La trappola di Oslo: come l’OLP firmò la propria condanna a morte

Raef Zreik

11 settembre 2023 – +972 Magazine

Dalle concessioni asimmetriche alla rinuncia alla lotta armata, il destino dei palestinesi era segnato prima ancora che Arafat e Rabin si stringessero la mano.

Gli Accordi di Oslo furono stipulati quando ero un giovane avvocato allinizio della carriera, dopo aver vissuto per anni come studente a Gerusalemme nel corso della Prima Intifada. Avevo lasciato la città nel 1990, profondamente logorato a causa della stessa Gerusalemme, della tensione costante e dellintensa attività politica contro loccupazione. Non c’è quindi da meravigliarsi che, nonostante la mia contrarietà nei confronti di Oslo, quei giorni mi abbiano comunque dato un piccolo barlume di speranza: forse, dopo tutto, stava nascendo qualcosa di nuovo. Ma per quanto volessi che laccordo funzionasse nel profondo della mia mente sapevo che non sarebbe stato così.

Allepoca lopinione pubblica palestinese comprendeva tutte le categorie di oppositori ad Oslo. Alcuni palestinesi non credettero fin dall’inizio alla soluzione dei due Stati e la consideravano una sconfitta per la causa palestinese. Io non ero uno di loro: piuttosto, la mia opposizione ad Oslo nasceva da una convinzione interiore che gli Accordi stessi non potessero effettivamente portare a una soluzione del genere. Non ero influenzato da ciò che veniva detto in televisione o nei dibattiti pubblici; preferii mettermi a sedere e leggere gli accordi attraverso gli occhi di un giovane avvocato. Dopotutto, un accordo politico deve contenere una propria logica contrattuale: stabilire una tempistica precisa, con delle regole in caso di violazione del contratto e così via. Ebbi l’impressione che i negoziatori palestinesi avrebbero potuto avvalersi di un minimo di consulenza legale.

Come si può ricavare dallo scambio di lettere tra il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dellOrganizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat che precedette la firma degli accordi sul prato della Casa Bianca il 13 settembre del 1993, nella formulazione degli accordi di Oslo sussistono tre problemi centrali.

Il primo è uno squilibrio nel riconoscimento, da parte delle due parti, della reciproca legittimità. LOLP riconosceva Israele e il suo diritto ad esistere, e riconosceva la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza (che chiedeva il ritiro dei soldati israeliani dai territori occupati e il riconoscimento della rivendicazione di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ciascuno Stato della regione dopo la guerra del 1967) e 338 (che chiedeva un cessate il fuoco dopo la guerra del 1973). Ma, in cambio, Israele non riconosceva il diritto del popolo palestinese ad uno Stato o il suo diritto allautodeterminazione. Semplicemente riconosceva lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese.

Questa mancanza di equivalenza rese lOLP poco più che un vaso vuoto; dopo tutto, c’è una differenza tra riconoscere lesistenza dellOLP e riconoscere la legittimità delle sue richieste politiche. Inoltre, allepoca Israele aveva un interesse strategico nel riconoscere lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese. Se Israele lo fece è perché il riconoscimento da parte dellOLP del diritto di Israele ad esistere avrebbe rappresentato la voce dellintera nazione palestinese. Il riconoscimento di Israele da parte dellOLP non avrebbe avuto senso se non fosse arrivato da un autentico rappresentante.

In quest’ottica, la natura strumentale dellOLP come organismo rappresentativo è chiara. Un rappresentante può agire nell’interesse o a scapito di chi rappresenta. Il rappresentante può avanzare richieste alla controparte, ma può anche fare concessioni a nome del popolo che rappresenta. Quando lOLP presentò delle chiare rivendicazioni e richieste Israele le respinse, ma quando riconobbe Israele e fece concessioni a nome dei palestinesi Israele non ebbe problemi nel trattare lOLP come portavoce dei palestinesi.

Di fatto lOLP ha sfruttato il capitale simbolico costituito dall’essere il rappresentante del popolo palestinese per emergere sulla scena mondiale e dichiarare lassenza del popolo cancellandone la narrazione. In effetti, questo fu lultimo atto significativo dellOLP nellarena politica. Israele voleva che il riconoscimento dellOLP fungesse da dichiarazione de facto del suo suicidio. Da allora lOLP ha cessato di essere un attore politico importante, e tutto ciò che ne rimane sul piano funzionale è lAutorità Nazionale Palestinese, che funge da subappaltatore di Israele per le violente repressioni in Cisgiordania.

Due anni dopo la firma degli Accordi lOLP si impegnò ad annullare le sezioni della Carta Nazionale Palestinese che non riconoscevano Israele. All’epoca mi sembrò una mossa sconsiderata; pubblicai un articolo su Haaretz dal titolo Non c’è compromesso senza riconoscimento”. Lannullamento delle dichiarazioni della Carta avvenne senza alcuna azione in cambio da parte di Israele, che continuò a rifiutare di impegnarsi a riconoscere uno Stato palestinese nei territori occupati o il diritto allautodeterminazione del popolo palestinese e altri diritti nazionali nella sua patria.

Questi fattori storici hanno contribuito a creare la situazione attuale, in cui Israele è un dato di fattoinamovibile e lambito di territorio sul tavolo delle trattative è stato ristretto dall’intera regione costituita da Israele e Palestina alla sola Cisgiordania, ora lunico territorio rimasto a malapena materia di discussione. Se la disputa riguardasse la Palestina nel suo insieme allora la divisione dellintero territorio dal fiume al mare in due entità sarebbe la soluzione ottimale. Ma se lintero problema si riduce ai territori occupati nel 1967 allora una soluzione ragionevole porterebbe alla divisione del territorio conteso tra coloni e palestinesi.

Questo restringimento del territorio oggetto del dibattito altera drasticamente il campo di gioco: se i palestinesi insisteranno nel volere il controllo della totalità dei territori occupati saranno percepiti come radicali ostinati che rivendicano tutto per sè stessi. Il fatto che i palestinesi abbiano già rinunciato al diritto su più di due terzi della loro patria prima ancora di sedersi al tavolo delle trattative non viene mai preso in considerazione. Questa è stata una trappola tesa ai palestinesi e fino ad oggi non sono riusciti a liberarsene. Sfortunatamente non è lunica trappola di questo tipo.

Autoproclamati terroristi”

Recentemente un crescente coro di voci critiche ha chiesto che lOLP ritiri il riconoscimento di Israele, dal momento che Israele non ha rispettato le condizioni degli Accordi di Oslo. Ma questa è unaffermazione pericolosa. Il riconoscimento, per sua stessa natura, è una tantum e non può essere revocato. Inoltre, il riconoscimento non è un bene tangibile e materiale: la sua importanza risiede nel suo simbolismo e, in assenza di tale simbolismo, è privo di significato.

Se i palestinesi volessero ritirare il loro riconoscimento non potrebbero mai più barattarlo con il ritiro di Israele dai territori sotto suo controllo poiché gli israeliani non crederanno mai che quel riconoscimento non verrebbe nuovamente revocato.

Lo scambio di lettere tra Arafat e Rabin conteneva anche una clausola in cui l’OLP si impegnava non solo a condannare il terrorismo ma anche a rinunciarvi. Per cui la stessa OLP accettò di chiamare la sua lotta fino a quel momento terrorismo”. Ciò ha posto diversi problemi, ma voglio soffermarmi su uno in particolare. Non ho intenzione di avviare un dibattito sulla definizione di terrorismo. Piuttosto il problema è riferito al futuro: cosa accadrà se Israele non accetterà il ritiro dai territori occupati o una soluzione a due Stati? Quali mezzi saranno a disposizione dei palestinesi nella loro lotta contro loccupazione?

