Khalida Jarrar riesce a far uscire una lettera per Palestine Writes

Khalida Jarrar

9 dicembre 2020 – MondoWeiss

La prigioniera politica Khalida Jarrar condivide il ruolo fondamentale che la letteratura gioca per i prigionieri palestinesi che lottano per conservare la propria umanità e rimanere in contatto con il mondo esterno.

Nota redazionale: la seguente lettera è stata letta durante la tavola rotonda finale del festival di letteratura Palestine Writes [La Palestina Scrive, tenutosi in forma virtuale dal 2 al 6 dicembre, ndtr.]

Dal carcere israeliano di Damon, situato sulla cima del monte Carmelo ad Haifa, invio a voi i miei saluti da parte mia e delle mie 40 compagne palestinesi combattenti per la libertà nelle prigioni israeliane. Inviamo il nostro saluto e il dovuto rispetto a tutti gli scrittori, studiosi, intellettuali e artisti che dicono la verità e chiedono libertà e giustizia per tutti e che difendono il diritto del popolo all’autodeterminazione e ad opporsi alla dominazione colonialista e razzista.

In quest’occasione consentitemi di inviare il nostro saluto e sostegno anche a tutti gli scrittori, studiosi, intellettuali e artisti arabi che rifiutano la normalizzazione con il sistema del colonialismo di insediamento israeliano e che non accettano gli accordi di normalizzazione di Emirati, Bahrein e Sudan con l’entità sionista. È una posizione come questa che rappresenta i veri legami tra il nostro popolo e il mondo arabo e rende interiormente più forti noi detenuti. Benché siamo tenuti fisicamente prigionieri dietro a cancelli e sbarre, le nostre anime rimangono libere e fluttuano nei cieli della Palestina e del mondo. Indipendentemente dalla durezza delle pratiche dell’occupazione israeliana e dell’imposizione di misure punitive, la nostra voce libera continuerà a parlare apertamente a favore del nostro popolo che ha sofferto terribili catastrofi, espulsioni, occupazione e arresti. Continuerà anche a far sapere al mondo la forte volontà palestinese, che rifiuterà senza sosta e sfiderà il colonialismo in tutte le sue forme. Lavoriamo per instaurare e rafforzare i valori umani e cerchiamo di ottenere la liberazione sociale ed economica che unisce i popoli liberi del mondo.

Salutiamo i partecipanti a questo dibattito conclusivo: la compagna Angela Davis, la collega e amica Hanan Ashrawi, Richard Falk, la cara Susan Abulhawa e Bill V. Mullen.

Riguardo al nostro contributo a questa conferenza, vorremmo cercare di portarvi le nostre esperienze attuali con la letteratura e la cultura mentre siamo nelle prigioni israeliane. L’elemento più importante a questo proposito sono i libri. Essi costituiscono le fondamenta della vita in carcere. Conservano l’equilibrio psicologico e morale dei combattenti per la libertà che vedono la propria detenzione come parte della resistenza generale contro l’occupazione colonialista della Palestina. I libri giocano anche un ruolo in ogni lotta individuale del carcerato tra lui e le autorità carcerarie. In altre parole, la lotta diventa una sfida per i prigionieri palestinesi in quanto i carcerieri cercano di spogliarci della nostra umanità e di tenerci isolati dal resto del mondo. La sfida dei detenuti è trasformare la nostra incarcerazione in una condizione di “rivoluzione culturale” attraverso la lettura, l’educazione e il dibattito letterario.

I detenuti politici palestinesi devono affrontare molti ostacoli per poter avere accesso ai libri. Per esempio, quando sono portati da un membro della famiglia talvolta essi non ci arrivano in quanto vengono sottoposti a meccanismi di stretto controllo e sequestri. In teoria a ogni carcerata è concesso di ricevere due libri al mese. Tuttavia questi libri sono soggetti a “esami di controllo” in cui, il più delle volte, sono rifiutati dall’amministrazione penitenziaria con il pretesto che si tratta di libri che incitano all’odio. Privare i detenuti della possibilità di avere libri viene utilizzato come punizione quando ai carcerati viene vietato di riceverli per due o tre mesi, come mi è capitato nel 2017.

Anche la modesta biblioteca a disposizione dei prigionieri è soggetta a continue ispezioni in quanto le guardie carcerarie confiscano qualunque libro che possa essere stato portato dentro il carcere senza che lo sapessero. Ciò obbliga i detenuti a inventarsi sistemi creativi per proteggere i libri che probabilmente potrebbero essere sequestrati. Impedire che i libri vengano presi dalle autorità della prigione costituisce uno degli impegni più importanti per i detenuti.

In questa prospettiva, nonostante le stringenti limitazioni, le detenute palestinesi sono riuscite a far entrare di soppiatto un certo numero di libri importanti. Per esempio, oltre a qualche libro di filosofia e di storia, molti dei lavori di Ghassan Kanafani [scrittore, giornalista e dirigente politico palestinese, ndtr.], Ibrahim Nasrallah [scrittore e poeta palestinese, ndtr.] e di Suzan Abu-Alhawa [scrittrice e attivista palestinese, ndtr.] sono tra quelli che sono riusciti ad entrare e sono studiati dai prigionieri. Il romanzo di Maxim Gorky “La madre” è diventato di conforto per le prigioniere che sono private dell’amore delle loro madri. I lavori di Domitila Chúngara [lavoratrice boliviana e attivista, ndtr.], Abd-Arahman Munif [scrittore giordano, ndtr.], Al-Taher Wattar [scrittore algerino, ndtr.], Ahlam Mustaghanmi [scrittrice algerina, ndtr.], Mahmoud Darwish [grande poeta palestinese, ndtr.], “Le quaranta porte” [Rizzoli, 2011, ndtr.] di Elif Shafak [scrittrice turca, ndtr.], “I miserabili” di Victor Hugo, Nawal El Saadawi [scrittrice e psichiatra egiziana, ndtr.], Sahar Khalifeh [scrittrice palestinese, ndtr.], Edward Said [famoso intellettuale palestinese, ndtr.], Angela Davis [famosa intellettuale e militante afro-americana, ndtr.] e Albert Camus [scrittore francese, ndtr.] sono tra i libri più apprezzati che sono sfuggiti ai controlli e sono stati introdotti di nascosto con successo.

Tuttavia libri come “Scritto sotto la forca” [Red Star Press, 2015] di Julius Fučík [giornalista e militante antinazista cecoslovacco, ndtr.] e i “Quaderni dal carcere” di Gramsci non hanno mai potuto sfuggire alle misure e restrizioni carcerarie. Di fatto a nessuno dei libri di Gramsci è stato consentito di entrare nelle prigioni a causa di quella che sembra essere una particolare presa di posizione da parte delle autorità dell’occupazione nei confronti di Gramsci.

Parte positiva delle nostre vite, alcuni libri scritti da prigionieri nelle carceri, uno dei quali parla della esperienza di incarcerazione e di interrogatorio nelle prigioni israeliane, intitolato “You are Not Alone” [Non sei solo], sono riusciti ad arrivare di nascosto fino a noi. Quello che sto cercando di dire, cari artisti e scrittori, è che i vostri libri esposti nelle librerie di tutto il mondo sono sottoposti a persecuzione e confisca da parte delle autorità carcerarie dell’occupazione israeliana se cerchiamo di avervi accesso: i vostri libri qui vengono arrestati come avviene al nostro popolo.

La disponibilità di libri non è l’unica lotta che devono affrontare i prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane. Cercherò di darvi una rapida immagine delle nostre vite, ma ricordate che il nostro Desiderio richiede da noi di rimanere forti come l’acciaio.

Le autorità carcerarie israeliane impongono giornalmente misure oppressive, come dimostrano l’applicazione di politiche di separazione attraverso l’isolamento. Ci privano anche delle visite dei familiari, vietano l’ingresso a libri di cultura e letteratura e proibiscono assolutamente i libri scolastici. Vietano anche di cantare in qualunque modo. Sono vietate sia canzoni rivoluzionarie che non impegnate.

Inoltre non ci viene consentito di comprare più dell’unica radio a nostra disposizione. La radio è un’importante fonte di informazione che ci tiene legate con l’esterno diffondendo le notizie dal mondo. Ma per noi la radio è più di questo… È uno strumento che ci mette in comunicazione con le nostre famiglie ed amici, in quanto essi chiamano e inviano messaggi attraverso vari programmi radiofonici palestinesi.

Le autorità carcerarie israeliane non ci consentono neppure una qualunque forma di assemblea o riunione. Puniscono in continuazione le carcerate riducendo i prodotti che possono essere ottenuti allo “spaccio”, l’unico “negozio” a disposizione.

I prigionieri vengono continuamente sorvegliati attraverso il controllo delle telecamere di sicurezza che circondano ogni angolo della prigione, compreso il piazzale (Al-Forah). Questo spazio è dove alle prigioniere viene concesso di stare all’aria aperta per cinque ore non consecutive al giorno fuori dalle loro celle e finestre con le sbarre. Anche le nostre stanze sono sottoposte a ispezioni severe e provocatorie ad ogni ora del giorno e della notte alla ricerca di qualunque pezzo di carta con scritto sopra qualcosa. Potete immaginare quanto sia stato difficile per me farvi arrivare questo messaggio.

Quanto sopra ed altro ci obbliga ad architettare sistemi per contrastare queste prassi. Alcuni dettagli e oggetti possono sembrare banali fuori dalla prigione, ma hanno una grande importanza per noi prigioniere. Per esempio, penne e carta sono importanti, e i libri sono considerati un tesoro. Tutto questo costituisce uno strumento utilizzato come parte della nostra sopravvivenza e lotta contro l’occupazione, ed anche per il nostro miglioramento.

Come aspetto positivo abbiamo scoperto che molte prigioniere, nonostante le difficoltà menzionate, soprattutto quelle che scontano una condanna pesante, hanno arricchito la letteratura pubblicando romanzi, che spero attireranno l’attenzione degli scrittori arabi e internazionali. In aggiunta il movimento dei carcerati ha pubblicato alcuni studi e ricerche che fanno luce sulla situazione delle condizioni delle prigioni israeliane. Io stessa nel 2016, mentre ero in prigione, ho condotto uno studio sulla “Condizione delle prigioniere nelle prigioni israeliane”. Esso si concentra sugli effetti e le violazioni contro donne e minori palestinesi richiusi nelle prigioni. Nel 2019 ho preparato un altro documento, “Educazione nelle prigioni israeliane”, pubblicato nel libro di Ramzy Baroud su educazione e detenute intitolato “These Chains Will be Broken” [Queste catene saranno spezzate].

Sfortunatamente, a causa del mio attuale nuovo arresto, non ho visto la versione pubblicata del libro. Nel documento citato ho presentato gli ostacoli che la formazione deve affrontare in prigione, uno dei quali è l’insistenza israeliana nell’impedirci di portare avanti un qualunque percorso formativo in carcere. Il loro intento è chiaramente isolare i detenuti, donne e uomini, e spezzarci, trasformandoci in individui senza speranza o progetti per un futuro dignitoso. D’altra parte i prigionieri fanno il possibile per contrastare i tentativi delle autorità carcerarie attraverso nuovi sistemi creativi per conquistarsi il diritto alla formazione.

Ora stiamo cercando di iniziare l’educazione universitaria per il primo ciclo di detenute, come seconda fase della nostra lotta per rivendicare il diritto alla formazione. Ciò segnerà la prima volta nella storia in cui detenute palestinesi, soprattutto quelle con pesanti condanne, saranno in grado di ottenere un titolo universitario dal carcere. Su questo aspetto nel prossimo futuro sarà disponibile un aggiornamento, riguardante anche le difficoltà incontrate.

