La verità dietro la corsa del Centro America per seguire lo spostamento dell’ambasciata USA

Maren Mantovani

giovedì 17 maggio 2018, Middle East Eye

Negli anni ’80 Israele fornì aiuto militare a brutali dittature latinoamericane. Il Guatemala è stato il primo a seguire lo spostamento dell’ambasciata USA. Honduras e Paraguay potrebbero presto essere i prossimi Paesi.

Mentre a Gaza – e in tutto il mondo – la gente stava ancora piangendo i 62 palestinesi uccisi, gli oltre 2.700 mutilati e feriti in un solo giorno in seguito a un altro massacro israeliano contro civili disarmati, il 16 maggio una seconda ambasciata stava tenendo la cerimonia di apertura a Gerusalemme.

Il Guatemala ha seguito le orme degli USA.

Israele ha dovuto promettere di pagare le spese dello spostamento. Il ministero degli Esteri israeliano ha coperto parte dei costi del trasferimento dell’ambasciata guatemalteca da Rishon LeZion [cittadina dell’area metropolitana di Tel Aviv, ndt.] a Gerusalemme, contribuendo con un totale di 300.000 dollari.

Jimmy Morales, il presidente di destra del Paese, a cui lo scorso mese gruppi delle società civile hanno chiesto di dimettersi in seguito ad accuse di corruzione, ha dovuto chiedere ai tribunali il permesso per suo fratello e suo figlio, entrambi sotto processo per corruzione, perché lo accompagnassero a Gerusalemme. Tuttavia i media guatemaltechi hanno già scoperto nella contabilità del loro governo voci di spesa sospette per la cerimonia di apertura dell’ambasciata.

Comunque sempre meno della grottesca esibizione offerta dalla cerimonia di apertura degli USA. Mentre Israele falciava manifestanti, armati solo della loro determinazione a tornare alle loro case piuttosto che soccombere in silenzio al brutale assedio di Gaza, Donald Trump ha annunciato in video che “stiamo veramente facendo grandi passi avanti” per un accordo tra Israele e i palestinesi.

Una realtà tragica e inumana

Se il riconoscimento da parte della Casa Bianca di Gerusalemme – che in base alle leggi internazionali non fa parte di Israele – come capitale di Israele e il conseguente spostamento dell’ambasciata USA non fosse parte di una realtà tragica e inumana imposta al popolo palestinese, lo si potrebbe definire surreale.

Settant’anni dopo l’inizio della Nakba – la pulizia etnica di massa del popolo palestinese – le politiche israeliane di espulsione, furto di terre e risorse, repressione e segregazione continuano giorno dopo giorno. La Grande Marcia del Ritorno, che rivendica il diritto, riconosciuto dall’ONU, al ritorno per i profughi che rappresentano più di metà del popolo palestinese, si è trasformata in un massacro.

Lo spostamento dell’ambasciata USA non è solo un attacco frontale ai diritti dei palestinesi a Gerusalemme, ma ha anche fornito una copertura diplomatica a Israele per un ulteriore massacro contro Gaza. Manda il messaggio che il regime israeliano può continuare con tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti umani fondamentali.

Ciò comprende l’attacco concreto non solo al loro diritto al ritorno, ma alle vite ed esistenze stesse dei rifugiati palestinesi a Gaza. Ciò può indurre all’impressione che Israele abbia raggiunto il massimo del suo potere, con un’impunità garantita.

Un’analisi più approfondita del potere globale che si gioca oggi sulla Palestina non cambia la conclusione secondo cui siamo arrivati ad un momento estremamente pericoloso e drammatico della storia – ma ciò fornisce qualche barlume di speranza.

A dicembre gli USA ed Israele erano profondamente isolati nel voto dell’assemblea generale dell’ONU sul riconoscimento USA di Gerusalemme come capitale di Israele. Solo altri cinque Paesi hanno votato con l’asse USA-Israele.

Stupidità politica

La legittimazione del riconoscimento USA di Gerusalemme – una città su cui in base alle leggi internazionali Israele non ha la sovranità – come capitale di Israele è un precedente che minaccia le fondamenta stesse delle relazioni internazionali. Se gli USA possono arbitrariamente decidere in materia di sovranità internazionale, verranno minacciati gli interessi di moltissimi Paesi.

Fondamentali controlli contro i capricci e la volontà del potere USA saranno eliminati. Accettarlo significherebbe la totale dipendenza dagli USA o la totale stupidità politica. Ciononostante, al momento, Israele ha previsto che oltre dieci Paesi potrebbero spostare le loro ambasciate. Oggi è in corso solo il trasloco di quella del Guatemala.

Israele spera che l’Honduras sia il prossimo a spostare la sua ambasciata.

Cosa c’è sotto il rapporto di Israele con questi Stati centroamericani, che li vede unirsi a un’iniziativa pericolosa, rifiutata dalla grande maggioranza della comunità internazionale?

I rapporti di Israele con Honduras e Guatemala divennero particolarmente stretti durante i giorni oscuri delle dittature centroamericane, quando Israele fornì generoso supporto militare ai generali guatemaltechi nel periodo del genocidio dei maya nei primi anni ’80. Addestrò le forze speciali honduregne accusate di torture e utilizzò il Paese come base per l’appoggio ai Contras [guerriglia finanziata dagli USA contro il governo sandinista, ndt.] in Nicaragua.

Oggi l’Honduras è nel bel mezzo di un ciclo di violente violazioni dei diritti umani da parte del governo di Juan Orlando Hernandez, arrivato al potere con un “colpo di Stato parlamentare”. Questo governo si è talmente macchiato di sangue che la presenza di Hernandez nel “Giorno dell’Indipendenza” di Israele ha dovuto essere annullata dopo le proteste che ha sollevato da parte israeliana.

Una prova del nove

Il presidente paraguayano, che a sua volta ha indicato l’intenzione di spostare l’ambasciata, è allo stesso modo arrivato al potere con un “colpo di Stato parlamentare”. Dato che lascerà il suo posto in agosto, pare dubbio che lo spostamento abbia effettivamente luogo.

Il tentativo della prima ministra rumena di iniziare il processo di spostamento è stato bloccato dal presidente del Paese, che per questa iniziativa ha chiesto le sue dimissioni.

La stessa cerimonia dell’ambasciata USA è stata la prova del nove senza possibilità di astensione – o gli invitati si sarebbero presentati o l’avrebbero boicottata. Persino alleati molto vicini agli USA come Australia, Canada e alcuni Stati dell’Europa occidentale hanno deciso di tenersi alla larga. Allo stesso modo, né l’India né alcuno dei principali Paesi dell’America latina hanno partecipato.

Tuttavia Israele sta facendo importanti progressi in Africa, e circa una dozzina di Paesi hanno preso parte all’iniziativa dell’ambasciata USA a Gerusalemme, tra cui Etiopia, Sud Sudan, Zambia, Kenya, Ruanda, Camerun, Repubblica del Congo, Angola, Costa d’Avorio, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo.

Il Togo è stato l’unico Paese africano che ha votato con gli USA durante la votazione all’ONU di dicembre – ma lunedì non era presente.

La maggior parte delle ragioni per cui alcuni Paesi hanno scelto di partecipare ha poco a che fare con la Palestina. Come hanno esplicitamente ammesso commentatori dei Paesi latinoamericani coinvolti, le posizioni su Gerusalemme avevano più che altro a che vedere con la questione di garantirsi il favore degli USA, compresa l’assistenza per conservare il potere contro le loro stesse popolazioni.

Per altri si è trattato della logica prosecuzione di politiche xenofobe, di destra, suprematiste e autoritarie. Il governo dell’Austria è in larga misura emarginato in Europa per le sue politiche razziste e xenofobe, mentre Victor Orban, il primo ministro dell’Ungheria, è un noto xenofobo antisemita. Il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, è noto per la sua politica allarmistica sul terrorismo e per i suoi discorsi razzisti.

Anche la delegazione del Myanmar, che grazie all’appoggio militare di Israele dal 2015 ha intrapreso una pulizia etnica su vasta scala contro il popolo Rohingya, portando all’esilio di quasi 700.000 sopravvissuti, era tra gli ospiti.

Il fatto che Robert Jeffress, pastore evangelico USA e consigliere spirituale di Trump, universalmente accusato di sermoni antisemiti e razzisti, si sia rivolto a questa adunata pare semplicemente naturale.

L’alleanza tra Trump e Israele, sullo sfondo del massacro di Gaza, ha in effetti elevato l’appoggio all’apartheid, all’occupazione e al colonialismo di Israele a fulcro della nuova ondata di politici e partiti xenofobi, razzisti e antidemocratici arrivati al potere negli ultimi anni.

Un embargo militare contro Israele

Mentre Israele ha onorato Trump dando il suo nome a una piazza centrale di Gerusalemme, tutti quelli che sono fuori dal campo delle ideologie suprematiste, razziste ed autoritarie dovrebbero rabbrividire all’idea di esservi associati.

Per il bene della Palestina e dell’umanità, è il momento per la grande maggioranza della comunità internazionale, che non aderisce ai valori espressi nella cerimonia dell’ambasciata USA, di scrollarsi di dosso la riluttanza a prendere un’iniziativa concreta.

Resistere alle violazioni israeliane dei diritti umani e delle leggi internazionali oggi è diventata una difesa vitale dei più fondamentali valori di tolleranza, democrazia e rispetto. Siamo ancora in tempo.

Israele ha appena annunciato un’esportazione record nel 2017 di armamenti, che ha testato per decenni sul popolo palestinese. Un embargo militare contro Israele, come chiesto dal comitato nazionale del BDS palestinese e ripreso da organizzazioni dei diritti umani come Amnesty International, sarebbe un passo nella giusta direzione.

La maggior parte di queste esportazioni riguarda politiche contro i migranti ed è legata alle spese per la sicurezza dei confini dell’Unione Europea, mentre l’India da sola sta comprando il 50% delle esportazioni di armi israeliane.

L’aiuto militare USA continua ad aumentare e la cooperazione della polizia USA con Israele alimenta la discriminazione razziale e le violazioni dei diritti umani.

È tempo di ricordare lo slogan reso popolare dalla resistenza antifascista spagnola negli anni ’30 e poi ripreso da innumerevoli movimenti per la giustizia in tutto il mondo: “No pasarán!” Non passeranno.

– Maren Mantovani, coordinatrice dei rapporti internazionali per la “Campagna Palestinese dal Basso contro il Muro dell’Apartheid”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Storie della catastrofe: Palestina

Rami Almeghari, Mohammed Asad e Anne Paq

16 maggio 2018,  Electronic Intifada

Settant’anni fa i palestinesi hanno subito la Nakba, o catastrofe, quanto la maggioranza di loro lasciò o fu obbligata dalle milizie sioniste a lasciare la Palestina per far posto alla creazione dello Stato di Israele e garantire una maggioranza ebraica. Circa 750.000 persone finirono per diventare profughi registrati dalle Nazioni Unite. Molti altri se la cavarono da soli. Non gli venne mai consentito di tornare alle loro terre o case, che vennero confiscate dal nascente Stato, e molti dei loro villaggi vennero successivamente distrutti. Qui alcuni sopravvissuti raccontano le loro storie.

Khoury Bolous, 84 anni, di Haifa. Originariamente di Iqrit, nei pressi del confine con il Libano.

Iqrit era un piccolo villaggio cristiano di circa 500 abitanti molto vicino alla frontiera della Palestina con il Libano. Il villaggio subì la pulizia etnica nel 1948 e venne distrutto nel 1951, tranne la chiesa. I suoi abitanti divennero sfollati interni – quello che Israele definì “presenti assenti”

Eravamo contenti. Avevamo fichi, hummus e ulivi. Seminavamo di tutto, tranne zucchero e riso. Mio padre aveva molta terra, circa 100 dunum [10 ettari, ndt.]. Facevamo la farina, coltivavamo lenticchie e fagioli, ogni tipo di verdure e olive. L’unica cosa che mio padre comprava era il tabacco. Morì quando ero molto giovane, e mio fratello maggiore prese il suo posto. La nostra casa era fatta di grandi pietre ed era stata costruita da mio nonno.

Nel 1948 non ci fu resistenza nel villaggio. Le forze sioniste entrarono nel villaggio e alzammo bandiera bianca. Non avevamo armi. Ci dissero di andarcene ad al-Rama, che sarebbe stato solo per due settimane e che era solo per la nostra sicurezza. Venimmo trasportati da camion militari. Ma io non andai insieme agli altri. Mio fratello mi disse di andare in Libano a Qouzah, da nostra zia, per salvare gli animali. Camminai verso il Libano con 5 mucche, un cammello, un asino e un cavallo. Attesi il messaggio che mio fratello avrebbe dovuto mandarmi quando fossero tornati a Iqrit, ma il messaggio non arrivò mai.

Dopo un mese sentii dire che alcune persone stavano andando a Iqrit per raccogliere frutta e così decisi di andare. Avevo paura di attraversare la frontiera ma lo feci. Non era rimasto niente nella nostra casa, tutto era stato rubato. Persone che incontrai mi dissero che non sarei riuscito ad arrivare ad al-Rama, così tornai in Libano e vi rimasi per due anni. Poi incontrai un passeur, Alì, e con un gruppo partimmo di notte per la Palestina. Avevamo paura, era pericoloso. Alla fine all’alba, vicino ad al-Rama, continuai da solo attraverso i campi. Quando raggiunsi il villaggio, vidi qualcuno di Iqrit che mi portò dalla mia famiglia. Non potevano credere che fossi riuscito a fare una cosa simile. Non ci potevo credere neppure io.

Un Natale sentimmo che Iqrit era stato totalmente distrutto. Il mukhtar [capo villaggio, ndt.] ed altri erano andati su una collina di fronte al villaggio e confermarono la notizia. Era un disastro sentire questa notizia. Volevano uccidere ogni nostra speranza di tornare. Ma non ci riuscirono.