La difficoltà di poter dare una risposta a queste domande divenne dolorosamente evidente alla fine degli anni 90. Israele bloccò il processo di Oslo e continuò ad espandere il progetto di colonizzazione. Non era affatto chiaro dove avrebbe portato il processo di Oslo e quale sarebbe stata in definitiva la soluzione permanente. Israele controllava la terra, laria, i confini, lacqua e tutte le risorse, e si limitò a cedere allAutorità Nazionale Palestinese la gestione di parti della popolazione sotto occupazione; in altre parole, Israele ha mantenuto il controllo effettivo, ma ha scaricato tutta la responsabilità sulle spalle dellAutorità Nazionale Palestinese. Inoltre, laccordo non conteneva una clausola esplicita che vietasse la continuazione della costruzione di insediamenti coloniali nei territori occupati.

In questa situazione i palestinesi non potevano né progredire verso [la costituzione di] uno Stato indipendente né ritornare alla logica della rivoluzione e della lotta armata. Non solo non hanno più il potere e lorganizzazione per farlo, ma sono anche formalmente intrappolati dagli Accordi di Oslo. Il mondo, soprattutto Israele, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, ha riconosciuto lOLP sulla base della rinuncia al terrorismo e dellaccettazione di alcune regole del gioco. Pertanto, un ritorno alla lotta armata sarebbe inevitabilmente visto come un ritorno al terrorismo; solo che questa volta, sarebbero proprio i palestinesi ad aver dato un nome alla loro lotta avendola essi stessi chiamata terrorismo. Quindi anche il resto del mondo è abilitato a chiamarla terrorismo.

Il significato pubblico diterrorismosi è trasformato tra la Prima e la Seconda Intifada. La Prima Intifada ebbe inizio nel corso di una generazione dallinizio delloccupazione quindi il mondo vide in essa e nella più ampia lotta palestinese una risposta legittima al dominio militare. La Seconda Intifada, che giunse come risposta alla massiccia violenza israeliana in seguito alla visita del primo ministro israeliano Ariel Sharon allHaram al-Sharif/Monte del Tempio nel settembre 2000, avvenne sullo sfondo dei colloqui di pace di Oslo. Per la maggior parte, gli osservatori internazionali considerarono ogni pietra lanciata durante la Prima Intifada come lanciata contro loccupazione e a favore della liberazione nazionale, ma il lancio di pietre avvenuto dopo Oslo è stato visto come [atto di] terrorismo”.

Il contesto era cambiato, e con esso il significato della resistenza palestinese. Il risultato è stato che i colloqui di pace con Israele non sono riusciti a raggiungere alcun obiettivo, ma anche il ritorno alla lotta armata è problematico. I palestinesi sono in trappola.

Non ho intenzione di proporre un programma per il futuro, ma penso che qualsiasi proposito di tornare indietro, ricostituire lOLP e tornare ai principi su cui lorganizzazione è stata fondata 60 anni fa sarebbe ormai destinato ad un fallimento. Da qui possiamo solo andare avanti.

LOLP ha fatto il suo lavoro; ha impresso la parola Palestinanella coscienza del mondo e ha dimostrato che esiste qualcosa come il popolo palestinese. La generazione di oggi ha un ruolo diverso in una realtà diversa: redigere un nuovo programma con la consapevolezza che tra il mare e il fiume ci sono 7 milioni di ebrei e 7 milioni di palestinesi, e che gli israeliani controllano i palestinesi e mantengono un regime di supremazia ebraica che ogni giorno espelle questi ultimi dalla loro terra. Questo è il nostro punto di partenza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ottobre 2000 vs maggio 2021: come i palestinesi hanno sfidato la frammentazione

Zena Al Tahhan

4 ottobre 2021 – Al Jazeera

Analisti e attivisti affermano che le proteste del maggio 2021 hanno segnato un punto di svolta nella mobilitazione e nell’unità dei palestinesi.

Gerusalemme Est occupata – Durante i primi otto giorni dell’ottobre 2000 le forze israeliane uccisero a colpi di arma da fuoco 13 giovani palestinesi disarmati nelle proteste di massa all’interno di Israele (denominati dai palestinesi territori occupati nel 1948).

Definite “ottobre habbet” in arabo – che significa l’esplosione popolare di ottobre – le proteste e gli scontri avvennero all’inizio della seconda Intifada, o insurrezione, dopo l’uccisione e il ferimento di palestinesi da parte dell’esercito israeliano nei territori occupati nel 1967.

Interrompendo decenni di sistematica frammentazione fisica, politica e sociale del popolo palestinese da parte di Israele, le proteste di ottobre e l’Intifada segnarono un momento di unità popolare tra i palestinesi nei territori occupati del 1948 e del 1967

In particolare dopo gli accordi di Oslo del 1993 – che miravano, senza successo, a creare uno stato palestinese nei territori del 1967 – i palestinesi all’interno di Israele

erano stati lasciati fuori dall’equazione del progetto politico palestinese e subirono tentativi da parte del governo israeliano di pacificarli attraverso finanziamenti e stringenti controlli di polizieschi, mantenendo la loro emarginazione politica, sociale ed economica.

Sebbene dal 2000 siano scoppiate diverse grandi rivolte popolari palestinesi – anche tra i palestinesi all’interno di Israele – secondo analisti e attivisti le proteste e gli scontri che hanno spazzato il paese da nord a sud nel maggio 2021, definiti “habbet Ayyar” (esplosione di maggio), hanno segnato un evidente punto di svolta nel rapporto tra palestinesi e Stato, e nella mobilitazione popolare palestinese.

Ameer Makhoul, analista politico e scrittore con sede ad Haifa, dice ad Al Jazeera che, mentre le proteste del 2000 avvennero “per inviare un messaggio che [anche noi in Israele ndt.] siamo parte del popolo palestinese” e furono caratterizzate come “sostegno alla lotta del nostro popolo” nei territori occupati nel 1967, le proteste del maggio 2021 “hanno inviato il messaggio che siamo un’unica causa – che siamo parti interessate direttamente” e aggiunge che “non sono state proteste di solidarietà”, ma che i palestinesi in Israele ” sono stati in prima linea”.

Molteplici fronti

A fronte della serie di eventi rapidamente succedutisi tra fine aprile e maggio – principalmente le proteste contro i piani israeliani di pulizia etnica del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, i giorni dei violenti raid israeliani con centinaia di feriti nel complesso della moschea di Al-Aqsa durante il Ramadan e alla campagna di bombardamenti sulla Striscia di Gaza – la quarta in 13 anni – i palestinesi all’interno di Israele si sono mobilitati, obbligando lo Stato ad affrontare molteplici fronti aperti.

Il 10 maggio in almeno 20 località, compresi i villaggi più piccoli e meno conosciuti, palestinesi nelle aree del 1948 migliaia di persone sono scese in piazza con proteste e scontri descritti come “senza precedenti”.

Gli abitanti hanno bloccato strade, lanciato bottiglie molotov e pietre contro le forze israeliane, dato fuoco alle auto della polizia, rotto le telecamere di sorveglianza israeliane e rimosso le bandiere israeliane dai lampioni per sostituirle con quelle palestinesi.

Nelle grandi città come Haifa, Lydd e Ramle – città che sono state sottoposte a pulizia etnica nel 1948 e che oggi ospitano una minoranza palestinese – la questione è cresciuta di intensità quando israeliani armati, molti dei quali provenienti dalla Cisgiordania occupata, si sono trasformati in bande di strada che hanno attaccato case palestinesi e perpetrato linciaggi, che Makhoul descrive come “una minaccia esistenziale per il popolo”

Il 12 maggio per la prima volta dal 1966 [anno in cui finì l’amministrazione militare nei territori abitati da palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] Israele ha dichiarato lo stato di emergenza a Lydd e ha imposto il coprifuoco alla città mentre iniziava la guerra a Gaza. Ha anche fatto affluire rinforzi della guardia di confine, un corpo dell’esercito che di solito opera nella Cisgiordania occupata.