Una parte del programma di formazione universitaria si basa sull’integrazione di esperienze educative palestinesi, arabe e internazionali attraverso la letteratura della resistenza. Il programma includerà anche ricerche e studi scientifici alla nostra portata in carcere, nel tentativo di approfondire le capacità di analisi delle detenute e di identificare le loro aspirazioni per il futuro.

Tutta questa iniziativa intende stimolare e rafforzare l’autostima delle detenute incoraggiandole a considerare la prigione come un luogo per lo sviluppo creativo, culturale e umano. Speriamo che l’iniziativa rafforzi le convinzioni e capacità delle carcerate di creare un cambiamento nella società una volta che verranno liberate.

Questa iniziativa intende contribuire alla complessiva lotta di liberazione contro l’apartheid israeliano e la disparità di genere rafforzando le detenute per favorire la loro educazione e il loro ingresso nel mondo del lavoro quando saranno rilasciate.

Voglio sottolineare che durante la preparazione di questa dichiarazione abbiamo tenuto due sessioni per detenute iscritte all’università. I due corsi di formazione erano rispettivamente in inglese e in arabo.

Ciò che ha suscitato la mia attenzione è stato che, durante il primo corso in inglese, ho chiesto che ogni detenuta compilasse una simulazione di domanda per l’università specificando il campo di studi che intende seguire. Vorrei condividere alcune delle richieste che ho ricevuto:

Shorouq: detenuta di Gerusalemme condannata a 16 anni e che finora ne ha scontati 6. È stata arrestata mentre frequentava una specializzazione in “Turismo” all’università di Betlemme. Il sogno di Shorouq è diventare guida turistica. Ha scelto la specializzazione in turismo perché vuole sensibilizzare il mondo sui luoghi storici in Palestina. È particolarmente interessata ad accompagnare visite a Gerusalemme a causa di annessione, furto, violazioni e stravolgimento del paesaggio continuamente imposti alla città dall’occupazione israeliana.

Maysoun: detenuta di Betlemme condannata a 15 anni di prigione e che ne ha scontati finora 6. È stata arrestata mentre frequentava una specializzazione in letteratura all’università. Maysoun è un’accanita lettrice anche in prigione. Ama la letteratura. Descrive la letteratura come un metodo per costruirsi un futuro. Secondo lei la letteratura richiede che il lettore pensi e si ponga molte domande relative a un particolare argomento sollevato dal romanzo o dall’opera letteraria in questione. Pensa che ciò porti a un pensiero critico e allo sviluppo culturale.

Ruba: Ruba è una studentessa al terzo anno di sociologia che frequentava l’università di Birzeit. È stata arrestata tre mesi fa ed è ancora in attesa di giudizio. Ruba desidera ed è pronta a continuare i suoi studi al suo rilascio. Secondo lei la ragione per cui ha scelto sociologia come specializzazione è lo sviluppo della sua formazione universitaria e analitica sulle strutture sociali e di classe nella società e sul loro impatto sulle donne.

Nel mio tentativo di comprendere i motivi che stanno dietro le aspirazioni e i sogni di queste donne ho deciso di discutere con loro i problemi in modo più approfondito. Ho scoperto che il comune denominatore tra loro è la ribellione contro l’oppressione e le limitazioni imposte, un deciso rifiuto delle politiche dell’occupazione per impedire l’educazione delle prigioniere, una forza interiore per sfidare il controllo utilizzato contro le detenute inteso ad isolarle e trasformarle in donne disperate senza sogni o progetti per il futuro.

Altri motivi includono la resistenza contro il progetto dell’occupazione di cancellare l’identità e la storia palestinesi. Queste donne vogliono anche rompere con professioni stereotipate e di genere che la società destina alle donne. Per questo scelgono specializzazioni come turismo, letteratura, sociologia e teoria critica.

Per il secondo corso in lingua araba ci siamo concentrate sull’autobiografia e abbiamo lavorato sui diversi metodi per stilare un’autobiografia. Le detenute sono state divise in gruppi che hanno discusso diverse biografie, tra cui quella della dirigente sindacale e femminista boliviana Domitila Chúngara, “Chiedo la parola”, che parla delle esperienze e delle lotte dei minatori in Bolivia. Inoltre abbiamo studiato le biografie e autobiografie di affermati scrittori arabi come “Al-Ayyam” [Il libro dei giorni, Zanzibar, 1999, ndtr.] di Taha Hussein [scrittrice egiziana, ndtr.] e “I Was Born There, I Was Born Here” [Sono nato là, sono nato qua] di Mourid Barghouti [scrittore palestinese, ndtr.].

Il corso ha incluso anche un’analisi di testi letterari come quello del poeta palestinese Mahmoud Darwish intitolato “Incertezza del ritornato”, che è un discorso fatto da Darwish all’università di Birzeit durante i festeggiamenti per la liberazione del sud del Libano nel 2000.

I corsi di formazione, le presentazioni e discussioni hanno arricchito la consapevolezza delle detenute e le hanno incoraggiate a continuare a leggere libri e romanzi. Abbiamo trasformato la prigione in una scuola di cultura in cui le carcerate apprendono altre esperienze e in cui annulliamo i tentativi dell’occupazione di isolarci dal resto del mondo.

In conclusione, la nostra lotta per la liberazione dentro le carceri inizia con la protezione della letteratura di resistenza. Facciamo giungere le nostre voci e storie mentre le scriviamo in circostanze molto difficili. Quando siamo incarcerate il prezzo che paghiamo a volte è pesante, soprattutto quando la nostra punizione sono l’isolamento o il divieto delle visite dei familiari.

Un caso emblematico è il prezzo pagato dal detenuto Waleed Daqa, messo in isolamento per aver fatto uscire clandestinamente dalla prigione il suo romanzo perché venisse pubblicato. Ciò costituisce un’ulteriore sfida che dobbiamo affrontare nel contesto dei “Due Desideri”, quella dei combattenti per la libertà e quella dei colonizzatori, come espresso dalla combattente per la libertà Domitila Chúngara in “Chiedo la parola”.

Anche noi, donne palestinesi prigioniere diciamo “lasciateci parlare… lasciateci sognare… lasciateci sentire libere!” Grazie per avermi ascoltata e per avermi dato la possibilità di partecipare a questa conferenza.

Khalida Jarrar, prigioniera politica,

Prigione di Damon, 17 ottobre 2020.

Khalida Jarrar

Khalida Jarrar è una femminista ed attivista per i diritti umani e fa parte del Consiglio Legislativo Palestinese [il parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, in cui rappresenta il partito marxista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ndtr.]. Vive a Ramallah, ma è stata tenuta in detenzione amministrativa [incarcerazione senza imputazione e senza condanna rinnovabile a tempo indefinito, ndtr.] da Israele in vari periodi dal luglio 2015.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le spese per fronteggiare il COVID-19 bloccano l’approvazione della finanziaria dell’ANP

Ahmad Melhem

3 aprile 2020 – Al-Monitor

Ramallah, Cisgiordania —Si prevede che lo stato di emergenza dichiarato il 5 marzo da Mahmoud Abbas, presidente della Palestina, e le rigide misure annunciate dal governo il 18 marzo per arrestare l’espandersi del COVID-19 nei territori palestinesi limiteranno ancora di più la capacità finanziaria dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Il governo avrebbe dovuto pagare per intero gli stipendi dei dipendenti statali, ma, se lo stato di emergenza continuerà, si prospetta una crisi finanziaria.

Due fattori contribuiranno al peggioramento della crisi finanziaria dell’ANP: una diminuzione delle entrate fiscali (cioè tasse e dazi doganali) derivanti da una diminuzione dei commerci e un aumento delle spese, in risposta allo stato di emergenza, come il vasto impiego di servizi di sicurezza nelle città, i provvedimenti presi per fronteggiare gli effetti della disoccupazione, le spese mediche crescenti e l’apertura di centri per la quarantena. Dal 2 aprile, in Cisgiordania e Gaza sono stati registrati 160 casi di COVID-19, un decesso e diciotto ricoveri ospedalieri.

L’incertezza sui costi associati alla crisi da COVID-19 ha, in parte, frenato gli sforzi del governo per annunciare il bilancio dello Stato per l’anno finanziario 2020, che segue l’anno solare. La finanziaria di solito viene presentata entro il primo quadrimestre. Il Governo ha proceduto alla seconda lettura il 15 marzo, ma il primo aprile non c’era ancora stata la terza lettura necessaria prima di presentare il bilancio ad Abbas per l’approvazione.

Il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh alla conferenza stampa del 29 marzo ha detto che, secondo il budget presentato al Gabinetto, le entrate statali caleranno di oltre il 50% e che diminuiranno anche gli aiuti internazionali. A causa di questa situazione finanziaria unita allo scoppio della pandemia, il governo si baserà su un bilancio di emergenza e austerità. Shtayyeh stima che il governo avrà bisogno di circa 120 milioni di dollari per fronteggiare il virus. “Nei prossimi giorni la situazione finanziaria sarà difficile” ha detto chiedendo ai palestinesi di prepararsi.

Amjad Ghanem, il segretario-generale di gabinetto dell’ANP ha detto ad Al-Monitor che “lo stato di emergenza impone oneri finanziari al governo che però non nasconderà la testa sotto la sabbia e farà fronte alla diminuzione degli introiti statali e delle spese mediche.” 

Si prevede che la finanziaria 2020 sarà simile a quella stilata in emergenza dal governo nel marzo 2019 quando Israele iniziò a trattenere fondi dalle entrate dell’ANP in misura equivalente ai soldi spesi per aiutare i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e le loro famiglie. In seguito agli accordi Oslo Israele riscuote per conto dell’ANP i dazi doganali sulle importazioni e le tasse.

I fondi decurtati da Israele potrebbero porre termine alla crisi finanziaria che affligge l’ANP, aiutare il governo con la crisi da COVID-19 e a onorare i suoi obblighi finanziari” asserisce Ghanem. 

Afferma anche che il 22 marzo Israele ha trasferito all’ANP 120 milioni di shekel (30,4 milioni di euro) di imposte. Il giorno dopo, il Ministero delle Finanze ha detto che Israele continuava a trattenere 1.047 miliardi di shekel (circa 255 milioni di euro), di cui circa 650 milioni (161 milioni di euro) derivanti dalle tasse che ha riscosso. La cifra rimanente si riferiva a dati contabili di pagamenti precedenti.

Per resistere alla tempesta economica, l’ANP dovrà dipendere dagli aiuti internazionali, inclusi quelli provenienti dagli Stati arabi, e dalle donazioni locali. Il 24 marzo, il Ministero delle Finanze ha annunciato l’apertura di un conto bancario dove individui, aziende e altre imprese possono depositare donazioni per aiutare il governo a combattere il coronavirus.

Anche prima che si aprisse il conto, la Arab Bank e l’imprenditore Munib al-Masri avevano già donato 1 milione di dollari ognuno, rispettivamente il 19 e il 24 marzo. Il 9 marzo, la Paltel, l’azienda privata palestinese di telecomunicazioni, ha donato mezzo milione di dollari.

Il Qatar ha annunciato il 9 marzo che avrebbe fornito 10 milioni di dollari all’ANP per aiutare a contenere il diffondersi del coronavirus e il 18 marzo ha preannunciato una cifra ulteriore non specificata di assistenza finanziaria urgente. I qatarini progettano di donare 150 milioni di dollari nei prossimi 6 mesi per combattere il coronavirus a Gaza e il 16 marzo il Kuwait ha contribuito con 5,5 milioni di dollari. Le Nazioni Unite il 18 marzo hanno offerto 1 milione di dollari di aiuti sanitari urgenti.