Alla fine ebbi un permesso ed iniziai a lavorare come macellaio ad Haifa. Mi sposai nel 1960 ed andai ad Haifa. Tornavamo spesso a Iqrit, dormendo nella chiesa. Fui arrestato alcune volte per essere stato lì. Ci portavamo i bambini per le vacanze.

Siamo come i rifugiati. Quello che abbiamo in comune è la speranza del ritorno. Vogliamo solo andare a casa, questo è un nostro diritto fondamentale. Voglio tornare e costruire una piccola casa.

Reportage di Anne Paq

Saed Hussein Ahmad al-Haj, 85 anni, campo di rifugiati di Balata, nella città di Nablus della Cisgiordania occupata. Originario di al-Tira, nei pressi di Ramla.

Sono stato fortunato rispetto ad altri profughi. Ho avuto successo nel lavoro ed ho tre macellerie. Ho dei figli. Ma è sempre mancato qualcosa. Mi sono sempre dato da fare, ma non c’è una vera allegria perché non vivo nella casa in cui sono nato.

Il mio villaggio era noto soprattutto per le sue greggi e per i suoi prodotti. Era un piccolo villaggio, circa 2.000 abitanti. All’epoca la nostra vita era semplice. La scuola era così precaria che ci sedevamo sul pavimento. Ho passato la mia vita giocando all’aperto con i vicini.

Mio padre commerciava pecore e mucche. Vendeva anche il latte. Avevamo una piccola casa fatta di pietre e 2 dunum [0,2 ettari] di terra coltivata a grano, sesamo, fichi e ulivi. All’epoca tutto aveva un sapore migliore. Ci nutrivamo direttamente con i prodotti della terra. Potevamo anche andare facilmente al mare e grazie al commercio ci incontravamo con ogni genere di persone.

Nel 1948 avevo circa 15 anni. Una notte vedemmo arrivare verso di noi dei soldati. In un primo momento pensammo che fossero arabi. Ma poi iniziarono a sparare. Le pallottole volavano sopra la mia testa e pensai che sarei morto. Corsi da mio padre, che mi disse di andare verso est con le pecore. Allora ne avevamo sei. Me ne andai da solo, ma sentii sparare, così lasciai le pecore e corsi a casa.

Ce ne andammo con gli altri abitanti del villaggio. Prima arrivammo ad al-Abbassiyya, dove c’erano alcuni gruppi della resistenza palestinese. Poi ci incamminammo verso Deir Ammar, vicino a Ramallah.

Non ci portammo niente. Tutti parlavano di Deir Yassin (dove le forze sioniste avevano commesso un massacro). Eravamo spaventati già prima che arrivassero i sionisti. Avremmo dovuto rimanere e morire là. Avremmo dovuto lottare. Per lo meno non abbiamo mai venduto le nostre case. Siamo stati buttati fuori contro la nostra volontà.

Pochi giorni dopo che ce ne eravamo andati, entrai di soppiatto nel villaggio di notte. Ma quando entrai nella nostra casa, tutto – la farina, l’olio d’oliva, i mobili – era distrutto e sparso per la casa.

Tornammo al nostro villaggio, una volta, con mio padre. Fu dopo il 1967 [anno della guerra dei Sei giorni e della conquista israeliana della Cisgiordania, ndt.]. Bussò alla porta, e rispose uno [ebreo, ndt.] yemenita. Mio padre gli disse: “Questa è la mia casa.” Ma lo yemenita rispose solo: “Era casa tua, Ora è la mia.”

Reportage di Anne Paq

Wafta Hussein Khleif, 82 anni, campo di rifugiati di Dheisheh nella città di Betlemme della Cisgiordania occupata. Originaria di Deir Aban, nei pressi di Gerusalemme.

Tutti i figli maschi di Wafta sono stati arrestati da Israele in un momento o nell’altro, e uno sta scontando più di 20 anni di prigione. Uno dei suoi nipoti è stato ucciso durante un’incursione dell’esercito israeliano a Betlemme nel 2008. Aveva 17 anni.

Mangiavamo quello che coltivavamo. Tutto veniva dalla terra. Non compravamo niente. Vivevamo in una fattoria che aveva un cortile interno. Avevamo più di 1 dunum di terra con 200 ulivi, galline e pecore. C’erano ebrei che vivevano vicino a noi. Erano amici e venivano al villaggio a comprare latte. Non avevano neanche un mulino, per cui usavano quello del villaggio.

Nel 1948 ci furono molti scontri. Ci furono spari e bombardamenti aerei. Non avevamo armi, solo coltelli e falci. Scavammo una trincea attorno al villaggio. Durante quei giorni ci furono tre morti. Quando venimmo a sapere del massacro di Deir Yassin, come misero in fila gli uomini e gli spararono, fu troppo. Prendevano anche le ragazze. Fu allora che scappammo. Se fossi stata al nostro posto, che cosa avresti fatto?

Non c’era tempo. Prendemmo quello che potevamo portarci dietro. Mio nonno Hussein dovette essere trasportato su un cammello. Ci fermammo sotto un carrubo appena fuori dal villaggio. Pensavamo che saremmo tornati presto. Gli uomini tornarono per raccogliere le olive ma vennero attaccati dai sionisti.

Andammo a Jabba e rimanemmo con i loro amici, e da lì a Betlemme. Affittammo una spelonca da una famiglia cristiana che mio padre trasformò in una stanza con un tetto di zinco. Poi mi sposai con mio marito Muhammad al-Afandi e andai al campo di Dheisheh. Vivemmo in una tenda per tre o quattro anni. Lì nacquero i nostri primi tre figli.

Se Dio vuole, torneremo. Se non io, i miei figli, o i loro figli, o i figli dei figli, o i figli dei figli dei figli. Lasceremo tutto in un attimo e andremo, anche se questo significasse vivere di nuovo in una tenda.

Reportage di Anne Paq

Muhammad Khalil Leghrouz, 93 anni, campo di rifugiati di Aida nella città di Betlemme della Cisgiordania occupata. Originario di Beit Natif, a ovest di Betlemme.

Muhammad piange ancora quando parla di suo fratello Thaer, che venne ucciso dai miliziani sionisti nel 1948 all’età di 15 anni.

Beit Natif era tutto frutti e verdure. Coltivavamo di tutto. C’erano molti contadini. E c’erano molte mucche e pecore. Sono cresciuto con le pecore. Giocavo con loro dalla mattina alla sera. Non sono andato a scuola. La mia famiglia aveva una grande fattoria, costruita con vecchie pietre.

Nel 1948 venimmo attaccati. Ci furono sparatorie. Dovemmo scappare, passando su corpi lungo il tragitto per uscire dal villaggio. Mio fratello Thaer venne colpito a morte e lo seppellimmo subito. Lasciammo ogni cosa – le pecore e i gioielli di mia madre. Mio padre dovette essere trasportato su un cammello, perché non poteva camminare. Non voleva andarsene, ma lo presi sulle mie spalle, lo obbligai a salire sul cammello. Voleva morire là.

Prima andammo a Beit Ommar, poi a Hebron, a Betlemme e a Husan, dove incontrai mia moglie Fatima. Insieme venimmo a vivere nel campo profughi di “Aida” e ci fermammo lì. Non sono mai tornato al mio villaggio.

Mio padre non ha mai potuto dimenticare. “Torneremo”, continuava a dire.

Reportage di Anne Paq

Hakma Attallah Mousa, 108 anni, campo profughi “Spiaggia”, Gaza City. Originaria di al-Sawafir al-Shamaliya, a circa 30 km oltre il confine di Gaza.

Hakma ha più di 80 nipoti e pronipoti, ma persino i suoi familiari sono incerti sul numero esatto.

Mio padre Attallah Mousa era il mukhtar della nostra famiglia. Ricordo ancora il diwan (sala di ricevimento) di mio padre, dove accoglieva gli ospiti e aiutava a risolvere i problemi del villaggio.

Andavo a mungere le nostre mucche per fare il formaggio e lo yogurt. Avevamo pecore e galline. La mia famiglia possedeva più di 100 dunam [10 ettari] di terra su cui i miei fratelli seminavano grano, lenticchie e orzo. La nostra vita si basava sull’agricoltura. Grazie a Dio, abbiamo avuto dei momenti bellissimi.

Mia madre venne ferita quando stavamo scappando. Venne colpita dopo che avevamo preso alcune delle nostre cose e stavamo uscendo dal villaggio. L’abbiamo trasportata fino ad un ospedale a Gaza City. Morì poche settimane dopo.

Figlio mio, vogliamo tornare al nostro villaggio, e lo faremo. Vogliamo tornare alla nostra patria.

Reportage di Rami Almeghari

Hassan Quffa, 88 anni, campo profughi di Nuseirat, nella zona centrale della Striscia di Gaza occupata. Originario di Isdud, nei pressi di Ashdod.

Eravamo contadini, coltivavamo la nostra terra generazione dopo generazione. All’epoca l’agricoltura era molto diffusa e i cedri erano rigogliosi. La mia famiglia da sola possedeva circa 90 dunum [9 ettari]. Ero solito accompagnare mio zio Abdelfattah al nostro diwan dove incontrava la gente del posto e a volte gli inglesi. All’epoca le autorità britanniche andavano da mio zio, facendo affidamento su di lui come intermediario tra le autorità e gli abitanti del posto.

Giocavo a baseball. Eravamo sette per una partita. Dopo aver giocato, andavamo al bar “Ghabaeen” a bere caffé e a chiacchierare.

Le feste di matrimonio duravano da tre a sette giorni. Alla fine dei festeggiamenti gli zii di una sposa l’accompagnavano a casa del marito, di solito su un cavallo.

Quando i miliziani dell’ Haganah [il principale gruppo armato sionista, ndt.] iniziarono a sistemare posti di blocco nella zona di Ashdod, bloccando il passaggio, cominciammo ad prendere le armi. Un giovane su quattro aveva un fucile, nel tentativo di difenderci contro gli attacchi dell’Haganah. Eravamo solo contadini. Le bande sioniste erano ben addestrate ed equipaggiate, con l’aiuto degli inglesi. In effetti quando gli eserciti arabi arrivarono a combattere, ci sentimmo sollevati.

Ma l’unità dell’esercito arabo vicino a noi venne sconfitta. Le loro armi erano vecchie. Ovunque c’erano soldati arabi morti. Comprendemmo che non potevamo far altro che scappare.

Voglio tornare. Voglio che tutti noi torniamo. Quella è la mia casa. Ho il diritto di tornare. Spero di farlo prima di morire.

Reportage di Rami Almeghari

Amna Shaheen, 87 anni, attualmente vive a Gaza City, originaria del villaggio di Ni’ilya, nei pressi di Ashkelon.

Mio nonno Ibrahim era l’imam del villaggio e insegnava ai bambini il Corano e qualche argomento islamico. Ovviamente alle ragazze, compresa me, non era consentito imparare.

Mio padre aveva un gregge e io solevo aiutarlo. Avevo solo un fratello, che era malato.

Cacciavo via le volpi che cercavano sempre di prendere le nostre anatre. Per nutrire il gregge portavo qualche foglia verde, alcune dal nostro sicomoro. Mio padre commerciava in angurie e noi conservavamo quelle angurie sotto l’albero.

Fu quando venimmo a sapere di Deir Yassin che gli abitanti del villaggio iniziarono a fuggire. Durante il giorno i miliziani [sionisti] arrivarono per mandarci via, ricordo che mio cugino ed io stavamo pelando patate.

Due mesi dopo che eravamo scappati, mio padre è stato ucciso. All’epoca stavamo vivendo nel campo profughi di Jabaliya, a Gaza. Aveva comprato due mucche e stava andando a comprare paglia e fieno per le mucche. Ma in quel momento le jeep dell’esercito israeliano erano di pattuglia e i soldati iniziarono a sparare. Venne colpito quattro volte.

Anche se mi offrissero centinaia di milioni di dollari, non rinuncerei al mio diritto di tornare alla mia casa in Palestina. Cosa me ne farei di quei soldi?

Reportage di Rami Almeghari

Ismail Hussein Abu Shehadeh, 92 anni, originario ed attualmente abitante di Jaffa, nei pressi di Tel Aviv.

Adesso Jaffa non vale niente. Prima la città era stupenda. Era chiamata la “sposa del Medio Oriente.” Esportavamo arance in tutto il mondo. Arrivava gente da tutte le parti per lavorare qui.

Mio padre era un soldato dell’impero ottomano. Se ne andò nel 1914 per combattere nella Prima Guerra Mondiale. Tornò indietro a piedi. Questa probabilmente è la ragione per cui decise di rimanere quando i sionisti attaccarono Jaffa. Non voleva scappare di nuovo, e ci impedì di farlo. “O morite qui oppure scappate e vi sentirete umiliati per tutta la vostra vita,” ci disse. Pregava la gente di non andarsene. Solo 35 famiglie rimasero dopo la resa, appena 2.000 abitanti sui 120.000 che stavano qui.

Nel 1948 gli attacchi furono molto violenti. Il capo della città, il dottor Youssef Aked, ci riunì per dire che Jaffa stava per essere assediata e che la gente doveva scegliere tra andarsene e rimanere. Qualcuno chiese al dottore cosa egli avrebbe fatto, ed egli rispose che sarebbe fuggito con la sua famiglia. In seguito a ciò, molti lo fecero, anche perché si parlava molto di quello che era successo a Deir Yassin.

Solo poche persone con una certa autorità rimasero. Ci fu un altro incontro in cui si decise di arrenderci a condizione che non ci fossero distruzioni o saccheggi. Dei rappresentanti andarono a Tel Aviv con una bandiera bianca. I sionisti arrivarono con un megafono e dichiararono che ora Jaffa era sottoposta all’autorità sionista. Poi entrarono e si comportarono in modo avido. Rubarono proprietà. Ci nascondemmo nei frutteti per un mese. Poi la gente venne spinta nel quartiere di Ajami, dietro una recinzione elettrificata. Alcuni morirono di stenti. Ma noi riuscimmo a stare fuori dalla recinzione.