Secondo Mossawa, un’organizzazione per i diritti dei palestinesi, al 10 giugno la polizia aveva arrestato più di 2.150 palestinesi, oltre il 90% dei quali erano palestinesi residenti in Israele o a Gerusalemme. Le organizzazioni per i diritti umani hanno anche documentato l’uso eccessivo della forza, inclusi proiettili veri, proiettili di metallo ricoperti di gomma, lacrimogeni e granate stordenti. Si è anche rilevato che la polizia ha torturato i detenuti palestinesi in custodia e ha chiuso un occhio sugli attacchi di bande ebraiche contro abitanti palestinesi, collaborando in alcuni casi con loro.

Durante gli eventi Moussa Hassouna, un abitante palestinese di Lydd di 32 anni, è stato ucciso da un colono e il 17enne Mohammad Kiwan è stato ucciso in seguito dalla polizia a Umm al-Fahm. In migliaia si sono recati ai loro funerali.

Nel 2000 Israele ha trattato i “palestinesi in Israele” – come ci chiama – come se le questioni che si verificano in Cisgiordania– o in altre parole, alle questioni del popolo palestinese -non li riguardassero”, ha detto Makhoul. “Soprattutto dopo Oslo, ha tentato di separare e frammentare il popolo palestinese come se i palestinesi nei territori del ’48 fossero estranei alla causa Palestinese.

“Quello che è successo quest’anno è che Israele, per come ci ha aggrediti, ci ha trattati come se facessimo parte del popolo palestinese [nei territori occupati nel 1967, ndt.]. Continua “Nel 2000 ha cercato più di contenerci. Ora ha cercato di dissuaderci con la repressione… ha considerato gli ultimi scontri un fronte di guerra”.

Mohamad Kadan, uno scrittore palestinese che vive ad Haifa, è d’accordo. “Israele è rimasto scioccato dagli shabab (giovani) che sono scesi in strada, il che è dimostrato dal modo in cui la polizia ha interagito con loro”,dice ad Al Jazeera.

Loro (la polizia) erano stremati – era evidente. In alcuni casi, hanno finito le manette di metallo, quindi hanno portato quelle di plastica”, afferma Kadan, aggiungendo che “l’atteggiamento di Israele nei loro confronti è terrorizzare e incutere paura”.

Guidate dal basso

Ciò che distingue le proteste di maggio da quelle dell’ottobre 2000 è anche che sono state guidate dal basso, sia durante le proteste iniziali che nell’organizzazione dei movimenti giovanili che è seguita.

La decisione popolare di agire nel 2000 venne dai leader politici – dall’Higher Follow Up Committee [un’organizzazione che opera come coordinamento e rappresentanza nazionale dei palestinesi cittadini di Israele, ntd.] – e non dal basso”, afferma Makhoul.

Ora, le decisioni sono state prese dalla gente in tutti i sensi. Dai movimenti giovanili, dai movimenti popolari, dai comitati popolari di ogni città”, sostiene.

Kadan descrive coloro che inizialmente sono scesi in strada come provenienti da “situazioni di estrema marginalità”. Hanno gridato “dalle periferie più povere – le persone che qui non vedono un futuro”, dice. “Il potere e l’impatto di questi shabab sono stati molto chiari: è la voce che si è sentita e sempre lo dovrebbe essere”.

Mohammad Taher Jabareen, un 29enne abitante di Umm al-Fahm e uno dei fondatori del movimento (Hirak) di Umm al-Fahm, dice ad Al Jazeera che i giovani scesi in strada “non avevano nulla da perdere”.

Avevano bisogno di queste proteste, che hanno permesso loro di rompere la barriera della paura e prendere posizione per dire ‘quando è troppo è troppo’, per uscire dall’atmosfera di problemi familiari, politiche sistematiche contro di loro – tra cui criminalità organizzata, demolizioni di case, confisca di terre, restrizioni finanziarie, multe – tra le altre questioni”, afferma Jabareen.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno da tempo documentato la lotta dei palestinesi in Israele, che sono 1,8 milioni. A parte gli sforzi di Israele nel corso degli anni per sopprimere la loro identità palestinese, la maggioranza vive in città densamente popolate e con scarso accesso alla terra e alle risorse – la maggior parte delle quali sono state espropriate durante e dopo il 1948 a beneficio dei coloni ebrei.

Dalla Seconda Intifada un nuovo fenomeno di criminalità organizzata – di cui gli abitanti affermano essere responsabile Israele– è diventato il problema numero uno per i palestinesi all’interno di Israele, ha causato centinaia di vittime e ha portato a grandi proteste.

Tuttavia gli abitanti sostengono che gli episodi che hanno spinto la gente a scendere in piazza sono stati gli attacchi israeliani a Sheikh Jarrah e al complesso della moschea di Al-Aqsa.

“La criminalità organizzata è uno dei mezzi attraverso i quali Israele allontana i palestinesi nelle aree del ’48 dalla scena politica”, sostiene Jabareen. “È come dire: ‘Tenetevi occupati tra voi con i vostri problemi e saremo liberi di agire come vogliamo con la moschea di Al-Aqsa e di imporre divisioni spaziali e temprali’”.

Il 7 maggio, la notte più santa del Ramadan, su un’autostrada la polizia israeliana ha tentato di impedire ad alcuni grandi autobus che trasportavano palestinesi dalle aree del 1948 di raggiungere la moschea di Al-Aqsa. Quando i passeggeri sono scesi e hanno iniziato a farsi strada a piedi, i palestinesi di Gerusalemme sono andati ad accompagnarli con le loro auto in città, in quella che è stata salutata come una vittoria e un momento di coesione.

Kadan descrive la Città Vecchia e il complesso della moschea di Al-Aqsa come “l’ultima fortezza del movimento nazionale palestinese”.

Sheikh Jarrah rappresenta il passato – lo sradicamento e la Nakba –, mentre Al-Aqsa e la Città Vecchia rappresentano ciò che è ancora possibile – che c’è ancora speranza per la liberazione della Palestina”, dice Kadan.

Makhoul afferma che il modo in cui “Al-Aqsa e Sheikh Jarrah hanno mobilitato Gaza, che poi ha mobilitato Gerusalemme” ha mostrato che si tratta di questioni sulle quali esiste un “pieno consenso popolare”.

“Ogni palestinese sentiva di avere una responsabilità individuale e personale nei confronti di Sheikh Jarrah e Al-Aqsa”, un sentimento che secondo Makhoul deriva anche dalla “debolezza della leadership politica palestinese”.

Mobilitazione e movimenti giovanili

Secondo Kadan, molti movimenti giovanili, che in seguito hanno consentito un’unità sostanziale tra i palestinesi nelle aree del ’48 e del ’67, sono emersi dopo i primi scontri con la polizia

A seguito dell’uso eccessivo della forza da parte della sicurezza israeliana e “una volta che la gioventù (shabab) si è stancata degli scontri, sono nate forme di lotta diverse”, afferma Kadan, spiegando che “in ogni città sono cresciute cellule per organizzare movimenti” composte da giovani che sono attivi nelle università, nei partiti politici e in altri contesti.

“Tutti hanno iniziato a organizzare discussioni su ciò che è accaduto nei giorni precedenti di intensi scontri e su cosa possiamo fare per andare avanti”, continua Kadan, osservando che oltre a movimenti già organizzati come Hirak [cioè movimento ntd.] Haifa e Hirak Umm al-Fahm, hanno iniziato a organizzarsi nuovi movimenti giovanili anche nelle città di Shefa ‘Amr, Kabul, Baqa al-Gharbiya, Kufr Kanna.

Dalle mobilitazioni di maggio sono nati anche i comitati di volontari per rispondere alla crisi locale, che comprendono un comitato di avvocati e un comitato di supporto psicologico per aiutare i detenuti nelle aree di Gerusalemme e del ’48.

