Per la prima volta nella storia di Israele, tra la popolazione ebraica si profila un vero campo della pace

Jonathan Cook

giovedì 5 marzo 2020  Middle East Eye

Nonostante il fatto che Benjamin Netanyahu e l’estrema destra siano i grandi vincitori del voto di lunedì, un numero senza precedenti di ebrei israeliani sembra aver sostenuto la “Lista Unita”

Gli ci sono forse voluti un anno e tre elezioni per riuscirci, ma martedì Benjamin Netanyahu ha iniziato ad assomigliare al grande Houdini – il re dell’evasione – della politica israeliana.

La coalizione di Netanyahu, composta da partiti di coloni ed estremisti religiosi, ha ottenuto 58 seggi sui 120 del parlamento, e quindi gli mancano 3 seggi per avere la maggioranza assoluta.

Ma, cosa ancor più importante, il suo Likud ha ottenuto tre seggi in più del suo principale rivale, Benny Gantz, ex-generale dell’esercito che guida il partito laico di destra “Blu e Bianco”.

Netanyahu ha vinto, anche se il procuratore generale recentemente lo ha incriminato per una serie di accuse di corruzione. Il suo processo deve iniziare tra due settimane.

I palestinesi vanno a votare

Eclissato dalla trama principale, che si è giocata tra Netanyahu e Gantz, l’altro argomento importante di queste elezioni è l’ondata di sostegno alla “Lista Unita”, la fazione che rappresenta la grande minoranza palestinese d’Israele.

Ha ottenuto quindici seggi – due deputati in più che in settembre – cioè la sua rappresentanza più numerosa alla Knesset. La “Lista Unita” è ora di gran lunga il terzo più grande partito del Paese.

Benché sia troppo presto per sapere con certezza perché il tasso di partecipazione a favore della Lista sia aumentato, ci sono tre probabili spiegazioni.

Una di queste è che i cittadini palestinesi, ossia un quinto della popolazione israeliana, sembrano avere per la prima volta l’impressione che il loro voto sia importante, o almeno che dovrebbe esserlo.

Lo scorso aprile, alle prime elezioni dell’attuale serie [di votazioni], meno della metà degli elettori di questa minoranza era andata alle urne, facendo ottenere alla Lista 10 seggi. È probabile che questa volta abbiano votato circa i due terzi.

Ciò è in parte legato al piano Trump, che favorisce quello che viene chiamato uno “scambio di terre”, un obiettivo della destra guidata da Netanyahu. Questo scambio permetterebbe a Israele di annettere delle colonie e in cambio circa 250.000 palestinesi sarebbero privati della cittadinanza israeliana e assegnati allo “Stato (palestinese) in attesa” ridotto a brandelli.

Questa minaccia – la pulizia etnica attraverso un gioco di prestigio – ha molto probabilmente fatto infuriare molti cittadini palestinesi d’Israele che in precedenza avevano boicottato le elezioni o che erano troppo disillusi per andare a votare. Volevano dimostrare che il fatto che siano cittadini non può essere ignorato, né da Trump né da Netanyahu.

Un nuovo potere

Ma la rimonta della “Lista Unita” è precedente al piano Trump. In settembre il tasso di partecipazione della minoranza era salito a circa il 60%.

Fino a poco tempo fa – e sicuramente dopo lo scoppio della seconda Intifada, vent’anni fa -, la sensazione era che la politica israeliana fosse una faccenda esclusivamente ebraica. La maggioranza sionista era d’accordo sulle questioni politiche fondamentali, e i cittadini palestinesi non credevano di poter cambiare le cose. La loro voce non aveva la minima importanza.

Ma le ultime tre elezioni suggeriscono un lieve cambiamento. È vero che questa minoranza continua a non essere ascoltata. Di fatto gli oppositori di Netanyahu, che si tratti di “Blu e Bianco” di Gantz o della nuova coalizione guidata dai laburisti, hanno attivamente preso le distanze dalla “Lista Unita”, dato che Netanyahu ha ribattuto loro che sarebbe immorale contare sui deputati “arabi” per governare.

Quello che hanno invece dimostrato le tre elezioni è che, con il suo voto, la minoranza potrebbe bloccare il cammino di Netanyahu verso il potere e vendicarsi così del suo costante incitamento all’odio contro di loro e i loro rappresentanti in quanto traditori e nemici dello Stato ebraico.

Infatti, se il tasso di partecipazione dei cittadini palestinesi fosse stato sensibilmente minore, Netanyahu avrebbe probabilmente ottenuto i 61 seggi di cui ha bisogno.

È precisamente il suo timore del voto dei palestinesi che ha portato Netanyahu a moderare le sue provocazioni contro la minoranza durante le ultime tappe della campagna elettorale. Precedenti considerazioni, del tipo che “gli arabi ci vogliono annientare tutti, uomini, donne e bambini,” durante le ultime elezioni di settembre gli si sono rivoltate contro, facendo salire la partecipazione della minoranza.

Tuttavia questa nuova sensazione di potere potrebbe non durare. Deriva dal fatto che Netanyahu ha profondamente diviso l’elettorato ebraico. Senza di lui potrebbe ristabilirsi rapidamente un consenso sionista, che tratta i palestinesi come semplici pedine da spostare a piacere sullo scacchiere ebraico.

Scomparsa del campo della pace

L’altra spiegazione probabile, e ottimistica, di questa ondata è che un numero senza precedenti di ebrei israeliani sembrano aver sostenuto la “Lista Unita”.

La Lista comprende quattro partiti politici, di cui uno solo – il socialista “Hadash” – si presenta come un partito di arabi ed ebrei. L’unico posto che riservava di solito a un parlamentare ebreo in una posizione nella sua lista che ne permettesse l’elezione rifletteva il fatto che pochissimi ebrei israeliani sostenevano il partito.

La riduzione del sostegno degli ebrei non ha fatto che aumentare quando “Hadash” è stato obbligato da una nuova legge che ha imposto una soglia di sbarramento ad entrare nell’accordo della “Lista Unita” in tempo per le elezioni del 2015. Ha dovuto stare insieme a un partito islamista e a un partito liberale che rifiuta esplicitamente Israele in quanto Stato ebraico.

E allora, perché questo palese cambiamento in queste elezioni?

Gli ebrei che si identificano come parte del campo della pace si sono sentiti abbandonati dai loro partiti tradizionali di “sinistra sionista” – laburisti e Meretz. Nel momento in cui l’opinione pubblica ebraica si sposta sempre più a destra, i due partiti della “pace” si sono affrettati a seguirla. Né l’uno né l’altro ormai parlano più di uno Stato palestinese o della fine dell’occupazione.

Il colpo finale è stato durante queste elezioni quando, per salvarsi dall’oblio elettorale, il Meretz, il partito sionista più a sinistra, è entrato in una coalizione formale non solo insieme al partito Laburista, di centro, ma con “Gesher”, la cui dirigente Levy-Abekasis è una transfuga del partito di estrema destra di Lieberman, “Israel Beytenu [Israele Casa Nostra, ndtr.].

I laburisti, partito fondatore di Israele, e il Meretz speravano che questa decisione li avrebbe rafforzati. Al contrario, segna un altro importante passo verso la loro scomparsa. Insieme dovrebbero ottenere sette seggi, uno in più di quelli che i laburisti avevano conquistato da soli lo scorso aprile – il peggior risultato del partito fino ad allora.

Una vera sinistra”

Il centro israeliano è schiacciato da ogni lato: i sostenitori più guerrafondai del partito Laburista si sono rivolti verso “Blu e Bianco”, mentre i pacifisti del Meretz sembrano attratti dalla “Lista Unita”.

Può darsi che si tratti di un piccolo numero, ma è uno sviluppo incoraggiante – quasi rivoluzionario. Ciò suggerisce che per la prima volta nella storia d’Israele nella popolazione ebraica si profila un vero campo della pace. Non un campo alla ricerca di un’illusoria soluzione a due Stati, fondata sui privilegi degli ebrei, ma un campo pronto a sedersi a fianco dei partiti palestinesi in Israele e a sostenerli, anche se come partner di minoranza.

Il capo della “Lista Unita”, Ayman Odeh, martedì ha festeggiato questo cambiamento, dichiarando: “È l’inizio della nascita di una vera sinistra.”

Questo potrebbe dimostrarsi l’aspetto positivo in un quadro molto più cupo di queste elezioni, nelle quali gran parte della popolazione ebrea israeliana ha chiaramente indicato non solo che, ancora una volta, non si interessa affatto delle violenze contro i palestinesi, sotto occupazione o cittadini [d’Israele, ndtr.], ma che ora è diventata insensibile all’autoritarismo e agli abusi contro ciò che resta delle loro istituzioni democratiche.

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism [il premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




I palestinesi non hanno altra scelta: restare e lottare

David Hearst

29 gennaio 2020 – Middle East Eye

Una nuova ondata di lotte deve ora iniziare per ottenere la parità dei diritti in uno Stato che comprenda tutta la Palestina storica

Per anni sulla strada dei piani messianici di Benjamin Netanyahu per stabilire lo Stato di Israele fra il fiume e il mare, c’è stata una trappola per elefanti.

Si tratta del dato demografico secondo il quale, in quello spazio, c’erano più palestinesi che ebrei. Secondo i dati dell’Ufficio Centrale di Statistica (CBS) del 2016 forniti alla Commissione di Difesa e Affari Esteri della Knesset israeliana, fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo c’erano 6,5 milioni di mussulmani e 6,44 milioni di ebrei, anche se quei dati ora sono superati. La commissione si riferiva ai musulmani, non ai palestinesi, escludendo perciò i palestinesi cristiani.

Ciò significa che il piano di annessione di Netanyahu da solo non può funzionare. Le enormi infrastrutture di calcestruzzo con cui Israele ha cosparso di cemento la Cisgiordania che occupa – colonie, muri, strade e tunnel – e lo stato di apartheid imposto, crudele e totale più di quello messo in pratica in Sud Africa, sono tutti palliativi – medicine con cui ridurre il dolore di uno Stato a maggioranza ebrea, senza eliminarne la causa.

Un’altra Nakba

Si può annunciare quante volte si vuole, come ha fatto ieri Donald Trump, che Israele occuperà la valle del Giordano e quindi circa il 30% della Cisgiordania e imporre la legge israeliana sulle colonie, ma senza spostare fisicamente numeri sempre maggiori di palestinesi fuori da uno Stato di Israele ingrandito, poco cambia. L’annessione diventa solo un’altra forma di occupazione.

Perciò al centro della “visione” di pace di Trump e Netanyahu sta un trasferimento di popolazione, in massa, un’altra Nakba o Catastrofe.

Questa è una pace per modo di dire. È il silenzio che si sente nei villaggi palestinesi nel 1948, a Beit Hanoun nel 2014, quando nel nord di Gaza Israele ha bombardato una scuola dell’ONU affollata di centinaia di civili sfollati, uccidendone 15 e ferendone 200, o ad Aleppo est o a Mosul, dopo averle bombardate, una dopo l’altra, fino a ridurle in macerie. È la pace creata dalla totale e completa sconfitta della lotta dei palestinesi per costruire uno Stato sulla propria terra.

Il piano segreto

Per me quindi il centro della visione apocalittica non sta nei discorsi suprematisti di Trump o Netanyahu, in cui entrambi proclamano “missione compiuta”, e la vittoria totale del movimento sionista sui palestinesi. Sta invece in un paragrafo ben sepolto nelle 180 pagine del documento, il documento più dettagliato, si vanta Trump, mai prodotto prima su questo conflitto. Esattamente.

È il paragrafo che dice che lo scambio di terre fatto dagli israeliani potrebbe includere le ” aree popolate e non popolate “. Il documento è preciso sulla popolazione a cui si riferisce, è la popolazione palestinese del 1948 del cosiddetto triangolo settentrionale di Israele – Kafr Qara, Baqa-al-Gharbiyye, Umm al-Fahm, Qalansawe, Tayibe, Kafr Qasim, Tira, Kafr Bara e Jaljulia.

Il documento continua: “La Visione contempla la possibilità, soggetta all’accordo delle parti, che i confini di Israele vengano ridisegnati in modo che le comunità del Triangolo vengano a far parte dello Stato di Palestina. In questo accordo, i diritti civili degli abitanti delle comunità del Triangolo saranno assoggettate alle leggi, ove applicabili, e alle decisioni giudiziarie delle autorità competenti.”

