit Sahour. Venne arrestato a casa sua il 4 maggio 1993 e portato cinque giorni dopo nel centro medico Soroka di Be’er Sheva. Lì un urologo gli diagnosticò un’emorragia e una lacerazione allo scroto.

Qumsieh affermò di essere stato picchiato e colpito ai testicoli durante l’interrogatorio. Dieci giorni dopo Qumsieh venne portato davanti allo stesso urologo per un controllo medico, dopo che questi aveva ricevuto una telefonata dall’esercito israeliano. L’urologo scrisse una lettera retrodatata (come se fosse stata redatta due giorni prima), senza effettuare realmente un ulteriore controllo del paziente, in cui diceva che “secondo il paziente, egli è caduto dalle scale due giorni prima di essere arrivato al pronto soccorso.” Questa volta la diagnosi fu “ematoma superficiale nella zona dello scroto, che corrisponde a contusioni locali subite da due a cinque giorni precedenti la visita.” La lettera originaria dell’urologo scritta dopo il primo esame sparì dalla documentazione medica di Qumsieh. La storia ci insegna che ovunque i medici introiettano facilmente e concretamente i valori del regime, e molti di loro diventano suoi leali servitori. Questo è stato il caso della Germania nazista, degli Stati Uniti e di vari Paesi in America latina. Lo stesso vale per Israele. Il caso di Qumsieh, insieme a innumerevoli altri casi, riflette il fallimento etico, morale e concreto del sistema sanitario israeliano di fronte alla tortura.

Già dal XVIII° secolo giuristi – più che medici – pubblicarono opinioni legali accompagnate da prove secondo cui non c’era rapporto tra provocare dolore e arrivare alla verità. Quindi sia la tortura che le confessioni estorte con la sofferenza erano legalmente prive di valore. Si può solo supporre che i capi dello Shin Bet, dell’esercito e della polizia conoscano questo pezzo di storia.

Eppure la tortura, che include una crudeltà sia psicologica che fisica, continua ad avvenire su vasta scala. Perché? Perché il reale obiettivo della tortura e dell’umiliazione è spezzare lo spirito e il corpo del prigioniero o della prigioniera. Eliminare la sua personalità.

La ragione giuridica per vietare la tortura è basata sull’idea utilitaristica che non si possa arrivare alla verità infliggendo dolore. Ma i medici sono tenuti prima di tutto al principio che sia proibito provocare danno fisico o psicologico a un paziente.

Il documento di idoneità medica dello Shin Bet consente di impedire il sonno, consente a chi interroga di esporre il prigioniero a temperature estreme, di picchiarlo, di legarlo per molte ore in posizioni dolorose, di obbligarlo a stare in piedi per ore finché i vasi sanguigni dei piedi bruciano, di coprigli la testa per lunghi periodi di tempo, di umiliarlo sessualmente, di spezzare il suo spirito recidendo i rapporti con la famiglia e gli avvocati, di tenerlo in isolamento finché perde la salute mentale.

Il modulo di idoneità medica dello Shin Bet non è lo stesso di quello utilizzato per stabilire l’idoneità per far parte della forza aerea o persino guidare un’auto. Questo tipo di “idoneità” porta il prigioniero direttamente nella camera di tortura – e il medico lo sa. Il medico sa a quale tipo di processo sistematico di dolore e umiliazione lui o lei sta prestando il proprio consenso e approvazione. Sono i medici che sovrintendono alla tortura, visitano il prigioniero torturato e stilano il parere medico o il referto patologico.

Il camice bianco passa nella camera di tortura come un’ombra in agguato durante gli interrogatori. Un dottore che collabora con le torture di Israele è complice di quello stesso sistema. Se un prigioniero o una prigioniera muore durante l’interrogatorio, il medico è complice della sua morte. Medici, infermieri, paramedici e giudici che sanno quello che avviene e preferiscono rimanere in silenzio sono tutti complici.

Ci dobbiamo opporre in modo incondizionato a qualunque forma di tortura, senza eccezioni. Noi, cittadini di uno Stato democratico, dobbiamo rifiutare di cooperare con il crimine della tortura, e a maggior ragione se si tratta di medici.

Non dobbiamo neanche nasconderci dietro l’idea che la tortura sia un sintomo dell’occupazione, dicendo a noi stessi che questa pratica sparirà quando finirà l’occupazione. La tortura è una concezione del mondo in base alla quale i diritti umani non trovano posto o non hanno valore. Esisteva molto prima dell’occupazione e continuerà ad esistere se noi non cambiamo quella mentalità.

Pratiche investigative violente e crudeli non contribuiscono alla sicurezza nazionale neppure se sono commesse in suo nome. La tortura provoca una vertiginosa distruzione del nostro stesso tessuto sociale. Non perdono i valori morali, della dignità umana e della democrazia solo quelli che praticano questo terribile tipo di “lavoro”, ma anche tutti quelli che rimangono in silenzio, che non lo vogliono sapere. Di fatto, tutti noi.

Il dottor Ruchama Marton è il fondatore di “Medici per i Diritti Umani-Israele”. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)