Questa generazione non ha solo elaborato progetti, ma ha iniziato a costruire alternative. Hanno visto che i partiti politici e le istituzioni – quelli tradizionali come The Higher Follow Up Committee – non avevano più un ruolo. Non sapevano cosa fare”, dice Kadan.

Il 17 maggio è stato proclamato uno storico sciopero generale organizzato dai giovani nelle aree del ’48 e del ’67 con lo slogan “dal fiume al mare”, che Kadan descrive come un “punto di svolta” per la mobilitazione dei giovani.

C’era un’atmosfera in cui ogni città e villaggio si impegnava a prepararsi per lo sciopero – i giovani hanno iniziato a incontrarsi, a parlare e ad organizzare attività per il giorno dello sciopero – girando per le strade per verificare che lo sciopero fosse in atto, distribuire volantini alle persone, organizzare conferenze, interventi, seminari”, ha affermato Kadan.

Tra le altre iniziative, tra cui una maratona a Gerusalemme, i movimenti giovanili nelle aree del ’48 e del ’67 hanno organizzato contemporaneamente una “Settimana dell’economia palestinese” per appoggiare l’economia palestinese e boicottare i prodotti israeliani.

Makhoul afferma che “la forza di questa sfida sta aumentando di giorno in giorno”, guidata dal ruolo dei giovani e dei social media nell’esplosione popolare del maggio 2021.

“I social media sono la nuova geografia”, dice Makhoul. “Oggi il popolo palestinese può agire e considerarsi come un unico popolo, anche se non è tutto in patria o se non può incontrarsi in patria.

Ciò che ci distingue oggi è che ci siamo resi conto che il nostro campo di gioco è prima di tutto e principalmente il mondo e che Israele non detta le regole del gioco su come protestiamo, lottiamo per la nostra causa e la nostra gente e lavoriamo per raggiungere gli obiettivi del nostro popolo”, continua.

Makhoul afferma di ritenere che, anche se Israele “cerca di distruggere la cultura della resistenza nelle aree del ’48”, “avrà un problema maggiore con le nuove generazioni, che non prestano attenzione a ciò che dice Israele e non ne sono intimidite”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




“Aprire Gaza immediatamente,” dice il gestore del valico fra Israele e Gaza

Meron Rapoport

21 giugno 2021 – +972 Magazine

Il responsabile del valico di Erez dimostra l’inconsistenza del mito che le restrizioni su Gaza tutelino la sicurezza ed è convinto che Israele dovrebbe trattare direttamente con Hamas.

Aprire Gaza “è chiaramente nell’interesse di Israele,” ha affermato Shlomo Tzaban, gestore del valico di Erez fra Israele e Gaza, durante un discorso tenuto agli studenti dell’Università Ben-Gurion la settimana scorsa.

“Gaza deve essere riaperta immediatamente, senza contropartite su prigionieri, persone scomparse e Hamas,” ha detto. “Se apriamo [Gaza] oggi, non ci saranno attacchi suicidi e Hamas verrà fortemente indebolito”.

Tzaban, che gestisce il punto di ingresso e uscita dei civili fra Israele e Gaza da quando esso è stato privatizzato nel 2006, è stato invitato ad intervenire ad una lezione di storia su Gaza curata da Yonatan Mendel e Dotan Halevi. Nel discorso registrato recensito da Local Call [sito in ebraico di +972, ndtr] Tzaban, che si è presentato come “il gestore dell’intera Gaza,” ha confutato la posizione di molti politici israeliani sulla Striscia e ha dimostrato l’inconsistenza dei miti sulla sicurezza che vengono comunemente utilizzati per giustificare l’assedio imposto da Israele a partire dal 2007. Il valico meridionale di Rafah che Gaza condivide con l’Egitto è l’unico valico di cui Israele non abbia il controllo.

Nel corso della lezione Tzaban ha insistito sulla necessità dello sviluppo e della prosperità di Gaza – riecheggiando la posizione di molti ex ufficiali militari israeliani che hanno criticato la politica di mantenimento del blocco. “Se le cose andranno male a Gaza, andranno male in Israele,” ha sostenuto.

Nel suo discorso Tzaban ha illustrato la storia della Striscia dal 1948 “così come viene raccontata dai gazawi,” ha detto. I palestinesi di Gaza ricordano il dominio dell’Egitto dal 1948 al 1967 “come un olocausto,” mentre gli anni fra l’occupazione israeliana di Gaza dal 1967 fino all’inizio della prima Intifada del 1987 sono considerati un periodo prospero. “Essi [i palestinesi] ricordano questi anni con le lacrime agli occhi,” ha sostenuto.

In seguito alla prima Intifada, però, quando Israele impose restrizioni di movimento ai palestinesi di Gaza, si è presa una “brutta china” che ha fatto diventare la Striscia un territorio da “quinto mondo”, ha spiegato Tzaban.

Dallo scorso maggio, dall’ultima operazione militare israeliana, nel corso della quale Israele ha ucciso più di 250 persone a Gaza e Hamas ne ha uccise 13 in Israele, la situazione nella Striscia si è estremamente deteriorata, ha affermato Tzaban. Prima degli undici giorni di guerra, circa 700 camion consegnavano quotidianamente merci a Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom, ha detto. Tuttavia, secondo dati raccolti nei territori occupati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) [creato nel 1991 per dare un efficace pronto intervento durante le crisi umanitarie e coordinare le agenzie ONU durante le catastrofi, ndtr], nel 2019 erano circa 300 i camion che entravano a Gaza, e Israele continua a limitare fortemente, arrivando spesso a proibirlo del tutto, l’ingresso di merci essenziali per l’industria, il settore edilizio e altre esigenze della popolazione civile. E tuttavia, alla data della conferenza, soltanto 130 camion al giorno vengono autorizzati ad entrare, ha affermato Tzaban, dato in linea con quello di 4.300 carichi rilevato dall’OCHA lo scorso mese.

“Gaza è un problema di Israele”

Ad una domanda sulla “politica di separazione” di Israele fra Gaza e la Cisgiordania, Tzaban ha risposto che, mentre giova alla Cisgiordania, questa politica “è pessima per Gaza.” L’apertura di Gaza, ha aggiunto, sarebbe molto vantaggiosa per Israele. “E’ nell’interesse di Israele che 200.000 gazawi entrino oggi [in Israele] per costruire case e dare sostegno economico ai 2,2 milioni di palestinesi [che vivono nella Striscia] che non hanno nulla a che vedere col conflitto,” ha affermato.

Tzaban si è mostrato assolutamente convinto che l’apertura di Gaza non comporti rischi per la sicurezza: “Dal 2006 ad oggi ho autorizzato nove milioni di palestinesi ad entrare da Gaza in Israele. Ci sono state zero vittime e zero terroristi,” ha dichiarato. “Se si aprono i valichi, non ci sarà neppure un attacco suicida.”

Lo Shin Bet, l’agenzia israeliana di sicurezza interna, “sa distinguere fra buoni e cattivi,” ha detto Tzaban, e Israele “dispone delle migliori tecnologie al mondo” per controllare chi entra in Israele. “Dobbiamo fargli [ai palestinesi] provare ciò che hanno conosciuto fra il 1967 e il 1987, i benefici dell’economia, dell’occupazione, del livello di vita, e restituirgli la dignità,” ha aggiunto.

Tzaban ha pure espresso fermo sostegno per un coordinamento diretto con Hamas. “Non lo dico da oggi: dobbiamo portare Hamas al valico di Erez, dobbiamo portare qui i loro funzionari,” ha affermato.