Questa è la parte nascosta ma più pericolosa di questo piano. Il Triangolo ospita circa 350.000 palestinesi, tutti cittadini israeliani, abbarbicati sul confine nord-occidentale della Cisgiordania. Umm al-Fahm, la città principale, ha dato i natali ad alcuni dei più attivi difensori di Al Aqsa.

Yousef Jabareen, un membro della Knesset della Lista Araba Unita [formata da partiti arabi di Israele e terza forza nel parlamento israeliano, ndtr.] mi ha detto: “Umm al-Fahm è la mia città, Wadi Ara è la mia anima. Il Triangolo è la patria di centinaia di migliaia di cittadini arabo-palestinese che vivono sulla propria terra. Il programma di annessione e trasferimento di Trump e Netanyahu ci strappa dalla nostra patria e revoca la nostra cittadinanza; un danno esistenziale a tutti i cittadini della minoranza araba. Ora è il momento per gli ebrei e gli arabi che hanno a cuore democrazia e uguaglianza di schierarsi e lavorare insieme contro questo pericoloso piano.” 

‘Pulizia etnica’ ufficiale

Per anni i leader israeliani di centro o di destra hanno giocherellato con il “trasferimento statico” di queste popolazioni fuori da Israele. All’idea di uno scambio di popolazione e territori avevano alluso gli ex primi ministri Ehud Barak e Ariel Sharon. Ma è stato solo Avigdor Lieberman ad aver sposato la causa dell’espulsione dei palestinesi. 

Egli propugna di privare un numero ipotetico di 350.000 palestinesi del Triangolo della loro cittadinanza israeliana e costringere l’altro 20% della popolazione israeliana non ebrea a fare un “giuramento di lealtà” a Israele quale ” Stato Sionista Ebraico ” o affrontare l’espulsione in uno Stato palestinese.

Due anni fa Netanyahu aveva suggerito a Trump che Israele avrebbe dovuto liberarsi del Triangolo. Oggi questi piani di pulizia etnica sono stati suggellati in un documento ufficiale della Casa Bianca. 

Ayman Odeh, un membro palestinese della Knesset, ha twittato che l’annuncio di Trump dà “il semaforo verde alla revoca della cittadinanza a centinaia di migliaia di cittadini arabo- palestinesi che vivono nel nord di Israele”.

Sostegno a Trump

L’altro aspetto notevole dell’annuncio di martedì alla Casa Bianca è stata la presenza nell’uditorio degli ambasciatori degli Emirati, Bahrain e Oman. Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno accolto il piano senza riserve. Anche il Qatar lo ha fatto, sebbene abbia aggiunto che lo Stato palestinese dovrebbe essere negoziato con i confini del 1967 e i palestinesi dovrebbero mantenere il diritto al ritorno.

Trump ha detto di essere stato stupito dal numero di chiamate che ha ricevuto dai leader di tutto il mondo a sostegno del suo piano, incluso il Primo Ministro britannico, Boris Johnson.

Buttando al vento quattro decenni di politica estera britannica sulla soluzione dei due Stati, Johnson ha sostenuto il piano di Trump con tutto il peso del Regno Unito. Anche il ministro degli esteri Dominic Raab ha dato appoggio all’accordo “chiaramente una proposta seria che riflette i grandi sforzi e il lungo tempo richiesto.” ha detto.

“Non riesco a credere alle dimensioni del sostegno ricevuto stamattina.” si è vantato Trump. “Mi hanno chiamato dei leader, Boris [Johnson] ha chiamato; così tanti hanno chiamato. Tutti mi dicono ‘cosa possiamo fare per aiutare’”.

Ci sono alcuni comunque che si sono resi conto del pericolo di questo piano. Il Senatore Chris Murphy è uno di loro. Ha twittato: “L’annessione unilaterale della valle del fiume Giordano e delle colonie esistenti, dichiarata illegale dalle leggi USA e internazionali, riporta indietro di decenni il processo di pace. E pone un rischio reale di violenze e un’enorme destabilizzazione in luoghi come la Giordania.”

 A casa da soli

Nessuno dovrebbe sottovalutare la portata storica della dichiarazione appena fatta. La soluzione dei due Stati o l’idea che uno Stato palestinese contiguo sia attuabile e possa essere creato a fianco di uno Stato a maggioranza ebraica è morta. Ed era morta ben prima degli accordi di Oslo. 

Ai sostenitori arabi come il re di Giordania Hussein venne detto sia dai sovietici, Yevgeny Primakov, che da James Baker, l’allora Segretario di Stato, che non si sarebbe mai ottenuto uno Stato palestinese indipendente. E questo ben prima della conferenza di Madrid che precedette Oslo. Il re non aveva bisogno di presenziare al funerale del suo amico Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995, per rendersene conto. Lo sapeva già. Ma adesso è veramente morto. 

Gli USA ora hanno dato il loro imprimatur ufficiale ai confini orientali dello Stato di Israele. La mappa (vedi map Middle East Eye published) dice tutto. Lo Stato palestinese immaginato dal piano sembra la TAC del cervello di una vittima dell’Alzheimer. Lo Stato palestinese è interamente divorato.

Il messaggio di questa mappa per i palestinesi di qualsiasi fazione è ora totalmente chiaro. Dimenticate le vostre divisioni, dimenticate cosa è successo tra Fatah e Hamas a Gaza nel 2007, accantonate pretese di colpi di stato e unitevi. Unitevi contro una minaccia esistenziale.

I palestinesi sono completamente soli. Tutti i punti fermi delle loro posizioni di negoziazione sono spariti. Non hanno Gerusalemme, niente diritto al ritorno, nessun rifugiato può ritornare, niente Alture di Golan e ora niente Valle del Giordano. Non hanno alleati arabi. La Siria è distrutta, l’Iraq diviso, Egitto e Arabia Saudita sono ora fantocci nelle mani di Israele. I palestinesi hanno perso il supporto della più popolosa e ricca Nazione araba.

Non hanno un posto dove fuggire. L’Europa è chiusa per ogni futura migrazione di massa. Hanno una sola alternativa: restare e lottare. Uniti possono annullare i piani israeliani suprematisti di pulizia etnica. L’hanno fatto in precedenza e lo possono fare di nuovo.

Una nuova lotta

Ora i palestinesi devono far fronte a questa situazione. Il riconoscimento di Israele da parte dell’OLP nel 1993 è finalmente arrivato a fine corsa, come si poteva immaginare. Le leggi USA e internazionali e le risoluzioni ONU non sarebbero mai venute in loro soccorso e, ma solo in questo senso, il brutale piano di Trump ha fatto un favore ai palestinesi. Ha fugato fantasie durate decenni.

Quella che deve cominciare ora è una nuova ondata di lotte per l’uguaglianza dei diritti in uno Stato su tutto il territorio della Palestina storica. Questo comporterà una lotta enorme. Nessuno dovrebbe sottostimare cosa succederà se i palestinesi insorgeranno ancora una volta. Ma nessuno dovrebbe aver alcun dubbio sulle conseguenze dell’accettazione.

Questa è la prima volta dal 1948 che tutti i palestinesi possono unirsi per farlo. Devono cogliere questa opportunità o scomparire e diventare una nota a piè pagina della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le opinioni editoriali di Middle East Eye.




Isolate e dimenticate: cosa bisogna sapere sulle “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania

 Ramzy Baroud

14 gennaio 2020  palestinechronicle

Una notizia apparentemente ordinaria, pubblicata sul giornale israeliano Haaretz il 7 gennaio, ha fatto luce su un argomento da tempo dimenticato ma cruciale: le cosiddette “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania.

Secondo Haaretz “Israele ha sequestrato l’unico veicolo disponibile di una equipe medica che fornisce assistenza a 1.500 palestinesi residenti all’interno di una zona di tiro militare israeliana in Cisgiordania”.

La comunità palestinese a cui è stato negato l’unico servizio medico disponibile è Masafer Yatta, un piccolo villaggio palestinese sulle colline a sud di Hebron.

Masafer Yatta, in completo e assoluto isolamento dal resto della Cisgiordania occupata, si trova nell’”Area C”, la più grande zona territoriale, circa il 60%, della Cisgiordania. Ciò significa che il villaggio, insieme a molte città, villaggi e piccole comunità isolate palestinesi, è sotto il totale controllo militare israeliano.

Non fatevi ingannare dalla fumosa logica degli Accordi di Oslo; tutti i palestinesi, in tutte le zone della Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza assediata, sono sotto il controllo militare israeliano.

Tuttavia, sfortunatamente per Masafer Yatta e per gli abitanti dell'”Area C”, il grado di controllo vi è così soffocante che ogni aspetto della vita palestinese – libertà di movimento, istruzione, accesso all’acqua potabile e così via – è controllato da un complesso sistema di ordinanze militari israeliane che non hanno alcun riguardo per il benessere delle comunità assediate.

Non sorprende quindi che l’unico veicolo di Masafer Yatta, il disperato tentativo di realizzare un ambulatorio mobile, sia stato già confiscato in passato, e recuperato solo dopo che gli abitanti impoveriti sono stati costretti a pagare una multa ai soldati israeliani.

Non esiste una logica militare al mondo che possa giustificare razionalmente il blocco dell’accesso alle cure mediche per una comunità isolata, specialmente quando una potenza occupante come Israele è legalmente obbligata, ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, a garantire l’accesso all’assistenza medica ai civili che vivono in un territorio occupato.

È naturale che la comunità di Masafer Yatta, come tutti i palestinesi nell'”Area C” e nell’intera Cisgiordania, si senta trascurata – e apertamente tradita – dalla comunità internazionale e dalla propria leadership collaborazionista.

Ma c’è qualcosa di più che rende il villaggio di Masafer Yatta veramente unico, guadagnandogli la sfortunata definizione di bantustan [territori formalmente autogovernati dalla popolazione di colore nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] all’interno di un bantustan, poiché sopravvive sottoposto ad un sistema di controllo molto più complesso rispetto a quello imposto al Sud Africa nero durante il regime dell’apartheid.

Poco dopo aver occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, Israele ideò uno stratagemma a lungo termine per mantenere il controllo sui territori appena occupati. Ha destinato alcune aree alla futura ricollocazione dei propri cittadini – che ora costituiscono la popolazione di coloni ebrei illegali ed estremisti in Cisgiordania – e si è anche riservato ampie parti dei territori occupati come zone di sicurezza e aree cuscinetto.

Ciò che è molto meno noto è che, durante gli anni ’70, l’esercito israeliano ha dichiarato circa il 18% della Cisgiordania “zona di tiro”.

Queste “zone di tiro” erano presumibilmente destinate ad essere campi di addestramento per i soldati dell’esercito israeliano di occupazione – sebbene i palestinesi intrappolati in quelle regioni riferiscano spesso che all’interno delle cosiddette “zone di tiro” non si svolge quasi alcun addestramento militare.

Secondo l’Ufficio di Coordinamento delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) in Palestina, ci sono ancora circa 5.000 palestinesi, divisi in 38 comunità, che vivono in circostanze veramente terribili all’interno delle cosiddette “zone di tiro”.

L’occupazione del 1967 portò a una massiccia ondata di pulizia etnica che vide l’espulsione forzata di circa 300.000 palestinesi dai territori appena conquistati. Fra le molte vulnerabili comunità ripulite etnicamente c’erano anche i beduini palestinesi, che continuano a pagare il prezzo dei progetti coloniali israeliani nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e in altre parti della Palestina occupata.

La loro vulnerabilità è aggravata dal fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) agisce con poco riguardo per i palestinesi che vivono nell'”Area C”, lasciati da soli a sopportare e resistere alle pressioni israeliane, ricorrendo spesso all’ingiusto sistema giudiziario di Israele per riconquistare alcuni dei propri diritti fondamentali.

Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 tra la leadership palestinese e il governo israeliano, dividevano la Cisgiordania in tre regioni: “Area A”, teoricamente sotto controllo palestinese autonomo e costituita dal 17,7% della dimensione complessiva della Cisgiordania; “Area B”, 21% e sotto il controllo condiviso di Israele-ANP; “Area C”, il resto della Cisgiordania sotto il totale controllo di Israele.

L’accordo avrebbe dovuto essere temporaneo, e terminare nel 1999 una volta conclusi i “negoziati sullo status finale” e firmato un accordo di pace complessivo. Invece, è diventato a priori lo status quo.

Per quanto sfortunati siano i palestinesi che vivono nell'”Area C”, quelli che vivono nella “zona di tiro” all’interno dell'”Area C” affrontano difficoltà ancora maggiori. Secondo le Nazioni Unite, le loro traversie includono “la confisca delle proprietà, la violenza dei coloni, i maltrattamenti da parte dei soldati, le restrizioni di accesso e movimento e/o la scarsità d’acqua”.