May Kila, il ministro della Salute dell’ANP ha detto ad Al-Monitor: “Noi dobbiamo affrontare una sfida speciale perché non abbiamo il controllo delle nostre risorse finanziarie.” Kila ha detto che, oltre al problema dei fondi, le difficoltà maggiori sono quelle di ottenere i tamponi per i test e i respiratori. Data la loro scarsità, ci si deve concentrare sulla prevenzione.

Nasr Abdel Karim, un docente di economia e finanza dell’Arab American University in Cisgiordania, ha detto ad Al-Monitor che “se la crisi non si allenta entro uno o due mesi, l’ANP non riuscirà a rispettare i suoi impegni finanziari causati da un’economia paralizzata e dai minori introiti fiscali.”

Abdel Karim crede che tali introiti potrebbero diminuire del 50% e che l’ANP potrebbe coprire in parte il disavanzo tramite un sostegno internazionale o prestiti limitati delle banche e del settore privato. Per sostenere il funzionamento del settore sanitario, ha detto, l’ANP potrebbe pagare solo metà degli stipendi dei dipendenti statali come ha fatto nel 2019 durante la crisi di liquidità.

L’ANP si trova davanti a una crisi finanziaria ancora più grave perché è una crisi di cui non si intravede la fine” dice Abdel Karim, facendo anche notare l’ulteriore aggravio delle spese sanitarie abbinato alla diminuzione delle entrate fiscali.

La crisi, afferma, non si limiterà all’ANP, ma colpirà imprenditori, lavoratori, contadini e le istituzioni civili.

Ahmad Melhem è un giornalista e fotografo palestinese di Ramallah e collabora con Al-Watan News e vari altri media arabi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il blocco di Israele contro il coronavirus intralcia il lavoro per i diritti umani, ma non i soprusi

Judith Sudilovsky

31 marzo 2020 – +972

Le associazioni per i diritti umani segnalano che le direttive per l’emergenza di Israele stanno rendendo più difficile monitorare e proteggere i diritti dei palestinesi durante la pandemia

Alcune associazioni per i diritti umani palestinesi ed israeliane affermano che le direttive d’emergenza emanate dalle autorità israeliane, che con la scusa del coronavirus vietano la libertà di movimento e altre attività, stanno rendendo più difficile monitorare, documentare violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e difendere da esse in vari aspetti della vita.

Stiamo ancora monitorando casi, ma le nostre ricerche non sono in grado di essere presenti e documentare nel suo complesso l’area,” dice Rania Muhareb, ricercatrice giuridica e responsabile della sensibilizzazione presso Al-Haq, un’organizzazione palestinese per i diritti umani con sede a Ramallah. “È molto difficile dire se ci sono più o meno incidenti, per la semplice ragione che in questa situazione è più complicato avere tutte le informazioni con la rapidità di sempre.”

Le violazioni, spiega Muhareb, includono la continua confisca di terre e i progetti di costruzione di colonie israeliane e della barriera di separazione nella Cisgiordania occupata; la violenza contro i contadini palestinesi; incursioni e arresti in città e villaggi palestinesi; demolizioni di case.

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Queste violazioni evidenziano un tentativo diffuso e sistematico di compromettere i diritti dei palestinesi durante un’emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale,” afferma. Nonostante la grave crisi, “Israele continua ad avere il tempo di portare avanti queste azioni illegali.”

Muhareb evidenzia un incidente del 19 marzo nel villaggio di Sawahra Al-Sharqiya, a Gerusalemme est, in cui i bulldozer israeliani hanno distrutto una serie di edifici, compreso un recinto per le pecore, ma che non si può documentare a causa del divieto di muoversi.

Aggiunge che nella zona attorno a Nablus è continuata anche la violenza dei coloni. Il 17 marzo un gruppo di coloni ha attaccato una casa palestinese nel villaggio di Burin; secondo le persone che hanno seguito l’incidente, invece di bloccare i coloni i soldati israeliani hanno sparato proiettili ricoperti di gomma, bombe assordanti e lacrimogeni contro i palestinesi. Tre giorni dopo, il 20 marzo, a sud di Jenin i coloni hanno gravemente ferito il contadino Ali Musafa Zouabi.

Allo stesso modo l’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha riferito di violenti attacchi dei coloni che la scorsa settimana hanno ferito gravemente contadini e pastori palestinesi. I coloni sono arrivati da Halamish, Homesh (una ex-colonia che è stata demolita, ma in cui gli israeliani sono rimasti illegalmente), e Kochav Ha Shahar. Nessuno dei coloni è stato arrestato.

Muhareb afferma che i soldati delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] non hanno l’autorità di arrestare i cittadini israeliani in Cisgiordania. Al contrario, la scorsa settimana l’esercito ha arrestato parecchi palestinesi nella città vecchia di Jenin, a Qalqiliya e nei pressi di Nablus.

In un comunicato l’ufficio del portavoce delle IDF ha detto che le IDF “continuano l ‘attività operativa, che include l’interruzione di sospette attività terroristiche in base alle necessità operative e alle valutazioni aggiornate della situazione. Durante gli arresti i militari, così come i detenuti, sono protetti secondo le necessità operative.”

Non si può passare sopra diritti fondamentali”

In base alle nuove regole riguardanti la pandemia entrate in vigore il 15 marzo, questi prigionieri devono essere tenuti in quarantena per 14 giorni prima di poter essere interrogati. Il ministero israeliano della Sicurezza Pubblica ora può vietare le visite dei familiari per arrestati e detenuti e limitare i colloqui dei prigionieri con un avvocato solo a conversazioni telefoniche, afferma Sahar Francis, direttrice dell’ONG palestinese Addameer – Associazione per l’Appoggio e i Diritti Umani dei Detenuti.

L’esercito israeliano sta ancora arrestando persone pur sapendo che non le può interrogare, per cui le mette in isolamento per 14 giorni. È una violazione dei diritti fondamentali dei detenuti,” afferma.

Da due settimane o più hanno completamente chiuso tutte le prigioni e le strutture per la detenzione. (I prigionieri) non hanno contatti con i loro familiari e gli avvocati possono parlare con loro solo quando è prevista un’udienza in tribunale sul loro caso. Ci sono 5.000 prigionieri totalmente isolati dal mondo esterno.”

La portavoce del servizio carcerario israeliano ha fatto notare che le nuove regole sono state applicate in tutte le prigioni israeliane, indipendentemente dalle ragioni per cui i prigionieri vi sono reclusi.

Mantenerli in salute, tenere lontano il coronavirus, ora questo è il nostro unico obiettivo,” afferma. “Si spera che in breve tempo, quando ciò sarà finito, le cose torneranno come prima. Mantenerli in salute è nel nostro interesse più di qualunque altra cosa.”

La portavoce sostiene che le prigioni hanno fornito informazioni a tutti i detenuti in varie lingue, compreso l’arabo, ed hanno disinfettato le loro strutture. Stanno anche seguendo le direttive del ministero della Sanità di incrementare i turni di lavoro del personale carcerario fino a 96 ore, in modo che possano ridurre gli spostamenti dentro e fuori le prigioni.

Finora non abbiamo alcun prigioniero con il coronavirus, e speriamo che così continui ad essere fino alla fine della crisi,” afferma. “Non sappiamo se sia possibile, ma stiamo facendo del nostro meglio.”

Eppure, dice Francis di Addameer, ci sono preoccupazioni per la salute dei prigionieri palestinesi a causa delle loro condizioni di sovraffollamento. I prigionieri hanno anche raccontato che non gli è stato fornito alcun materiale sanitario speciale e che non è stata presa nessun’altra precauzione da parte delle autorità carcerarie.

Il 26 marzo Addameer, insieme ad Adalah – il Centro Giuridico per i Diritti delle Minoranze in Israele – e l’avvocato Abeer Baker hanno chiesto a nome del detenuto Kafri Mansour alla Corte Suprema israeliana di annullare le direttive d’emergenza nelle prigioni.

Pur riconoscendo la necessità di proteggere la salute dei reclusi, il ricorso sostiene che il governo israeliano non ha l’autorità giuridica di imporre il divieto alle visite di avvocati e familiari, che “violano in modo pesante e sproporzionato i diritti dei prigionieri”, in particolare dei minorenni. I ricorrenti accusano anche il fatto che le restrizioni impediscono anche ai prigionieri di riferire di qualunque violazione dei diritti nella prigione.

Il ricorso descrive anche come una conversazione tra l’avvocato Abeer Baker e un prigioniero sia stata trasmessa da altoparlanti in presenza delle guardie della prigione e di altri detenuti, violando la riservatezza tra avvocato e cliente.

Le sfide che questo stato d’emergenza pone alle autorità israeliane non possono consentire loro di passare sopra fondamentali diritti umani,” afferma l’avvocato di Adalah Aiah Haj Odeh. “Le leggi internazionali impongono che Israele debba riconoscere il diritto dei prigionieri e dei detenuti alle visite con i familiari, a consultarsi con gli avvocati e a rivolgersi ai tribunali.”

Arrestano come al solito i minorenni, come se non ci fosse il virus”

Nel contempo nel villaggio di Issawiya, a Gerusalemme est, gli abitanti affermano di aver sperato che l’attenzione sulla pandemia riducesse le incursioni e i pattugliamenti della polizia israeliana messi in atto in modo aggressivo nei loro quartieri dalla scorsa estate.

Invece, sostengono, tali azioni sono continuate. Blocchi stradali della polizia stanno ancora provocando lunghi ingorghi del traffico; scontri con i giovani comportano l’uso di lacrimogeni, granate assordanti e proiettili ricoperti di gomma, e vengono effettuati arresti nella totale inosservanza delle norme del governo sul coronavirus, mettendo in pericolo gli abitanti palestinesi.

Pensavamo che il coronavirus avrebbe contribuito a fermare le cose, ma non è cambiato niente,” dice Muhammad Abu Hummus, un attivista politico di Issawiya. “Al solito, arrestano minorenni come se non ci fosse nessun virus. Ogni giorno (la polizia) va in giro senza mascherine e senza guanti. Altrove forse aiutano la gente, ma a Issawiya portano solo lacrimogeni e balagan (disordine o confusione).”

Il portavoce della polizia Micky Rosenfeld sostiene che la presenza della polizia nel villaggio fa parte del normale pattugliamento in tutti i quartieri di Gerusalemme intrapreso specificamente nel contesto dell’epidemia di coronavirus, inteso a garantire che gli abitanti rimangano in casa.

Non vengono effettuate incursioni, solo normali attività di polizia,” dice. “Se gli abitanti vogliono protestare e fare ritorsioni contro la polizia israeliana è un loro problema. La polizia sta pattugliando tutti i quartieri e mettendo in atto le nuove norme per tenere per quanto possibile le persone al sicuro in casa, per il loro stesso bene e la loro salute.”

Tuttavia in un rapporto del 19 marzo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha chiesto perché la polizia abbia scelto questo momento per incrementare quella che descrive come una punizione collettiva degli abitanti del villaggio, nonostante “una crisi senza precedenti che richiede…misure estreme di isolamento sociale.”

La presenza della polizia nel villaggio provoca scontri, dice B’Tselem, che sono già abbastanza problematici durante periodi normali, ma ancor più durante la pandemia, quando riunirsi in gruppo può diffondere il virus.

La violenza della polizia contro i palestinesi a (Issawiya), ormai una caratteristica nella vita del quartiere, è illegale e non può essere giustificata neppure come usuale routine dell’occupazione,” dice B’Tselem nel suo rapporto. “La condotta della polizia danneggia la sicurezza pubblica (compresa la salute dei poliziotti) e viola le linee guida sanitarie sull’isolamento sociale.”

B’Tselem aggiunge: “Il fatto che le autorità israeliane siano indifferenti alla vita degli abitanti (di Issawiya), compresi bambini ed adolescenti, non è affatto una novità. Eppure continuare e persino accentuare simile comportamento durante una pandemia è una manifestazione particolarmente vergognosa di questa politica.”