“Sapevate che prima del 1987 il leader [e cofondatore] di Hamas Ahmad Yassin ed altri, visitavano liberamente la Kirya? – ha osservato Tzaban, facendo riferimento al complesso militare a Tel Aviv. “Dovete rendervi conto: gli accordi si fanno coi nemici, non c’è bisogno di accordi con gli amici. Sono favorevole all’uso di mediatori, ma bisogna anche comunicare direttamente [con Hamas], come abbiamo fatto per gli Accordi di Oslo [firmati nel 1993 fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr].”

A proposito di Hamas, se Tzaban ha dichiarato da un lato che “le organizzazioni terroristiche vanno distrutte e i capi terroristici spazzati via”, ha contestualmente sostenuto che l’apertura dei valichi fra Israele e Gaza è nell’interesse comune. “Hamas non impedirà agli abitanti di Gaza di entrare in Israele,” ha ipotizzato.

“Fra cinque anni ci saranno tre milioni di palestinesi residenti a Gaza nello spazio di 365 chilometri quadrati [141 miglia quadrate].” ha dichiarato Tzaban. “Gaza è un problema israeliano, non palestinese.”

Ha quindi aggiunto: “Se non troviamo una soluzione, grazie ad un immenso coraggio, e creatività, nonché l’impegno di tutti i Paesi del mondo – USA, Unione Europea, il Quartetto [gruppo creato nel 2002 per favorire una soluzione alla questione israelo-palestinese che comprende ONU, USA, UE e Russia, ndtr] ed altri – continueremo a passare da uno scontro all’altro, da un conflitto all’altro, da una guerra all’altra, che coinvolgeranno anche i nostri nipoti e pronipoti,” ha detto Tzaban. “[Non farlo] non aiuterà – sinistra, destra, falco, colomba. Dobbiamo attivarci qui, aprire le porte di Gaza e nell’arco di un decennio non ci sarà più un’organizzazione terroristica.”

I docenti del corso Mendel and Halevi hanno dichiarato di non avere diffuso loro il discorso di Tzaban alla stampa. Hanno spiegato che questo è il secondo anno che propongono il corso sulla storia di Gaza, in cui hanno invitato oltre venti esperti su Gaza. Gli studenti hanno ascoltato studiosi israeliani, palestinesi e internazionali; esperti sul campo; membri dell’ex colonia ebraica di Gush Katif, evacuata da Israele nel 2005; giornalisti; artisti; rappresentanti dell’ONU e persino funzionari governativi. “Neppure uno dei relatori ha ritenuto sostenibile l’assedio di Gaza,” si sostiene nella dichiarazione.

Alla richiesta di commentare le osservazioni di Tzabar, un portavoce del Ministero della Difesa israeliano ha dichiarato che “Tzaban ha esposto le proprie opinioni personali, che non rappresentano le posizioni del Ministero della Difesa.”

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




I medici palestinesi lottano in prima linea per salvare vite

Redazione di Al Jazeera

15 giugno 2021 – Al Jazeera

Forze israeliane e coloni prendono di mira i manifestanti palestinesi e i medici che cercano di salvarli.

Niilin, Cisgiordania occupata. Bassem Sadaqa indica il foro di una pallottola nella portiera dell’autista dell’ambulanza che lui guida, prova tangibile di quello che, secondo lui, è un evento normale per i medici palestinesi che sono “regolarmente presi di mira” dalle forze israeliane.

Lui ha cinque figli, vive a Niilin e da vent’anni fa il paramedico per la Mezzaluna Rossa palestinese (PRCS).

In un primo momento ho pensato che l’ambulanza fosse stata colpita da pietre, ma poi ho visto il foro. Lo sparo non è stato uno sbaglio, i soldati israeliani hanno preso di mira l’ambulanza mentre io ero proprio lì vicino. Inoltre non è stata la prima volta che le ambulanze che ho guidato sono state prese di mira.”

Il giorno in cui è successo Sadaqa era in prima linea con i suoi colleghi medici palestinesi che lottano per salvare vite e trasportare i manifestanti feriti verso gli ospedali che distano mezz’ora d’auto.

Gli abitanti dei villaggi palestinesi stavano protestando contro l’insediamento illegale dell’ennesimo avamposto sulla terra del loro villaggio quando sono stati fronteggiati da coloni israeliani in uno scontro che ha causato violenza e molti feriti.

Niilin è un villaggio agricolo con oltre 6.000 abitanti che si guadagnano da vivere principalmente coltivando la terra, situata 17 km a occidente di Ramallah, la città principale della Cisgiordania occupata.

Qui la gente lotta per non perdere la terra rimasta al villaggio dopo gli espropri conseguenti a insediamenti e avamposti illegali israeliani che avanzano sempre di più e che ora li hanno circondati con le colonie illegali israeliane di Nili e Na’ale a nordest e Modi’in Illit a sud.

Negli accordi di Oslo del 1993, stipulati fra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il 93% della superficie del villaggio, 15.000 dunam (1500 ettari), era stato designato come Area C, corrispondente al 60% della Cisgiordania, sotto il totale controllo di Israele.

Israele limita le costruzioni dei palestinesi nella maggior parte dell’Area C mentre riserva l’area all’espansione delle colonie, illegali secondo il diritto internazionale.

Aumento dell’uso di munizioni vere’

Recentemente un venerdì, la giornata in cui in genere si svolgono le proteste in Cisgiordania, Al Jazeera ha accompagnato un’ambulanza guidata dai paramedici Ziad Abu Latifa, 50 anni, del campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme) e Said Suleiman, 40 anni, del villaggio di al-Midya, vicino a Niilin.

Un colono di un avamposto nelle vicinanze aveva spostato la sua mandria a pascolare su terra palestinese, innescando due giorni di proteste durante i quali gruppi di coloni hanno invaso il villaggio, incendiato i campi e danneggiato veicoli appartenenti a palestinesi che a centinaia si sono riuniti nel tentativo di respingerli.

Uno dei feriti è il sindaco di Niilin, Emad Khawaja, ferito a una gamba da truppe israeliane.

Il primo giorno degli scontri sono state ferite undici persone con munizioni vere, quattro il secondo giorno. Recentemente abbiamo notato un incremento nell’uso di questo tipo di munizioni contro i manifestanti,” ha detto Khawaja ad Al Jazeera.

La pallottola resterà nella gamba per tutta la mia vita perché tentare di estrarla causerebbe un danno maggiore.”

Mentre il numero dei feriti sale, proprio quest’ambulanza correva a rotta di collo lungo le strette strade tutte a curve, su per le colline e giù nelle valli, facendo due viaggi, avanti e indietro, da Niilin all’ospedale di Ramallah.

Abu Latifa, con otto figli, è paramedico da cinque anni e un volontario della PRCS da 17, dice ad Al Jazeera che, sebbene il suo lavoro sia pericoloso e stressante, pensa di star aiutando come meglio può dopo essere stato testimone in prima persona delle ferite inflitte ai palestinesi nel corso degli anni e della carenza di cure mediche adeguate a loro disposizione.

Quando ho partecipato alle proteste durante la prima Intifada con ossa fratturate sono stato abbandonato sul ciglio della strada da soldati israeliani prima che un automobilista di passaggio mi portasse in ospedale, dove sono rimasto privo di sensi per due giorni,” ha detto Abu Latifa.

Durante la prima Intifada, dal 1987 al 1993, Yitzhak Rabin, il defunto primo ministro israeliano aveva ordinato ai soldati israeliani di spezzare braccia e gambe dei palestinesi per impedire loro di lanciare pietre durante le proteste che si erano allargate nella Cisgiordania e a Gaza, una decisione che aveva provocato lo sdegno internazionale.

Quella è stata la motivazione che mi ha spinto a studiare per diventare paramedico e poter prestare i primi soccorsi alle persone e trasportarle in ospedale,” spiega Abu Latifa.

Un soldato mi ha colpito alla testa con il calcio del fucile’

Sadaqa dice che mentre presta servizio sul campo cerca di stare calmo, di ignorare lo stress e di concentrarsi sulla cura dei suoi pazienti per quanto possibile date le circostanze.