Nonostante le promesse sioniste metà di Jaffa venne demolita. Abu Laban, che aveva negoziato la resa, andò a lamentarsi me venne picchiato. Gli ruppero le costole e venne messo a sedere su un asino. Poi iniziarono a prendere di mira la gente. Una persona che si rifiutò di lasciare i frutteti venne uccisa.

Dopo il 1948 mi sposai e iniziai a lavorare nella regione di Tiberiade per circa sei anni. Venni assunto da israeliani per aggiustare motori o per portare l’acqua a nuove comunità ebraiche. Ero l’unico palestinese lì. Abbiamo mantenuto rapporti professionali. Mia moglie e i figli neonati stavano lottando per avere da mangiare e per un certo periodo tornai a Jaffa solo una volta al mese.

Il mio lavoro terminò quando arrivò l’elettricità. Lavorai in una fabbrica di Jaffa, aggiustando motori, ma nel 1956 alcuni operai ebrei mi aggredirono a causa della sconfitta israeliana a Suez [si riferisce alla guerra per il controllo del canale di Suez tra Egitto e Francia e Gran Bretagna, a cui Israele si alleò, ndt.], per cui me ne andai. Poi ebbi un’officina meccanica nel porto, e cercai di fare il pescatore, ma senza successo. Nel 1982 lo Stato di Israele iniziò a chiedere tasse e più documenti. Dovetti vendere tutto. Alla fine aprii una drogheria ma poi dovetti smettere per ragioni di salute.

Rami Almeghari è giornalista e docente universitario a Gaza.

Anne Paq è una fotografa freelance francese e fa parte del collettivo di fotografi ActiveStills [collettivo di fotografi israeliani, palestinesi e internazionali che lotta contro le ingiustizie e le discriminazioni, in particolare in Israele/Palestina, ndt.].

Mohammed Asad è un fotogiornalista che vive a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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Come Israele disumanizza la resistenza palestinese

Ramona Wadi

Lunedì 23 aprile 2018, Middle East Eye

Senza un intervento internazionale la pressione di Israele per far sparire i palestinesi completerà il ciclo di isolamento.

C’è un metodo standard con il quale la comunità internazionale reagisce alle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele, a seconda della visibilità delle misure oppressive e che esse corrispondano alle caratteristiche di precedenti condanne. Il risultato è un processo di sensibilizzazione selettiva, in base al quale l’incarcerazione di minori palestinesi, le demolizioni di case, l’espansione delle colonie e il dislocamento forzato sono destinati a futili critiche e condanne.

Tuttavia, quando si tratta di altre misure che dimostrano direttamente l’intenzione di Israele di prendere di mira la resistenza palestinese e di far sparire palestinesi, il silenzio è sorprendente. All’inizio di febbraio i genitori di un soldato ucciso a Gerusalemme est occupata hanno detto alla Commissione per gli Affari Interni della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] che i corpi di palestinesi nelle mani di Israele dovrebbero essere trattenuti per sempre o gettati “in mare” come forma di deterrenza.

Durante la stessa sessione, la richiesta è stata ripetuta dal presidente della Commissione degli Affari Interni, il deputato Yoav Kisch [del Likud, principale partito israeliano, ndt.], che ha fatto riferimento alla versione USA riguardo al fatto che il corpo del leader di Al-Qaeda Osama Bin Laden sarebbe stato gettato in mare.

Precedenti storici

La riproposizione della versione USA serve a vari obiettivi. Incoraggia le azioni di uno dei principali alleati di Israele, mentre sfrutta anche la propaganda sul “terrorismo” per demolire la lotta anticolonialista palestinese – una tattica che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha utilizzato in molte occasioni con il pretesto di preoccupazioni per la sicurezza.

Ci sono precedenti storici della scomparsa di oppositori politici adottata come prassi corrente. L’America latina, dove dittature sostenute dagli USA hanno inculcato il terrore facendo sparire i propri oppositori, presenta moltissimi esempi.

Cile ed Argentina, rispettivamente sotto Augusto Pinochet e Jorge Rafael Videla, hanno fatto uso di “voli della morte”, gettando nell’oceano da elicotteri i corpi torturati di oppositori. In Argentina si stima che siano scomparse circa 30.000 persone.

L’esistenza di Israele si basa sulla premessa dell’inesistenza della Palestina. Senza che niente giustificasse le affermazioni del primo sionismo in merito ad una terra deserta, la pulizia etnica e la sistematica espulsione durante la Nakba [la “catastrofe”, cioè la pulizia etnica di centinaia di migliaia di palestinesi nel territorio divenuto poi lo Stato di Israele, ndt.] vennero in seguito perfezionate con una serie di misure oppressive che portarono agli stessi risultati in un lungo periodo di tempo.

La reazione internazionale ha favorito Israele: ripetute violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali non hanno suscitato che condanne ripetitive. Ciò ha consentito al governo israeliano di ampliare il proprio discorso securitario e le misure repressive.

Nel febbraio 2016 il ministro dell’Educazione israeliano Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndt.] ha fatto un appello per “seppellire i combattenti palestinesi contro l’occupazione in cimiteri segreti e distruggere tutte le case dei loro villaggi d’origine.” Mentre Bennett è ben noto per la sua virulenza, la sua dichiarazione deve essere letta all’interno di un contesto di costante rifiuto di Israele di consegnare ai familiari del defunto i corpi dei palestinesi uccisi.

Normalizzazione della violenza israeliana

A dicembre la Corte Suprema israeliana ha sentenziato contro questa prassi, tuttavia il governo ha continuato, nonostante questa pratica contravvenga sia alla legge israeliana che all’articolo 130 della Quarta Convenzione di Ginevra.

I parlamentari israeliani hanno anche difeso questa prassi durante il recente incontro della commissione della Knesset. Accusando l’esistenza di forme di istigazione [alla violenza] durante i funerali, il deputato Mickey Levy [di Yesh Atid, partito di centro, ndt.] ha descritto la restituzione dei corpi in piena notte sotto rigide misure di sicurezza: “Ho schierato 700 soldati in modo che nessun altro se non i familiari più stretti lasciassero la casa.”

Da notare in modo particolare le dichiarazioni conclusive del deputato Kisch: “L’Alta Corte deve anche capire il contesto umano. È una situazione assurda – stiamo distruggendo con le nostre mani gli strumenti per lottare contro il terrorismo.”

Per supportare la normalizzazione della violenza israeliana, per l’entità coloniale è necessario disumanizzare la resistenza palestinese. L’occultamento del contesto della resistenza armata palestinese è un fattore importante per Israele – che la comunità internazionale ha rapidamente imitato.

C’è stato un altro esempio all’inizio dell’anno, quando una controversa proposta del ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra “Israele è casa nostra”, ndt.] ha ottenuto l’approvazione preliminare della Knesset. La legge presentata renderebbe più facile ad un tribunale israeliano comminare la pena di morte a chi viene condannato per attacchi “terroristici”. L’espressione “terrorista” è applicata esclusivamente ai palestinesi coinvolti in attività di resistenza contro l’oppressione israeliana.

Criminalizzare la resistenza

Complessivamente Israele ha già perfezionato la normalizzazione delle continue violazioni, a cui il mondo non reagisce. Le distruzioni di case e le espulsioni sono classificate come relative alla questione dei rifugiati. La privazione di necessità fondamentali ricade sotto l’agenda umanitaria. L’ambiente inquinato di Gaza è stato definito “inabitabile”.

Al tempo stesso, i palestinesi coinvolti in attività di resistenza vengono criminalizzati al punto che la loro umanità viene negata.

Negli scorsi anni, tra le altre cose, il governo israeliano ha imposto l’alimentazione forzata a prigionieri palestinesi in sciopero della fame, ha perpetrato esecuzioni extragiudiziarie, ha comminato lunghe pene detentive a palestinesi che hanno lanciato pietre per resistere alla violenza dello Stato e dei coloni e ha trattenuto i corpi di palestinesi uccisi da Israele.

Nel frattempo lo Stato coloniale gode dell’impunità per le proprie provocazioni, come far sparire palestinesi in cimiteri segreti o chiedere che i loro corpi vengano gettati in mare.

In questo modo Israele sta garantendosi che tutti i palestinesi vengano puniti severamente. Le varie forme di punizione collettiva distolgono l’attenzione dal più complessivo tentativo di sottomettere completamente i palestinesi, mentre consentono alla comunità internazionale di fingere di sostenere la causa umanitaria mentre ignora palesemente l’umanità degli attori della resistenza palestinese.

Silenzio internazionale

L’assenza di indignazione per il fatto che Israele prenda di mira i palestinesi e per il suo incitamento a far sparire quelli che partecipano alla lotta anticoloniale è un’anomalia nel contesto dei diritti umani. Da una prospettiva internazionale, tuttavia, il silenzio era prevedibile.

A differenza dei movimenti sociali in America Latina, che sono stati in grado di mobilitarsi contro le violazioni e le sparizioni, i palestinesi devono affrontare un crescente isolamento, fino al punto che, per esempio, l’opposizione dell’UE alla proposta di pena di morte si è ridotta a un generico tweet. Le richieste di ministri del governo e di coloni di far sparire palestinesi non hanno suscitato reazioni a livello internazionale.

Cosa significa per i palestinesi questo silenzio collettivo e premeditato? Con la resistenza e la sopravvivenza minacciate da misure punitive, i palestinesi – sia che resistano o che rimangano passivi – stanno affrontando un programma di eliminazione che non viene messo in discussione dalla comunità internazionale.

Quanto ci vorrà per denunciare a voce alta la degenerazione delle istituzioni internazionali e il loro sfruttamento dei diritti umani? La storia ha mostrato che la pulizia etnica della Palestina nel 1948 venne ignorata dall’ONU per dare il benvenuto alla nascita di Israele.

Senza un approccio collettivo e internazionale, la sparizione dei palestinesi completerà il ciclo di isolamento, concludendosi nell’oblio.

– Ramona Wadi è una ricercatrice indipendente, giornalista freelance, critica letteraria e blogger specializzata nella lotta per la memoria in Cile e in Palestina.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come se Israele non avesse fatto niente di cui vergognarsi prima dell’avvento degli smartphone

Amira Hass

16 aprile 2018, Haaretz

I soldati israeliani che hanno ucciso palestinesi disarmati non sono spuntati dal nulla per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete, ricordate o credete.

La vergogna è importante, è un peccato che arrivi così tardi. La vergogna è necessaria, è triste che così poche persone la provino. Quello che rende possibile questa tardiva apparenza di vergogna è la tecnologia che ha trasformato ogni persona con uno smartphone in un fotografo e ogni applicazione delle reti sociali in uno schermo gigante, portando in ogni casa prove fotografiche imbarazzanti. In rari casi filtrano attraverso il muro dell’insabbiamento e della menzogna innalzato dall’esercito israeliano e attraverso la corazza del “sono comunque tutti terroristi” che gli israeliani indossano volontariamente.

Dalla vergogna a lungo rimandata possiamo intuire che ci sono israeliani che credono che i soldati dell’esercito abbiano iniziato solo poche settimane fa a sterminare palestinesi disarmati. Cioè credono che solo da quando sono comparsi gli smartphone, con la loro possibilità di smascherare pubblicamente in tutta la loro nuda vergogna i soldati e i loro superiori, i comandanti abbiano iniziato a ordinare ai loro soldati di uccidere anche in assenza di un pericolo mortale. In altre parole, che fino a poco tempo fa, finché non sono arrivati gli smartphone, la purezza delle armi venisse scrupolosamente rispettata e non ci fosse spazio per la vergogna. E quindi che sia così anche oggi, in tutti i casi in cui soldati e poliziotti uccidono e feriscono palestinesi quando non ci sono telefonini a riprenderli. Gli israeliani che si vergognano credono che l’esercito menta solo quando c’è una prova fotografica della bugia. In sua assenza l’esercito israeliano e la polizia dicono la verità, i palestinesi e un pugno di persone di sinistra sono quelli che mentono.

La vergogna è demoralizzante per un’altra ragione: ci ricorda della debolezza della parola scritta quando non si basa sulla versione degli avvenimenti del regime, ma piuttosto sulla testimonianza delle vittime del regime. Prima che ci fossero cellulari con videocamera e telecamere di sicurezza ad ogni angolo, raccoglievamo le testimonianze di decine di testimoni oculari. Incrociavamo le loro versioni, verificavamo, esaminavamo, facevamo domande – spesso eravamo sul posto quando avvenivano gli incidenti – e scrivevamo e pubblicavamo. Ma era sempre la nostra parola contro quella dell’essere assolutamente puro: l’ufficio del portavoce dell’esercito.

L’immagine che si voleva trasmettere dell’esercito e del governo era fabbricata sulle scrivanie delle redazioni e nelle strade di Tel Aviv e di Kfar Sava. Ogni giorno e in ogni operazione, il superpotere palestinese risorge per distruggerci e per attaccare la piccola Israele e i suoi teneri figli diciottenni che sono apparsi nel territorio della superpotenza. Non è così: i soldati israeliani che uccidono palestinesi disarmati non sono spuntati fuori per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete o non ricordate o non credete.

Alla vostra attenzione

Ma ditemi, voi che vi vergognate, e a ragione, non vi vergognate del fatto che Israele rubi l’acqua ai palestinesi e imponga loro limitate quote di consumo? Non vi vergognate del rifiuto di Israele di collegare migliaia di palestinesi della Cisgiordania e del Negev israeliano al servizio idrico?