Come ci si poteva aspettare, nel corso degli anni molti insediamenti ebraici illegali sono sorti in queste “zone di tiro”, un chiaro segno del fatto che queste aree non hanno mai avuto uno scopo militare, ma erano destinate a fornire una giustificazione legale a Israele per confiscare quasi un quinto della Cisgiordania per una futura espansione coloniale.

Nel corso degli anni, Israele ha messo in atto la pulizia etnica di tutti i palestinesi che rimanevano in queste “zone di tiro”, lasciandone solo 5.000, che probabilmente subiranno lo stesso destino se l’occupazione israeliana dovesse continuare lungo la stessa direttrice di violenza.

Questo rende la storia di Masafer Yatta un microcosmo della più ampia e tragica storia di tutti i palestinesi. È anche un riflesso della maligna natura del colonialismo israeliano e dell’occupazione militare, per cui i palestinesi sotto occupazione perdono la loro terra, la loro acqua, la loro libertà di movimento e, infine, persino le cure mediche di base.

Secondo le Nazioni Unite, queste dure “condizioni creano un ambiente coercitivo che fa pressione sulle comunità palestinesi affinché abbandonino quelle aree”. In altre parole, pulizia etnica, da sempre l’obiettivo strategico di Israele.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’antisionismo riguarda la correzione di errori storici, non l’incoraggiamento all’antisemitismo

Ran Greenstein

23 dicembre 2019 – +972

Il dibattito sul sionismo è fondamentale, ma non deve diventare anche un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.

Il decreto del presidente Trump dell’11dicembre non cita sionismo o antisionismo, Israele o Palestina. Eppure ha determinato un acceso dibattito su tutte e quattro le questioni, in particolare sul rapporto tra antisionismo e antisemitismo. Buona parte di questo dibattito si sta svolgendo come se avessimo una comprensione condivisa di questi termini e come se fossero interconnessi. Sarebbe opportuno riflettere su questi problemi per chiarire le questioni che ci troviamo ad affrontare oggi.

Il sionismo – l’ideologia, il movimento politico e il progetto di insediamento nato nell’Europa centro-orientale alla fine del XIX° secolo – nella sua essenza vedeva gli ebrei come un gruppo nazionale che necessitava di una propria patria o un proprio Stato indipendente in cui essere al sicuro dalle persecuzioni. Questa patria doveva essere il loro “vecchio-nuovo” territorio ancestrale: la storica terra di Israele, che allora era la terra di Palestina abitata da arabi.

Comprendere il sionismo, così come l’atteggiamento internazionale nei suoi confronti, richiede di guardare al contesto storico in cui è nato, con tre dimensioni fondamentali. La prima è l’emergere dell’etno-nazionalismo negli imperi territoriali in declino, in cui all’epoca viveva la maggior parte degli ebrei – gli imperi russo, austro-ungarico e ottomano – che videro minoranze cercare l’indipendenza dai loro dominatori imperiali. La seconda è l’ultimo stadio dell’espansione coloniale degli imperi marittimi – in particolare di Gran Bretagna e Francia – che videro vaste parti dell’Asia e dell’Africa cadere sotto la dominazione straniera. La terza, che si sviluppò in seguito, è la decolonizzazione dei domini coloniali degli imperi e il sorgere di nuove forme di potere imperialista, che hanno portato alla Guerra Fredda e alle sue conseguenze.

Nei suoi primi decenni il sionismo non riuscì a conquistarsi l’adesione della maggior parte degli ebrei. Alcuni di loro adottarono esplicite posizioni antisioniste e rifiutarono l’appello alla concentrazione territoriale degli ebrei in un proprio Stato. Queste posizioni erano variamente motivate da visioni del mondo religiose, di sinistra e liberali.

La maggioranza degli ebrei non era attivamente contraria al sionismo, ma non lo seguì ideologicamente o nella pratica. Privilegiavano invece altre possibilità: l’integrazione come uguali nei propri Paesi di residenza (su base individuale o collettiva); l’assimilazione nelle culture dominanti; l’immigrazione in luoghi più favorevoli, dove gli ebrei potessero vivere liberi dai vecchi pregiudizi europei contro di loro, come il Nord e il Sud America e il Sudafrica.

In contrasto con questa linea di condotta, il sionismo chiese agli ebrei di tutto il mondo di insediarsi in Palestina. Alcuni lo fecero durante le prime fasi del movimento sionista, ma non necessariamente per un impegno ideologico. Di fatto molti immigrati ebrei si spostarono e si insediarono là perché costretti e in mancanza di alternative migliori – in particolare gli ebrei polacchi negli anni ’20 e quelli tedeschi negli anni ’30, il cui viaggio verso l’ovest era stato bloccato da leggi restrittive.

Comunque centinaia di migliaia di ebrei si spostarono in Palestina, incrementando la popolazione ebraica locale da 50.000 alla fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918 a 450.000 alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939. Non era solo il numero crescente che importava: durante quel periodo sotto la direzione delle agenzie sioniste gli ebrei comprarono grandi appezzamenti di terra, fondarono decine di nuovi insediamenti urbani e rurali e costruirono vaste infrastrutture economiche ed istituzionali.

Naturalmente gli arabi palestinesi si opposero all’immigrazione, all’acquisto di terre e allo sviluppo politico sulla loro terra guidati fin dalla nascita dal movimento dai sionisti. Tuttavia avevano scarso interesse nel sionismo come l’ideologia della costruzione dello Stato e dell’identità ebraici: il movimento nazionale palestinese si è sempre concentrato sulle conseguenze pratiche dell’insediamento sionista, su come lo colpiva direttamente. Che ciò fosse messo in pratica in particolare dagli ebrei era una preoccupazione molto marginale, ed è lo stesso ora. Alcuni atteggiamenti negativi verso gli ebrei potrebbero essere emersi come conseguenza dello scontro con il sionismo, ma questi furono un risultato, non una causa, della resistenza ad un progetto politico visto come intenzionato a cacciarli e a sostituirli.

Negli anni ’40, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale e all’Olocausto, il principio fondante del sionismo – la necessità di una patria sicura o di uno Stato per gli ebrei – conquistò un vastissimo appoggio internazionale e divenne la posizione maggioritaria tra gli ebrei. Anche allora la maggioranza di quanti emigrarono nel nuovo Stato di Israele continuò a farlo per mancanza di opzioni migliori, in particolare a causa dell’espulsione fisica e di condizioni politiche difficili nell’Europa orientale del dopoguerra e della crescente sensazione di insicurezza e di esclusione politica in Medio Oriente e in Nord Africa. L’impegno politico giocò ancora un ruolo secondario in questo processo. La percezione del sionismo come la possibilità di un rifugio per gli ebrei in circostanze disperate e di fare tutto quanto fosse possibile per garantire la loro sopravvivenza alla fine si consolidò nelle menti degli stessi ebrei e nel resto del mondo.

Tuttavia questa forma di sopravvivenza degli ebrei comportò un prezzo notevole. Israele venne edificato sulle rovine della società arabo-palestinese e la sua creazione diede come risultato la pulizia etnica, la frammentazione e l’esilio su larga scala. Quindi l’opposizione a Israele divenne molto vasta nel mondo arabo e islamico. Parte di questa opposizione venne occasionalmente espressa in discorsi e azioni antisemiti, ma fu quasi sempre un risultato dell’indignazione per l’espulsione dei palestinesi, non la sua causa. Così è in buona misura ancora ai giorni nostri.

Globalmente il sionismo è stato visto contemporaneamente come una forma di autodeterminazione nazionale e come una forma di dominio colonialista sulla popolazione indigena del territorio. Per i palestinesi, sionismo significa spoliazione e privazione dei diritti; per la maggior parte degli ebrei, significa appoggiare il concetto di uno Stato ebraico. Le precise implicazioni del carattere ebraico dello Stato, la sua relazione con l’ebraismo come religione, le conseguenze pratiche per i cittadini ebrei e non ebrei e i suoi confini e le sue politiche sono tutti messi in discussione all’interno. Non c’è una posizione sionista unitaria su questi argomenti, e non c’è mai stata.

Di fronte a questo scenario, per la maggioranza degli attivisti della solidarietà di oggi, antisionismo significa il rifiuto della nozione di Israele come Stato esclusivamente ebraico in cui i palestinesi sono sottoposti a una posizione di inferiorità o ne sono del tutto esclusi. In pratica antisionismo significa appoggiare l’uguaglianza, la giustizia e il risarcimento per i palestinesi che vivono come cittadini di seconda classe, soggetti all’occupazione o rifugiati senza Stato. Ciò significa appoggiare i diritti degli ebrei di vivere come uguali in Israele-Palestina, e in qualunque altro luogo di residenza, senza particolari privilegi o obblighi. Ciò va oltre la contrapposizione rispetto a politiche specifiche, come l’occupazione del 1967 o l’assedio di Gaza, che non richiedono una posizione antisionista.

Le principali obiezioni nel dibattito interno tra gli ebrei sul sionismo nel periodo precedente al 1948 sono di grande interesse per gli accademici. Tuttavia sono diventate marginali nel discorso pubblico a causa della concentrazione di molti attivisti sulle sole politiche israeliane. Queste questioni rimangono rilevanti oggi: gli ebrei sono una Nazione, una religione o una combinazione di entrambe? Hanno bisogno di uno Stato solo per loro? La diaspora è un’anomalia o una caratteristica permanente, forse desiderabile, dell’esistenza ebraica?

In questo contesto di solidarietà e di lotta, la divisione tra prospettive liberali e radicali si basa sulla questione dello Stato ebraico, che tende a separare i sionisti dagli antisionisti. Ma ciò non dovrebbe essere un ostacolo per la mobilitazione su preoccupazioni pratiche condivise: opposizione all’occupazione del 1967 e alle politiche di colonizzazione, uguaglianza per i cittadini palestinesi, e via di seguito. Qui la regola pratica è costruire un vasto fronte basato su quello che abbiamo in comune, facendo nel frattempo attivismo in modo separato per pubblici diversi su questioni che ci dividono. La questione del sionismo, per quanto fondamentale, non deve diventare un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.

Un modo per garantire questo è l’adozione di un linguaggio strategico semplice. Le forze che mettono in atto l’assedio di Gaza, spogliano il popolo della propria terra su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania, ndtr.] e tengono i palestinesi sotto occupazione sono lo Stato di Israele e i suoi organi militari e civili. Sono aiutati e spalleggiati da sostenitori (sia ebrei che non ebrei) che agiscono come agenti dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.] all’estero. Non sono i “sionisti” genericamente etichettati (per non parlare degli “zios” [termine spregiativo per indicare i sionisti, ndtr.]) che lo fanno. Semmai è una concreta serie di forze affiliate in vario modo all’apparato statale israeliano.

Più prendiamo di mira individui, istituzioni e politiche concreti ed evitiamo di usare termini vaghi e fumosi, meglio possiamo concentrare gli sforzi di solidarietà e resistenza e contrastare con efficacia accuse di antisemitismo come armi utilizzate contro il movimento per porre fine all’apartheid israeliana e ottenere giustizia ed uguaglianza per tutti.

Ran Greenstein è professore associato di sociologia all’università del Witwatersrand a Johannesburg, in Sudafrica. Tra le sue opere ci sono “Zionism and its Discontents: A Century of Radical Dissent in Israel/Palestine [Il sionismo e i suoi dissidenti: un secolo di dissenso radicale in Israele/Palestina], (Pluto, 2014) e “Identity, Nationalism, and Race: Anti-Colonial Resistance in South Africa and Israel/Palestine [Identità, Nazionalismo e Razza: resistenza anticolonialista in Sudafrica e in Israele/Palestina] (Routledge, in uscita).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Cile, terreno di sperimentazione per le armi israeliane

Ramona Wadi

2 dicembre 2019 – Orient XXI

I mapuche come i palestinesi. I governi cileni, di destra come di sinistra, non hanno rinunciato al retaggio militare e giudiziario della dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990). Israele contribuisce alla loro lotta contro le popolazioni autoctone mapuche e fornisce loro armi e formazione. La criminalizzazione della resistenza mapuche da parte del Cile può essere paragonata alla repressione della resistenza palestinese da parte di Israele.