Un altro attivista del villaggio, che ha chiesto di rimanere anonimo per la sua sicurezza personale, ha detto a +972 di aver dovuto portare urgentemente la scorsa settimana sua figlia di sette mesi all’ambulatorio medico del villaggio dopo che la polizia durante uno scontro con giovani palestinesi ha utilizzato lacrimogeni che sono penetrati in casa sua.

La situazione è terribile,” afferma. “Ovviamente ho paura. Perché mettermi in una situazione per cui devo portare mia figlia all’ambulatorio in tempi di coronavirus?”

Judith Sudilovsky è una giornalista indipendente che da 25 anni si occupa di Israele e dei Territori Palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In lutto a causa di Israele, traditi da Abbas

Hamza Abu Eltarabesh

16 aprile 2019, Electronic Intifada

Walaa Abu al-Qumsan è stata obbligata a lasciare l’università. Negli ultimi mesi pagare le tasse di iscrizione della ventunenne si è dimostrato impossibile a causa del fatto che la sua famiglia ha smesso di ricevere un sussidio da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Per un valore di circa 700 dollari al mese, l’indennità era stata concessa dopo che il padre di Walaa, Yousif, venne ucciso dalle truppe israeliane che 17 anni fa avevano invaso il campo di rifugiati di Jabaliya, nel nord di Gaza.

Walaa è furiosa con Mahmoud Abbas, il presidente dell’ANP, perchè ha bloccato il sussidio. Sperava di laurearsi presto in lingua araba all’università Islamica di Gaza. Ha saputo che il sussidio era stato ritirato proprio mentre stava per iscriversi all’ultimo semestre.

“Le nostre vite dipendono proprio da questa indennità,” dice. “Ma sembra che ad Abbas non importino le nostre vite.”

Sua sorella Nour, di 19 anni, si trova ad affrontare la stessa difficile situazione. Nour ha studiato nel collegio universitario per le scienze applicate di Gaza per diventare segretaria di un medico. Anche a lei non resta che abbandonare gli studi.

“Che io riesca o meno a realizzare il mio sogno e a laurearmi è nelle mani di Abbas,” dice Nour. “Voglio laurearmi e iniziare a cercare un lavoro per aiutare la mia famiglia. Da quando l’erogazione del sussidio è stata interrotta non possiamo pagare le tasse e neppure il costo del viaggio per andare all’università.”

La famiglia sembra essere stata punita per la sua affiliazione politica. Yousif Abu al-Qumsan era membro delle brigate Qassam, braccio armato di Hamas.

Un diritto, non la carità

In febbraio l’ANP ha smesso di pagare i sussidi a 1.700 famiglie di persone che sono state uccise da Israele.

La misura pare prendere di mira principalmente le famiglie di combattenti di Hamas e della Jihad Islamica. Queste due organizzazioni sono considerate rivali di Fatah, guidata da Abbas.

“I sussidi non sono una forma di carità, sono un diritto,” dice il figlio di Youssif, Ahmad, che ora ha 29 anni. Aggiunge di “non avere idea” del perché Abbas abbia deciso di punire le famiglie di persone uccise dalle forze israeliane.

Anche la mia famiglia estesa è stata colpita da queste misure.

Nel 2003 mio cugino Ramiz al-Talmas, membro delle brigate Qassam, venne ucciso durante un’incursione israeliana nella zona settentrionale di Gaza. Era l’unico figlio di mia zia Hania.

I sussidi pagati alle famiglie di persone uccise da Israele sono diversi. I fattori presi in considerazione quando vengono fissati includono le dimensioni della famiglia della vittima, il suo stato coniugale e il salario che percepiva in vita.

Nel caso di Ramiz, alla sua famiglia veniva pagata un’indennità mensile di circa 600 dollari.

“Mio figlio ha sacrificato la sua vita per questo Paese, “mi ha detto Hania. “Ora il presidente (Abbas) lo ricambia tagliando l’assegno per mantenere i suoi quattro figli.”

Un sogno semplice, svanito

Anche i sussidi pagati dall’Autorità Nazionale Palestinese a persone incarcerate da Israele sono stati bloccati.

I tagli colpiscono un totale di circa 770 ex-prigionieri ed altri 133 ancora in carcere.

Sono stati introdotti contro l’insieme dei tentativi di Israele di privare i palestinesi di fondi. Israele ha rifiutato di consegnare il ricavato delle tasse raccolte a favore dell’ANP. Una delle ragioni addotte da Israele per trattenere questo denaro è stata che l’ANP stava pagando i prigionieri. All’inizio dell’anno l’ANP ha smesso di pagare un sussidio a Faris Baroud, incarcerato dal 1991 per aver ucciso un israeliano e averne feriti altri tre.

Baroud, di Gaza City, è morto in prigione poco dopo che il sussidio è stato bloccato. La misura significa che la sua famiglia è stata punita sia da Israele che dall’ANP.

Per più di un decennio Israele ha negato alla madre di Faris Baroud il permesso di visitarlo, adducendo come pretesto “ragioni di sicurezza”. È morta nel 2017.

Anche le indennità pagate a persone ferite da Israele sono state bloccate per ordine di Abbas.

Ibrahim Salha, membro della Jihad Islamica, è stato colpito alla schiena dalle forze israeliane nel 2006, durante un attacco contro il campo profughi di Jabaliya. Ora ha 30 anni, le ferite non gli consentono di trovare un lavoro. Ha ricevuto circa 500 dollari al mese dall’ANP finché il sussidio non è stato bloccato.

“Non posso credere che ciò possa succedere,” dice. “Per 13 anni mi è stata data un’indennità e improvvisamente è stata tagliata.”

Salha sperava di sposarsi nel prossimo futuro. La fine del suo sussidio comporta che non se lo possa permettere.

“Non posso condurre una vita normale,” dice. “Persino il mio semplice sogno di sposarmi ora è svanito.”

Hamza Abu Eltarabesh è un giornalista di Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Cento prigionieri palestinesi feriti durante attacchi israeliani

Tamara Nassar

22 gennaio 2019, Electronic Intifada

Da domenica durante una serie di incursioni forze israeliane hanno ferito più di 100 prigionieri palestinesi nella prigione israeliana di Ofer, nei pressi della città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha informato che da allora alcune unità dell’esercito israeliano hanno fatto irruzione in altre due prigioni, in quella di Nafha nella regione del Naqab [Negev in arabo, ndtr.], nella parte meridionale di Israele, e nella prigione di Gilboa, nel nord, dopo che avrebbero ricevuto una segnalazione dall’intelligence secondo cui membri della Jihad Islamica, un’organizzazione politica della resistenza palestinese, avevano dei telefonini.

Secondo la rete di notizie “Qud News” i soldati hanno utilizzato pallottole di acciaio rivestite di gomma, candelotti lacrimogeni, cani dell’esercito e bombe assordanti contro i prigionieri palestinesi. Anche tre celle sono state totalmente bruciate.

Secondo l’Associazione dei prigionieri palestinesi la maggior parte delle ferite sono state provocate dai proiettili di acciaio rivestiti di gomma e molti prigionieri sono stati trasferiti in ospedale. Circa 20 sono ancora ricoverati.

Si è trattato dell’attacco più grave contro i prigionieri palestinesi da più di un decennio, secondo l’associazione, che aggiunge che ciò rappresenta “un grave pericolo per la vita e la sorte dei prigionieri.”

Punizione collettiva

Secondo il “Times of Israel” [giornale in rete che si definisce “indipendente”, ndtr.] il ministro della Sicurezza pubblica Gilad Erdan ha affermato che il Servizio Penitenziario Israeliano “continuerà ad agire con tutta la forza” e “userà ogni mezzo a sua disposizione” per controllare quelle che ha definito “rivolte”.

Erdan ha confermato le sue intenzioni, annunciate all’inizio del mese, di peggiorare le condizioni dei palestinesi nelle prigioni israeliane e di ridurre il loro livello di vita “al minimo indispensabile”.

Erdan ha annunciato il blocco dei fondi sociali per i detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese, riducendo l’autonomia dei prigionieri e l’erogazione di acqua.

Secondo Haaretz, ha sostenuto che il “consumo di acqua” dei prigionieri è “folle” e un modo per loro di “sovvertire lo Stato”,

Il giornale non ha specificato quanta acqua avrebbero utilizzato i prigionieri palestinesi.

L’associazione dei prigionieri ha chiesto alle organizzazioni per i diritti umani, soprattutto al Comitato Internazionale della Croce Rossa, di intervenire per porre fine alla brutale aggressione contro i prigionieri di Ofer, che ospita circa 1.200 detenuti.

Dopo aver parlato con Louai al-Mansi, un rappresentante dei minori imprigionati a Ofer, l’associazione dei prigionieri ha inoltre sostenuto che le forze di occupazione israeliane hanno anche fatto un’incursione nella sezione che ospita i minori palestinesi detenuti a Ofer, obbligandoli a stare contro un muro e minacciandoli con fucili e con cani della polizia militare.

L’associazione dei prigionieri ha detto che i minori di Ofer sono in uno stato di panico e terrore, aggiungendo che un ragazzino di 15 anni è rimasto traumatizzato e non ha potuto parlare fino a martedì mattina.

Resistenza

I prigionieri di Ofer hanno annunciato una campagna di resistenza contro l’aggressione israeliana, definendola la “Battaglia per l’Unità e la Dignità”.

“Stiamo affrontando una nuova fase della repressione che minaccia le nostre vite di prigionieri,” hanno detto i detenuti in un comunicato.

Hanno ammonito i partiti politici e i dirigenti israeliani di non cercare di utilizzarli per fini politici nel contesto delle imminenti elezioni israeliane, imponendo loro misure più pesanti.

I prigionieri della Jihad Islamica hanno condannato l’aggressione israeliana ed hanno promesso una risposta.

“Non consentiremo che le prigioni siano una piattaforma di propaganda elettorale e affermiamo di aver preso la decisione di opporci e difendere noi e la nostra dignità,” ha detto l’organizzazione dei prigionieri del gruppo politico e della resistenza in una dichiarazione.

I prigionieri della Jihad islamica hanno riaffermato che bruceranno ogni cella attaccata dall’”Unità terrorista Metzada”, un riferimento alle forze speciali israeliane.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Mahmoud Abbas, smetti di servirti di Ahed Tamimi per il tuo tornaconto personale

Ramzy Baroud

8 agosto 2018, Palestine Chronicle

Il padre dell’undicenne Abdul Rahman Nofal mi ha contattato chiedendomi di aiutarlo. Suo figlio è stato colpito a una gamba durante le proteste della “Grande Marcia del Ritorno”. Il sistema sanitario in sfacelo della Striscia non è stato in grado di salvare la gamba del ragazzino, che è poi stata amputata.

Yamen, suo padre, un giovane uomo del campo di rifugiati di Buraij, nella zona centrale di Gaza, vuole solo che suo figlio ottenga una gamba artificiale in modo che possa andare a scuola a piedi. Gli israeliani hanno rifiutato al ragazzino il permesso di andare a Ramallah per ricevere cure. Disperato, Yamen ha girato un video in cui chiede al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, di aiutare suo figlio. Finora le sue suppliche sono rimaste inascoltate.

Cos’ha fatto questo bambino innocente per meritare un simile trattamento?” chiede nel video. La stessa domanda può essere posta riguardo ai maltrattamenti di tutti i minori di Gaza, di tutti i minori palestinesi.

Abbas, insieme ad Israele, ha sottoposto i palestinesi di Gaza a una prolungata campagna di punizioni collettive. Per quanto crudeli siano state le ripetute guerre di Israele contro l’impoverita ed assediata Striscia, esse sono coerenti con la storia di crimini di guerra ed apartheid di Tel Aviv. Ma quello che Abbas sta facendo a Gaza non è solo scorretto, è anche sconcertante.

