La violenza israeliana è palesemente terrorista, smettiamo di chiamarla “scontri”

Belén Fernández

7 aprile 2023 – Al Jazeera

Fedeli aggrediti ad Al-Aqsa, Gaza di nuovo bombardata, ma i media occidentali continuano ancora a equiparare il collo e la ghigliottina.

Ci risiamo. Lo Stato di Israele sta commettendo una barbarie fuori controllo contro i palestinesi e i grandi media occidentali hanno deciso che tutto ciò si riduce a “scontri”.

L’ultima tornata dei cosiddetti “scontri”, scoppiati quando la polizia israeliana ha deciso di celebrare il mese sacro musulmano del Ramadan aggredendo ripetutamente i fedeli palestinesi nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, ha provocato come prevedibile un numero spropositato di vittime.

Centinaia di palestinesi sono stati arrestati e feriti quando le forze israeliane hanno ancora una volta ostentato la loro abilità con proiettili ricoperti di gomma, manganelli, granate stordenti e lacrimogeni. In cambio la polizia ha subito danni minimi, mentre si è impegnata anche ad accompagnare coloni israeliani illegali nel complesso della moschea.

Evidentemente non soddisfatto della violenza scatenata a Gerusalemme, Israele ha anche lanciato bombardamenti contro la Striscia di Gaza e il sud del Libano in seguito a un presunto lancio di razzi.

Come nel caso di tutti i precedenti esempi di “scontri” tra israeliani e palestinesi, la scelta dei media di utilizzare tale terminologia serve a nascondere il monopolio israeliano della violenza e il fatto che Israele uccide, ferisce e mutila a un ritmo astronomicamente superiore della sua presunta controparte negli “scontri”.

Ciò nasconde anche la realtà del fatto che la violenza palestinese è una risposta a una politica israeliana ormai da quasi 75 anni caratterizzata dalla pulizia etnica dei palestinesi, dall’occupazione della terra palestinese e dalla periodica perpetrazione di massacri – scusate, “scontri”.

Scegliete tra gli attacchi militari israeliani contemporanei e troverete iniziative come l’operazione Margine protettivo, un eufemismo per definire il massacro nella Striscia di Gaza nel 2014 di 2.251 persone, tra cui 551 minorenni. Durante un periodo di 22 giorni iniziati nel dicembre 2008, l’operazione Piombo Fuso è costata la vita a circa 1.400 palestinesi a Gaza, con tre civili israeliani morti.

Ci furono molti “scontri” anche nel 2018 quando, in risposta a proteste sul confine di Gaza, l’esercito israeliano uccise centinaia di palestinesi e ne ferì migliaia. E nel maggio 2021 un massacro israeliano durato 11 giorni, denominato operazione Guardiano delle Mura, uccise più di 260 palestinesi, circa un quarto dei quali minorenni. Si dà il caso che quest’ultima operazione sia stata innescata da, che altro, “scontri” nella moschea di Al-Aqsa.

Quel poco di curiosità ha spinto alcuni mezzi di comunicazione a preoccuparsi di ciò che l’attuale “vertiginoso aumento degli spargimenti di sangue” tra israeliani e palestinesi possa far presagire, un ulteriore altro slogan dei media che alla fine maschera il ruolo predominante di Israele nei massacri.

Ovviamente è difficile trovare una qualche equivalenza linguistica o etica all’ossessione dei media nel raccontare la spietatezza israeliana come “scontri”. Non si penserebbe a un alce che si “scontri” con il fucile di un cacciatore proprio come non si percepirebbe uno “scontro” tra il collo di un essere umano e una ghigliottina. Né si descriverebbe il bombardamento letale di un ospedale a Kunduz, in Afghanistan, da parte degli Stati Uniti come uno “scontro” tra una struttura sanitaria e un aereo da guerra AC-130.

Ma, benché chiaramente immorale, la deferenza dei media occidentali nei confronti della narrazione israeliana non è per niente nuova. Molto di questo riguarda il fervido appoggio, in particolare da parte degli USA, al punto di vista israeliano che descrive i persecutori come vittime e i massacri come autodifesa.

Forse la stessa fondazione dello Stato di Israele nel 1948, che vide migliaia di palestinesi massacrati e più di 500 villaggi palestinesi distrutti, in definitiva non fu altro che un grande “scontro”. Di certo la campagna propagandistica israeliana di lungo termine per confondere i palestinesi con il terrorismo continua a garantire considerevoli vantaggi.

È così persino tra i mezzi di informazione più chiaramente progressisti che sono disposti a denunciare i crimini israeliani ma che non riescono ancora a mettere i palestinesi sullo stesso piano di umanità degli israeliani. Per esempio, a febbraio di quest’anno Lawrence Wright, della rivista The New Yorker, ha twittato un video di soldati israeliani che spintonano e picchiano il pacifista palestinese Issa Amro mentre Wright lo sta intervistando a Hebron, città occupata della Cisgiordania. Il commento del giornalista del New Yorker: “Non posso smettere di pensare a quanto sia disumanizzante l’occupazione per i giovani soldati incaricati di imporla.”

In altre parole: i soldati israeliani sono vittime della degradazione morale e della disumanizzazione, mentre i palestinesi non arrivano mai ad essere realmente in primo luogo umani.

Ora, mentre le forze di sicurezza israeliane continuano a disumanizzare e ad essere disumanizzate a Gerusalemme e a Gaza, tutto il discorso relativo agli “scontri” non fa che confermare l’idea che la violenza israeliana, descritta come una semplice parte di una corretta competizione di azioni e reazioni tra due parti equivalenti, sia in fondo giustificata.