Uno degli altri problemi che affrontiamo è quello dei soldati che rifiutano di permettere alle ambulanze di avvicinarsi a coloro che sono gravemente feriti o che le fermano mentre cercano di trasportare i feriti in ospedale, talvolta portando via i nostri pazienti dalle ambulanze,” afferma.

Non è solo ad aver vissuto questo tipo di situazioni.

Una delle peggiori esperienze di Abu Latifa è stata quando stava cercando di raggiungere un manifestante palestinese nel villaggio di Nabi Saleh, vicino a Ramallah, a cui una pallottola era uscita dal collo dopo aver attraversato il fianco.

Il giovane era stato ferito da lontano mentre i soldati israeliani stavano reprimendo una protesta sul terreno del villaggio, ma le truppe hanno impedito ai paramedici di avvicinarsi al ragazzo gravemente ferito che in seguito è morto.

È particolarmente difficile viaggiare di notte per trasportare i pazienti quando non c’è nessuno in giro e non ci sono giornalisti sul posto a testimoniare quello che sta succedendo,” riferisce Abu Latifa.

Recentemente sono andato al villaggio Kubar, vicino a Ramallah, per portare via un giovane che era stato ferito a una gamba dai soldati. Ma mentre cercavo di caricarlo su un’ambulanza, un soldato mi ha colpito in testa con il calcio del suo M-16 (fucile d’assalto).

Poi ho telefonato in centrale e dopo un’ora di negoziati con l’ufficiale di collegamento israeliano ci è stato permesso di evacuare il paziente.”

Mentre il sole tramonta, il turno di Abu Latifa e Suleiman finisce, l’ambulanza ritorna a Ramallah con i paramedici esausti, soddisfatti di aver fatto del loro meglio per salvare delle vite.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’ingegnosità di Gaza arriva su Marte

Ahmad Abu Shammalh, Gaza

11 aprile 2021 – wearenotnumbers

Il 18 febbraio 2021 ho ricevuto con gioia la conferma che il mio nome era atterrato su Marte. Era stato inciso col laser su un chip delle dimensioni di un’unghia inserito nel rover chiamato Perseverance, che aveva completato con successo il suo viaggio verso il Pianeta Rosso. (Due anni prima, la NASA aveva lanciato una campagna “Manda il tuo nome su Marte”, e io insieme ad altri da tutto il mondo avevamo fatto domanda.)

Quel giorno ho continuato a leggere avidamente tutto ciò che potevo trovare in Internet su Perseverance e su come si stava comportando nel nuovo ambiente. Oltre alla mia gioia per questo risultato scientifico è arrivata un’altra incredibile sorpresa. La mia pagina Facebook è stata inondata da immagini di un individuo in particolare, un palestinese di Beit Hanoun, una città di Gaza al confine settentrionale, il responsabile dell’elettronica e dell’energia per l’elicottero che Perseverence ha trasportato su Marte. Ho controllato altre piattaforme di social media e ci ho trovato lo stesso individuo anche lì. Loay Elbasyouni era molto popolare in Palestina!

Onestamente ho problemi a fidarmi dei media, quindi ho voluto verificare di persona. Ho cercato il suo nome e ho trovato il suo account Instagram. Così gli ho mandato un messaggio e lui mi ha risposto. Mi è sembrato molto modesto e ha incoraggiato il mio interesse per l’industria spaziale. Ecco la sua storia.

Imparare da solo

Loay Elbasyouni è nato in Germania da due palestinesi di Beit Hanoun. Suo padre era uno studente di medicina e nessuno dei suoi genitori aveva la cittadinanza tedesca. Quando Loay aveva quasi sei anni, la sua famiglia tornò a Gaza per una visita, ma Israele requisì i documenti del padre e la famiglia rimase bloccata nella Striscia di Gaza.

Loay ha dovuto adattarsi a quel nuovo ambiente, imparare a scappare dalle jeep militari israeliane e sperimentare rumori e scene di occupazione che i bambini della sua età in altre parti del globo non devono sopportare.

Quando era in quarta elementare scoppiò la Prima Intifada e la sua scuola dell’UNWRA [agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi, ndtr.] chiuse, così iniziò a studiare in casa. Quando suo padre tornava a casa dai lunghi turni come chirurgo, Loay cercava di porgli quante più domande possibile. Ma soprattutto doveva imparare da solo. Si innamorò dell’elettronica e imparò costruendo circuiti e riparando apparecchi rotti.

Perseverance: la perseveranza fa di Loay un ingegnere elettronico

Quando Loay si diplomò al tawjihi (liceo), suo padre voleva che diventasse chirurgo come lui, ma il figlio rispose: “Non voglio vivere negli ospedali”. A quel tempo, l’accordo di Oslo aveva reso più facile viaggiare di quanto sia adesso, quindi nel 1998 andò nella Terra dei Sogni per conseguire una laurea in ingegneria elettronica presso l’Università del Kentucky.

Ma nella vita reale gli Stati Uniti non erano così da sogno; Loay dovette abbandonare l’università tra il 2001 e il 2002 per lavorare fino a 100 ore alla settimana e guadagnare denaro per tornare a scuola. Andò all’Università di Louisvillle per conseguire la laurea e il master in informatica e ingegneria elettronica. Tornò a Gaza solo una volta, nel 2000.

Loay faceva gli straordinari in almeno cinque lavori diversi per riprendere gli studi e pagare le bollette. “È stata un’esperienza difficile”, dice, “ma mi ha insegnato molto”, e così ha perseverato – dopotutto, è un palestinese!

Dopo la laurea, Loay iniziò a lavorare per start-up e aziende private specializzate in auto elettriche ed energie rinnovabili. Allora non c’era la Tesla [azienda statunitense specializzata nella produzione di auto elettrichepannelli fotovoltaici e sistemi di stoccaggio energetico, ndtr.], e queste auto erano un progetto da fantascienza, quindi la maggior parte di queste aziende fallirono, ma non Loay! Entrò a far parte di una società aerospaziale pubblica che gli offrì l’opportunità di lavorare con la NASA su un progetto sperimentale per costruire il primo velivolo che atterrasse su Marte. L’elicottero di Perseverance si è sviluppato dalle idee, dai progetti e dagli effettivi sforzi di costruzione di Loay e dei suoi colleghi.

Costruire Ingenuity [ingegno] richiedeva ingegno

Loay è stato responsabile della parte elettrica ed elettronica di potenza di Ingenuity, inclusa la responsabilità del sistema di propulsione. Ciò ha comportato la progettazione del controller del motore, dell’invertitore, del servocontrollo, del motore stesso e del sistema di segnalazione.

Una grande sfida per il gruppo di lavoro è stata quella di progettare un sistema elettronico che potesse funzionare nell’ambiente molto freddo e ad alta radiazione di Marte. Un’altra sfida era capire come costruire un motore che potesse fornire all’elicottero una portanza sufficiente nell’atmosfera estremamente rarefatta del Pianeta Rosso. Il motore doveva essere il più leggero possibile e con la massima resistenza, generazione di energia ed efficienza.

Molti consideravano impossibile costruire un elicottero a due pale da 1,8 chilogrammi (4 libbre) in grado di sollevarsi su un pianeta con poca o nessuna atmosfera, ma Loay e il suo team hanno lavorato instancabilmente per realizzare il loro progetto. L’elicottero è stato chiamato Ingenuity ed è stato messo nella pancia di Perseverance all’ultimo momento. Ora è sulla superficie di Marte e sta per prendere il volo.

Ingenuity è ciò che la NASA chiama un prototipo: sta testando nuove capacità e quindi ha una missione limitata. Secondo la NASA, “Ingenuity è dotato di quattro pale in fibra di carbonio appositamente realizzate, disposte su due rotori che ruotano in direzioni opposte a circa 2.400 giri al minuto, molte volte più veloci di un elicottero passeggeri sulla Terra. Dispone inoltre di celle solari, batterie e altri componenti innovativi.