Perché un leader di 83 anni è così incline a collaborare con Israele attraverso il cosiddetto coordinamento per la sicurezza e, di più, così assillante nell’isolare e punire il suo popolo nella Striscia di Gaza?

Invece di aiutare i gazawi che subiscono i distruttivi effetti delle guerre di Israele e di oltre un decennio di assedio durissimo, egli ha stretto il cappio.

Il governo di Abbas finora ha tagliato i salari che in precedenza pagava ai dipendenti pubblici di Gaza, anche a quelli fedeli alla sua fazione, Fatah; ha tagliato i sussidi alle famiglie dei prigionieri di Gaza detenuti da Israele; ha persino sospeso i pagamenti alla compagnia elettrica israeliana che fornisce a Gaza parte delle forniture di energia elettrica, gettando la Striscia ancor più nell’oscurità.

Come Israele, anche Abbas vuole vedere Gaza in ginocchio. Ma, a differenza di Israele, sta umiliando i suoi fratelli.

A partire dal 14 maggio, quando migliaia di palestinesi di Gaza sono andati verso la barriera che separa Israele dall’enclave incarcerata, i sostenitori di Abbas in Cisgiordania hanno interpretato le proteste della “Marcia del Ritorno” come una legittimazione del rivale di Fatah, Hamas. Così anche loro sono scesi in piazza per “celebrare” i presunti successi di Abbas.

Centinaia di palestinesi di Gaza sono stati uccisi e migliaia feriti, molti dei quali minori, nella attuale “Marcia del Ritorno”, ma Abbas e i suoi alleati di Fatah sono stati molto più interessati a garantire la propria importanza che ad unirsi alle proteste per chiedere la fine del blocco di Gaza.

Quando a Ramallah e altrove in Cisgiordania si sono tenute manifestazioni molto più numerose per chiedere ad Abbas di porre fine alla punizione della Striscia di Gaza, i cortei sono stati attaccati dagli sgherri della sicurezza di Abbas. Uomini e donne sono stati picchiati e molti sono stati arrestati per aver solidarizzato con Gaza, un atto ora imperdonabile.

La verità è che i palestinesi della Cisgiordania, non solo quelli di Gaza, detestano Mahmoud Abbas. Vogliono che lui e il suo apparato violento e corrotto se ne vadano. Tuttavia egli si rifiuta, mettendo in atto ogni sorta di metodi per garantire il proprio dominio sui suoi oppositori, arrivando al punto di collaborare con Israele per raggiungere un obiettivo così infame.

Tuttavia Abbas vuole ancora convincere i palestinesi che continua a opporsi, non con l’”inutile resistenza” messa in pratica dai gazawi, ma con il suo stile di “resistenza civile pacifica” dei villaggi palestinesi in Cisgiordania.

La cosa è stata ribadita con enfasi di nuovo negli ultimi giorni.

Appena la giovanissima contestatrice palestinese, Ahed Tamimi, è stata rilasciata da una prigione israeliana dopo aver passato otto mesi in carcere per aver preso a schiaffi un soldato israeliano, Abbas si è affrettato ad ospitare lei e la sua famiglia.

Fotografie di lui che abbraccia e bacia la famiglia Tamimi sono state diffuse in tutta la Palestina e in giro per il mondo. Il suo sistema informativo ufficiale è stato veloce nel metterlo al centro dell’attenzione nei giorni successivi al rilascio di Ahed.

Poi, ancora una volta, Abbas ha impartito lezioni sulla “resistenza civile pacifica”, tralasciando, ovviamente, di sottolineare che anche migliaia di minori di Gaza, rimasti feriti nei pressi della barriera di Gaza negli scorsi mesi, stavano “resistendo pacificamente”.

È vero, Ahed è un simbolo per la nuova generazione di giovani palestinesi ribelli che è stufa di non avere diritti né libertà, ma il tentativo vergognoso di Abbas di sfruttare questo simbolo per ripulire la propria immagine è pura strumentalizzazione.

Se davvero ad Abbas importa dei ragazzi palestinesi ed è tormentato dalle sofferenze dei prigionieri palestinesi – come sostiene di essere – perché, allora, peggiorare le terribili condizioni dei minori di Gaza e punire le famiglie dei prigionieri palestinesi?

Ovviamente Ahed, una ragazzina forte con un legittimo discorso politico da proporre, non può essere incolpata per il modo in cui altri, come Abbas, stanno sfruttando la sua immagine per promuovere la propria.

Lo stesso si può dire dell’attivista pakistana Malala Yousafzai, a cui i miliziani talebani hanno sparato in testa quando aveva 14 anni. Lo sfruttamento da parte dell’Occidente della sua battaglia per guarire dalle ferite e aprire una breccia verso la pace e la giustizia per il suo popolo è deplorevole. Nella psicologia dell’Occidente, la lotta di Malala è spesso, se non sempre, utilizzata per mettere in luce i pericoli del cosiddetto Islam radicale e per legittimare ulteriormente l’intervento militare di Usa e Occidente in Afghanistan e Pakistan.

La questione è stata affrontata con determinazione dalla madre di Ahed, Nariman, anche lei incarcerata e rilasciata dopo otto mesi. Coraggiosamente Nariman ha parlato della concezione razzista che rende famosa Ahed sui mezzi di comunicazione occidentali.

Sinceramente è probabile che sia l’aspetto di Ahed a suscitare questa solidarietà a livello mondiale, e ciò ad ogni modo è razzista, perché molti minorenni palestinesi sono nelle stesse condizioni di Ahed ma non vengono trattati allo stesso modo,” ha affermato.

In quest’ottica, è essenziale che Ahed Tamimi non venga trasformata in un’altra Malala, la cui “resistenza pacifica” sia utilizzata per condannare la continua resistenza di Gaza, e il fascino dei sui capelli biondi e senza velo soffochi le grida di migliaia di Ahed Tamimi nella Gaza assediata, di fatto in tutta la Palestina.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e curatore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra 2018). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Mondiali e Internazionali all’Università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nove ragioni per cui Israele non è un ‘paradiso progressista’

Hamzah Raza

6 marzo 2018, Mondoweiss

Dal 4 al 6 marzo a Washington si è riunita la conferenza politica dell’“American Israel Public Affairs Committee” [Comitato per gli Affari Pubblici Americano-Israeliano] (AIPAC). Questa riunione per l’AIPAC, il principale braccio della lobby americana filo-israeliana, è la più partecipata dell’anno.

L’AIPAC rappresenta una delle lobby più potenti degli Stati Uniti, con un’influenza pari a quella dell’NRA [associazione USA dei produttori di armi, ndt.]. L’ex presidente dell’AIPAC, Steven J. Rosen, una volta ha detto ad un giornalista: “Vede questo tovagliolo? In ventiquattr’ore su questo tovagliolo possiamo avere le firme di settanta senatori.”

Eppure negli ultimi anni l’AIPAC ha perso appoggi nel partito Democratico. A causa dell’influenza di gruppi di centro come JStreet [gruppo di ebrei liberal moderatamente critici con il governo israeliano, ndt.], un fiorente movimento per il disinvestimento [contro Israele] nei campus e l’approvazione incondizionata di Donald Trump nei confronti del governo israeliano, l’AIPAC continua a perdere influenza tra i democratici.

Un sondaggio di PEW [centro di ricerche indipendente con sede a Washington, ndt.] ha evidenziato che i democratici ‘liberal’ simpatizzano più per i palestinesi in una misura vicina a due filopalestinesi per ogni filoisraeliano. Lo stesso sondaggio ha scoperto che è probabile che nel loro complesso i democratici simpatizzino più per i palestinesi che per gli israeliani.

Questo sondaggio è molto diverso da quelli realizzati in passato sull’appoggio dei democratici ad Israele. Nel 2009 il 42% dei democratici simpatizzava più per Israele rispetto al 27% dei democratici di oggi. Ciò ha portato Philip Weiss di Mondoweiss a definire Israele come una “ quotazione in ribasso” tra i democratici.

Tentando di salvaguardare quella quotazione, l’AIPAC ha messo al centro della sua conferenza di quest’anno l’obiettivo di tendere la mano ai progressisti. Nello stesso discorso in cui ha chiesto un lungo applauso per Donald Trump, il presidente dell’AIPAC Mort Fridman ha affermato che “dobbiamo abbracciare e coinvolgere molti più ebrei americani…la causa dei progressisti per Israele è impellente tanto quanto quella dei conservatori.”

Jennifer Granholm, ex governatrice democratica del Michigan, ha promesso solennemente “di appoggiare l’AIPAC…(e) di garantire che Israele rimanga una questione bipartisan,” ed ha anche affermato che “c’è una forte posizione filo-israeliana all’interno del partito democratico.” Granholm ha anche definito Israele come un “paradiso progressista” che è un “modello da seguire per altre Nazioni, compresa l’America.”

L’Israele da favola di Granholm è il contrario della situazione sul terreno. Il fatto che i progressisti si stiano rendendo conto della realtà dello Stato di Israele è proprio la ragione per cui i democratici stanno continuando a simpatizzare sempre più per i palestinesi. Ho deciso di compilare un breve elenco di nove ragioni per cui Israele non è un “paradiso progressista”.

  1. Il blocco di Gaza

La situazione a Gaza rappresenta una crisi umanitaria. L’esercito israeliano ha imposto un blocco terrestre, navale e aereo che ha impedito l’ingresso a 1.6 milioni di palestinesi. A causa del blocco ci sono state limitazioni e la proibizione della fornitura di beni essenziali come pasta, biscotti, latte in polvere, ministre, shampoo, libri di testo e carta da lettera.

A causa del blocco, necessità basilari per la vita come cibo ed acqua rimangono di difficile reperimento per i palestinesi. In seguito a ciò, il 95% dei gazawi è obbligato a bere acqua inquinata e il 54% della popolazione non sa dove riuscirà a procurarsi i pasti. Nel tentativo di “prosciugare” i fondi per Hamas, il governo israeliano ha anche tagliato l’elettricità per Gaza. Ciò significa che il gazawi medio dispone di quattro ore di elettricità al giorno, con particolari rischi per persone come i pazienti in dialisi.

Noam Chomsky ha definito le condizioni di Gaza come quelle di “una prigione a cielo aperto”. Descrivendo la logica che sta dietro al blocco, Dov Weisglas, un ex-consigliere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha detto: “L’idea è di mettere a dieta i palestinesi, ma non di farli morire di fame.”

In seguito al bombardamento di Gaza da parte del governo israeliano nel 2014, anche le infrastrutture di Gaza sono state completamente distrutte. Con la frequenza con cui sta entrando attualmente il materiale [per la ricostruzione], si stima che ci vorranno 100 anni per ricostruire Gaza.

Il 13,2% dei bambini di Gaza soffre di ritardi dello sviluppo dovuti a malnutrizione. Il costo psicologico per i bambini di Gaza è stato grave tanto quanto quello fisico. Il 70% dei bambini di Gaza soffre di incubi e il 75% di enuresi, a causa delle strazianti condizioni di vita che devono sopportare.

Un gruppo di 50 organizzazioni della solidarietà internazionale, comprese l’Organizzazione Mondiale della Salute e Oxfam, hanno chiesto la fine del blocco di Gaza affermando:

Per oltre cinque anni a Gaza più di 1.6 milioni di persone sono stati sottoposti a un blocco che viola le leggi internazionali. Più di metà di queste persone sono bambini. Le organizzazioni firmatarie dicono con un’unica voce: “Ponete subito fine al blocco.”

Anche il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha affermato:

Tutta la popolazione civile di Gaza viene punita per azioni di cui non ha nessuna responsabilità. Di conseguenza il blocco costituisce una punizione collettiva imposta in evidente violazione degli obblighi di Israele in base alle leggi umanitarie internazionali.”