Il Cile si è riunito per protestare in tutto il Paese contro il presidente di destra Sebastian Piñera e il suo programma neoliberista messo in atto dal vecchio dittatore Augusto Pinochet. I manifestanti chiedono le sue dimissioni ed esigono la redazione di una nuova costituzione per sbarazzarsi del retaggio della dittatura.

L’instaurazione da parte di Piñera dello stato d’assedio e del coprifuoco in tutto il Cile ricorda il periodo della dittatura di Augusto Pinochet. Come allora, le forze armate sono impegnate nell’escalation di violenze contro i cittadini con assassinii, pestaggi e torture a carattere sessuale. La repressione indiscriminata ha attirato l’attenzione, in quanto ricorda il passato. La militarizzazione e la criminalizzazione della resistenza cilena affondano le radici nelle leggi antiterrorismo adottate da Pinochet e dai governi che si sono succeduti dopo la transizione verso la democrazia per zittire le comunità di indios mapuche [popolazione nativa del sud del Cile, ndtr.].

Israele appoggia le violazioni dei diritti umani dell’attuale governo cileno con la vendita di tecnologie militari e di sorveglianza. Dall’epoca della dittatura di Pinochet, la CIA aveva previsto che il Cile avrebbe continuato ad acquistare armi da Israele “senza timore di irritare gli Stati arabi, a condizione che il Paese mantenga relazioni discrete con Tel-Aviv ed eviti di approvare pubblicamente le politiche israeliane.”

Alla ricerca di nuovi partner

Pinochet poté mantenere legami con Israele e con gli Stati arabi perché evitava di adottare “una posizione chiara sulle questioni controverse del Medio Oriente”. I governi successivi alla dittatura non hanno agito in modo diverso, oscillando con la stessa doppiezza, protetti dall’impegno per [la soluzione dei] due Stati da parte della comunità internazionale.

A partire dal 1973, all’indomani della guerra arabo-israeliana, gli Stati africani hanno iniziato a rompere le relazioni diplomatiche con Israele. Lo hanno così obbligato a cercare altri Paesi per stringere rapporti diplomatici e militari con lo scopo di compensare la perdita della collaborazione con l’Africa. Dato che gli Stati Uniti erano saldamente insediati in America latina grazie al loro sostegno alle dittature militari e alle operazioni nell’insieme della regione per eliminare qualunque influenza socialista o comunista, il Cile – che aveva riconosciuto Israele nel 1949 – era un obiettivo prioritario per il governo israeliano. Come reazione alle crescenti preoccupazioni della comunità internazionale riguardo alle violazioni dei diritti umani in Cile, nel 1976 gli Stati Uniti furono obbligati a imporre un embargo sulle armi, nonostante il fatto che avevano finanziato Pinochet per atrocità analoghe. Anche se è possibile che la CIA sia andata oltre le decisioni del Congresso, Israele era in prima fila per intrufolarsi nello spazio lasciato libero e fare del Cile uno dei suoi principali acquirenti di armi della regione.

Un documento declassificato della CIA fornisce importanti informazioni sugli acquisti di armamenti dal Cile a Israele. Dal 1975 al 1988 Israele ha venduto sistemi radar, missili aria-aria, materiale navale e sistemi aeronautici e antimissilistici. Una delle ragioni per le quali Pinochet aveva scelto Israele – oltre al fatto che si trattava di armamenti sofisticati e che ammirava l’esercito israeliano – dipendeva dal fatto che “Tel-Aviv non subordinava le sue vendite ad alcuna precondizione politica.” Ciò era tanto più importante per Pinochet in quanto Israele faceva dichiarazioni pubbliche di sostegno al ritorno della democrazia in Cile, fornendo al contempo alla dittatura delle armi utilizzate nel momento in cui l’Operazione Condor – un piano su scala regionale messo in atto nel 1975 dalle dittature di estrema destra latinoamericane per sterminare gli oppositori di sinistra – era in pieno svolgimento. Oltre alla vendita di armi al Cile, Israele ha dato la possibilità all’esercito di Pinochet di familiarizzarsi con la sua industria bellica e di far partecipare i piloti cileni e i loro ufficiali a esercitazioni di addestramento.

Leggi analoghe

Nel periodo che ha seguito la caduta delle dittature, i governi cileni hanno conservato la Costituzione di Pinochet. Le leggi antiterrorismo del 1984 che egli utilizzava per prolungare la detenzione senza processo sono state quasi sempre riutilizzate contro le comunità mapuche, sia dai governi di centro sinistra che da quelli di destra. Queste leggi sono simili alla detenzione amministrativa utilizzata da Israele contro i palestinesi, incarcerati senza accuse né processo e la cui detenzione viene periodicamente rinnovata. La criminalizzazione della resistenza mapuche contro lo sfruttamento neoliberista ricorda la repressione della resistenza palestinese da parte di Israele. Le due comunità autoctone devono affrontare le stesse lotte e la stessa repressione. La sorveglianza è una misura costantemente utilizzata contro i mapuche, una tattica altrettanto fondamentale nella colonizzazione israeliana della Palestina. Nella regione dell’Araucania i governi cileni hanno utilizzato le tecnologie di sorveglianza israeliane. La militarizzazione della regione è una conseguenza diretta dell’utilizzazione delle leggi antiterroristiche contro i mapuche.

Elbit [industria tecnologica che produce anche sistemi di sicurezza e bellici, ndtr.], IAI [compagnia israeliana del settore aereo e militare, ndtr.] e Rafael [impresa specializzata nei sistemi di difesa e antimissilistici, ndtr.] sono le principali fornitrici del governo cileno. Elbit e IAI sono ampiamente utilizzate contro la popolazione palestinese. Dopo i sistemi di sorveglianza, l’assistenza informatica, le bombe al fosforo bianco, la distruzione di tecnologie fino alla tecnologia aerea utilizzata da Israele per bombardare Gaza, l’industria militare israeliana è richiestissima in America latina, con il pretesto della lotta contro il traffico di droga e l’attraversamento delle frontiere. Ma è piuttosto alle popolazioni autoctone che i governi della regione riservano controllo e repressione.

Nel 2018 gli eserciti israeliano e cileno hanno firmato in Cile con il generale di divisione Yaacov Barak e il generale cileno Ricardo Martinez nuovi accordi di cooperazione in materia di formazione militare e di addestramento, di comando e di metodi di addestramento. Durante il suo soggiorno, Ehud Barak [ex generale e politico laburista israeliano, ndtr.] ha ispezionato la brigata Lautaro per le operazioni speciali. L’ex-comandante di questa brigata, Javier Iturriaga, è stato nominato da Piñera capo della difesa nazionale quando il governo ha imposto lo stato d’assedio per combattere le proteste in tutto il Cile.

Armi “testate sul campo”

Israele commercia le sue armi e tecnologie con il marchio “testate sul campo”. I palestinesi di Gaza rappresentano un terreno di sperimentazione umana per collaudare questa tecnologia bellica. Ogni governo che acquista armi da Israele si rende così complice dell’aggressione colonialista contro i palestinesi. In Cile questa aggressione si trasforma in qualcosa di ancora più sinistro. L’acquisto di equipaggiamento militare in Israele da parte del governo per perseguitare i mapuche riproduce la repressione della lotta anticolonialista dei palestinesi da parte di Israele.

Se i rapporti attuali tra Israele e il Cile non sono più nascosti all’attenzione dell’opinione pubblica, Israele mantiene il “segreto difesa” sui rapporti che vigevano tra i due Paesi durante il periodo della dittatura. Mentre gli Stati Uniti hanno declassificato numerosi documenti che evidenziano il loro ruolo nel sostegno alla dittatura di Pinochet, Israele al contrario conserva per sé più di 19.000 pagine di documenti secretati, anche se contengono informazioni su familiari ebrei di cittadini israeliani scomparsi nell’epoca di Pinochet.

Rifiuto di aprire gli archivi

L’esercito cileno mantiene un patto del silenzio che spiega quanto sia difficile ottenere informazioni, per non parlare dell’impossibilità di rendere giustizia alle migliaia di torturati, uccisi e desaparecidos durante la dittatura. In certi casi documenti declassificati contribuiscono a compensare la mancanza di informazioni. Il rifiuto di Israele di aprire i suoi archivi sul periodo della dittatura di Pinochet impedisce di rendere giustizia a suoi stessi cittadini, due dei quali nel 2016 hanno avviato un’azione giudiziaria perché vengano pubblicati documenti che svelino la collaborazione di Israele con Pinochet. Questi documenti fornirebbero probabilmente delle informazioni su due vittime sparite e giustiziate, Ernesto Traubman e David Silberman.

Il Cile ha mantenuto stretti rapporti con l’aviazione militare israeliana durante il periodo della dittatura, fatto che non manca di sollevare domande sul coinvolgimento israeliano nelle pratiche di Pinochet, che consistevano nel far sparire nell’oceano da un aereo detenuti giustiziati. Inoltre un gruppo d’élite della Direzione Nazionale di Informazione Cilena (DINA) è stato addestrato in Israele dal Mossad.

Oltre alla ricerca di informazioni sugli assassinii e le sparizioni dei loro genitori, Lily Traubman e Daniel Silberman hanno anche precisato che il loro obiettivo finale è di mostrare l’ampiezza del coinvolgimento di Israele con la dittatura di Pinochet: “La vendita di armi dovrebbe essere regolamentata dalla legge e dovrebbero esistere dei criteri chiari che stabiliscano il divieto di vendita di armi a Paesi o a regimi dittatoriali che violano costantemente i diritti umani.”

L’esistenza e la violenza del colonialismo israeliano hanno fatto di Gaza un terreno di sperimentazione militare permanente, dando ad Israele un vantaggio sicuro al momento di vendere la sua tecnologia a governi altrettanto determinati a reprimere i propri cittadini. “Testato sul campo” è un eufemismo utilizzato dal ministero della Difesa israeliano, ultima manifestazione della disumanizzazione dei cittadini palestinesi. In Cile, la situazione senza uscita in cui si trovano i mapuche è identica, tra la spoliazione e la violenza. Di fatto si può paragonare la lotta di liberazione dal colonialismo a quella contro lo sfruttamento liberista. Mapuche e palestinesi sono stati vittime di una pulizia etnica dal loro territorio da parte dei colonizzatori e i rapporti militari tra il Cile e Israele servono al miglioramento della militarizzazione. La normalizzazione del colonialismo e del neoliberismo su scala internazionale alimenta le violazioni dei diritti umani perpetrate contro le popolazioni autoctone senza che queste violazioni siano mai sanzionate.

È molto probabile che sia la determinazione dei governi cileni, di centro sinistra come di destra, a rafforzare la loro presenza militare nella regione dell’Araucania per perseguitare i mapuche che fa di Israele un partner sempre utile per il Cile. Durante la campagna elettorale Piñera ha promesso di cambiare le leggi antiterrorismo per combattere meglio i mapuche. Nella misura in cui le proteste non si arresteranno finché non verrà abrogata la Costituzione di Pinochet, Israele vedrà aprirsi davanti a sé ulteriori prospettive redditizie in Cile a danno di tutta la popolazione.

Ramona Wadi

Giornalista

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




**La Corte Suprema emette una sentenza contraria a rivelare il ruolo di Israele nel genocidio in Bosnia

John Brown* (Tradotto da Tal Haran)

5 dicembre 2016 – +972 Magazine

Evocando un potenziale danno alla politica estera di Israele, la Corte Suprema respinge una petizione che chiede di rivelare dettagli sulle esportazioni di armi da parte del governo all’esercito serbo durante il genocidio in Bosnia.

**Nota redazionale: nonostante si tratti di un articolo che risale al dicembre 2016, riteniamo interessante tradurre questo articolo perché smentisce la rappresentazione ed autorappresentazione di sé di Israele come Stato etico e nato dal rifiuto di crimini contro l’umanità, e in particolare dell’Olocausto. Si tratta di un impegno selettivo, come dimostrano questo ed altri episodi. Ciò è ancora più significato oggi, nel momento in cui Israele e i suoi sostenitori utilizzano in modo strumentale e sempre più spudorato l’antisemitismo e l’antirazzismo per attaccare i palestinesi e chi ne sostiene la causa.

Il mese scorso la Corte Suprema israeliana ha respinto una petizione che chiedeva di rivelare i dettagli delle esportazioni israeliane per la difesa all’ex Jugoslavia durante il genocidio in Bosnia negli anni ’90. La Corte ha deliberato che rivelare il coinvolgimento israeliano nel genocidio avrebbe danneggiato la politica estera del Paese ad un punto tale da prevalere sull’interesse pubblico a conoscere quelle informazioni e la possibile incriminazione dei soggetti coinvolti.