Loay mi ha parlato di alcuni dei “messaggi” nascosti dalla NASA all’interno di Ingenuity, come il codice binario stampato sul paracadute di Perseverance che elenca i nomi dei membri del team, e un pezzo del tessuto del velivolo originale dei fratelli Wright. Questo collega il primo aereo che ha volato sulla superficie della Terra al primo aereomobile a volare sulla superficie di Marte. Entrambi testimoniano la determinazione dell’umanità nel sogno di volare e nel realizzare quel sogno.

I palestinesi possono farcela

Ora Loay sta lavorando ad altri progetti tecnologici top-secret e innovativi. Trovo quella di Loay una storia di successo e un modello, e lo è anche per molti giovani palestinesi. Lui trova questo fantastico e nella nostra chat su Instagram mi ha augurato buona fortuna.

L’improvvisa fama di Loay tra i palestinesi è iniziata con la pubblicazione su Facebook e LinkedIn della sua foto con l’elicottero e la squadra. Poi i suoi cugini, la sua famiglia allargata, e poi tutto il mondo arabo e molte agenzie di stampa hanno raccontato i dettagli. È stato intervistato ovunque in Medio Oriente, e questo lo ha fatto sentire bene con se stesso, col suo lavoro e con la sua patria in Palestina e nel mondo arabo. A Beit Hanoun è stato appeso uno striscione che accoglieva i numerosi visitatori accorsi per congratularsi con la famiglia. L’amore che ha ricevuto dai palestinesi è stato un grande dono e mi ha detto che i suoi colleghi sono gelosi delle manifestazioni di sostegno che ha ricevuto.

Loay è convinto che i palestinesi possano fare tutto ciò che sognano. Le loro condizioni sono difficili, dice, ma la loro ingegnosità e perseveranza sono più forti. Possono raggiungere le stelle e catturarle. È in arrivo il primo astronauta palestinese e l’Agenzia Spaziale Palestinese non è solo un sogno. Possiamo farlo e lo faremo – e niente potrà mai cambiare questo.

La squadra di Beit Hanoun posa con un poster dedicato all’impresa di Loay

Nota del redattore: Ingenuity è programmato per prendere il volo il 14 aprile o intorno a quella data. L’evento storico si può seguire su NASA TV.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Palestina: diario di un bambino dell’UNRWA

Ramzy Baroud

22 settembre 2018, Al-Jazeera

Nonostante il livello scadente della scuola ed il pane raffermo, noi palestinesi vediamo l’UNRWA come un simbolo del nostro inalienabile diritto al ritorno.

Conservare la propria dignità quando si conduce una triste esistenza in un campo profughi non è un’impresa facile. I miei genitori hanno combattuto duramente per risparmiarci le quotidiane umiliazioni che implica il vivere a Nuseirat – il più grande campo profughi di Gaza. Ma quando ho compiuto sei anni e sono entrato nella scuola elementare maschile di Nuseirat, gestita dall’UNRWA [Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.], non c’è stato scampo.

Non ero un rifugiato solo nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite, ma lo ero anche in pratica, proprio come tutti i miei compagni.

Essere un rifugiato palestinese significa vivere costantemente in un limbo – senza la possibilità di reclamare ciò che è stato perduto, l’amata patria, né di concepire un futuro alternativo ed una vita in libertà, giustizia e dignità.

Come possiamo ricostruire la nostra identità che è stata distrutta da decenni di esilio, quando i nostri potenti aguzzini hanno collegato la nostra stessa esistenza e il nostro ritorno in patria alla loro scomparsa? Nella logica israeliana la nostra semplice richiesta di attuazione del diritto al ritorno sancito a livello internazionale equivale ad un appello al “genocidio”.

In base a quella stessa logica perversa, il fatto che il mio popolo viva e si riproduca è una “minaccia demografica” ad Israele. Quando Israele ed i suoi amici nel mondo sostengono che il mio popolo è “un’invenzione”, non solo stanno cercando di annichilire la nostra identità collettiva, ma stanno giustificando nelle loro menti le continue uccisioni e mutilazioni di palestinesi, senza che alcuna considerazione morale o etica le ostacoli.

Io sono cresciuto a Gaza resistendo a questo tentativo di Israele di cancellare noi palestinesi. “Ramzy Mohammed Baroud: rifugiato palestinese”, stava stampato su ogni pezzo di carta che io ho posseduto dal giorno in cui ho aperto gli occhi.

Con un sempre crescente numero di rifugiati in uno spazio sempre più ridotto a Gaza, il nostro linguaggio corrente è stato dominato da un vocabolario a cui quattro generazioni di rifugiati sono dolorosamente abituati: soldati assassini, barriere, aerei da guerra, una costante sensazione di morte incombente, fame, coprifuoco militari, resistenza, martiri e UNRWA.

Sempre l’UNRWA. L’ United Nations Relief and Works Agency [Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro] per i rifugiati palestinesi ha accompagnato la nostra via dell’esilio fin dal primo momento. Pochi mesi dopo la Nakba – la catastrofica distruzione della patria palestinese e l’esilio di circa 750.000 palestinesi nel 1948 – l’UNRWA è diventata sinonimo del nostro esodo e della nostra odissea ancora in atto.

Molto si può dire sulle circostanze sottese alla creazione dell’UNRWA da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1949, sulle sue operazioni, sull’efficienza ed efficacia del suo lavoro, che cerca di soddisfare le esigenze di cinque milioni di rifugiati.

Ma per me, per la mia famiglia e per molti palestinesi, l’UNRWA non è stata meramente un’organizzazione di soccorso o assistenza. Essere registrati come rifugiati presso l’UNRWA ci ha fornito una temporanea identità che ci ha permesso di trascorrere 70 anni di esilio, vagando senza una casa o neppure un piano per tornare in quella che è stata, per un migliaio di anni e più, la nostra storica patria palestinese.

È come se il timbro di “rifugiato” su ogni certificato che possedessimo – nascita, morte e tutto quello che vi è in mezzo – fosse una bussola, che segnava i luoghi da dove provenivamo: il mio distrutto villaggio di Beit Daras e non il campo profughi di Nuseirat; non Jabaliya, Shati’, Yarmouk [in Siria, ndtr.] o Ein El-Hilweh [in Libano, ndtr.], ma le 600 cittadine e villaggi che furono distrutti durante l’attacco sionista alla Palestina.

L’esistenza di questi villaggi può essere stata cancellata, poiché un nuovo Paese è stato costruito per intero sulle loro rovine, ma i rifugiati palestinesi sono rimasti – sono sopravvissuti ed hanno progettato il loro ritorno a casa. Lo status di rifugiato dell’UNRWA era il riconoscimento internazionale dei nostri diritti.

Sinceramente quando avevo sei anni non mi importava nulla di tutto ciò. Mi mettevo in fila a scuola come tutti gli altri bambini; tutte le mattine scandivo gli slogan di routine che ci dicevano di recitare; prendevo il mio posto dietro il decrepito banco che portava i segni di generazioni di bambini rifugiati che incidevano i loro nomi e i riferimenti a passate guerre e tragedie; e facevo tutto quello che dovevo fare per essere un bravo bambino UNRWA.

E nel primo anno, quando arrivò il primo acquazzone invernale, imparai anche a sistemare il mio banco in modo da schivare l’acqua che pioveva dal soffitto.In tutti i soffitti di tutte le aule Unrwa in cui sono stato c’erano perdite d’acqua quando pioveva.