2)Israele è uno Stato colonialista di insediamento

Israele è uno Stato fondato da ebrei europei che hanno colonizzato la terra e, nel 1948, hanno perpetrato un genocidio e un’espulsione di massa della popolazione indigena palestinese che vi viveva. Il senatore [americano ed ex candidato alle primarie presidenziali, ndt.] Bernie Sanders ha paragonato questo atto di colonialismo di insediamento a quello degli europei arrivati nelle Americhe.

Nel 2017 Sanders ha affermato che “come per il nostro Paese, la fondazione di Israele ha comportato l’espulsione di centinaia di migliaia di persone che già vi vivevano, il popolo palestinese. Oltre 700.000 persone sono state trasformate in rifugiati. Il riconoscimento di questo doloroso fatto storico non delegittima Israele, non più di quanto il riconoscimento del “Trail of Tears” [il “Sentiero delle Lacrime”, lungo il quale 18.000 nativi americani furono costretti a marciare per 2.000 miglia, e un terzo di loro morì lungo il cammino, ndt.] delegittimi gli Stati Uniti d’America.

La creazione dello Stato di Israele ha dato come risultato la creazione della più grande popolazione di rifugiati al mondo. Mentre gli israeliani fanno riferimento alla nascita di Israele come al “Giorno dell’Indipendenza israeliana” (anche se non è chiaro da chi si sarebbero resi indipendenti), i palestinesi definiscono questo giorno come la “nakba”, ossia la catastrofe.

Si stima che circa il 40% dei rifugiati al mondo siano palestinesi che furono espulsi dalle loro case in conseguenza della creazione dello Stato di Israele. Le Nazioni Unite ribadiscono regolarmente, in particolare con dichiarazioni come la Risoluzione 192 delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Internazionale dei diritti dell’uomo, il diritto dei palestinesi e dei loro discendenti a tornare nelle case da cui furono espulsi. Eppure Israele continua a negarglielo.

3) Israele pratica l’apartheid

Nello Stato di Israele l’identità etnica di una persona ne determina i diritti. Sottomettere differenti gruppi di persone a differenti insiemi di leggi costituisce letteralmente la definizione di apartheid.

Mentre i palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano in Cisgiordania sono sottoposti alla legge militare, i coloni israeliani che vi abitano sono cittadini di Israele a tutti gli effetti, sottoposti alla legge civile. Possono votare alle elezioni, mentre i palestinesi che vi vivono non sono neppure considerati cittadini. I cittadini non ebrei di Israele sono sottoposti a leggi discriminatorie che li rendono cittadini di serie B.

Sudafricani che hanno vissuto sotto l’apartheid hanno descritto Israele come del tutto simile alla situazione che hanno affrontato sotto l’apartheid. L’African National Congress, il partito di Nelson Mandela, che ha combattuto l’apartheid in Sud Africa, ha etichettato Israele come uno Stato dell’apartheid. L’ex-presidente dell’ANC, Baleka Mbete, ha definito Israele “molto peggio del Sudafrica dell’apartheid.”

Desmond Tutu [arcivescovo sudafricano e premio Nobel per la pace, ndt.] ha affermato che “Israele è uno Stato dell’apartheid…Sono andato ed ho visitato la Terra Santa e ho visto cose che sono un’immagine speculare di ciò che ho vissuto sotto l’apartheid.”

Anche il governo sudafricano dell’apartheid nel 1978 rese pubblico un rapporto in cui affermava che “Israele e Sud Africa hanno una cosa in comune su tutte: entrambi si trovano in un contesto prevalentemente ostile popolato da persone di colore.”

Il capo militare del Sudafrica dell’apartheid, Constand Viljeon, era un ammiratore dei posti di blocco israeliani nella Palestina occupata. Dopo averli visitati, sostenne:

L’accuratezza con cui Israele conduce questo controllo è sorprendente. Come minimo porta via ad ogni arabo che li attraversa circa un’ora e mezza. Quando il traffico è intenso, ci vogliono da quattro a cinque ore.”

4) Incarcerazioni di massa dei palestinesi

Il 40% della popolazione maschile palestinese è stata incarcerata dai tribunali militari israeliani, che hanno una percentuale di condanne per i palestinesi del 99,74%.

Uno dei palestinesi incarcerati da questi tribunali è stato Issa Amro, un uomo che molti definiscono come il “Gandhi palestinese”. Amro è impegnato in azioni non violente contro la costruzione di colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, che sono illegali in base alle leggi internazionali. Amro ha affrontato il carcere con 18 imputazioni, da “insulti a un soldato” ad “aggressione”. Amnesty International ha denunciato che “il diluvio di imputazioni contro Issa Amro non regge in nessun modo,” definendo le accuse “infondate e motivate da ragioni politiche”. Issa Amro è solo uno delle centinaia di migliaia di uomini palestinesi che sono stati gettati nelle prigioni israeliane sulla base di imputazioni infondate.

Allo stesso modo le donne palestinesi non rappresentano un’eccezione a questo sistema di incarcerazione. Il 18 dicembre 2017, l’esercito israeliano ha fatto irruzione in piena notte nella casa della famiglia Tamimi ed ha arrestato la sedicenne Ahed Tamimi. Hanno picchiato suo padre, sua madre, i fratelli maggiori e minori ed hanno confiscato tablet, telefoni e videocamere della famiglia. Tamimi è stata imputata per aver “schiaffeggiato un soldato” e tuttora è in carcere.

Human Rights Watch ha documentato gli abusi dell’esercito israeliano contro minori palestinesi in un rapporto intitolato “Minori dietro le sbarre”:

Secondo la sezione di “Difesa Internazionale dei Minori/Palestina”, ogni anno Israele arresta, imprigiona e processa nel sistema dei tribunali militari circa da 500 a 700 minori palestinesi sospettati di reati penali nella Cisgiordania occupata. Israele è l’unico Paese che processa automaticamente minori nei tribunali militari. Nel 2015 “Human Rights Watch” ha riscontrato che le forze di sicurezza israeliane hanno utilizzato una forza eccessiva per arrestare o detenere bambini palestinesi di 11 anni a Gerusalemme est e in Cisgiordania, ed ha preso per il collo, picchiato, minacciato e interrogato minori detenuti senza la presenza di genitori o avvocati.”

5) Islamofobia

Israele è uno Stato che ha cercato il sostegno pubblico dipingendosi come una sorta di conflitto di civiltà tra “l’Islam e l’Occidente”. È simile all’islamofobia sostenuta dagli ideologi della Destra in tutto il mondo, compreso Donald Trump, che notoriamente ha affermato che “l’Islam ci odia” ed ha promosso un bando contro i musulmani.

Anche l’AIPAC ha spinto quest’ondata di islamofobia. Lo scorso anno è trapelato che l’AIPAC ha fatto una donazione al ““Center for Security Policy” [Centro per le Politiche di Sicurezza] (CSP), un centro studi di estrema destra guidato da Frank Gaffney, che è stato classificato come un gruppo che provoca l’odio dal “Southern Poverty Law Center” [Centro per la Legge sulla Povertà del Sud, associazione per la difesa dei diritti civili con sede in Alabama, ndt.]. Anche l’”Unione dei Conservatori Americani” e l’” Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione, importante gruppo della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] hanno denunciato il CSP come organizzazione che promuove l’odio contro i musulmani attraverso ingannevoli teorie cospirative. Riguardo ai musulmani, Frank Gaffney afferma che “fondamentalmente essi, come termiti, scavano nella struttura della società civile e in altre istituzioni con il proposito di creare le condizioni in base alle quali la jihad possa avere successo.”

Gaffney ha anche sostenuto che lo stratega repubblicano Grover Norquist, l’attuale parlamentare e vice presidente del Comitato Nazionale Democratico Keith Ellison e l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama sono agenti segreti della Fratellanza Musulmana. Ha anche accusato Barack Obama di essere coinvolto nel “più grande inganno dai tempi di Adolf Hitler.”

La “Conservative Political Action Conference” [Conferenza dell’Azione Politica Conservatrice] (CPAC) ha bandito Gaffney per le sue teorie politiche cospirative islamofobe, mentre l’AIPAC gli ha fornito supporto finanziario per far circolare queste teorie cospirative. Discorsi come quelli di Gaffney, come paragonare i musulmani a termiti e insinuare che la Fratellanza Musulmana sta tentando di controllare il governo degli USA, sono simili a quelli anti-ebraici, utilizzati nel passato e in epoca contemporanea, secondo cui “gli ebrei controllano il governo”.

6)Scuole Separate

Le scuole israeliane sono segregate sia in base alla religione che alla razza. Gli studenti ebrei frequentano scuole in base alla loro denominazione religiosa mentre i palestinesi frequentano le loro scuole. Meno dell’1% dei bambini frequentano la manciata di scuole integrate a cui è consentito andare agli ebrei israeliani ed ai palestinesi con cittadinanza di serie B. Le scuole palestinesi ricevono anche meno fondi del governo per alunno di quelle ebraiche, con il risultato che meno studenti che nelle scuole ebraiche frequentano le superiori.

La città di Tel Aviv ha anche costruito scuole separate per bambini di immigrati africani non ebrei richiedenti asilo. Il “Daily Beast” [sito web statunitense, ndt.] lo ha dettagliato in un articolo intitolato “La città più progressista di Israele ha introdotto la segregazione razziale negli asili”, in cui si afferma:

La città costruisce le nuove scuole per bambini neri dopo che abitanti ebreo-israeliani della zona del centro hanno minacciato di tenere a casa i propri figli piuttosto che consentire loro di imparare a contare, a disegnare e a giocare sull’altalena accanto ai loro coetanei eritrei e sudanesi.”

7) Deportazioni di massa

Molti rifugiati africani da Paesi come Eritrea e Sudan sono scappati in Israele dopo aver affrontato guerre nei loro Paesi. Aspettandosi la democrazia liberale di cui parlano i rappresentanti dell’AIPAC, i rifugiati hanno invece incontrato la resistenza di massa degli israeliani che li definiscono “infiltrati”. Israele ha chiesto ai rifugiati africani di scegliere tra l’arresto in una prigione israeliana e la deportazione in un Paese africano terzo.

Michael Ben Ari, membro del parlamento israeliano, ha spiegato che questa infiltrazione è semplicemente il risultato della loro esistenza come non ebrei all’interno di uno Stato ebraico. Ben Ari ha affermato che “il nostro Paese è diverso dagli altri. Il nostro è uno Stato ebraico…Uno Stato ebraico e democratico…In qualche caso le due cose sono in contraddizione tra loro. Se porti dentro un milione di africani, non sarà più ebraico.”

In precedenza l’attuale primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha messo in guardia che se la popolazione non-ebraica in Israele raggiungesse il livello del 30% ciò metterebbe a rischio “il carattere ebraico” dello Stato di Israele.

Ha persino annunciato un progetto di espulsione di 40.000 migranti africani non ebrei, definendo i richiedenti asilo “infiltrati”, la cui esistenza rappresenta una minaccia per il “carattere ebraico” di Israele. I progetti di Netanyahu arrivano dopo anni di proteste contro i neri in Israele, in cui politici israeliani di tutto lo spettro politico hanno fatto dichiarazioni riferendosi agli immigrati africani come un “cancro”, che “emettono un pessimo fetore” e “probabilmente causano ogni sorta di malattie”.