E quando Israele espelle gli abitanti di Umm al-Hiran dalla loro baraccopoli del Negev, non morite di vergogna per lo Stato e per la bella comunità modello, basata su valori ebraici, che sarà costruita sulla terra degli espulsi? Non vi vergognate dello Stato che in tutti questi anni ha impedito il collegamento di Umm al-Hiran alla rete idrica ed elettrica, o dei giudici della Corte Suprema che hanno permesso le espulsioni? Non provate vergogna quando un pugno di israeliani scende dalle proprie colonie e dagli avamposti per attaccare ripetutamente i villaggi palestinesi dei dintorni? Non arrossite, né sbiancate, alla vista dei soldati che stanno a guardare e lasciano che essi aggrediscano, distruggano, sradichino e taglino? E quando la polizia non fa nessuna ricerca dei responsabili, persino quando sono stati filmati e il loro luogo di residenza è noto, non vi vergognate ancora di più? Non provate vergogna per il solo fatto di sapere che questo metodo di violenza dei coloni – incoraggiato dal silenzio delle autorità – è vecchio tanto quanto la stessa occupazione?

Il seguente fatto – 2,5% della terra dello Stato è destinata al 20% della popolazione (i cittadini palestinesi di Israele) – non fa sì che voi, per la vergogna, vogliate che la terra si apra e vi inghiotta?

E cosa ne dite dei pochi abitanti di Gaza a cui è permesso di viaggiare all’estero attraverso il ponte di Allenby [posto di confine tra la Cisgiordania occupata e la Giordania, ndt.] che sono obbligati a promettere per iscritto di non tornare per un anno? E dei palestinesi della Cisgiordania a cui non è consentito incontrarsi con amici e parenti che vivono nella Striscia di Gaza? E del divieto di vendita dei prodotti di Gaza in Cisgiordania e di esportarli, tranne pochi camion che trasportano una ridotta quantità di beni? E cosa dite del fatto di tener imprigionate 2 milioni di persone dietro il filo spinato e il controllo militare e le torri da cui sparare? Secondo voi tutto questo non meriterebbe di essere incluso nell’elenco delle disgrazie collettive degli ebrei?

Israele non si è mai spaventato e non si spaventa ora ad uccidere civili palestinesi – individualmente, separatamente e in massa. Ma uccidere palestinesi non è un fine in sé. Al contrario i 70 anni di esistenza di Israele dimostrano che l’appropriazione della terra palestinese è un obiettivo supremo del nostro Stato, e che l’appropriazione si unisce alla riduzione del numero di palestinesi su quella terra.

Espellere palestinesi dalle loro case, dalla loro patria e dal loro Paese in tempo di guerra è un mezzo collaudato per ridurre il numero di una popolazione. Quando questo non è fattibile, concentrare i palestinesi in affollate riserve (su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra lo Stato di Israele e la Giordania prima dell’occupazione della Cisgiordania, ndt.]) è un altro metodo, di routine e continuo. Chiunque abbia trovato ciò difficile da credere prima del 1993 ha ottenuto la prova definitiva negli accordi di Oslo: sotto l’ombrello del processo di pace il principale obiettivo dei governi (laburisti e del Likud) e delle loro burocrazie è stato di dimostrare la giustezza delle accuse secondo cui nel profondo siamo davvero un’entità coloniale. Ciò vi fa sentire orgogliosi?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele:centinaia di lavoratori palestinesi arrestati:”Pulizia di Pasqua”

Redazione di Nena News

28 marzo 2018 Nena News

Da sabato fermati 468 palestinesi senza permesso in territorio israeliano in un’operazione che la polizia di Tel Aviv ha chiamato “Rimuovere il Chametz”, i cibi proibiti durante la festa. Adalah: “Razzismo”

Roma, 28 marzo 2018, Nena News – Sul campo lo Stato di Israele ha dispiegato 2.300 uomini, tra poliziotti e volontari. E anche l’aviazione. Sabato scorso il lancio dell’operazione, ribattezzata “Removing Chametz”, rimuovere il chametz, per la religione ebraica tutti la pulizia e l’eliminazione dalle proprie case dei cibi proibiti durante la Pasqua ebraica, cibi non kosher e cibi prodotti da grano o cereali, mescolati con acqua e lasciati a lievitare.

I chametz in questione sono i lavoratori palestinesi illegali in Israele, provenienti dalla Cisgiordania: in pochi giorni ne sono stati arrestati almeno 468, fa sapere la polizia israeliana. Fermati e multati anche 8 datori di lavoro 17 caporali e 24 “trasportatori”, quelli che vanno a prendere gli operai al confine e li distribuiscono nei cantieri e nelle aziende agricole.

Il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, ha parlato di perquisizioni in decine di luoghi di lavoro in Israele e annunciato che “l’operazione continuerò fino a quando sarà necessario”. In vista della Pasqua ebraica (che inizierà il 30 marzo, quest’anno coincidente con la Giornata della Terra, la commemorazione dell’uccisione di sei palestinesi in Galilea nel 1976, mentre difendevano la propria terra dalla confisca). Ha poi aggiunto che 14 dei quasi 500 arrestati sono accusati di “attività terroristiche” e altri nove residenti ad Umm al Fahem – nel triangolo nel nord est di Israele, a maggioranza palestinese – di aver condotto i palestinesi della Cisgiordania illegalmente in territorio israeliano.

L’operazione non stupisce troppo: da sempre le autorità israeliane ne compiono di simili prima e durante le feste ebraiche. Arresti generalizzati ma anche la chiusura dei checkpoint tra i Territori Occupati e Israele, di fatto impedendo ai pochi palestinesi muniti di permesso israeliano di recarsi al lavoro per giorni, a volte per settimane. Succederà anche stavolta: da domani per otto giorni Gaza e Cisgiordania saranno completamente sigillate al transito palestinesi, restando aperto solo a quello dei coloni israeliani.

Subito si è sollevata la protesta delle organizzazioni legali e per i diritti umani. Adalah, nota associazione che si occupa della minoranza palestinese in Israele, ha condannato l’operazione in sé, ma anche il nome razzista che gli è stato attribuito: “La terminologia della polizia israeliana verso persone che come il cibo devono essere rimosse dimostra il carattere razzista della sua attività – si legge in una nota – Alla fine si tratta di pulizia etnica”.

Secondo il Cogat, l’ente israeliano responsabile per i Territori Occupati, ogni giorno transitano legalmente 70mila lavoratori palestinesi, un numero molto più basso rispetto ai livelli pre-Seconda Intifada: con la costruzione del muro e l’implementazione del regime dei permessi, il numero di lavoratori legali si è drasticamente ridotto, anche a causa di una volontaria politica da parte israeliana di loro sostituzione con immigrati stranieri, in particolare dall’Asia dell’Est. Sarebbero invece almeno 50mila i palestinesi lavoratori illegali sia in Israele che nelle colonie, persone che attraversano la Linea Verde con l’aiuto di passeur e caporali, sborsando denaro per poter essere impiegati per qualche settimana nei cantieri o nelle aziende agricole.

Privi di qualsiasi diritto e forma di tutela, senza protezioni durante lo svolgimento del loro lavoro, sono sottopagati rispetto al salario minimo israeliano e lo “stipendio” è spesso decurtato dai datori di lavoro che chiedono denaro per l’alloggio. Alloggio che spesso è lo stesso cantiere in cui lavorano, costantemente in fuga dai controlli della polizia: abusi e violazioni sono casi comuni, fino al carcere per chi viene sorpreso senza documenti.

Ma le forze armate operano solo in casi particolari, come l’attuale operazione: esercito, polizia e governo conoscono benissimo la tratta dei lavoratori e luoghi di la

voro, ma chiudono un occhio. Dopotutto si tratta di manodopera a basso costo e zero diritti. Che non merita nemmeno un minimo di sicurezza: le organizzazioni palestinesi denunciano casi di morti bianche o infortuni di illegali,di lavoratori  abbandonati dai datori di lavoro. E se riescono a raggiungere un ospedale, si vedono recapitare a casa conti salatissimi. Nena News




In parole e azioni: la genesi della violenza israeliana

Ramzy Baroud

16 gennaio 2018, The Palestinian Chronicle

Non passa giorno senza che un importante politico o intellettuale israeliano faccia una vergognosa dichiarazione oltraggiosa contro i palestinesi.

Molte di queste dichiarazioni tendono a raccogliere una scarsa attenzione o evocano giustamente un meritato sdegno.

Proprio di recente, il ministro dell’Agricoltura israeliano, Uri Ariel, ha auspicato più morti e feriti per i palestinesi di Gaza.

Cos’è quest’arma speciale che abbiamo, che spariamo e vediamo colonne di fumo e fuoco, ma nessuno rimane ferito? È tempo che là ci siano anche feriti e morti,” ha detto.

La richiesta di Ariel di uccidere più palestinesi è arrivata subito dopo altre dichiarazioni nauseabonde riguardanti una ragazzina di 16 anni, Ahed Tamimi. Ahed è stata arrestata durante una violenta incursione dell’esercito israeliano in casa sua nel villaggio cisgiordano di Nabi Saleh.

Un video l’ha ripresa mentre schiaffeggiava un soldato israeliano il giorno dopo che l’esercito israeliano aveva sparato alla testa a suo cugino, riducendolo in coma.

Il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, noto per le sue posizioni politiche estremiste, ha chiesto che Ahed e altre ragazze palestinesi “passino il resto dei loro giorni in prigione”.

Un importante giornalista israeliano, Ben Caspit, ha auspicato una punizione ancora più dura. Ha suggerito che Ahed e ragazze come lei debbano essere violentate in carcere: “Nel caso delle ragazze, dovremmo far loro pagare un prezzo in qualche altra circostanza, al buio, senza testimoni né telecamere,” ha scritto in ebraico.

Questa mentalità violenta e rivoltante, tuttavia, non è una novità. È la prosecuzione di un vecchio, radicato sistema di pensiero che è fondato su una lunga storia di violenze.

Indubbiamente le opinioni di Ariel, Bennett e Caspit non sono affermazioni irose proferite in un momento di rabbia. Sono tutte un riflesso delle concrete politiche che sono state portate avanti per oltre 70 anni. Infatti violentare e imprigionare a vita sono comportamenti che hanno accompagnato lo Stato di Israele fin dai suoi inizi.

Questa eredità di violenza continua a caratterizzare Israele fino ai nostri giorni, attraverso l’uso di quello che lo storico israeliano Ilan Pappe descrive come “genocidio incrementale”.

Attraverso questa lunga tradizione, poco è cambiato, salvo nomi e titoli. Le milizie sioniste che hanno orchestrato il genocidio dei palestinesi prima della fondazione di Israele nel 1948 si unirono per formare l’esercito israeliano, ed i dirigenti di questi gruppi divennero leader israeliani.

La nascita violenta di Israele nel 1947-48 fu il culmine di un discorso violento che la precedette di molti anni. Fu il tempo in cui gli insegnamenti del sionismo dei primi anni vennero messi in pratica e i risultati furono semplicemente orribili.

La tattica di isolare ed attaccare un certo villaggio o cittadina e giustiziare la sua popolazione con un orribile massacro indiscriminato fu una strategia utilizzata ripetutamente dalle bande sioniste per obbligare la popolazione di villaggi e cittadine circostanti a fuggire,” mi ha detto Ahmad Al-Haaj quando gli ho chiesto di riflettere sul passato e sul presente di Israele.

Ahmad Al-Haaj è uno storico palestinese e un esperto della Nakba, la “Catastrofe” occorsa ai palestinesi nel 1948.

La competenza dell’ottantacinquenne intellettuale sull’argomento iniziò 70 anni fa, quando, a 15 anni, assistette al massacro di Beit Daras per mano della milizia ebraica “Haganah”.

La distruzione del villaggio palestinese del sud e l’uccisione di decine dei suoi abitanti ebbe come effetto lo spopolamento di molti villaggi delle vicinanze, compreso al-Sawafir, il villaggio natale di Al-Haaj’s.

Il ben noto massacro di Deir Yassin fu il primo esempio di tali uccisioni immotivate, un modello che venne replicato in altre zone della Palestina,” dice Al-Haaj.

All’epoca la pulizia etnica della Palestina venne orchestrata da molte milizie sioniste. La principale milizia ebraica fu l’”Haganah”, che dipendeva dall’Agenzia Ebraica. Quest’ultima funzionava quasi come un governo, sotto gli auspici del governo del Mandato britannico, mentre l’”Haganah” fungeva da suo esercito.

Tuttavia anche altri gruppi scissionisti operavano in base ad un proprio progetto. Tra questi, due principali bande erano l’”Irgun” (Organizzazione Militare Nazionale) e il “Lehi” (noto anche come “Banda Stern”). Questi gruppi misero in atto numerosi attacchi terroristici, comprese bombe sugli autobus ed assassinii mirati.

Menachem Begin, nato in Russia, era il leader dell’”Irgun” che, insieme alla “Banda Stern” e ad altre milizie ebraiche, massacrò centinaia di civili a Deir Yassin.

Dite ai soldati: avete fatto la storia di Israele con il vostro attacco e la vostra conquista. Continuate così fino alla vittoria. Come a Deir Yassin, così ovunque attaccheremo e puniremo il nemico. Dio, Dio, tu ci hai scelti per la conquista,” scrisse Begin all’epoca. Descrisse il massacro come uno “splendido atto di conquista”.

Il rapporto intrinseco tra parole ed azioni rimane immutato.

Circa 30 anni dopo Begin, un tempo un terrorista ricercato, divenne primo ministro di Israele. Accelerò il furto di terre della recentemente occupata Cisgiordania e di Gerusalemme est, scatenò una guerra in Libano, annesse Gerusalemme occupata ad Israele e perpetrò il massacro di Sabra e Shatila nel 1982.

Alcuni degli altri terroristi diventati politici e principali comandanti dell’esercito inclusero Begin, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Ariel Sharon, Rafael Eitan e Yitzhak Shamir. Ognuno di questi dirigenti ha un curriculum costellato di violenza.