I ricorrenti, l’avvocato Itay Mack e il professor Yair Oron, hanno presentato alla Corte prove concrete delle esportazioni della difesa israeliana alle forze serbe a quell’epoca, inclusi addestramento, munizioni e fucili. Tra le altre cose, hanno presentato il diario personale del generale Ratko Mladic, attualmente sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia per aver commesso crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Il diario di Mladic menziona in modo esplicito le vaste connessioni relative ad armamenti con Israele a quel tempo.

Le esportazioni sono avvenute molto tempo dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva posto un embargo sulle armi in varie parti della ex Jugoslavia, e dopo la pubblicazione di una serie di testimonianze che hanno rivelato il genocidio e la creazione di campi di concentramento.

La risposta del Procuratore di Stato israeliano e il respingimento del ricorso da parte della Corte sono un’ammissione de facto da parte di Israele di aver cooperato con il genocidio bosniaco: se il governo non avesse avuto niente da nascondere, i documenti in questione non avrebbero rappresentato nessuna minaccia per la politica estera.

I più tremendi atti di crudeltà dopo l’Olocausto

Tra il 1991 e il 1995 la ex Jugoslavia si dissolse, passando da una repubblica multi-nazionale ad un insieme di Nazioni in conflitto tra di loro in una sanguinosa guerra civile che incluse massacri e infine il genocidio.

I serbi combatterono una guerra contro la Croazia dal 1991 al 1992 e contro la Bosnia dal 1992 al 1995. In entrambe le guerre commisero genocidio e pulizia etnica dei musulmani nelle zone che occupavano, portando alla morte di 250.000 persone. Decine di migliaia di altre furono ferite e affamate, moltissime donne stuprate e molte persone incarcerate in campi di concentramento. Anche altre parti in conflitto commisero crimini di guerra, ma il ricorso si concentra sulla collaborazione di Israele con le forze serbe. Gli atti orribilmente crudeli in Jugoslavia sono stati la cosa peggiore che l’Europa abbia visto dopo l’Olocausto.

Uno dei massacri più noti fu perpetrato dai soldati agli ordini del generale serbo Ratko Mladic intorno alla città di Srebrenica nel luglio 1995. Le forze serbe comandate dal generale uccisero circa 8.000 bosniaci e li seppellirono in fosse comuni durante una campagna di pulizia etnica che stavano conducendo contro i musulmani in quella zona. Pur se la città doveva essere sotto la protezione delle Nazioni Unite, quando iniziò il massacro le truppe ONU non intervennero. Nel 2012 Mladic venne estradato alla Corte Internazionale di Giustizia all’Aja ed è tuttora sotto processo.

A quel tempo importanti organizzazioni ebraiche fecero appello per una immediata fine del genocidio e lo smantellamento dei campi di morte. Non così fece lo Stato di Israele. Esteriormente condannò il massacro, ma dietro le quinte stava fornendo armi ai massacratori e addestrando le loro truppe.

L’avvocato Mack e il professor Oron hanno raccolto molte testimonianze sulla fornitura di armi da Israele alla Serbia, che hanno presentato nel loro ricorso. Hanno fornito prove che tali esportazioni hanno avuto luogo molto dopo che l’embargo del Consiglio di Sicurezza ONU era entrato in vigore nel settembre 1991. Le testimonianze sono state sottoposte a verifiche incrociate e vengono qui riportate così come presentate nel ricorso, con le necessarie abbreviazioni.

Nel 1992 un’ex alta dirigente del Ministero della Difesa serbo pubblicò un libro, ‘The Serbian Army’ [L’esercito serbo], in cui scrisse dell’accordo sulle armi tra Israele e la Serbia, firmato circa un mese dopo l’embargo: “Uno dei più ampi accordi fu concluso nell’ottobre 1991. Per ovvi motivi l’accordo con gli ebrei non fu reso pubblico in quel momento.”

Un israeliano che al tempo era volontario in un’organizzazione umanitaria in Bosnia ha testimoniato che nel 1994 un dirigente dell’ONU gli chiese di vedere i resti di una granata da 120 mm – con sopra scritte in ebraico – che era esplosa sulla pista di atterraggio dell’aeroporto di Sarajevo. Ha anche testimoniato di aver visto dei serbi che giravano per la Bosnia muniti di fucili Uzi fabbricati in Israele.

Nel 1995 fu riferito che trafficanti d’armi israeliani in collaborazione coi francesi strinsero un accordo per fornire alla Serbia missili LAW. Secondo rapporti del 1992, una delegazione del Ministero della Difesa israeliano si recò a Belgrado e firmò un accordo per la fornitura di granate.

Lo stesso generale Mladic, che è attualmente incriminato per crimini di guerra e genocidio, scrisse nel suo diario che “da Israele hanno proposto di unirsi alla lotta contro gli estremisti islamici. Si sono offerti di addestrare i nostri uomini in Grecia e di fornirci gratis fucili di precisione.” Un rapporto stilato su richiesta del governo olandese durante l’inchiesta sugli eventi di Srebrenica contiene quanto segue: “Belgrado considerava Israele, la Russia e la Grecia come i suoi migliori amici. Nell’autunno 1991 la Serbia strinse un accordo segreto sulle armi con Israele.”

Nel 1995 fu riferito che trafficanti di armi israeliani fornirono armi al VRS – l’esercito della ‘Republika Srpska’, l’esercito serbo bosniaco. Questa fornitura deve essere stata eseguita con il benestare del governo israeliano.

I serbi non erano gli unici in questa guerra a cui i trafficanti di armi israeliani cercarono di vendere armi. In base ai rapporti, ci fu anche un tentativo di fare un accordo con il regime antisemita della Croazia, che alla fine andò in fumo. Il ricorso ha anche presentato rapporti di attivisti per i diritti umani sull’addestramento israeliano all’esercito serbo, e sul fatto che l’accordo sulle armi con i serbi consentì agli ebrei di lasciare Sarajevo, che era sotto assedio.

Mentre tutto ciò avveniva in relativa segretezza, pubblicamente il governo israeliano esprimeva in modo poco convincente la sua apprensione per la situazione, come se si trattasse di cause di forza maggiore e non di una carneficina per mano di uomini. Nel luglio 1994 l’allora capo della Commissione Relazioni Estere e Difesa del parlamento israeliano, deputato Ori Or, si recò a Belgrado e disse: “La nostra memoria è viva. Sappiamo cosa significa vivere sotto boicottaggio. Ogni Risoluzione dell’ONU contro di noi è stata decisa con la maggioranza di due terzi.” In quell’anno l’allora vice presidente degli Stati Uniti Al Gore convocò l’ambasciatore israeliano e intimò ad Israele di sospendere questa collaborazione.

Tra parentesi, nel 2013 Israele non si è fatto problemi ad estradare in Bosnia-Erzegovina un cittadino immigrato in Israele sette anni prima, che era ricercato per sospetto coinvolgimento in un massacro in Bosnia nel 1995. In altri termini, ad un certo punto lo Stato stesso ha riconosciuto la gravità della questione.

La Corte Suprema al servizio dei crimini di guerra

L’udienza della Corte Suprema in merito alla risposta dello Stato al ricorso si è svolta ex parte, cioè ai ricorrenti non è stato permesso di assistere. I giudici Danziger, Mazouz e Fogelman hanno respinto il ricorso ed hanno accettato la posizione dello Stato secondo cui rivelare i dettagli delle esportazioni della difesa israeliana alla Serbia durante il genocidio avrebbe danneggiato le relazioni estere e la sicurezza di Israele, e questo danno potenziale era prevalente rispetto all’interesse pubblico alla rivelazione di quanto accadde.

Questa sentenza è pericolosa per diverse ragioni. In primo luogo, l’accettazione della Corte della certezza dello Stato sul grave danno che sarebbe stato arrecato alle relazioni estere di Israele lascia perplessi. All’inizio di quest’anno la stessa Corte Suprema ha respinto un’accusa simile relativa alle esportazioni della difesa durante il genocidio del Rwanda, però un mese dopo lo Stato ha dichiarato che le esportazioni sono state sospese sei giorni dopo l’inizio del massacro. Se persino lo Stato non vede nessun pericolo nel rivelare – almeno parzialmente – queste informazioni riguardo al Rwanda, perché un mese prima è stata imposta una stretta riservatezza sulla questione? Perché i giudici della Corte Suprema hanno sottovalutato questo inganno, arrivando a rifiutare di accettarlo come prova come richiesto dai ricorrenti? Dopotutto, lo Stato ha ovviamente esagerato nel sostenere che questa informazione avrebbe danneggiato la politica estere.

In secondo luogo, è veramente di pubblico interesse rivelare il coinvolgimento dello Stato in un genocidio, per di più attraverso trafficanti d’armi, in particolare in quanto Stato fondato sulla devastazione del suo popolo in seguito all’Olocausto. È per questo motivo che Israele, per esempio, ha voluto disconoscere la sovranità dell’Argentina quando ha rapito Eichmann e lo ha portato in tribunale nel proprio territorio. È nell’interesse non solo degli israeliani, ma anche di coloro che sono state vittime dell’Olocausto. Quando la Corte si occupa dei crimini di guerra, è corretto che prenda in considerazione anche il loro interesse.

Quando la Corte sentenzia, in casi di genocidio, che il danno alla sicurezza dello Stato – cosa che resta tutta da provare – prevale sul perseguimento della giustizia per le vittime di tali crimini, manda un chiaro messaggio: che il diritto dello Stato alla sicurezza, reale o presunta, è assoluto e ha precedenza rispetto ai diritti dei suoi cittadini e di altri.

La sentenza della Corte Suprema potrebbe portare alla conclusione che più grave è il crimine, più facile è occultarlo. Più armi sono state vendute e più sono stati i massacratori addestrati, maggiore sarebbe il danno per le relazioni estere e per la sicurezza dello Stato se questi crimini venissero divulgati, ed il peso di un tale presunto danno prevarrà necessariamente sull’interesse pubblico. Questo è inaccettabile. Trasforma i giudici – come hanno detto i ricorrenti – in complici. In questo modo i giudici rendono anche un’ inconsapevole popolazione israeliana complice di crimini di guerra e le negano il diritto democratico di discutere nel merito.

Lo Stato deve affrontare simili ricorsi relativamente alla sua collaborazione con gli assassini della giunta argentina, del regime di Pinochet in Cile e dello Sri Lanka. L’avvocato Mack ha intenzione di presentare ulteriori casi entro la fine dell’anno. Anche se fosse interesse dello Stato respingere questi ricorsi, la Corte Suprema deve smettere di aiutare a coprire questi crimini – se non per il desiderio di perseguire gli autori delle atrocità del passato, almeno per fermarli nel tempo presente.

*John Brown è lo pseudonimo di un accademico e blogger israeliano. Questo articolo è comparso per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’, di cui egli è un blogger.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele si appresta a trasformare i cittadini beduini in rifugiati nel loro stesso Paese

Jonathan Cook

16 ottobre 2019 – Mondoweiss

La pluridecennale lotta di decine di migliaia di israeliani contro l’espulsione dalle loro case – per alcuni per la seconda o la terza volta – dovrebbe essere la prova sufficiente che Israele non è una democrazia liberale occidentale, come sostiene di essere.

La scorsa settimana 36.000 beduini – tutti cittadini israeliani – hanno scoperto che il loro Stato sta per farne rifugiati nel loro stesso Paese, spostandoli in campi vigilati. Questi israeliani, a quanto pare, sono del tipo sbagliato.

Il loro trattamento ha dolorosamente ricordato il passato. Nel 1948 750.000 palestinesi vennero espulsi dall’esercito israeliano fuori dai confini del recentemente fondato Stato ebraico costituito sulla loro patria – quella che i palestinesi definiscono la Nakba, o catastrofe.

Israele viene regolarmente criticato per la sua aggressiva occupazione, la sua espansione incessante delle colonie illegali sulla terra palestinese e i suoi ripetuti e spietati attacchi, soprattutto contro Gaza. Di rado gli analisti notano anche le sistematiche discriminazioni di Israele contro gli 1.8 milioni di palestinesi i cui progenitori sopravvissero alla Nakba e vivono all’interno di Israele, apparentemente come cittadini.

Ma ognuno di questi soprusi viene affrontato singolarmente, come se non fossero collegati tra loro, invece che come differenti sfaccettature di un progetto complessivo. Si può individuare un modello guidato da un’ideologia che disumanizza i palestinesi ovunque Israele li trovi.