8) Israele ammette di aver sterilizzato a forza donne ebree etiopi contro la loro volontà

Benché la popolazione ebrea etiope viva sotto la legge civile, godendo quindi dei benefici della cittadinanza, ancora soffre di molte discriminazioni in Israele, pur essendo ebrea. Ci sono informazioni sulla brutalità della polizia israeliana contro gli ebrei etiopi, oltre alle discriminazioni sul lavoro e nell’impiego pubblico. Nel 2013 si è scoperto che la Croce Rossa israeliana gettava via il sangue donato dagli ebrei etiopi. Quando Pnina Tamano-Shata [prima deputata ebrea di origine etiope, eletta al parlamento israeliano nelle liste del partito di centro “Yesh Atid”, ndt.] ha offerto di donare il proprio sangue nell’ambito di una campagna della Croce Rossa israeliana, questa ha rifiutato la donazione del suo sangue sulla base del fatto che è etiope. Quello stesso anno il governo israeliano ha ammesso di aver iniettato in donne ebree etiopi un farmaco per il controllo delle nascite chiamato Depo-Provera.

Gal Gabbay, una giornalista israeliana, ha informato che molte donne sono state sottoposte a iniezioni per il controllo delle nascite quando stavano immigrando in Israele dall’Etiopia. Gabbay riporta:

In base al programma, mentre le donne erano ancora nei campi di transito in Etiopia a volte sono state intimidite o minacciate perché accettassero l’iniezione. ‘Ci dicevano che si trattava di vaccinazioni,’ ha detto una delle donne intervistate. ‘Ci hanno detto che la gente che partorisce di frequente soffre. Lo abbiamo preso ogni tre mesi. Abbiamo detto che non lo volevamo.’”

La sterilizzazione forzata corrisponde alla definizione delle Nazioni Unite di genocidio da “imposizione di misure intese a impedire la riproduzione all’interno di un gruppo”. In seguito a queste sterilizzazioni forzate, il tasso di nascite degli ebrei etiopi è caduto del 50% tra il 2003 ed il 2013.

9) Israele ha fornito armi a governi genocidi in tutto il mondo

Israele è stato un esportatore di armi a molti regimi repressivi in tutto il mondo. Oltre ad aver venduto ordigni nucleari al Sud Africa dell’apartheid, Israele è stato il suo maggiore fornitore di armi. Israele ha fornito armi anche al governo birmano quando era impegnato nel genocidio della popolazione rohingya. Israele ha anche fornito al governo ruandese armamenti mentre era impegnato nel genocidio dei tutsi, che è considerato il più rapido genocidio occorso nella storia umana. Israele ha anche fornito armi al governo serbo mentre era impegnato nella pulizia etnica dei bosniaci.

Lungi dall’essere un “paradiso progressista”, Israele è in realtà uno Stato etno-religioso che viola i diritti umani dei palestinesi, di altre minoranze etniche e religiose all’interno dei suoi confini, aiutando al contempo anche l’islamofobia e il genocidio su scala globale. È per questa ragione che una parte significativa e sempre maggiore del partito Democratico sta alzando la voce per la giustizia in Palestina. Finché Israele continuerà ad opprimere, l’appoggio ad Israele continuerà ad essere una “quotazione in ribasso” all’interno del partito Democratico. Nessun ex governatore democratico può cambiare ciò con affermazioni false.

Su Hamzah Raza

Hamzah Raza è un professore incaricato alla Vanderbilt University. Il suo articolo è stato pubblicato su Huffington Post, Alternet, Raw Story, LeMuslim Post e Tennessean.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




“Non vedete che sto male”: cresce la campagna per la liberazione della palestinese ferita

Lubna Masarwa, Dania Akkad

Middle East Eye, 12 gennaio 2018

Israa Jaabis ha riportato ustioni su più della metà del corpo appena prima di essere incarcerata, nel 2015. Da allora lotta per ricevere cure mediche adeguate.

I sostenitori della donna palestinese detenuta che ha bisogno di cure mediche urgenti dicono che le autorità carcerarie israeliane la ignorano da due anni e ne chiedono l’immediata scarcerazione. La campagna per Israa Jaabis, che questa settimana si è guadagnata i titoli di testa sui media palestinesi, arriva mentre lei e il suo avvocato chiedono all’Alta Corte israeliana la riduzione della condanna a 11 anni. Si attende una decisione a giorni.
“Sono qui da due anni e non ricevo l’assistenza sanitaria di cui ho bisogno” ha dichiarato, giovedì, Jaabis alla Corte, ripresa dalle telecamere. “Non vedo alcuna ragione o buon motivo per cui io debba stare in carcere”. “Fisicamente, la situazione di Israa è veramente dura, ed è in condizioni difficili anche dal punto di vista psicologico” ha detto il suo avvocato, Lea Tsemel, dopo l’udienza.
Jaabis, 32 anni, è stata arrestata nell’ottobre del 2015 ed è accusata di aver tentato di far esplodere una bomba per colpire i soldati israeliani davanti a un checkpoint di Gerusalemme Est. Ma lei e la sua famiglia hanno dichiarato che stava traslocando per poter mantenere la residenza a Gerusalemme quando una bombola di gas da cucina difettosa ha preso fuoco a 500 metri dal checkpoint.
Jaabis, che ha un figlio di 10 anni, è rimasta gravemente ferita dalla fiammata, riportando ustioni sul 65% del corpo, tra cui le ferite più gravi a viso e mani. Dopo l’arresto, è stata portata al Hadassah Medical Centre, dove le sono state amputate otto dita. Prima che il trattamento medico fosse completato, però – dice la sua famiglia – è stata portata al carcere di HaSharon.
Da allora, lotta per ricevere cure adeguate e vive una vita dolorosa. Le ferite alle orecchie le hanno provocato continue infezioni e hanno compromesso l’udito. L’interno del naso è rimasto ustionato, quindi respira attraverso un piccolo foro. Non è in grado di sollevare una delle braccia e ha spasmi alle mani e ai piedi. “Non posso fasciare le ustioni perché per non riesco a mettermi le bende” ha scritto alla sorella e all’avvocato in una lettera diffusa sui social media come parte della campagna per liberarla. “Ho gli occhi secchi e provo molto dolore quando sono all’aria o ogni volta che li lavo con l’acqua. I miei occhi devono essere curati urgentemente, ma nessuno mi ascolta.”
Jaabis avrà bisogno di assistenza medica continua e di interventi chirurgici per riuscire a fare anche le cose più semplici, dice sua sorella Muna. “Sente forti dolori in ogni momento e di notte ha gli incubi. Le stanno cadendo i denti.” La famiglia di Israa si è offerta di pagare le cure, ma Muna dice che le autorità carcerarie hanno rifiutato. “Non è solo che è accusata di qualcosa che non ha commesso e di cui loro non hanno prove”, dice Muna, “Oltre a questo, l’hanno privata di diritti fondamentali come le cure mediche”.
Middle East Eye ha contattato venerdì il servizio penitenziario israeliano per un commento, e ci hanno detto di richiamare domenica per parlare con qualcuno del caso specifico di Israa. Centinaia in cerca di cure . Secondo un volontario che fornisce assistenza medica ai detenuti, e secondo il PHR-I (Physicians for Human Rights-Israel), sono centinaia i detenuti palestinesi come Israa che, ogni anno, fanno appello alle organizzazioni per i diritti, chiedendo aiuto per ottenere cure mediche.
“Devono sempre insistere, ripetendo le loro richieste di cure mediche” dice Niv Michaeli, coordinatore dei detenuti al PHR-I. “Ci vuole un sacco di tempo per ottenerle, e la qualità delle cure è molto bassa”. Amany Dayif, da tempo impegnata per i detenuti che necessitano di cure mediche nelle carceri israeliane, dice che nessuno sa quanti palestinesi detenuti da Israele abbiano bisogno di cure o quali siano le loro condizioni, perché manca la supervisione del Ministro della Salute israeliano.
“Il risultato è che il servizio penitenziario israeliano non ha alcun tipo di standard per le cure mediche. Per esempio, non si raccolgono regolarmente statistiche sulle patologie o sulla necessità di cure da parte dei detenuti, cose che sono considerate fondamentali nei sistemi sanitari degni di questo nome”. In base alla sua esperienza, dice, le autorità carcerarie israeliane gestiscono male il sistema sanitario carcerario, “principalmente perché si tratta di un’organizzazione della sicurezza che vede le cure mediche come l’ultima delle priorità”. Middle East Eye ha inviato un’email al servizio penitenziario per un commento sulle cure ai detenuti palestinesi, ma, fino a questa pubblicazione, non abbiamo ottenuto risposta.
(Traduzione di Elena Bellini)



L’organo internazionale di controllo della medicina complice degli abusi israeliani

Derek Summerfield

17 novembre 2017, Electronic Intifada

Sono passati ormai 20 anni da quando Amnesty International ha sostenuto che i medici israeliani che lavorano con i servizi di sicurezza di Israele “costituiscono una parte del sistema in cui i prigionieri sono torturati, maltrattati e umiliati in modi che rendono le pratiche mediche in prigione in contrasto con l’etica medica.”

Da allora ci sono stati ripetuti tentativi – a cui il sottoscritto ha partecipato – per far sì che il cane da guardia internazionale della deontologia medica, la World Medical Association (WMA), chieda conto alla Israeli Medical Association (IMA) di queste pratiche.

Tuttavia, con il fallimento dell’ultimo tentativo l’anno scorso, e nonostante i cambiamenti della leadership negli anni, oggi si deve trarre la conclusione che, quando si tratta di Israele, la WMA non è adatta a svolgere il ruolo per cui è stata creata dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La WMA ha il mandato si assicurarsi che le associazioni che ne fanno parte rispettino i suoi codici, in particolare la sua fondamentale dichiarazione di Tokyo del 1975 contro la tortura. Quest’ultima obbliga i medici non solo a non partecipare direttamente alla tortura, ma anche a proteggere le vittime e a pronunciarsi (contro di essa) ogniqualvolta essi vi si imbattano.

Il precedente significativo per la nostra azione contro l’associazione israeliana era l’espulsione dalla WMA della Medical Association del Sud Africa durante l’epoca dell’apartheid, precisamente per il fatto che i medici erano diventati parte di un sistema in cui la tortura era diventata routine, proprio come Amnesty International ha sostenuto essere nel caso di Israele.

Da allora, Physicians for Human Rights-Israel ha spesso affermato che, se la IMA avesse rifiutato di permettere ai medici di prestare servizio nelle unità di sicurezza dove comunemente viene praticata la tortura, la pratica sarebbe stata interrotta. La presenza dei medici in queste unità offre legittimazione morale agli interrogatori di Israele.

Azione globale

Il primo tentativo di far emergere la responsabilità della IMA è avvenuto nel 2009, quando 725 medici da 43 Paesi fecero appello alla WMA, allegando la documentazione di diversi gruppi per i diritti umani inclusi “Amnesty”, il “Public Committee Against Torture in Israel” e la coalizione “United Against Torture”. Il tentativo terminò quando divenne chiaro che l’allora presidente della WMA, Yoram Blacher, che era anche il presidente della IMA, non avrebbe preso nessuna iniziativa, ed egli rifiutò persino di attestare che aveva ricevuto l’atto.

Piuttosto che indagare su quanto veniva sostenuto nell’appello, Blachar fece causa per diffamazione a Londra contro la persona che era stata a capo della campagna nel 2009 (e che è anche l’autore di questo articolo). Abbiamo confutato l’accusa, che sosteneva che avevamo ingannato i firmatari per far loro firmare la petizione.

I firmatari ci hanno aiutato nella nostra confutazione, che ha avuto successo, assicurando agli avvocati della denuncia per diffamazione che [i firmatari] non erano affatto stati ingannati. Noam Chomsky fu tra coloro che diedero pubblicamente supporto al nostro impegno.