Shamir ricoprì il ruolo di primo ministro di Israele dal 1986 al 1992. Nel 1941 Shamir venne imprigionato dai britannici per il suo ruolo nella “Banda Stern”. In seguito, come primo ministro, ordinò una violenta repressione contro la ribellione palestinese, per lo più non violenta, nel 1987, in cui si rompevano deliberatamente gli arti dei ragazzini accusati di lanciare pietre contro i soldati israeliani.

Quindi, quando ministri del governo come Ariel e Bennett invocano una violenza ingiustificata contro i palestinesi, stanno semplicemente continuando un’eredità sanguinosa che nel passato ha caratterizzato ogni leader israeliano. È l’atteggiamento violento che continua a dominare il governo israeliano e i suoi rapporti con i palestinesi; di fatto con tutti i suoi vicini.

– Ramzi Baroud è un giornalista, autore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo libro di prossima pubblicazione è “The Last Earth: A Palestinian Story[“L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi Palestinesi all’università di Exeter ed è docente non residente presso l’“Orfalea Center for Global and International Studies” dell’università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele ha creato una nuova categoria di terrorismo

Amira Hass

|30 gennaio, 2018 | Haaretz

Sul sito della Knesset compare una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore.” Quelli condannati in anticipo comprendono l’Autorità Nazionale Palestinese, i beduini e l’Unione Europea.

Coerenza esige che durante il loro viaggio a Bruxelles questa settimana, i delegati israeliani presentino alla responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, una convocazione al commissariato di polizia di Ma’aleh Adumim per essere interrogata su una sospetta attività terroristica.

Con una mano i rappresentanti israeliani, per via dei loro subappaltatori palestinesi, riceveranno un lauto assegno dall’UE per compensare l’ingente taglio di Donald Trump al finanziamento all’Autorità Nazionale Palestinese e all’UNRWA. (Vedi sotto: “Il taglio al finanziamento dell’ANP indebolisce il coordinamento della sicurezza”). Con l’altra mano consegneranno la convocazione per indagare su una sospetta attività e aiuto al terrorismo.

Per via di Auschwitz o a causa dei legami scientifici e militari con Israele, i rappresentanti europei accetteranno la convocazione con un sorriso. “Abbiamo sempre saputo che gli ebrei hanno uno sviluppato e alto senso dell’umorismo” diranno.

Ma si sbagliano. Questo non è uno scherzo. Si preparano altre espulsioni. Sul sito della Knesset è comparso una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore”. Quelli condannati in anticipo comprendono l’ANP, i beduini e l’Unione Europea. Il pubblico ministero, il giudice ed esecutore è il parlamentare Moti Yogev di Habayit Hayehudi [Casa Ebraica, il partito di estrema destra dei coloni ndt] che è anche presidente della sottocommissione del Comitato per la politica estera e la difesa della Knesset per l’espulsione dei palestinesi, anche conosciuta come sottocommissione per gli affari civili e la sicurezza nella Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania ndt]

Egli ha dichiarato che la costruzione palestinese nella Cisgiordania costituisce “terrorismo” quando avviene nel territorio che Israele con scaltrezza ha trasformato in un altro macigno sulla nostra esistenza – l’area C, nella quale ogni tenda, recinto per animali e condotto dell’acqua richiede un permesso israeliano di costruzione che non è mai concesso. Chiunque voglia alloggiare una giovane coppia in una stanza di sua proprietà, o ricostruirne una in pessime condizioni, [sostituire] una tenda fallata, o costruire un’aula di un asilo, è costretto a violare le leggi del padrone.

Giovedì scorso, la sottocommissione per le espulsioni era fuori di sé per la gioia: nel 2017 ci sono stati progressi nelle demolizioni di strutture palestinesi nell’area C, alcune delle quali costruite con finanziamento europeo. Nelle audizioni della commissione i parlamentari non si sono mai stancati di sottolineare la faccia tosta europea di finanziare strutture. Creando una realtà immaginaria con la loro terminologia, hanno definito le strutture “caravillas” [assente nel vocabolario inglese da assimilare a baracche ndt]. Le comunità palestinesi vengono chiamate “avamposti” e la loro presenza per decenni in questo territorio, “una sopraffazione”. Il territorio occupato [da Israele] è definito “territorio dello Stato”.

Abbiamo inventato il termine “terrorismo popolare” per descrivere le manifestazioni dei civili contro i nostri soldati armati. Abbiamo criminalizzato il BDS come terrorismo anche se il boicottaggio è lo strumento più antico nella storia della lotta nonviolenta contro i regimi oppressivi. Abbiamo chiamato “atto di guerra l’uso di istanze legali ”, quando i palestinesi hanno osato presentare il loro caso ai tribunali internazionali. Ora abbiamo anche accusato di terrorismo chiunque costruisca una scuola o una latrina. Presto li accuseremo di terrorismo per la loro tenace insistenza a respirare.

La riunione di giovedì scorso era incentrata sulla comunità [beduina] Jahalin che ha costruito una scuola con vecchi copertoni in un’area dove vivono da decenni, ma che la colonia di Kfar Adumim desidera [incamerare]. L’Amministrazione Civile [è l’istituzione israeliana che sovrintende al posto del potere militare, ndt] è determinata a deportare con la forza la comunità in un’area assegnata a loro a Abu Dis contro il parere di Abu Dis.

L’oratore più esplicito nella riunione è stato probabilmente il vice sindaco di Ma’aleh Adumim Guy Yifrah. Nell’interesse di espandere la sua colonia negli anni novanta , durante i negoziati di Oslo, i nostri soldati e burocrati hanno espulso centinaia di appartenenti alla tribù Jahalin dalle terre su cui hanno vissuto fin da quando furono espulsi dal Negev dopo il 1948.

Sono stati scaricati su una terra accanto alla discarica di Abu Dis. Ora, il vice sindaco ha detto che dare persino più terra nella stessa area a un altro clan della stessa tribù sarebbe un errore. “ Potrebbe far pensare ai Jahalin che stanno vicino a Ma’aleh Adumim , che lo Stato si è riconciliato con la loro residenza lì.”

Cosa stava dicendo esattamente? Che in effetti lo Stato non si è riconciliato con la loro presenza anche a Abu Dis. Il signor Yifrah ci sta dicendo che l’espulsione pianificata deve essere un altro passo verso l’espulsione finale in una località ignota.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




L’inconsistenza etica dei progressisti israeliani

Jonathan Cook

Middle East Eye – 26 gennaio 2018

Quando si tratta di palestinesi, i progressisti israeliani non sembrano molto diversi dai sostenitori di Netanyahu. Entrambi sono preoccupati di conservare Israele come Stato-fortezza ebraico.

Le violazioni dei diritti umani hanno talmente indignato alcuni famosi progressisti israeliani che, con un’iniziativa senza precedenti, hanno lanciato una campagna di disobbedienza civile.

Molte centinaia di loro hanno risposto ad un appello da parte di alcuni rabbini, impegnandosi a nascondere le vittime nelle proprie case per proteggerle dai servizi di sicurezza israeliani.

Preoccupazioni morali

Con uno stato d’animo parecchio amareggiato, accademici e liberi professionisti, compresi medici, piloti, dirigenti scolastici e avvocati, si sono rifiutati di essere complici della politica israeliana di oppressione. Questo mese moltissime personalità letterarie stimate, compresi Amos Oz e David Grossman, hanno ricordato al primo ministro Benjamin Netanyahu come sia fondamentale “agire moralmente, umanamente e con compassione degna del popolo ebraico…Altrimenti non avremmo ragione di esistere.”

All’estero, anche alcune organizzazioni ebraiche hanno stranamente suonato l’allarme, avvertendo che le azioni di Israele “tradiscono i valori fondamentali che noi, in quanto ebrei, condividiamo.”

Ma nessuna di queste manifestazioni di preoccupazione morale è stata espressa a favore dei palestinesi. Invece le coscienze dei progressisti israeliani sono state colpite dal dramma eccezionale di circa 40.000 richiedenti asilo africani, soprattutto sudanesi ed eritrei.

Questo mese il governo israeliano ha avviato un programma per espellere questi rifugiati, che hanno cercato scampo in Israele da zone di guerra prima che nel 2013 Israele riuscisse a completare una barriera lungo il Sinai per non lasciarli entrare.

Profonda vergogna

Ai richiedenti asilo ora viene offerta una “scelta” tra, da una parte, essere deportati di nuovo in Africa, con l’incombente pericolo di essere perseguitati, torturati e forse uccisi, e dall’altra l’incarcerazione a tempo indeterminato in Israele.

Al Paese di destinazione, il Rwanda, vengono versati 5.000 dollari per ogni richiedente asilo che accoglie. Ma le notizie dimostrano che il Rwanda non sta rispettando la promessa di dare loro lo status di residenti, obbligando i rifugiati o a tornare nelle zone da cui sono originariamente scappati o a fare una pericolosa attraversata via mare verso l’Europa.

Il loro trattamento è infatti stato davvero scioccante e viola in modo palese le convenzioni internazionali sui diritti dei rifugiati che Israele ha ratificato.

A indicare quanto scarsa sia la simpatia ufficiale per i rifugiati, solo a 10 di loro è stato concesso l’asilo – una percentuale minima di richieste, rispetto a oltre l’80% di sudanesi ed eritrei che ottengono lo status di rifugiati in molti Paesi europei.

Nel contempo alcuni ministri del governo israeliano hanno ripetutamente aizzato l’odio contro gli africani, chiamandoli “cancro” e “rischio per la salute”, cosa che a sua volta ha alimentato campagne pubbliche di odio e una mentalità da linciaggio.

La ragione per cui i progressisti israeliani provano una profonda vergogna per questo comportamento è comprensibile. Dopo tutto la logica esplicita dietro la creazione di Israele era di essere un luogo sicuro per i rifugiati ebrei che fuggivano dal crescente odio razzista e dalle persecuzioni in Europa, culminate con l’Olocausto. Spesso Israele si descrive come un Paese di rifugiati. Le convenzioni che Israele sta violando furono redatte proprio in base al riconoscimento del dramma degli ebrei che fuggivano dall’Europa.

Una catastrofe nelle pubbliche relazioni

La forte reazione in Israele è stata guidata da capi religiosi. Alcuni rabbini hanno invitato gli israeliani a far sì che il governo si vergogni promettendo di dare rifugio agli africani nelle proprie cantine e soffitte per evitare le deportazioni.

Questo per ricordare il modo in cui all’epoca alcuni europei tentarono coraggiosamente di salvare gli ebrei dai nazisti – il più famoso è il caso della giovane diarista Anna Frank, che in seguito è morta in un campo di concentramento.

Piloti della compagnia di bandiera israeliana El Al e personale aeroportuale si sono pubblicamente rifiutati di riportare i richiedenti asilo in situazioni di pericolo, unendosi alla pubblica ribellione di psicologi, avvocati, professori e molti altri.

Questa settimana un gruppo di 350 medici, compresi primari, ha affermato di far sentire la propria voce perché le deportazioni costituirebbero “un male fra i peggiori noti al genere umano.”

E, con un’iniziativa che è stata una catastrofe per le pubbliche relazioni di Netanyahu e del suo governo, questa settimana anche sopravvissuti dell’Olocausto e loro organizzazioni hanno duramente denunciato questa politica, citando il discorso all’ONU del sopravvissuto all’Olocausto Elie Wiesel nel 2005: “Il mondo avrà imparato?”

Lo shock e l’indignazione dei progressisti israeliani – benché benvenuto e confortante – ha tuttavia messo in evidenza l’inconsistenza etica che sta al centro di questa campagna di disobbedienza civile senza precedenti.

Generosità a buon mercato

Appare sospetto che i progressisti israeliani siano pronti a solidarizzare con i richiedenti asilo solo perché è una generosità relativamente a buon mercato – un atto di umanità che non osano estendere ai palestinesi.

Anche molti palestinesi sono rifugiati, a causa della creazione di Israele come auto-proclamato Stato ebraico nella loro patria e dalla campagna di pulizia etnica del 1948 che lo consentì – quello che i palestinesi chiamano la loro “Nakba”, o catastrofe.

Israele rifiutò di consentire a questi palestinesi di tornare a casa. Molti milioni hanno vissuto per decenni in condizioni miserabili nei campi di rifugiati in tutto il Medio Oriente.

Nel contempo nei territori occupati i palestinesi devono far fronte a terribili violazioni dei diritti umani – nel loro caso non con il tramite di un terzo Paese in Africa, ma direttamente da parte dello Stato di Israele.

Dove sono finite la solidarietà, le campagne di disobbedienza civile a favore di quei palestinesi dopo 70 anni di sofferenze? Solo un esiguo numero di israeliani di estrema sinistra – per lo più anarchici – si sono schierati con i palestinesi.

Per esempio si sono uniti ai palestinesi nelle manifestazioni di comunità rurali della Cisgiordania come Bilin e Nabi Saleh, che lottano contro il furto delle loro terre per alimentare l’espansione delle colonie ebraiche, affrontando soldati israeliani armati e spesso violenti.

Di fatto, lungi dal manifestare solidarietà con i palestinesi, molti progressisti israeliani hanno chiesto un trattamento perfino più duro.

La stragrande maggioranza degli israeliani ha festeggiato la recente incarcerazione di Ahed Tamimi, la ragazza sedicenne di Nabi Saleh che ha schiaffeggiato un soldato dopo che era entrato in casa sua. Poco prima la sua unità aveva sparato in faccia al suo cugino di 15 anni, perché stava sbirciando da un muro.

Ora i ragazzini palestinesi che lanciano pietre rischiano fino a 20 anni di prigione, e i loro genitori rischiano di perdere il lavoro. Due terzi dei minori palestinesi arrestati dalle forze di sicurezza israeliane raccontano di essere stati picchiati o torturati.

Ma agli occhi dei progressisti israeliani Ahed e quegli altri ragazzini non sono Anna Frank palestinesi. Sono terroristi.