Infatti, uno dei miei più bei ricordi della scuola è quando, in terza classe, la nostra aula fu allagata e il nostro insegnante di storia, arabo e matematica, Mohammed Diab, ci disse di sederci sopra i nostri banchi mentre lui proseguiva la lezione. Morivamo di freddo nelle nostre fruste giacchette fornite dall’UNRWA, indossate da molti altri prima di noi. Ci accalcavamo insieme eccitati mentre l’acqua invadeva il pavimento dell’aula e il professor Diab continuava a raccontare le storie della passata grandezza araba dalla Palestina all’Andalusia.

Fu in quella scuola dell’UNRWA che disegnai la mia prima bandiera palestinese e provai l’esperienza della mia prima incursione da parte dell’esercito israeliano. Mentre gli studenti, accecati dai gas lacrimogeni e dal fumo, correvano in tutte le direzioni senza sapere come raggiungere il cancello principale per scappare, ricordo che quelli della sesta classe tornarono indietro per soccorrere i bambini più piccoli. Fu allora e là che compresi che cosa significa il coraggio palestinese.

Disegnare una gran quantità di bandiere era un rituale che si ripeteva nella prima settimana di ogni anno. Non era una prassi prevista ufficialmente dall’UNRWA, poiché l’amministrazione militare israeliana di Gaza arrestava i bambini, multava pesantemente i genitori e chiudeva le scuole a causa di ciò che presumevano essere un atto illecito. Sventolare o persino possedere una bandiera palestinese era un reato a Gaza. Lo facevamo lo stesso.

A volte, nei primi giorni di scuola, un grosso camion blu si fermava nella nostra scuola, accolto dalle grida di eccitazione di centinaia di bambini. Entro poche ore ogni allievo avrebbe ricevuto diversi libri usati, due quaderni nuovi, una serie di matite, un quaderno bianco da disegno e quattro pastelli.

Quelli abbastanza fortunati da possedere i pastelli verdi, rossi e neri li avrebbero condivisi con gli altri, in modo che tutti correvamo a disegnare il maggior numero possibile di bandiere palestinesi.

I soldati israeliani sapevano sempre in anticipo della nostra azione di ribellione collettiva e ci aspettavano come avvoltoi nelle strade. Molti bambini UNRWA venivano ammanettati e trascinati nelle “tende” militari – un enorme accampamento dell’esercito che separava Nuseirat dal campo profughi di Buraij – mentre molti invocavano piangendo i genitori e supplicavano pietà a dio.

Una volta ho gettato la mia borsa in un cespuglio di spine per sfuggire alla furia dei soldati israeliani. Recuperarla è stato come essere punto contemporaneamente da un centinaio di aghi.

Gli israeliani ci terrorizzavano anche con i loro continui raid nelle scuole dell’UNRWA. Migliaia di bambini e ragazzi furono uccisi e feriti in quel modo, soprattutto durante la prima intifada palestinese del 1987. Spesso le nostre proteste iniziavano nelle scuole UNRWA ed era in quelle stesse scuole che ci incontravamo per consolarci l’un l’altro per il ferimento e il martirio dei nostri compagni di scuola.

No, la guerra di Israele non prendeva di mira l’UNRWA in quanto organo dell’ONU, ma in quanto organizzazione che ci consentiva di mantenere la nostra identità di rifugiati con diritti inalienabili, che chiedono giustizia e ritorno alle nostre case. L’UNRWA alimentava in noi la speranza che un giorno ci saremmo liberati di ciò che doveva essere un’identità temporanea, per riprenderci la nostra vera identità, tornando ad essere nuovamente noi stessi, il popolo palestinese, un’antica Nazione che è esistita per secoli prima di Israele.

È in gran parte a causa di queste esperienze che l’UNRWA è una parte essenziale della mia identità come rifugiato palestinese. Questa intrinseca relazione non è fondata sui servizi che l’UNRWA fornisce o non fornisce, ma piuttosto sui principi politici e giuridici su cui si basa la sua esistenza.

Quando entrai nella scuola dell’UNRWA ottenni anche la mia prima tessera alimentare. La usavo raramente alla “tu’meh” (letteralmente “alimentazione”) – il centro alimentare dell’UNRWA nel nostro campo profughi. Fin da molto piccolo detestavo quell’esperienza. Non ci tenevo a una fettina di pane secco, mezzo uovo e mezza mela. Stare in coda in quella lunga fila di bambini poveri alla ‘tu’meh’ – un posto che puzzava di migliaia di uova sode – non era mai un’ esperienza piacevole.

Qualche settimana dopo diedi di nascosto la mia tessera alimentare ad un altro compagno povero, un ragazzo beduino che si chiamava Hamdan, la cui famiglia non aveva ottenuto lo status di rifugiati. Non fu un gesto virtuoso da parte mia; il cibo dell’UNRWA era semplicemente disgustoso.

Si, nonostante i tetti della scuola che perdono acqua ed il pane raffermo, l’UNRWA è stata e rimane fondamentale ed insostituibile. Per quanto riguarda Israele, i rifugiati dovevano essere “imprecisati” – in effetti, era quello il termine preciso scritto sul mio lasciapassare emesso da Israele nello spazio riservato alla nazionalità. I fondatori di Israele preconizzavano un futuro in cui i rifugiati palestinesi alla fine sarebbero svaniti, scomparendo all’interno della vasta popolazione del Medio Oriente. Settant’anni dopo, gli israeliani si cullano ancora in quella stessa illusione.

Ora, con l’aiuto dell’amministrazione USA di Donald Trump ostile ai palestinesi, stanno programmando campagne ancor più sinistre per far sì che i rifugiati palestinesi svaniscano, attraverso la distruzione dell’UNRWA e la ridefinizione dello status di rifugiati di milioni di palestinesi. Negando all’UNRWA gli stanziamenti di cui ha urgente bisogno, Washington intende imporre una nuova realtà, in cui né i diritti umani né il diritto internazionale o l’etica contano qualcosa.

Che cosa ne sarà dei rifugiati palestinesi sembra non avere importanza per Trump, per il suo genero e consigliere Jared Kushner e per gli altri dirigenti USA. Gli americani stanno ora a guardare con insolenza, sperando che la loro cinica strategia costringa alla fine in ginocchio i palestinesi, in modo che si sottomettano definitivamente ai dictat del governo israeliano.

Gli israeliani vogliono che i palestinesi rinuncino al loro diritto al ritorno per raggiungere la “pace”. La “visione” condivisa tra israeliani e americani per i palestinesi significa sostanzialmente l’imposizione dell’apartheid. Il mio popolo non l’accetterà mai.

L’ultima follia di USA e Israele si dimostrerà vana. In passato, le successive amministrazioni USA hanno fatto tutto quel che potevano per sostenere Israele e punire gli intransigenti palestinesi. Tuttavia il diritto al ritorno è rimasto la forza trainante dietro la resistenza palestinese, come ha dimostrato all’inizio di quest’anno la ‘Grande Marcia del Ritorno’ a Gaza.

Tutto il denaro che c’è nei forzieri di Washington non estirperà mai ciò che ora è una fede profondamente radicata nei cuori e nelle menti di milioni di rifugiati in tutta la Palestina, nel Medio Oriente e nel mondo.

Molti anni dopo essere entrato nel sistema educativo dell’UNRWA, ancora mi identifico con il bambino UNRWA che sono stato. Mi chiedo che cosa ne sia stato del mio vecchio banco nella mia prima aula della scuola. È crollato sotto il peso degli anni e delle successive guerre?

Se esiste ancora, spero davvero che i miei scarabocchi ci siano ancora. Ho inciso una mappa della Palestina storica, l’ho circondata di una corona di fiori e vi ho scritto sotto: Ramzy Baroud. Palestina. Libertà. Giustizia. Resistenza. Raed Muanis. Raed era un mio amico, vicino di casa e anche lui bambino UNRWA, ucciso dai soldati israeliani che lo avevano visto correre con una piccola bandiera palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, esperto di media, scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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