Questa ideologia ha un nome. Il sionismo fornisce il filo rosso che mette in rapporto il passato – la Nakba – con l’attuale pulizia etnica dalle loro case da parte di Israele a danno dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, la distruzione di Gaza e i tentativi coordinati dello Stato di cacciare i cittadini palestinesi di Israele fuori da ciò che è rimasto delle loro terre storiche e dentro a ghetti.

La logica del sionismo, anche se i suoi più ingenui sostenitori non riescono a comprenderla, è sostituire i palestinesi con ebrei – quella che Israele definisce ufficialmente ebraizzazione.

La sofferenza dei palestinesi non è uno sfortunato effetto collaterale del conflitto. È il reale obiettivo del sionismo: incentivare i palestinesi ancora presenti ad andarsene “volontariamente”, per sfuggire a oppressione e miseria ulteriori.

L’esempio più evidente di questa strategia di sostituzione della popolazione è il trattamento di lunga data che Israele riserva a 250.000 beduini che formalmente hanno la cittadinanza. I beduini sono il gruppo più povero di Israele, vivono in comunità isolate per lo più nella vasta area semiarida del Negev, il sud del Paese. In gran parte non visibili, Israele ha avuto relativamente mano libera nei suoi tentativi di “spostarli”.

È per questo che, per un decennio dopo che aveva apparentemente finito le sue operazioni di pulizia etnica del 1948 e guadagnato il riconoscimento dalle capitali occidentali, Israele ha segretamente continuato ad espellere migliaia di beduini fuori dai suoi confini, nonostante il loro diritto alla cittadinanza.

Nel contempo altri beduini in Israele sono stati cacciati a forza fuori dalle loro terre ancestrali per essere spostati sia in circoscritte zone controllate, sia in townships [termine che riprende il nome delle zone urbane destinate ai neri nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] che sono diventate le comunità più deprivate di Israele.

È difficile definire nei beduini, semplici contadini e pastori, una minaccia per la sicurezza, come è stato fatto con i palestinesi sotto occupazione.

Ma Israele ha una definizione più ampia di sicurezza della semplice sicurezza fisica. Essa si fonda sulla conservazione di un’assoluta predominanza demografica degli ebrei. I beduini possono essere tranquilli, ma il loro numero pone una gravissima minaccia demografica e il loro modo di vivere pastorale ostacola la sorte prevista per loro – tenerli ben chiusi in ghetti.

La maggior parte dei beduini ha titoli di proprietà di molto precedenti alla creazione di Israele. Ma Israele ha rifiutato di rispettare queste rivendicazioni e molte decine di migliaia sono stati criminalizzati dallo Stato, ai loro villaggi è stato negato il riconoscimento legale.

Per decenni sono stati obbligati a vivere in baracche o tende perché le autorità rifiutano di autorizzare [la costruzione di] case adeguate e vengono loro negati servizi pubblici come scuole, acqua ed elettricità.

Se vogliono vivere in modo legale i beduini hanno un’unica alternativa: devono abbandonare le loro terre ancestrali e il loro modo di vita per spostarsi in una povera township. Molti beduini hanno fatto resistenza, rimanendo attaccati alla loro terra storica nonostante le durissime condizioni impostegli.

Uno di questi villaggi non riconosciuti, Al Araqib, è stato utilizzato per dare l’esempio. Lì le forze israeliane hanno demolito le case di fortuna più di 160 volte in meno di un decennio. Ad agosto un tribunale israeliano ha approvato il fatto che lo Stato faccia pagare a sei abitanti 370.000 dollari come multa per le ripetute espulsioni.

Il leader di Al Araqib, il settantenne Sheikh Sayah Abu Madhim, recentemente ha passato mesi in carcere dopo essere stato arrestato per occupazione illegale di suolo, benché la sua tenda sia a pochi passi dal cimitero dove sono sepolti i suoi antenati.

Ora le autorità israeliane stanno perdendo la pazienza con i beduini.

Lo scorso gennaio sono stati svelati piani per lo sgombero dalle loro case urgentemente e con la forza di circa 40.000 beduini in villaggi non riconosciuti, sotto il pretesto di progetti di “sviluppo economico”. Sarà la più vasta espulsione da decenni.

Come “sicurezza”, anche “sviluppo” ha una connotazione diversa in Israele. In realtà significa sviluppo per gli ebrei, o ebraizzazione – non sviluppo per i palestinesi.

Il progetto include una nuova autostrada, una linea elettrica ad alta tensione, una struttura per la sperimentazione di armamenti, una zona militare di tiro e una miniera di fosforo.

La scorsa settimana è stato rivelato che le famiglie verrebbero obbligate a stare dentro centri di trasferimento nelle township, a vivere per anni in sistemazioni di fortuna mentre viene deciso il loro destino finale. Questi centri sono già stati paragonati ai campi di rifugiati costruiti per i palestinesi in seguito alla Nakba.

Il malcelato scopo è di imporre ai beduini condizioni di vita tali per cui alla fine accetteranno di essere rinchiusi definitivamente nelle township alle condizioni imposte da Israele.

Quest’estate sei importanti esperti per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno inviato una lettera a Israele per protestare in base alle leggi internazionali contro le gravi violazioni dei diritti delle famiglie beduine e per sostenere che sarebbero possibili approcci alternativi.

Adalah”, l’associazione giuridica per i palestinesi in Israele, nota che Israele ha espulso a forza i beduini per settant’anni, trattandoli non come esseri umani ma come pedine nella sua battaglia senza fine per sostituirli con coloni ebrei.

Lo spazio vitale dei beduini si è incessantemente ridotto e il loro modo di vita è stato distrutto. Ciò contrasta crudamente con la rapida espansione delle città e fattorie di singole famiglie ebraiche sulla terra da cui i beduini sono stati cacciati.

È difficile non concludere che quello che sta avvenendo sia una versione amministrativa della pulizia etnica che i funzionari israeliani mettono in atto in modo più palese nei territori occupati sulla base di cosiddetti problemi di sicurezza.

Queste interminabili espulsioni sembrano meno una politica necessaria e ragionata e più un orribile tic nervoso ideologico.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente”] (Pluto Press), e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana”] (Zed Books).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele non ha mai avuto intenzione di rispettare né il Piano di partizione del 1947 né i confini del 1967

Thomas Suárez

10 ottobre 2019 Middle East Monitor

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva promesso che avrebbe annesso parti della Cisgiordania occupata se fosse stato rieletto alle elezioni del mese scorso, suscitando indignazione nei leader di tutto il mondo. Tuttavia, quella “promessa” di usurpare non solo la Cisgiordania ma tutta la Palestina, è una notizia vecchia di un secolo, una promessa mantenuta e comunque nessuna indignazione internazionale ha mai avuto una qualche importanza.

Un logoro capitolo del mito della creazione di Israele spiega così le sue conquiste: quando, nel novembre del 1947, le Nazioni Unite proposero di dividere la Palestina in due Stati (Risoluzione dell’Assemblea Generale 181), i fondatori di Israele accettarono l’offerta con gratitudine, mentre i palestinesi la derisero e attaccarono il nascente “Stato ebraico”.

Il risultato di questa presunta intransigenza palestinese? La “cosa fondamentale”, come affermano gli spin-doctor israeliani di CAMERA [Comitato per la correttezza di corrispondenze e analisi in Medio Oriente,ndtr.], è che se i palestinesi avessero accettato la divisione, dal 1948 ci sarebbe stato uno Stato palestinese, “e non ci sarebbe stato neppure un rifugiato palestinese”.

Questa è più che una bizzarra razionalizzazione di sette decenni di imperialismo e pulizia etnica; è un’invenzione storica. Il movimento sionista non ha mai avuto alcuna intenzione di rispettare qualsiasi accordo che gli “desse” meno dell’intera Palestina. Importanti leader come il “moderato” Chaim Weizmann e l’iconico David Ben-Gurion finsero di accettare la partizione perché consegnava loro un’arma abbastanza potente per ostacolare la divisione: lo Stato.

Quando la Gran Bretagna accettò di diventare un benefattore del sionismo, codificato con l’ambigua Dichiarazione Balfour del 1917, i suoi negoziatori sapevano benissimo che i sionisti avevano pianificato di usurpare e ripulire etnicamente la Palestina, e che al contrario le assicurazioni della Dichiarazione erano una bugia. Come lamentava Lord Curzon [politico conservatore britannico e ministro degli Esteri dal 1919 al 1924, ndtr.], i propagandisti del sionismo “hanno cantato una melodia diversa in pubblico” – una melodia che i principali media continuano a canticchiare oggi.

Nel 1919, gli attivisti come Weizmann erano già esasperati dall’incapacità della Gran Bretagna di stabilire uno Stato sionista dal Mediterraneo al fiume Giordano [cioè su tutta la Palestina storica, ndtr.] – per cominciare – e spingevano perciò verso un “piano di emigrazione globale” dei non ebrei per avere la pulizia etnica fatta e finita. La menzogna pubblica fu mantenuta; il colonnello britannico Richard Meinertzhagen assicurò Weizmann che il vero piano era “ancora taciuto al grande pubblico”. Né il pubblico fu informato quando, nello stesso anno, la commissione King-Crane degli Stati Uniti andò nella regione per scoprire da sé che “i sionisti non vedevano l’ora di una espropriazione praticamente completa degli attuali abitanti non ebrei della Palestina”. Il rapporto della Commissione venne insabbiato.

Fu nel 1937 che i disordini causati dall’espropriazione portarono gli inglesi a proporre di spartire la terra. Ben-Gurion vide il potenziale nascosto nella partizione: “A seguito dell’istituzione dello Stato”, disse all’esecutivo sionista, “aboliremo la divisione e ci espanderemo in tutta la Palestina”. Fece la stessa promessa a suo figlio Amos.

Quando Ben-Gurion, Weizmann e gli altri si incontrarono a Londra nel 1941 per discutere un piano futuro, il cinico distacco fu agghiacciante. Avrebbero gli “arabi” avuto uguali diritti nello “Stato ebraico”? Certo, ma solo dopo che non ne fosse rimasto più nessuno. La partizione sarebbe stata ragionevole? Certamente, se il confine fosse stato il fiume Giordano (che significava il 100 % della Palestina ad Israele), estensibile perfino nel regno hascemita della Giordania. Un partecipante sfidò i sionisti; l’industriale Robert Waley Cohen li accusò di seguire un’ideologia nazista.

Nel 1944, gli inglesi sapevano che l’opposizione alla spartizione si era “indurita a tutti i livelli dell’opinione pubblica ebraica [sionista]” e che le nuove risoluzioni tra i leader dei coloni ponevano “un’enfasi speciale sul rifiuto della spartizione”. Ma il fallimento della spartizione sarebbe diventato un problema palestinese. Gli inglesi sarebbero tornati a casa.

Ben-Gurion descrisse lo Stato come uno “strumento”, non il “fine”, una distinzione “particolarmente rilevante per la questione dei confini”, che sarebbero invece stati fissati “prendendo il controllo del paese con la forza delle armi”. Quasi nessun pretesto è stato accampato fuori dalle mura delle Nazioni Unite: il presidente dell’Organizzazione Sionista d’America Abba Silver condannò pubblicamente qualsiasi menzione di partizione e chiese una “linea di azione aggressiva e militante” per prendere possesso di tutta la Palestina. Le milizie dell’Agenzia Ebraica erano impegnate a fare proprio questo, stabilendo freneticamente roccaforti in aree che le Nazioni Unite avevano assegnato ai palestinesi.

“La pace del mondo”, mise in guardia il futuro primo ministro israeliano Menachem Begin alle Nazioni Unite nell’estate del 1947 – dopo che il terrorismo sionista aveva già raggiunto l’Europa e la Gran Bretagna – sarà minacciata se “la [biblica] Patria Ebraica” non fosse stata data completamente ai sionisti. “Qualunque cosa possa essere firmata o promessa” alle Nazioni Unite, avvertì il Jewish Standard, sarebbe stata annullata da “il potere e la passione che si oppongono alla partizione” per una “risoluzione senza compromessi”.

Questo fanatismo di massa per “ristabilire” un antico regno ed essere la sua ipotetica popolazione era il risultato di quello che potrebbe essere descritto come un lavaggio del cervello. Già nel 1943 l’intelligence americana aveva segnalato che il sionismo stava alimentando “uno spirito molto simile al nazismo, (per) irreggimentare la comunità (e) ricorrere alla forza” per raggiungere i propri obiettivi. Avvertimenti simili sulla morsa fascista del sionismo sugli ebrei provenivano da individui interni ad esso, tra cui J.S. Bentwich, ispettore capo delle scuole ebraiche e presidente dell’Università ebraica Judah Magnes.