Il “momento Trump” di Israele

L’ondata di indignazione contro la difficile situazione dei richiedenti asilo assomiglia in modo sospetto al “momento Trump” israeliano, facendo eco al recente sfogo di rabbia dei liberal americani contro quel facile bersaglio di odio che è il presidente USA Donald Trump.

Quegli stessi americani rimasero in silenzio mentre il predecessore di Trump scatenava guerre aggressive in tutto il mondo facendo a pezzi le leggi internazionali con programmi di esecuzioni extragiudiziarie, consegne di prigionieri e torture.

Allo stesso modo i progressisti israeliani sembrano essersi impegnati in una sorta di attività di diversione: concentrarsi su una grave ma isolata violazione per evitare di prendere in considerazione quella molto maggiore e molto più lunga nel tempo in cui sono personalmente implicati.

Sottolineando questo paradosso, i “Rabbini per i Diritti Umani” hanno chiesto alle comunità agricole, kibbutz [con gestione collettiva della produzione, ndt.] e moshav [con proprietà privata, ndt.] di porsi alla testa della campagna per nascondere i rifugiati africani.

Queste stesse comunità furono fondate sulle case distrutte dei rifugiati palestinesi obbligati all’esilio nel 1948. Queste stesse comunità agricole hanno impedito a qualunque palestinese cittadino dello Stato – uno su cinque della popolazione – di viverci. Tutti sono rimasti etnicamente “puri”.

Nella loro inconsistente difesa morale dei diritti umani, i progressisti israeliani hanno inavvertitamente svelato di non essere così lontani dal governo di destra che pubblicamente detestano.

Molto dell’appoggio ai richiedenti asilo africani, compreso quello dei più famosi scrittori israeliani, ha messo in luce quanto sia insignificante il loro numero, ora che un muro che attraversa il Sinai blocca un ulteriore ingresso di rifugiati. Si continua a dire che, se tutti i 40.000 avessero il permesso di rimanere, rappresenterebbero meno dello 0,5% della popolazione israeliana.

Un demone demografico

Confrontatelo con i palestinesi. Un quinto dei cittadini di Israele è palestinese, quelli che Israele non riuscì ad espellere nel 1948. Insieme ai palestinesi che vivono sotto l’ostile governo militare israeliano nei territori occupati – nel “grande Israele” che Netanyahu sta ritagliando – rappresentano metà della popolazione della regione.

Quando si tratta di palestinesi, i progressisti israeliani non sembrano molto diversi dai sostenitori di Netanyahu. Entrambi sono preoccupati di conservare Israele come uno Stato-fortezza ebraico. Entrambi vogliono muri per tenere fuori i non ebrei, che siano palestinesi nei territori occupati o rifugiati africani.

Entrambi dipingono i palestinesi, siano essi cittadini israeliani o vittime dell’occupazione, come “demoni demografici” e “tallone d’Achille” dello Stato ebraico. Entrambi temono un indebolimento dell’ebraicità di Israele.

In breve, sia i progressisti israeliani che quelli di destra sono ossessionati dalla demografia – il numero degli ebrei rispetto a quello dei non-ebrei – e dal preservare i privilegi degli ebrei. Entrambi stanno gettando le basi per future violazioni contro i palestinesi e ulteriori ondate di pulizia etnica.

Ma certi israeliani istruiti e progressisti di origine europea – quelli che dominano nelle università e nelle professioni che ora guidano la rivolta – possono permettersi di salvare la propria coscienza grazie a una popolazione di africani che rimarrà piccola e marginale. È improbabile che questi rifugiati riescano ad andare oltre la pulizia delle strade o fare i lavapiatti nei ristoranti della Tel Aviv liberal. Netanyahu e la destra, tuttavia, si basano sull’appoggio di molti degli israeliani più poveri, spesso ebrei immigrati in Israele dai Paesi arabi che subiscono evidenti discriminazioni da parte degli israeliani progressisti.

La destra deve costantemente creare un “uomo nero” (non ebreo) per rafforzare il suo potere politico che è basato su di loro. È stato facile per la destra suscitare la paura dei rifugiati africani in quanto parassiti venuti per “rubare il nostro lavoro e le nostre donne”.

Umanitarismo pragmatico

Con una tattica allarmistica che ricorda quella utilizzata contro i palestinesi, Netanyahu nel 2012 ha avvertito che 60.000 africani – il loro numero allora in Israele – “potrebbero diventare 600.000 e forse addirittura mettere a repentaglio la continuità dell’esistenza di Israele come democrazia ebraica”. Il governo di Netanyahu descrive ripetutamente i rifugiati africani come “infiltrati illegali” – un termine molto più sinistro di quanto possa essere “stranieri”.

Infiltrati” è il modo in cui venivano chiamati i palestinesi che cercavano di tornare nelle proprie case dopo la loro espulsione nel 1948. Una delle prime leggi israeliane in effetti dava ai funzionari della sicurezza israeliani carta bianca per sparare a questi “infiltrati”.

Il paragone dei rifugiati africani con quei palestinesi da parte del governo è pensato come una chiara forma di istigazione.

Ciò può non aver avuto corso con i progressisti israeliani, ma non ha neanche aperto loro gli occhi sulla propria ipocrisia. Il loro è un umanitarismo pragmatico, non di principio. La terribile sofferenza che Israele sta ora infliggendo ai rifugiati africani non sarebbe anche l’occasione perché gli israeliani progressisti riconoscano che i palestinesi hanno dovuto sopportare soprusi simili per settant’anni?

Non è finalmente arrivato il tempo in cui i progressisti israeliani debbano organizzare una campagna di disobbedienza civile non solo a favore degli africani, ma anche dei palestinesi?

– Jonathan Cook, giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il “Martha Gellhorn Special Prize for Journalism”.

Le opinion esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




ISRAELE E I MITI SIONISTI (II)

Joseph Halevi

Recensione a: Ilan Pappé Ten Myths About Israel London: Verso 2017, pp. 171

Seconda parte

rproject.it

Un paese che si basa sulla pulizia etnica e sulla colonizzazione permanente non può essere definito democratico. In verità nessuna entità statuale ove é in atto una colonizzazione a scapito della popolazione autoctona é definibile come democratica: si veda il caso dell’Australia ove fino al 1967 gli aborigeni, già violentemente decimati durante il diciannovesimo secolo, non venivano nemmeno contati nei censimenti. Eppure l’Australia era considerata una fiorente democrazia, il che significa che il termine è perfettamente malleabile a piacere senza un valore universale. Il settimo capitolo del volume di Pappé si prefigge di dimostrare la fallacia insita nella propaganda americano-israeliana riguardo l’unica democrazia nel Medioriente. Il capitolo é più incisivo di quello precedente appena discusso.

Pappé inizia osservando che la visione di Israele nel mondo, condivisa anche da rispettabili autori palestinesi, é che, dopo la guerra del 1967, il paese pur incorrendo in delle difficoltà con l’occupazione e il dominio sui palestinesi, rimane comunque uno Stato democratico. Scrive però Pappé che anche prima del 1967 in nessun modo poteva lo Stato d’Israele essere considerato democratico; a meno che, aggiungo, non si consideri la democrazia applicabile solo ad una parte della popolazione. A questo punto l’autore passa in rassegna le misure e le politiche di repressione nei confronti dei pochi palestinesi scampati alla Naqba. Nei due anni che trascorsero dalla fine della guerra del 1948-49 il parlamento, la Knesset, incorporò le leggi speciali di emergenza varate dalle autorità britanniche nel 1945 durante gli anni del terrorismo sionista dell’Irgun di Begin e compagnia, ma che non era soltanto una prerogativa della destra bensì vi partecipava anche l’establishment socialista-sionista. (10) La popolazione palestinese rimasta venne sottoposta ad un governatorato militare retto dalle leggi di emergenza, le stesse che al tempo del dominio britannico tutte le organizzazioni sioniste denunciarono come di stile nazista. La conseguenza fu la totale assenza di uno stato di diritto per questa popolazione che in teoria avrebbe dovuto godere di tutti i diritti in quanto formalmente di cittadinanza israeliana. Il governatore militare poteva – in maniera assolutamente insindacabile – requisire case, espellerne ed arrestarne gli abitanti, confiscare terreni, revocare permessi. Il governatore poteva dichiarare delle aree chiuse per motivi di sicurezza rendendo ‘illegali’ casolari e agglomerati di abitazioni palestinesi ubicate dentro queste aree che poi venivano assegnate a insediamenti che per statuto erano esclusivamente ebraici. Tale pratica continua tutt’oggi con la messa fuori legge di agglomerati beduini nel Negev a sud di Tel Aviv. Accadeva e accade, che dei palestinesi fossero – e siano ancora – condannati per aver violato un’area chiusa di cui erano o sono proprietari. (11) Spesso i villaggi palestinesi erano sottoposti a coprifuoco e fu in queste circostanze che, sottolinea Pappé, alla vigilia della guerra del 1956, accadde il massacro di Kafr Qasim che costò la vita a 49 palestinesi. Sul villaggio, assieme ad alcuni altri nelle vicinanze, il coprifuoco scattò quando molte persone erano ancora al lavoro nei campi per cui man mano che rientravano, ignare della decisione del governatore militare, venivano uccise dall’esercito israeliano. Tale evento non fu casuale: Pappé scrive che l’eccidio va inquadrato nell’ambito dell’operazione “Talpa”, un piano di espulsione dei restanti palestinesi in caso di un nuovo conflitto con i paesi arabi e il massacro di Kafr Qasim costituiva un test circa la propensione della restante popolazione palestinese a fuggire oltre la linea verde. Malgrado il governo di Ben Gurion avesse cercato di occultare l’eccidio, questo fu portato alla luce del sole grazie all’attività dei deputati comunisti e di un deputato del partito socialista sionista Mapam. Il processo che seguì inflisse delle pene molto leggere seguite da ulteriori condoni.

Gran parte delle leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi passano, senza mai menzionare i soggetti verso cui sono dirette, attraverso il fatto che gli arabi israeliani sono esenti dal servizio militare. Ad esempio, disposizioni riguardo l’usufrutto di servizi sociali o di altri tipi di sovvenzioni includono la clausola che i richiedenti devono aver effettuato il servizio militare. Nella popolazione ebraico-israeliana – la sola che veramente conti dato che gli altri ci sono perché o l’esercito non ha fatto in tempo a cacciarli via o perché sono riusciti a rimanere aggrappati ai loro paesi e/o a nascondersi in villaggi vicini a quelli investiti dal terrorismo dell’Haganà –  l’esonero dei palestinesi dall’esercito fornisce la giustificazione circa la natura non razzista delle misure di discriminazione. Meritatamente Pappé porta a conoscenza del grande pubblico la vera storia dell’esclusione dalla leva dei palestinesi israeliani. A metà degli anni ’50 il governo israeliano mise i palestinesi di fronte alla prova, chiamandoli ai centri di reclutamento dell’esercito. Sollecitati anche organizzativamente dal Partito Comunista d’Israele, che era la maggiore formazione politica tra i palestinesi israeliani e la sola forza di ricostituzione della loro identità palestinese, i giovani in età di leva accorsero in massa con grande sorpresa del governo. Colte in contropiede le autorità non ripeterono mai più l’esercizio ma hanno da sempre usato la falsa scusa del rifiuto palestinese di servire nell’esercito per giustificare le misure discriminatorie.

L’arbitrio del regime militare verso i palestinesi era totale. Non solo i coprifuoco erano ingiustificati e applicati per terrorizzare la popolazione palestinese ma i soldati potevano intimare l’alt e sparare, anche su bambini, in condizioni ‘normali’. Avendo, una parte di quegli anni, vissuto da ragazzo in Israele come figlio di una famiglia dell’establishment sionista socialista, posso dire che la segregazione era totale. Pappé scrive che il governatorato militare proibiva ai palestinesi l’accesso al 93% del territorio nazionale. Per noi ‘ebrei’ del luogo, Israele era – ed é per gli ‘ebrei’ israeliani di oggi – un paese liberissimo di cui si poteva e si può dire peste e corna fermo restando il fatto che gli ‘arabi’ volevano e vogliono ‘distruggerci’ e quelli rimasti in Israele – una potenziale quinta colonna – dovevano ringraziarci per tollerarli. In ogni caso, la Terra d’Israele è nostra da oltre 3000 anni, eccetera.  Noi ‘ebrei’ abbiamo quindi ragione a priori!