Il più recente di questi tentativi di dimostrare la responsabilità dell’IMA è giunto l’anno scorso, quando 71 medici inglesi hanno presentato un nuovo ricorso alla WMA. Questa volta, l’appello poggiava anche sul rapporto del 2011 di “Physicians for Human Rights-Israel,” “ Doctoring the Evidence, Abandoning the Victim: The Involvement of Medical Professionals in Torture and Ill Treatment in Israel” [“Fare il medico delle prove, abbandonare la vittima: il coinvolgimento dei professionisti della medicina nella tortura e nei maltrattamenti in Israele”], che riguardava il lavoro dei medici israeliani nelle unità della sicurezza dove la tortura dei detenuti era una regola.

Perché, chiedeva l’appello del 2016, i medici assegnati a queste unità non stavano proteggendo i prigionieri e non si stavano opponendo al loro trattamento? E perché la “Israeli Medical Association” non era intervenuta in base a questi rapporti, come avrebbe dovuto fare secondo gli standard definiti dalla “World Medical Association”?

Una speranza infranta

Questa volta speravamo che la reputazione internazionale del noto medico e accademico inglese Sir Michael Marmot, che in quel momento era presidente della WMA, avrebbe potuto avere un peso in un caso che rappresentava una critica evidente all’idea che le norme internazionali sul comportamento etico dei medici fossero sempre eque ed efficaci.

Marmot ci ha inviato una ricevuta che attestava la ricezione del ricorso (a differenza del suo predecessore), ma nel giro di pochi giorni dalla ricezione, fummo sorpresi di vedere una lettera di Marmot al “Simon Wiesenthal Center” pubblicata sul sito di quest’ultimo.

Diretta al Dottor Shimon Samuels, direttore per le relazioni internazionali del “Centro Wiesenthal”, la lettera sosteneva incredibilmente che, riguardo alle denunce del passato, le indagini non avevano rivelato alcun comportamento illecito o cattiva gestione dei casi da parte della ‘Israeli Medical Association’.”

Questo è totalmente falso. Per molti anni“Physicians for Human Rights-Israel” ha provato a far sì che la IMA facesse una tale indagine, ma ha trovato l’associazione costantemente indisponibile. In “Doctoring the Evidence” il gruppo per i diritti umani ha sostenuto nel 2011 che “Ripetuti e continui tentativi di richiamare l’attenzione della IMA sui casi che sollevavano dubbi sul coinvolgimento dei medici nella tortura e in trattamenti crudeli o degradanti, non erano stati effettivamente presi in considerazione.”

Nel 2009 la IMA si era occupata delle testimonianze di vittime di tortura raccolte nel 2007 dal “Public Committee Against Torture in Israel”, ma aveva concluso, dopo qualche telefonata, che le accuse erano prive di fondamento e falsate perché non c’erano altre prove “se non la parola dei prigionieri.” La conclusione delegittimava nei fatti a priori le lamentele dei prigionieri.

Non adatto allo scopo

La lettera di Marmot a Samuels ha in effetti regalato all’IMA una significativa vittoria propagandistica. Non solo ha fatto delle affermazioni errate: ha di fatto offerto alla IMA un’assoluzione pubblica e immediata. Pronunciata dal presidente della WMA in persona, che si suppone parli per l’intera organizzazione, questa è stata un vero successo propagandistico, ripreso da fonti mediatiche come “The Jerusalem Post”[giornale israeliano di destra, ndt.], il cui articolo è stato debitamente intitolato “La World Medical Association esprime fiducia nei medici israeliani in risposta alla campagna del BDS.”

Dopo ripetuti tentativi di far sì che la WMA imponga alla IMA il compito di un definitivo insieme di prove che dimostrino che l’establishment medico israeliano consente – nel migliore dei casi – un sistema di tortura nei confronti dei prigionieri, l’attenzione deve ora spostarsi sulla stessa WMA.

Sfortunatamente, come il caso di Israele dimostra, la WMA non sembra disposta ad agire contro soggetti con amici potenti come gli Stati Uniti. È molto meno esitante nel denunciare Stati meno potenti come l’Iran e il Bahrein, per citarne solo due.

Dobbiamo perciò concludere che l’ente medico internazionale è complice delle violazioni israeliane e che la sua presunta missione di sostenere gli standard etici in giro per il mondo è una farsa.

Questa è una cattiva notizia per i medici israeliani inseriti in ruoli eticamente compromettenti. È una notizia ancora peggiore per i prigionieri palestinesi che hanno poco che possa proteggerli.

Derek Summerfield è un medico accademico che vive a Londra, impegnato da 25 anni nelle campagne per i diritti umani in Israele/Palestina.

(Traduzione di Tamara Taher)




Barghouthi: lo sciopero della fame segna un ‘punto di svolta’ per i palestinesi detenuti da Israele

30 maggio 2017,Ma’an

RAMALLAH (Ma’an) – Martedì, per la prima volta dopo la fine dello sciopero alcuni giorni fa, Marwan Barghouthi, il leader di Fatah incarcerato, che ha guidato uno sciopero della fame di massa di 40 giorni nelle carceri israeliane, ha rilasciato una dichiarazione in cui ha definito lo sciopero un “punto di svolta” nel rapporto dei prigionieri palestinesi con la dirigenza carceraria ed ha avvertito le autorità israeliane che i prigionieri ricomincerebbero lo sciopero se gli impegni presi non fossero rispettati.

La sua dichiarazione, resa nota dall’Associazione dei Prigionieri Palestinesi (PPS), ha sottolineato il trattamento dei prigionieri palestinesi nel corso dello sciopero della fame, che comprendeva il loro trasferimento tra diverse prigioni israeliane e in isolamento in “condizioni brutali e crudeli”.

Barghouthi ha aggiunto che le autorità israeliane hanno confiscato “tutti gli averi personali, compresa la biancheria. I prigionieri sono stati privati di tutti gli oggetti sanitari ed igienici, la loro vita è stata resa un inferno e sono state diffuse vergognose dicerie e menzogne.”

Ha aggiunto: “Eppure tra i prigionieri si è registrata una risolutezza senza precedenti nella storia del movimento dei prigionieri palestinesi e la repressione israeliana non è riuscita a spezzare la loro determinazione.”

Centinaia di prigionieri in sciopero della fame hanno invocato la fine del divieto delle visite dei familiari, il diritto ad accedere ad un’istruzione superiore, cure e trattamenti medici adeguati, la fine dell’isolamento e della detenzione amministrativa – incarcerazione senza accuse né processo – tra le altre richieste di diritti fondamentali.”

Dopo aver ringraziato tutti coloro che si sono impegnati nel sostegno allo sciopero della fame, Barghouthi, che è stato una figura decisiva nel corso dei colloqui con il Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) che hanno messo fine allo sciopero, ha detto che i leader dello sciopero sono stati capaci di “ottenere parecchi risultati equi ed umanitari” dalle autorità carcerarie, incluso il ripristino di una seconda visita mensile dei familiari dei prigionieri, e sono riusciti a costringere le autorità israeliane a considerare questioni relative alla “vita quotidiana” nelle prigioni, come le modalità di trasferimento, e le “condizioni delle donne, dei minori e dei malati detenuti.”

Mentre i leader palestinesi hanno affermato che l’80% delle richieste dei prigionieri sono state esaudite da Israele, i dirigenti del Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) hanno duramente smentito tali affermazioni, dicendo che non sono state fatte concessioni ai prigionieri e che l’accordo che ha posto fine allo sciopero ha garantito solamente il ripristino di una seconda visita mensile dei familiari ai prigionieri, che sarà finanziata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Tuttavia, Barghouthi ha aggiunto che i prigionieri hanno accettato la creazione di un “comitato di alti dirigenti del Servizio Penitenziario” per proseguire il dialogo con i rappresentanti dei prigionieri palestinesi nei prossimi giorni, “per discutere di tutti i problemi senza eccezioni.”

Alla luce di ciò e in vista dell’inizio del sacro mese del Ramadan, abbiamo deciso di interrompere lo sciopero per dare l’opportunità di condurre queste discussioni con il Servizio Penitenziario, sottolineando la nostra ferma intenzione di riprendere lo sciopero se il Servizio Penitenziario non rispetterà gli impegni assunti verso i prigionieri”, ha detto.

Ha poi aggiunto che lo sciopero ha rappresentato un “punto di svolta” nel rapporto tra i prigionieri palestinesi e il “sistema dell’amministrazione penitenziaria”, dicendo che i prigionieri “non consentiranno più nessuna violazione delle loro conquiste e dei loro diritti.”

Lo sciopero, ha affermato Barghouthi, aveva anche lo scopo di unificare il movimento dei prigionieri palestinesi e di porre le basi di una “leadership nazionale unificata”, che nei prossimi mesi possa ottenere il riconoscimento dei palestinesi “nelle carceri dell’occupazione israeliana” come prigionieri di guerra e prigionieri politici.

Lo sciopero inoltre ha cercato di mettere in luce le violazioni israeliane del diritto internazionale nel sistema carcerario, in particolare in quanto il trasferimento di prigionieri palestinesi fuori dai territori occupati in carceri all’interno di Israele viola la quarta Convenzione di Ginevra.

Barghouthi ha anche fatto appello al presidente palestinese Mahmoud Abbas, all’OLP e alle fazioni palestinesi nazionaliste ed islamiche perché adempiano ai loro obblighi nazionali e lavorino per la liberazione dei palestinesi sottoposti a detenzione israeliana, ed ha diffidato dal proseguire qualunque negoziato prima che siano poste le condizioni per la “completa liberazione di tutti i prigionieri e detenuti palestinesi.”

Barghouthi è stato tenuto in isolamento per tutta la durata dello sciopero, mentre le autorità israeliane tentavano di screditare il leader diffondendo un video di Barghouthi che nella sua cella di isolamento si sarebbe alimentato durante lo sciopero della fame, video prontamente denunciato dai leader palestinesi come “falso” e un tentativo da parte delle autorità israeliane di delegittimare Barghouthi.

Le autorità israeliane avevano rifiutato di negoziare con Barghouthi fino all’undicesima ora delle trattative tra IPS, ANP e il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), mentre gli scioperanti avevano ribadito che qualunque trattativa che non includesse Barghouthi era illegittima e “finalizzata a interrompere lo sciopero della fame in cambio di vuote promesse.”

Lunedì la Commissione per gli affari interni del parlamento israeliano, la Knesset, ha tenuto una riunione riguardo allo sciopero, durante la quale un dirigente dell’IPS ha asserito che “in nessun momento l’IPS ha negoziato con i prigionieri di sicurezza in sciopero della fame e non ha accettato nessuna delle loro richieste.”

L’IPS ha affermato che, poiché l’ANP ha accettato di finanziare la seconda visita mensile (dei familiari), dopo che lo scorso anno era venuto a mancare il finanziamento dell’ICRC, non è stata fatta nessuna nuova concessione ai prigionieri.

Durante la riunione, diversi deputati israeliani di destra hanno criticato le richieste dello sciopero, ed uno di loro ha detto: “A loro (i prigionieri) dovrebbero essere concesse le condizioni minime in base al diritto internazionale”, mentre un altro ha detto: “Se facessimo la cosa giusta, ogni terrorista prenderebbe una pallottola in testa. C’è spazio sufficiente sottoterra.”

Secondo l’associazione Addameer per i diritti dei prigionieri, fino ad aprile nelle prigioni israeliane erano detenuti 6.300 palestinesi.

Mentre le autorità israeliane definiscono i palestinesi “prigionieri di sicurezza”, gli attivisti e le associazioni per i diritti hanno a lungo considerato i palestinesi detenuti da Israele come prigionieri politici ed hanno sistematicamente condannato l’uso israeliano delle carceri come mezzo per destabilizzare la vita politica e sociale palestinese nei territori occupati.

Addameer ha riferito che il 40% della popolazione maschile palestinese è stata detenuta dalle autorità israeliane in un certo momento della sua vita.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)