Il giorno prima che fosse approvata la risoluzione 181, la CIA avvertì nuovamente che i sionisti avrebbero ignorato la divisione e “intraprenderanno una forte campagna di propaganda negli Stati Uniti e in Europa” per ottenere più territorio. Poi però, come oggi, gli americani furono mantenuti all’oscuro: “Gli americani”, ha osservato nel 1948 Kermit Roosevelt, esponente dell’intelligence statunitense, non si rendono conto “della misura in cui è stata rifiutata l’accettazione della partizione come soluzione definitiva da parte dei sionisti in Palestina”.

Ironicamente, è stato perché le Nazioni Unite non hanno mai creduto che i sionisti avrebbero onorato i confini della spartizione che hanno “dato loro” un’area di terra sproporzionatamente ampia, sperando che ciò potesse ritardare la loro inevitabile aggressione. Ma l’inchiostro era a malapena asciutto quando il sindaco di Tel Aviv, presunta capitale del nuovo Stato, annunciò che la sua città “non sarebbe mai stata la capitale ebraica”. Lo sarebbe stata Gerusalemme, una violazione diretta della risoluzione delle Nazioni Unite per la partizione, che l’aveva designata come zona internazionale. L’Agenzia Ebraica affermò anche che “un certo numero di istituzioni nazionali” sarebbero state a Gerusalemme.

Il duplice atteggiamento nei confronti della loro “vittoria” alle Nazioni Unite non fu particolarmente celato. Sia il “liberale” Haaretz che il quotidiano sionista [della destra, ndtr.] Haboker, diedero un medesimo messaggio: “I giovani dello Yishuv [l’insediamento ebraico in terra d’Israele, ndtr.] devono mantenere nei loro cuori la profonda convinzione che le frontiere non sono state fissate per l’eternità”, affermava Haboker. Indipendentemente dal tempo ci vorrà, il resto sarà “restituito all’ovile”.

Una volta garantito uno Stato israeliano, gli avvertimenti della CIA si fecero anche più infausti: gli agenti sionisti si stavano infiltrando fra il personale militare americano e dell’American Airlines. L’ex senatore americano Guy Gillette lavorava apertamente per il gruppo terroristico Irgun e spinse per il riconoscimento generale della sovranità israeliana su tutte le terre che le sue milizie potessero conquistare.

Gerusalemme rimaneva la preoccupazione più pressante di Israele. Mentre la terra sotto il dominio “arabo” avrebbe potuto essere ad un certo punto usurpata, una Gerusalemme amministrata dalle Nazioni Unite no. E così quando il mediatore delle Nazioni Unite conte Folke Bernadotte stilò un nuovo piano di pace nell’autunno del 1948, il gruppo terroristico Lehi [noto anche come Banda Stern, ndtr.] lo minacciò, opponendosi ad una “amministrazione non ebrea”. Tuttavia, nella Risoluzione 181 Bernadotte mantenne la zona internazionale e il giorno successivo il Lehi, sotto la guida del futuro primo ministro israeliano Yitzhak Shamir, lo assassinò.

Alla fine del 1948 Israele aveva rubato più di metà della terra che aveva “accettato” di lasciare ai palestinesi e si rifiutò di lasciarla. Questo fu all’origine del termine fuorviante “confini del 1967”; in verità erano la linea del cessate il fuoco. La partizione era una farsa e i negoziatori palestinesi avevano ragione a respingerla, ma la loro onestà fu, dal punto di vista machiavellico, un errore tattico su cui i sionisti contavano. In breve, Israele non ha mai avuto intenzione di rispettare né il piano di partizione del 1947 né i confini del 1967. Il cosiddetto Grande Israele in tutta la Palestina storica e oltre è sempre stato l’obiettivo del sionismo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Netflix e Israele: un rapporto speciale

Belen Fernandez

24 settembre 2019 – Middle East Eye

Come numerose piattaforme dell’intrattenimento, Netflix si è fatta inglobare nell’industria della hasbara israeliana

Nel 2016 l’ambasciata israeliana negli Stati Uniti ha twittato riguardo all’espansione di Netflix a livello globale: “Per circa 5 giorni all’anno il tempo non è buono…@Netflix, ora in Israele!”

Certo, che fortuna che Israele sia riuscito a fondarsi su terra rubata con un clima così favorevole. E, parlando di fortuna, Netflix si è dimostrato un vero dono del cielo per lo Stato ebraico per molto più di cinque giorni all’anno. Come numerose piattaforme di intrattenimento, Netflix si è fatta inglobare nell’industria della hasbara [propaganda, ndtr.] israeliana.

Onorare il Mossad

L’ultimo prodotto filo-israeliano per abbellire gli schermi degli utenti a pagamento è la serie in sei parti “La Spia” di Netflix, con Sacha Baron Cohen che interpreta l’agente del Mossad [servizio segreto per l’estero, ndtr.] israeliano Eli Cohen, giustiziato a Damasco nel 1965.

Prevedibilmente la serie umanizza Cohen in quanto umile, amorevole e zelante patriota impegnato in un nobile inganno a favore degli innocenti israeliani sotto attacco da parte dell’ignobile Siria. Non si fa alcun riferimento al ruolo prevalente di Israele come aggressore-provocatore, mentre la sua storia di stragi di massa al servizio di disegni predatori a livello regionale è – come al solito – sparita sotto il mantra dell’“autodifesa”.

Ma “La Spia” è solo l’inizio. Cercate “Israele” su Netflix e sarete bombardati da ogni sorta di offerte, da “Dentro al Mossad” a “Fauda”, una serie su “un importante agente (che) ritorna in servizio dalla pensione per dare la caccia a un combattente palestinese che pensava di aver ucciso”. Nel trailer, apprendiamo che “Abu Ahmad ha sulle mani il sangue di 116 israeliani” e che “nessun altro terrorista ne ha uccisi così tanti: uomini, donne, bambini, anziani, soldati.”

Non importano, allora, gli episodi della vita reale come quella volta in cui nel 2014 l’esercito israeliano ha avuto sulle sue mani il sangue di 2.251 palestinesi, compresi 299 donne e 551 minorenni. Quello che interessa alla propaganda israeliana è invertire il rapporto tra carnefice e vittima, cosicché il terrorismo istituzionalizzato di Israele a danno dei palestinesi sarebbe in qualche modo per sua natura una reazione, mentre le vittime di più di settant’anni di aggressioni israeliane si ritrovano nel ruolo degli aggressori.

La morale della storia

La lista di Netflix continua. Vi sono ospitati anche due film intitolati “L’angelo” e “La spia caduta sulla terra”, usciti rispettivamente nel 2018 e nel 2019, e riguardanti lo stesso personaggio: l’egiziano Ashraf Marwan, genero del defunto presidente Gamal Abdel Nasser.

Nel loro libro “Spies Against Armageddon: Inside Israel’s Secret Wars” [Spie contro l’Armageddon: dentro le guerre segrete di Israele] Dan Raviv e Yossi Melman notano che nel 1973 Marwan è stato il coordinatore del complotto libico-egiziano-palestinese per abbattere un aereo della linea aerea israeliana El Al in Italia, in risposta all’abbattimento da parte di Israele di un velivolo libico che aveva ucciso le 105 persone a bordo.

Marwan consegnò personalmente i missili richiesti a incaricati palestinesi a Roma, ma “il piano fallì…Quello che i cospiratori libici, egiziani e palestinesi non hanno mai saputo è il segreto riguardante Marwan: era un agente al soldo del Mossad, uno dei migliori che Israele abbia mai avuto.”

Mentre per gli arabi la morale della storia è forse che fare la spia per Israele è un buon modo per raggiungere una fama postuma su Netflix, questo specifico aneddoto dovrebbe anche annullare concretamente le affermazioni israeliane di avere a cuore il benessere e la sicurezza dei propri cittadini.

Poi c’è “When Heroes Fly” [Quando volano gli eroi], la serie del 2018 su quattro veterani dell’esercito israeliano traumatizzati dalla guerra del 2006 in Libano; solo per il fatto che Israele fece la grande maggioranza delle uccisioni ed altri danni non significa che il ruolo di vittima dovrebbe essere tolto ai suoi soldati.

Un articolo di Haaretz ci assicura che “il nuovo thriller israeliano di Netflix ‘When Heroes Fly’ è divertente quasi quanto ‘Fauda’” e la serie è “abbastanza avvincente da soddisfare chiunque abbia perso ‘Fauda’ nella propria vita.” Di certo è difficile pensare a qualcosa di più divertente di una guerra e di un trauma.

Ultimo ma non per importanza, c’è il film di Netflix “Il Centro Immersioni del Mar Rosso”, sui tentativi da salvatore bianco del Mossad negli anni ’80 di evacuare gli ebrei etiopi attraverso il Sudan verso la Terra Promessa (ovviamente per molti la terra in questione non sarebbe risultata così promessa, come possono probabilmente testimoniare gli etiopi a cui sono stati somministrati a forza farmaci contraccettivi o a cui la polizia israeliana ha sparato).

Il film è diretto da Gideon Raff, che ha ideato anche “La Spia” e “Hatufim”, che ha ispirato la serie razzista considerata da tutti la preferita, “Homeland” [Patria] – alla quale Raff ha contribuito. Discussione su come trovare il proprio posto.

Spettacolo vergognoso

Evidentemente non c’è niente di contraddittorio riguardo agli israeliani che compiangono la morte e l’espulsione in Etiopia – e all’imperativo morale di salvare le vittime – quando tutta l’impresa israeliana è costruita su, proprio così, morte ed espulsione.

Nel 1948 la Nakba vide centinaia di villaggi palestinesi distrutti, l’uccisione di 15.000 palestinesi ed altri 750.000 costretti a fuggire dalle loro case. Da allora il modello della pulizia etnica è solo continuato, punteggiato da veri e propri picchi di massacri.

In quello che non può che essere descritto come un’esibizione di totale spudoratezza, “The Red Sea Diving Resort” include battute come questa, detta da una bionda agente israeliana: “Non siamo tutti solo dei rifugiati?”

Il film finisce ricordando che “attualmente ci sono più di 65 milioni di rifugiati in tutto il mondo”; al diavolo il fatto che, grazie a Israele, di palestinesi rifugiati ce ne sono oltre sette milioni.

E mentre nel film un agente sostiene che c’è “un altro sanguinoso genocidio” che sta avvenendo in Etiopia, ma che “a nessuno gliene fotte niente perché avviene in Africa”, il tentativo di genocidio di Israele per spazzare via l’identità palestinese non merita evidentemente la stessa preoccupazione.

A conti fatti la mia ricerca di “Palestina” su Netflix – e lo stesso vale per “Libano” e “Siria” – ha prodotto in buona misura la stessa ampia scelta di thriller con spie israeliane e altre “piacevolezze”. Quando ho tentato di cercare “Nakba”, il principale risultato è stato “Bad Boys II” [Cattivi ragazzi 2, serie poliziesca USA, ndtr.], interpretato da Martin Lawrence e Will Smith; un po’ più in basso si trova “The Red Sea Diving Resort”.

Sparizione

Recentemente ho contattato Netflix per avere risposte alle critiche sul fatto che funge da mezzo per la propaganda israeliana, ed ho ricevuto la seguente dichiarazione da un portavoce: “Ci occupiamo dell’industria dell’intrattenimento, non dei media o della politica.

Comprendiamo che non tutti gli spettatori apprezzano tutta la programmazione che offriamo. È per questo che abbiamo una vasta gamma di contenuti da tutto il mondo – perché crediamo che le grandi storie arrivino da qualunque parte. Tutti gli spettacoli di Netflix mostrano la classificazione e l’informazione per aiutare gli utenti a prendere le proprie decisioni su quello che va bene per loro e per le loro famiglie.”

La mia attenzione era rivolta anche ad alcuni esempi dei “diversi contenuti arabi che si trovano nel servizio e in via di sviluppo”, di cui il primo è “comici del mondo”, uno spettacolo che ospita 47 comici internazionali – quattro dei quali mediorientali.

Ma i comici del Medio Oriente sono molto lontani dagli apprezzamenti per “The Spy” – che, come ogni spettacolo di intrattenimento centrato su Israele, è intrinsecamente politico – e il solo fatto che su Netflix ci sia un “contenuto arabo” non significa che faccia qualcosa per umanizzare o contestualizzare la lotta dei palestinesi.