Benché sottoposti al regime militare i palestinesi israeliani potevano votare e questo, dal lato propagandistico, cancellava ogni discriminazione. Guardando poi da vicino si scopre che la situazione era ed é assai diversa, ma su questo tema rinvio ad un altro lavoro di Pappé. (12) La situazione, allargando il tema trattato da Pappé, era gravissima per i palestinesi cittadini israeliani di terza o quarta classe col diritto di voto come foglia di fico che copriva la realtà effettiva. L’assenza per loro di uno stato di diritto significava essere esposti ad uccisioni da far west. Ben Gurion era consapevole dello stato di cose e ne era preoccupato non per ragioni di democrazia verso i palestinesi  ma perché pensava che gli assassinii compiuti dai soldati verso gli arabi israeliani potessero ripercuotersi sull’immagine di Israele. Di recente Gidi Weitz di Ha-aretz ha riportato alla luce i verbali desecretati di una riunione del consiglio dei ministri del 1951 nella quale Ben Gurion parlò nella veste del suo secondo ruolo, quello di Ministro della Difesa, strabiliando gli stessi ministri:

“Non sono il Ministro della Giustizia, non sono il Ministro di Polizia e non sono a conoscenza di tutte le azioni criminali commesse ma come Ministro della Difesa, conosco alcuni di questi crimini e devo dire che la situazione fa paura specialmente in relazione a due aspetti: 1) omicidi e 2) atti di stupro”. E aggiunse: “persone dello Stato Maggiore mi dicono – ed é anche la mia opinione –  che fintanto che un soldato ebreo non viene impiccato per aver ucciso degli arabi, questi omicidi non cesseranno”. Ben Gurion colse perfettamente l’essenza della dimensione razzista di Israele, allora ancora in formazione ma oggi non più eradicabile su cui la professoressa (Premio Sakharov del Parlamento Europeo) Nurit Peled Elhanan dell’Università ebraica di Gerusalemme, ha scritto pagine preziosissime. (13)

Continuiamo a leggere Ben Gurion:

“In linea di massima coloro che hanno i fucili li usano”  e (alcuni) “credono che gli ebrei siano persone ma non gli arabi e che quindi sia possibile far contro di loro qualsiasi cosa. Alcuni pensano che uccidere arabi sia un comandamento e che tutto quello che il Governo dice contro le uccisioni di arabi  non sia una cosa seria e il divieto di uccidere arabi é solo una finzione ma che in effetti sia un atto ben accetto perché così vi saranno meno arabi in giro. Fintanto che continueranno a pensare in questo modo le uccisioni non si fermeranno.” E infine: “Presto non saremo più in grado di mostrare la nostra faccia al mondo. Gli ebrei incontrano un arabo e (che fanno?) lo uccidono”. (14)

La stampa ebraico-israeliana era allora completamente passiva e rarissimamente riportava gli assassinii perpetrati dai soldati – criminali a piede libero – sulle strade di campagna d’Israele, e mai come degli omicidi. A loro volta, i giornali dei movimenti kibbutzistici erano falsi, in quanto predicavano idee socialiste per poi partecipare a man bassa alla spoliazione della popolazione palestinese. Solo i giornali comunisti Kol ha-am (La voce del popolo) in ebraico e Al Ittihad (L’Unità) in arabo, costituivano una voce fortemente critica riguardo i soprusi subiti dai palestinesi. I comunisti però erano molto guardinghi proprio perché conoscevano bene la situazione sul terreno essendo la maggiore forza tra gli arabi israeliani ed erano consapevoli del rischio di una nuova ondata di pulizia etnica come erano consapevoli della pulizia etnica in atto condotta dall’esercito israeliano nella zona demilitarizzata. Tuttavia non tutto è controllabile soprattutto se la critica viene dall’élite europea degli ebrei israeliani. Anche in Sudafrica del resto il regime dell’ apartheid non riusciva a silenziare completamente le critiche provenienti da bianchi democratici specialmente se si trovavano ad essere membri del Parlamento di Città del Capo come nel caso della famosa deputata Helen Suzman (1917-2009), con 36 anni di vita parlamentare sulle spalle e amica di Nelson Mandela che andava a visitare in prigione.

Nel 1953 Azriel Karlibach, fondatore e direttore di Maariv, il maggior quotidiano – politicamente di centro – d’Israele, pubblicò un suo pezzo, scritto in forma poetica, di una potenza straordinaria, ancor oggi insuperata. Il titolo dell’articolo è molto significativo in quanto è preso da un’opera letteraria sudafricana nota per essere un testo di critica e protesta contro il tipo di società che darà vita all’apartheid. Si tratta del romanzo di Alan Paton pubblicato nel 1948 col titolo Cry Beloved Country (Piangi terra amata). (15) L’articolo di Karlibach, avendo lo stesso titolo, stabiliva un legame diretto col regime di apartheid sudafricano e – essendo l’autore liberaleggiante ed anti-socialista – puntava apertamente il dito contro la falsità dei kibbutzim che da un lato esprimevano solidarietà con gli africani e, dall’altro, derubavano gli arabi delle loro terra. Il tema del poema, stilato nella forma di un dialogo tra padre e figlia mentre vanno a vedere cosa stava succedendo in Galilea, è una disamina molto dettagliata dei meccanismi messi in atto per espropriare i palestinesi israeliani delle proprio terre. In tale contesto, il parlamento israeliano, la Knesset, viene esplicitamente accusato di essere non un’assise democratica ma un consesso ove arbitrariamente viene legalizzata la spoliazione degli arabi d’Israele, contro la quale, in seguito ai ricorsi da parte delle vittime, si erano formalmente espressi i magistrati israeliani. Tuttavia, scrive Karlibach, per aggirare le sentenze, in effetti giuste, dei tribunali israeliani, coloro che hanno partecipato al furto si riuniscono nella Knesset e decretano che questi terreni non sono regolati da alcuna legge stabilendo altresì che ai legittimi proprietari è fatto divieto di rivolgersi alla magistratura. La critica di Karlibach si connette alle osservazioni di Ben Gurion riguardo le uccisioni arbitrarie effettuate dai sodati israeliani in libertà, che si appaiano all’arbitrarietà della legislazione votata dalla Knesset, funzionante come un parlamento dell’apartheid sionista avente quindi poca o nessuna legittimità democratica. Il quadro che emerge circa la democrazia israeliana nei confronti dei palestinesi rimasti in Israele è preciso e sconvolgente.

Quando nel 1966 gran parte dei terreni arabi erano ormai stati requisiti e la popolazione ammassata in villaggi impoveriti e resi asfittici per mancanza di aree disponibili, il regime militare, divenuto troppo ingombrante rispetto alla pretesa di democraticità dello Stato nei confronti di tutti i suoi cittadini, venne abrogato. Non fu così però con le prerogative già in possesso del governatore militare che vennero trasferite alle autorità civili. Intatta rimase la prerogativa di dichiarare illegali degli insediamenti arabi, di raderli al suolo e  adibire le zone così ‘ripulite’ a nuovi insediamenti per soli ebrei.  Succede ancor oggi e non mi riferisco alle distruzioni di case palestinesi, 50 mila dal 1967, di uliveti, frutteti, e delle requisizioni di terreni che avvengono ormai da cinquant’anni nei territori conquistati con la guerra del 1967. L’ottavo capitolo del volume di Pappé tratta di tutto questo in maniera egregia. Mi riferisco invece a fatti accaduti recentemente, nel 2016, dentro la vecchia linea verde, come la distruzione del villaggio beduino di Um-Al-Hiram nel Negev settentrionale dichiarato illegale cui é seguita la rapida assegnazione del suolo alla costruzione di una località per soli ebrei. (16) I mesi intercorsi tra l’abolizione del governo militare sui palestinesi di Israele e la guerra del 1967 hanno costituito l’unico periodo in cui, dal 1948, i Palestinesi dell’ insieme della Palestina non fossero soggetti ad un regime militare. Con la conquista della Cisgiordania e di Gaza il governo israeliano, nota giustamente Pappé, trasferì l’intero apparato repressivo perfezionato dal governo militare riguardo i palestinesi di Israele sui palestinesi delle zone conquistate senza che essi potessero usufruire perfino di una minima protezione non avendo diritti politici e civili.

Rispetto all’evento del 1960, il 1967 rappresentò la grande occasione di conquistare l’insieme della Palestina. L’occupazione ebbe immediatamente un carattere di conquista – di “liberazione” di tutta la Terra di Israele, come allora recitavano in coro giornali e partiti ad eccezione del quello comunista Rakah. (17) Liberazione da chi? dal controllo arabo ovviamente. Purtroppo, per i dirigenti israeliani, i nuovi territori non vennero liberati dalla presenza della popolazione palestinese. Un esodo oltre il Giordano vi fu: circa trecentomila profughi lo attraversarono ma il restante milione e passa di abitanti della Cisgiordania rimase fissa sul posto. Da Gaza poi era impossibile andarsene sebbene Levi Eshkol, Primo Ministro laburista durante il 1967, ne avesse vagheggiato l’espulsione. Immediatamente in Israele si sviluppò il dibattito su come annettere i nuovi territori senza però assorbirne la popolazione araba, ingombrante e superflua quindi. Questo è Israele, un paese razzista fino al midollo, razzismo che nasce dall’ideologia sionista di insediamento coloniale volta espressamente a sostituire popolazione araba con una ebraica. Molto rapidamente venne prodotto un piano noto come il Piano Allon, ideato da Ygal Allon, ministro nel governo laburista di Levi Eshkol, un’importante figura nel movimento kibbutzistico e nella storia dell’esercito israeliano. Una prima versione apparve nell’estate del 1967 e una seconda agli inizi del 1968. Il piano prevedeva l’annessione di una parte della Cisgiordania, una fascia assai ampia  lungo la valle del Giordano e di tutta Gerusalemme collegata alla fascia con una striscia. In tal modo la Cisgiordania veniva spaccata in tre parti: una zona annessa ad Israele con completa continuità territoriale e due zone palestinesi separate tra loro: una a nord di Gerusalemme e del suo corridoio verso la valle del Giordano e una a sud di Gerusalemme. Queste erano le aree con la più alta concentrazione di palestinesi. Il piano non venne mai adottato ufficialmente dal governo ma servì da piattaforma di riferimento per le politiche di colonizzazione. L’idea di un’autonomia palestinese nella forma dei bantustan del Sudafrica dell’apartheid nasce col Piano Allon.

Cinquant’anni dopo stiamo ancora alla stesso punto con un’importante differenza: già nel 1990 il Piano Allon non era più realizzabile in quanto gli insediamenti coloniali, tutti al 100% illegali, punteggiavano le tre zone. L’alternativa venne in effetti da Rabin: collegare gli insediamenti con Israele e tra di loro attraverso un sistema di strade speciali chiuse ai palestinesi. Queste strade frammentano le zone della supposta autorità palestinese in un mosaico di piccole aree senza continuità territoriale e soggette al regime dei posti di blocco dell’esercito israeliano. Ciò implica che l’esercito oppressore deve essere presente in permanenza controllando i passaggi da una zona palestinese all’altra attraverso dei posti di blocco. Da molti anni i posti di blocco costituiscono uno strumento di vessazione ed umiliazione costante della popolazione palestinese, una prova quotidiana che – nella ‘democrazia’ israeliana – essi non hanno diritti e sono ciecamente soggetti al dominio militare. Parallelamente gran parte della popolazione ebrea israeliana si trova da circa due generazioni ormai a partecipare attivamente alla repressione dei palestinesi con la gestione dei posti di blocco e dell’occupazione militare, sia attraverso il servizio militare che coinvolge uomini e donne, sia attraverso il periodico richiamo nel servizio di riserva degli uomini fino a circa 50 anni.  Con una politica di bantustan come principio guida, gli accordi di Oslo non potevano che fallire. Ed è questo che dimostra Pappé nell’ottavo capitolo. All’autorità palestinese veniva richiesto di gestire i bantustan secondo i criteri dell’occupazione, di riconoscere la ‘realtà’ sul terreno, cioè la colonizzazione, e veniva escluso il riconoscimento dei diritti dei rifugiati della Naqba. Nei negoziati durante il fallito accordo di Camp David patrocinati da Clinton, fu respinta perfino la richiesta di Arafat di cessare gli abusi quotidiani nei confronti della popolazione palestinese. Gli accordi che avrebbero dovuto portare ad una soluzione negoziata del ‘conflitto’ comportavano inoltre un ulteriore restringimento e frammentazione delle aree palestinesi e, osserva Pappé, ad ogni proposta di spartizione il popolo palestinese ha visto aumentare la violenza nei suoi confronti. Le proposte di Ehud Barak, il leader laburista allora al governo, erano talmente inaccettabili che anche l’allora ministro degli esteri di Israele nel governo Barak, Shlomo Ben Amì, dichiarò nel 2006 in un dibattito televisivo sul canale di “Democracy Now”, che se fosse stato palestinese non avrebbe firmato gli accordi di Camp David. (18)

Particolarmente importante é il racconto che nel nono capitolo Pappé fa della situazione a Gaza ove ricapitola le fasi della crescita di Hamas mostrando che si tratta di un movimento politico, e non terroristico in quanto tale, sviluppatosi sul vuoto creato da Al-Fatah e con una posizione) netta sul diritto al ritorno dei profughi del 1948. Quest’ultimo aspetto è molto importante a Gaza dato che nel 1948 la striscia era stata scelta da Israele per espellervi i palestinesi delle zone meridionali del loro stesso paese. Il fallimento pianificato di Camp David e Taba (19) – località questa sul confine tra Egitto e Israele vicino a Eilat sul Golfo di Aqaba – diede luogo alla Seconda Intifada mentre Ariel Sharon del Likud (‘destra’) diventava il nuovo Primo Ministro. In questo contesto Pappé mostra come Sharon sfruttò la nuova situazione e la crescita di Hamas a Gaza per ottenere da parte degli USA via libera riguardo l’annessione di gran parte della Cisgiordania. L’impossibilità di controllare Gaza dall’interno fornì lo spunto per la messa in opera di una strategia che da un lato presentava il ritiro da Gaza come una concessione di pace e, dall’altro, chiedeva agli Stati Uniti, allora governati da Bush figlio, di escludere i profughi della Naqba da ogni negoziato. Un fatto riportato da Pappé chiarifica la strategia di Ariel Sharon. Gli Stati Uniti erano riluttanti ad accettare il piano di ritiro da Gaza proposto da Sharon. Contando sulle affinità ideologiche con Bush riguardo il mondo arabo, Sharon scommise che sarebbe riuscito a far accettare il piano alla Casa Bianca. E così in effetti fu con l’aggiunta della promessa da parte di Washington di non includere i profughi nelle trattative e di non far pressione su Israele riguardo l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Lo sganciamento da Gaza e la trasformazione della Striscia in una prigione controllata dall’esterno e regolarmente bombardata ha sortito, nota Pappé, l’effetto di silenziare  l’opposizione – tra gli ebrei di Israele – all’occupazione e di formare un vastissimo consenso in favore di essa. Ergo conclude Pappé nel decimo ed ultimo capitolo del libro, la sola via è quella di una battaglia per un solo Stato di tutti i cittadini, come nel caso del Sudafrica dopo l’apartheid. Anzi, prosegue Pappé, continuare a parlare della soluzione a due Stati significa appoggiare l’apartheid, dato che con i due Stati la colonizzazione non verrà eliminata né arrestata mentre lo Stato palestinese sarà una serie di bantustan e Gaza rimarrà una prigione dalle orribili condizioni di vita diventate ormai insostenibili.

Negli ultimi quattro decenni si sono formati degli storici che hanno profondamente cambiato lo studio del Medioriente. Essi sono ebrei israeliani, palestinesi israeliani e palestinesi, dai Khalidi, a Nur Masahla, a Avi Shlaim, a Joseph Massad, a Ilan Pappé. Fino alla formazione di questi storici la propaganda israeliana dominava e si basava su criteri tanto semplici quanto falsi. Secondo tale propaganda, gli “ebrei” hanno diritto alla Terra di Palestina perché era la loro storicamente e ne sono stati stati espulsi definitivamente dai romani. Nei tempi più recenti la Palestina era pressoché disabitata, atta dunque a ricevere i presunti discendenti degli abitanti originari perseguitati da un razzismo anti-ebraico immanente ed incancellabile. Al loro arrivo per costruire il loro legittimo Stato essi  si sono confrontati con l’ostilità araba anch’essa motivata da un’innata anti-ebraicità. I ‘pochi’ abitanti arabi della Palestina avrebbero potuto facilmente sistemarsi nei paesi arabi vicini solo che i governi ‘arabi’ hanno preferito la via di distruggere Israele. Gira e rigira questa è la storia ufficiale ormai del tutto invalidata. Essa è stata talmente invalidata che perfino gli storici ufficiali rimasti la negano sul piano metodologico, come é successo nel caso delle loro reazioni ai volumi di Shlomo Sand ed anche in altre circostanze, per poi farla riemergere quando respingono la natura del sionismo come un movimento di insediamento coloniale ed esclusivo.

Ilan Pappé é sicuramente la persona che ha maggiormente studiato la storia della Palestina e di Israele in tutte le sue molteplici forme fornendoci un quadro storiografico incontrovertibile. Per i suoi imprescindibili contributi, Pappé ha ricevuto, nel novembre del 2017 a Londra, il massimo premio del Palestine Book Awards. (20) Tuttavia non é detto che le conclusioni da lui raggiunte in questo volume siano realizzabili e tali da poter arrestare la colonizzazione. E’ perfettamente possibile, anzi probabile, che mentre la soluzione a due Stati sia ormai defunta, quella che liberi il popolo palestinese dall’oppressione coloniale sia di là da venire e nemmeno individuabile.

Fine

Note

10 E’ indicativo che durante il massacro di Deir Yassin perpetrato dall’Irgun nell’aprile del 1948, una formazione dell’ufficiale Haganà stazionasse a pochissimi chilometri di distanza senza alzare un dito. Le bande criminali ebbero tutto il tempo di esibire la popolazione catturata per le strade di Gerusalemme, di riportarla a Deir Yassin e di sterminarla senza che l’Haganà facesse nulla per impedirlo.

11 Vedi Mondoweiss del 27/12/2017: http://mondoweiss.net/2017/12/israeli-sentences-trespassing/?utm_source=Mondoweiss+List&utm_campaign=32481edf23-RSS_EMAIL_CAMPAIGN&utm_medium=email&utm_term=0_b86bace129-32481edf23398519897&mc_cid=32481edf23&mc_eid=9728f22b82

12 Ilan Papp é, The Forgotten Palestinians: A History of the Palestinians in Israel, New Haven, CT: Yale University Press, 2013.

13 Nurit Peled Elhanan: La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nellistruzione. Milano: EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2015.

14 Le citazioni provengono dall’ edizione in inglese di Ha-aretz e sono state tradotte da me. Vedi Gedi Weitz in Ha-aretz 1/4/2016: Ben-Gurion in 1951: Only Death Penalty Will Deter Jews From Gratuitous Killing of Arabs.

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.712125

15 Azriel Karlibach: Cry Beloved Country, in ebraico in Maariv 25/2/1953. Tradotto e stampato in Inglese in Uri Davis e Norton Mezvinsky (a cura di), Documents From Israel: 1967-1973. London: Ithaca Press, 1975, pp. 14-20.

16 https://972mag.com/authorities-start-process-of-replacing-bedouin-town-with-a-jewish-one/121065/

17 Nel 1965 il Partito Comunista d’Israele si spaccò a causa del fatto che il suo segretario generale, Shmuel Mikunis effettuò una svolta filosionista e critica verso la posizione dell’ URSS sul Medioriente. Il grosso dell’ufficio politico e del partito non seguì Mikunis il quale però era il titolare legale del nome del partito MAKI (partito cominista d’Israele). Si formarono cosi due gruppi parlamentari, quello di Mikunis dal nome Maki e composto dal solo Mikunis, e RAKAH (nuova lista comunista) con tre parlamentari. Molto rapidamente il gruppo Mikunis si sciolse nelle liste piu radicali della sinistra sionista che, dopo varie mutazioni, oggi si condensano nel piccolo partito MERETZ, mentre RAKAH diede vita a HADASH (acronimo per fronte democratico per la pace) oggi facente parte della Lista Unita – terzo gruppo parlamentare alla Knesset – che raccoglie una serie di organismi politici palestineso-israeliani. In tal modo però HADASH ha perso il suo carattere di unica formazione politica israeliana non ‘etnicamente’ schierata. La scelta è stata imposta dal cambiamento delle legge elettorale che, aumentando la soglia di sbarramento, ha obbligato i partiti che operano nel settore arabo o, come i comunisti, che ricevono voti soprattutto dai palestinesi israeliani, ad accorparsi.

18 https://www.democracynow.org/2006/2/14/fmr_israeli_foreign_minister_if_i, anche:

https://www.theguardian.com/commentisfree/2010/jul/01/israel-palestinian-peace-camp-david

19 I colloqui di Taba si tennero tra il 21 e il 27 gennaio 2001 e avrebbero dovuto essere lo strumento per l’applicazione degli accordi di Camp David II dell’ anno precedente. I colloqui furono però interrotti per le elezioni israeliane che portarono al governo israeliano Ariel Sharon.

20 http://www.middleeasteye.net/news/three-authors-highlighted-palestine-book-awards-489086373

Il ringraziamento di Pappé, breve ma importante, si trova a:https://www.versobooks.com/blogs/3532-ilan-pappe-s-keynote-address-at-2017-palestine-book-awards




Il doloroso percorso di un conflitto secolare.

Alessandra Mecozzi (a cura di), Il lungo cammino della Palestina. 1917-2017, Edizioni Q, Roma, 2017, pp. 200, 10 €.

Cristiana Cavagna

Noi sappiamo che la nostra libertà non può dirsi compiuta senza la libertà dei palestinesi”

Nelson Mandela

Questa frase è significativamente riportata nella quarta di copertina di questo prezioso libro: a chiunque stia a cuore quella libertà, è indispensabile conoscere il cammino della Palestina, ed è a questo obbiettivo che il libro curato da Alessandra Mecozzi dà un semplice, chiaro e ben documentato contributo.

Il volume è frutto di un lavoro collettivo, nato dalla collaborazione tra l’associazione ‘Cultura è libertà’ di Roma e l’Association Belgo-palestinienne, di cui sono stati tradotti ed aggiornati fino al 2017 i testi di “La Palestine dans tous ses états”, stampato a Bruxelles.

Scrive nella sua prefazione Wasim Dahmash, saggista palestinese, docente di lingua e letteratura araba all’Università di Cagliari: “Evidenzierò la ragione per cui del ‘problema israelo-palestinese’ non si parla, avvolto com’è da un ostracismo tacito che coinvolge diversi livelli di responsabilità, delle istituzioni in generale, la politica, le università, i media. Una ragione che da sola basterebbe a motivare la pubblicazione del volume…”

Da questa fine d’anno, del ‘problema’ si parla in realtà parecchio, dopo la “bomba atomica” fatta scoppiare dal presidente Trump con il suo riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele: ma con quanta conoscenza di causa, e soprattutto con quanta onestà storica ed intellettuale, se ne parla nei media?

A maggior ragione quindi, questa disamina storica, questa documentazione che comprende dati, schede e mappe geografiche, è uno strumento davvero utile: ad orientarsi, per chi poco conosca del ‘problema’; a puntualizzare alcune tappe fondamentali del ‘cammino della Palestina’ (dalla fine dell’800 fino ad oggi), per chi già conosce e si impegna nelle battaglie per i diritti dei palestinesi; ad avere a disposizione un’ agile ‘cassetta degli attrezzi’, per chi voglia fare informazione, sensibilizzazione, formazione riguardo al ‘problema’, dalle scuole alle università, ai quartieri, alle associazioni….agli amici.

100, 70, 20 anni fa….

Ci è sembrato un buon modo per ricordare che il 2017 segna 100 anni dall’occupazione della Palestina e dalla Dichiarazione Balfour, 70 anni dalla partizione della Palestina votata dall’ONU, 50 dalla guerra dei 6 giorni e dall’occupazione dei territori palestinesi, che dura ancora oggi.” Così la nota introduttiva della curatrice, che precede una ricca e circostanziata cronologia , che va dagli ultimi decenni dell’800 (che vedono la nascita del movimento sionista) alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 2016 che ribadisce l’illegalità delle colonie israeliane.

A questa cronologia complessiva si aggiungono nel corso del volume i percorsi temporali che segnano le singole trattazioni ( il diritto internazionale e i ‘piani di pace’; Gerusalemme, la colonizzazione e l’annessione dei territori palestinesi, il muro di separazione; l’economia palestinese e la crisi di Gaza; vittime, prigionieri e rifugiati palestinesi; i partiti politici e la resistenza palestinese; antisemitismo e antisionismo) e consentono di contestualizzare gli avvenimenti.

Ricco è anche l’apparato di rimandi a testi di approfondimento per ogni argomento trattato (particolarmente interessante e stimolante il capitolo che riguarda la discussione sui termini di antisemitismo e antisionismo, spesso confusi e sovrapposti, con riferimenti bibliografici a testi di Halper, Chomsky, Pappe).

Il cammino della Palestina

Il lungo cammino della Palestina si snoda a partire dall’occupazione dell’ottobre del 1917 da parte delle truppe britanniche e dalla dichiarazione Balfour di alcuni giorni dopo (2 novembre), che esplicita l’obbiettivo di “creare una sede nazionale per il popolo ebraico”: viene raccontato attraverso schede tematiche che illuminano i principali nodi dell’occupazione israeliana.

Sono elencate le più importanti tra le tantissime Risoluzioni dell’ONU, tutte inapplicate (Israele agisce totalmente al di fuori del diritto internazionale), fino alla condanna, nel 2004, della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja che dichiara illegale il muro di separazione costruito da Israele.

Si dà poi conto dei vari ‘piani di pace’, dagli Accordi di Oslo del 1993 al ‘Patto di Ginevra’ del 2003, tutti senza esito.

Viene affrontata la questione cruciale, oggi particolarmente attuale, di Gerusalemme est e delle colonie israeliane in continua espansione: il trasferimento forzato di popolazione palestinese, la confisca di proprietà private palestinesi, il diniego di permessi di costruzione e le conseguenti demolizioni di case, i 130 chilometri di muro già costruiti intorno e dentro a Gerusalemme, perseguono l’obbiettivo di portare a termine la ‘giudaizzazione’ di Gerusalemme, “rimettendo in causa il suo statuto di città aperta per le 3 religioni monoteiste”.

Due schede tematiche esaminano la situazione dello ‘strangolamento’ dell’economia palestinese e la questione dell’acqua: appropriazione delle terre e dell’acqua con il controllo delle falde acquifere; una terza è dedicata ad un approfondimento sulla ‘crisi umanitaria, economica e politica’ di Gaza, una prigione a cielo aperto di 360 km2 per circa 2 milioni di abitanti.

Un’accurata serie di dati accompagna le schede relative alle vittime del ‘conflitto’, ai prigionieri politici ed ai rifugiati.

Colonizzazione e resistenza.

Un filo ‘nero’ caratterizza il cammino tratteggiato, un filo che ha contraddistinto le politiche sulla Palestina, da quella della potenza britannica a quelle di tutti i governi israeliani: la colonizzazione, o meglio la colonizzazione da insediamento, e la discriminazione verso i palestinesi che presenta ormai caratteristiche di apartheid. Scrive con estrema chiarezza Dahmash nella prefazione: “…Le costanti della politica coloniale britannica, fino ad arrivare alla pulizia etnica della Palestina e la conseguente creazione dello Stato di Israele, sono gli stessi assi portanti che hanno guidato la politica di tutti i governi israeliani fino ad oggi……eminenti sudafricani, tra cui l’arcivescovo Desmond Tutu, nel visitare la Palestina sono stati colpiti dal modello dell’apartheid israeliano, secondo loro ancora più scientifico e feroce di quello sudafricano.”

Ma i palestinesi sono “un popolo che resiste”: “esistere, è resistere”, si legge sul muro di Qalqiliya, che viene riportato nel capitolo, tra gli ultimi, che parla della lotta dei palestinesi, definendola, come riconosciuto dal diritto internazionale, ‘resistenza legittima contro un’occupazione illegittima’, pur condannando senza ambiguità gli attentati suicidi contro i civili.

Non manca un riferimento finale al movimento BDS (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), lanciato nel 2005 da un’ampia coalizione di associazioni e sindacati palestinesi, a cui sempre più personalità ed organizzazioni aderiscono in tutto il mondo, e che il regime israeliano cerca in tutti i modi di reprimere.

Cristiana Cavagna è traduttrice e collaboratrice del sito Zeitun.info, Notizie sulla Palestina.

Già insegnante di diritto nelle scuole superiori, da anni è socia ed attivista di Amnesty International e Un Ponte per… Ha viaggiato in Palestina e Libano.