Il rapporto speciale di Netflix con Israele potrebbe essere redditizio per chi ne è coinvolto, ma, contribuendo ad alzare gli indici di gradimento di Israele in un’esibizione di brutalità che è già durata per settant’anni di troppo, la compagnia è totalmente complice nella sparizione dei palestinesi operata da Israele.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Belen Fernandez  è autrice di Exile: Rejecting America and Finding the World [Esilio: rifiutare l’America e trovare il mondo”] e di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work” [“Il messaggero dell’impero: Thomas Friedman [giornalista del NYT noto per le sue posizioni filoisraeliane] al lavoro]. È una collaboratrice della rivista “Jacobin” [“Giacobino”, rivista della sinistra radicale USA, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione di Netanyahu ucciderà Israele

David Hearst

17 settembre 2019    Middle East Eye

L’annessione elimina tutti i muri accuratamente eretti da Israele per dividere i palestinesi, distruggendo dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

Questa doveva essere la promessa elettorale più importante. Benjamin Netanyahu, l’uomo che governa Israele da quasi 30 anni, aveva previsto di assestare così il colpo di grazia ai suoi rivali politici della destra colonizzatrice. Avigdor Lieberman, l’ago della bilancia? Ora non più.

Tuttavia l’annuncio di Netanyahu che, se sarà rieletto, annetterà la Valle del Giordano e con essa quasi un terzo della Cisgiordania, non ha avuto l’effetto previsto.

Netanyahu si è vantato di essere in grado di annettere tutte le colonie  al centro della sua patria, grazie alla “sua relazione personale con il presidente Trump”.

Ma il presidente americano Donald Trump questa volta non è stato al gioco.

Bolton licenziato

La Casa Bianca ha emesso un comunicato che afferma che la politica americana al momento non è cambiata e per rafforzare il concetto Trump ha licenziato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, a lungo considerato dai dirigenti israeliani il proprio uomo a Washington.

Ben Caspit, corrispondente di Maariv (quotidiano israeliano, ndtr.), ha affermato che Netanyahu aveva chiesto a Trump un riconoscimento per l’annessione della Valle del Giordano simile a quello dato per le Alture del Golan. Bolton era d’accordo, ma Trump si è rifiutato.

Caspit ed altri corrispondenti hanno sottolineato che Netanyahu non aveva neppure bisogno di chiedere il permesso di Trump per annettere la Valle del Giordano, che ha una storia giuridica molto diversa da quella delle Alture del Golan, che sono state sottratte alla Siria.

Netanyahu ha bisogno soltanto di una maggioranza semplice alla Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] per annettere la Valle del Giordano, perché la legge che glielo permette esiste già. Questa legge, adottata dai deputati di sinistra nel 1967, perfezionava un’ordinanza risalente al mandato britannico, che autorizzava il governo ad emanare un decreto che enunciava in quali regioni della Palestina si dovevano applicare la giurisdizione e l’amministrazione dello Stato di Israele. È questa legge che ha permesso a Levy Eshkol [all’epoca primo ministro israeliano, ndtr.] di annettere Gerusalemme est nel 1967.

Poco importa. Questa defezione sensazionale è stata seguita da un’altra : la sua.

Netanyahu ha dovuto essere portato via dal palco dalle guardie del corpo nel mezzo di un discorso  della campagna elettorale a Ashdod, nel sud di Israele, quando dei razzi lanciati da Gaza hanno fatto suonare le sirene di allarme che annunciavano un attacco dal cielo. Era un avvertimento indirizzato a Netanyahu e a tutti i coloni israeliani dalla terra sulla quale si sono insediati.

La finzione ANP

Nessuna annessione, per quanto ampia, porrà fine a questo conflitto. I palestinesi se ne infischiano di sapere in che modo le loro terre sono occupate, o se effettivamente un ulteriore 33% sarà sottratto al 20% della Palestina storica che rimane loro.

Sapere in quale enclave, in quale bantustan o in quale prigione sono detenuti, o se l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è davvero dissolta, o se il presidente Mahmoud Abbas consegna le chiavi della Cisgiordania al più vicino comandante dell’esercito israeliano, tutti questi sono sofismi per loro. Allo stato attuale delle cose, Abbas deve chiedere il permesso all’esercito israeliano per ogni suo atto.

L’ANP non esiste veramente, non è che uno strumento con cui Israele obbliga i poliziotti palestinesi a liberare le strade prima che le sue forze armate entrino in tutta la Cisgiordania con incursioni notturne.

L’autonomia della zona A [in base agli accordi di Oslo sotto totale controllo palestinese, ndtr.] è in gran parte fittizia. Se l’ANP dovesse essere sciolta, l’unica preoccupazione di Israele sarebbero le circa 100.000 armi detenute dalle forze di sicurezza palestinesi.

A causa della loro natura priva di sostanza, tutte le istituzioni e le strutture palestinesi sono diventate ampiamente irrilevanti – tranne che come fonte di reddito – per gli stessi palestinesi. Poco importa sapere chi gestisce l’occupazione, né quante leggi vengono adottate per privarli della loro identità nazionale, dei loro diritti di proprietà e del loro Stato.

Qualunque cosa accada e qualunque sia il numero delle enclave create per i palestinesi, il nodo demografico di questo conflitto resterà lo stesso: oggi ci sono più palestinesi che ebrei israeliani tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo].

Apartheid israeliano

Il vice capo dell’Amministrazione civile israeliana [ente che governa sui territori palestinesi occupati, ndtr.], generale Haim Mendes, ha presentato i seguenti dati alla Commissione affari esteri e difesa della Knesset lo scorso dicembre : vi sono attualmente 6,8 milioni di palestinesi tra il fiume e il mare (5 milioni a Gaza e in Cisgiordania, 1,8 milioni all’interno di Israele e di Gerusalemme est). Di contro, secondo l’Ufficio Centrale di Statistica, gli ebrei in Israele sono 6,6 milioni.

Il solo modo di cambiare il cuore del conflitto è sapere se, o quando, Israele procederà ad un’altra espulsione di massa o ad un’azione di pulizia etnica, come è avvenuto nel 1948 e nel 1967.

Diversamente, la vita dei palestinesi non cambierà. Questo significa che, qualunque siano le dichiarazioni fatte durante le campagne elettorali, gli ebrei israeliani stanno diventando una minoranza su quella che affermano essere la propria terra e non possono imporre la loro supremazia che attraverso l’apartheid.

Anche se ciò non modifica niente rispetto alla situazione di sudditanza imposta ai palestinesi nel loro Paese, modifica però la narrativa di Israele tra le elite politiche in Europa e negli Stati Uniti, alle quali Israele ha devoluto miliardi di shekel [valuta israeliana] per ingraziarsele.

Prima dell’annessione, e quando il principio “terra in cambio di pace” era ancora la narrazione dominante del processo di Oslo, la classe politica di sinistra e di destra in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in tutta Europa poteva aderire simultaneamente a interpretazioni che si escludevano l’un l’altra  per una soluzione del conflitto.

Potevano impegnarsi ad essere “sostenitori di Israele”, approvando al tempo stesso il diritto all’autodeterminazione palestinese in un Stato palestinese ipotetico – però mai realizzabile.

Perdita di legittimità internazionale

Per quanto riguardava Israele, il mito che ribadivano era che c’era qualcosa chiamato “Israele propriamente detto”, che è stato riconosciuto a livello internazionale – e poi, ahimè (grosso sospiro) c’erano cose chiamate colonie, che erano illegali, ma (altro grosso sospiro) che cosa ci si può fare? L’idea era che se soltanto le due parti fossero riuscite a fare dei compromessi, si sarebbe potuta trovare una soluzione territoriale.

Con l’annessione come politica ufficiale, tutto questo cambierebbe. Il momento in cui lo Stato di Israele consideri le colonie come facenti parte del proprio territorio,  sarà il momento in cui “Israele propriamente detto” cesserà di esistere. Tutto Israele diventerebbe una colonia. Lo Stato israeliano perderebbe la sua legittimità internazionale.

Se l’annessione è letale per l’immagine internazionale di Israele come Stato europeo avanzato in un deserto di arabi selvaggi, irragionevoli e agitati, lo è ancor di più nella prospettiva di costruire e mantenere uno Stato ebraico all’interno.

La concessione più deleteria che Yasser Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) hanno fatto nel corso del processo di Oslo non è stato il riconoscimento dello Stato di Israele, ma l’abbandono dei palestinesi – il 20% della popolazione – che ci vivono.

Lotta per la sovranità

Questo ha creato ogni sorta di anomalie. Gerusalemme era il cuore del conflitto e la capitale dello Stato palestinese, ma l’ANP, in quanto tale, non esercitava alcuna autorità sugli abitanti di Gerusalemme che là vivono.

Per una gran parte del processo di pace i “palestinesi del 1948” – quelli che sono stati autorizzati a restare, o che sono stati spostati all’interno del Paese al momento della creazione dello Stato di Israele – non hanno preso parte alla lotta contro l’occupazione. Avevano la cittadinanza israeliana e sono stati chiamati dai loro padroni “arabi israeliani”.

L’annessione cambia tutto ciò. Elimina in un colpo solo tutti i muri accuratamente eretti che Israele ha costruito per dividere i palestinesi, creando una gamma di blocchi carcerari sotto sorveglianza. Gaza, la Cisgiordania, i “palestinesi del 1948” e quelli della diaspora diventano un solo popolo che lotta per la sovranità nel proprio Paese.

Inconsapevolmente, l’annessione distrugge dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

I dirigenti palestinesi che non sono stati assassinati o imprigionati da Israele erano essenziali per il mantenimento dello status quo, grazie al quale aree come la Valle del Giordano sono state annesse di fatto, se non ufficialmente.

Non è come se i palestinesi potessero realmente utilizzare e coltivare la Valle del Giordano, la loro terra più fertile. Essa si estende su circa 160.000 ettari e rappresenta quasi il 30% della Cisgiordania. Israele sfrutta la quasi totalità della Valle del Giordano per le proprie necessità e impedisce ai palestinesi di entrare o di utilizzare circa l’85% dell’area, sia per edilizia che per infrastrutture, per scopi agricoli o abitativi.

Nel 2016 ci vivevano 65.000 palestinesi e 11.000 coloni. Ciò significa che una minoranza della popolazione è autorizzata a spostarsi nell’85% della terra.

Una morte lenta

Israele non ha bisogno di annettere la Valle del Giordano. In realtà lo ha già fatto.

Dato che i dirigenti palestinesi sono moribondi, le future generazioni di palestinesi andranno alla ricerca di una prospettiva molto diversa. Saranno obbligati a riformulare la loro strategia, a correggere gli errori del passato e a considerarsi nuovamente come parte di un popolo espulso da un Paese.

L’annessione è la morte dell’Israele del 1948, uno Stato a maggioranza ebraica.

E’ la nascita di uno Stato ebraico minoritario che non può sopravvivere se non eliminando e controllando la sua maggioranza palestinese. Fare questo, in un continente a maggioranza araba e musulmana, equivale a votarsi ad una morte lenta e costante.

Quale che sia il numero di dirigenti palestinesi che compra, Israele suscita continuamente l’ira degli arabi e dei musulmani, dovunque vivano. Nessun muro, nessun esercito, nessuna flotta di droni, nessun arsenale nucleare, nessun presidente americano proteggeranno a lungo termine uno Stato con una minoranza ebraica.

 

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Quando ha lasciato The Guardian, era capo editorialista della rubrica Esteri del giornale. Durante i suoi 29 anni di carriera, si è occupato dell’attentato con una bomba a Brighton, dello sciopero dei minatori, della reazione lealista in seguito all’accordo anglo-irlandese in Irlanda del nord, dei primi conflitti scoppiati in Slovenia e Croazia al momento della dissoluzione della ex-Yugoslavia, della fine dell’Unione Sovietica, della Cecenia e delle guerre che hanno contraddistinto l’epoca a lui contemporanea. Ha seguito il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le circostanze che hanno permesso l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente europeo per la rubrica Europa del Guardian, prima di trasferirsi nel 1992 all’ufficio di Mosca, assumendone la direzione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per andare all’ufficio Esteri, prima di diventare redattore capo della rubrica Europa e poi vice redattore capo della rubrica Esteri. Prima di lavorare al Guardian, David Hearst è stato corrispondente per la rubrica Educazione nel giornale The Scotsman.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)