Nell’agosto 2022 un attacco di tre giorni dell’esercito israeliano contro Gaza uccise almeno 44 palestinesi, tra cui 16 minorenni, l’episodio più sanguinoso dall’operazione Guardiano delle Mura del 2021. Nessun israeliano venne ucciso in seguito agli eventi di agosto, eppure i media occidentali sono stati ancora diligentemente pronti senza alcun dubbio a raccontare affannosamente di “scontri”.

Come ho sottolineato all’epoca in un articolo su Al Jazeera la versione in rete del Cambridge Dictionary definisce il terrorismo come “(minacce di) un’azione violenta per fini politici”. E tanto più spesso ricordiamo a noi stessi che Israele sta letteralmente terrorizzando i palestinesi tanto prima, forse, potremo porre fine a tutto questo discorso sugli “scontri”.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Belen Fernandez è autrice di Exile: Rejecting America and Finding the World [Esilio: rifiutare l’America e trovare il mondo”] e di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work” [“Il messaggero dell’impero: Thomas Friedman [giornalista del NYT noto per le sue posizioni filoisraeliane] al lavoro]. È una collaboratrice di “Jacobin” [“Giacobino”, rivista della sinistra radicale USA, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Smotrich smaschera il vero volto genocida di Israele

Ali Abunimah

20 marzo 2023 – The Electronic Intifada

Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, ha dichiarato domenica a Parigi che i palestinesi non esistono.

Non esistono “i palestinesi perché non esiste il popolo palestinese”, ha detto Smotrich.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi e ovazioni dai partecipanti”, ha osservato The Times of Israel e come mostrano i video dell’evento.

Smotrich è andato oltre, dichiarando che lui – un colono della Cisgiordania – è un “vero” palestinese.

Appesa al podio di Smotrich c’era una bandiera che raffigurava l’intera Palestina storica, la Giordania e parti del Libano e della Siria come appartenenti allo Stato sionista, rivelando un desiderio di una ancora più grande espansione territoriale che anche altri funzionari israeliani hanno espresso di recente.

L’affermazione che i palestinesi non esistono o sono un “popolo inventato” è diffusa tra i sionisti.

Nel 2014 Sheldon Adelson, il defunto miliardario grande donatore a favore delle cause anti-palestinesi e del Partito Repubblicano, ha dichiarato allo stesso modo che “i palestinesi sono un popolo inventato”.

Adelson ha aggiunto: “Lo scopo dell’esistenza dei palestinesi è distruggere Israele”.

Due anni dopo Brooke Goldstein, un’importante attivista della lobby israeliana negli Stati Uniti, ha affermato che “non esiste un individuo palestinese”.

Ma forse il fatto più noto è la dichiarazione del 1969 del primo ministro israeliano Golda Meir secondo cui “non esistono palestinesi”.

Meir era uno dei pilastri dell’establishment del partito laburista di Israele che si pretendeva di sinistra.

L’ultimo commento di Smotrich arriva poche settimane dopo aver dichiarato che la città palestinese di Huwwara dovrebbe essere “spazzata via” dallo Stato di Israele.

Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich pensi davvero ciò che dice e, se gli fosse data l’opportunità, lui e il movimento politico in ascesa che rappresenta realizzerebbero questa opzione.

Inoltre, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che ciò di cui Smotrich sta parlando e propagandando è il genocidio del popolo palestinese.

Né le osservazioni di Smotrich sono sfoghi sconsiderati; riflettono un pensiero profondo e attento e un’ideologia coerente.

Valori delle SS tedesche

Nel 2017, Smotrich elaborò un piano per costringere il popolo palestinese a lasciare la propria terra e per occupare una volta per tutte l’intero territorio.

All’epoca, Daniel Blatman, professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica, scrisse che Smotrich aveva preso ispirazione per il suo piano dal libro biblico di Giosuè, che descrive il massacro totale di un popolo da parte dei “figli di Israele”.

Blatman definì Smotrich, che allora era vicepresidente del parlamento israeliano, la Knesset, “la più importante figura di governo fino ad oggi a dire sfacciatamente che l’opzione del genocidio è sul tavolo se i palestinesi non accettano i nostri termini”.

Secondo il piano di Smotrich, i palestinesi avrebbero dovuto sottomettersi completamente alla supremazia ebraica o essere costretti ad andarsene.

Oggi Smotrich non solo controlla il ministero delle finanze, ma gli sono stati conferiti poteri speciali sulla cosiddetta amministrazione civile, la burocrazia di occupazione militare israeliana che gestisce la vita di milioni di palestinesi, persone che Smotrich ritiene inesistenti.

“L’ammirazione di Smotrich per il genocida biblico Joshua bin Nun lo porta ad adottare valori che assomigliano a quelli delle SS tedesche”, ha aggiunto Blatman, un ex membro del Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

Va sottolineato che anche allora il primo ministro Benjamin Netanyahu era disposto a dare un implicito segno di approvazione alle idee di Smotrich.

“Sono stato felice di sentire che stai indirizzando la discussione dell’incontro al tema del futuro della Terra di Israele”, ha detto Netanyahu in un saluto registrato riprodotto durante l’incontro in cui Smotrich ha esposto il suo piano di genocidio.

Fino a non molti anni fa questo Paese era deserto e abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni di esilio, la Terra di Israele è fiorente”, ha affermato Netanyahu.

Tentativi “liberal” di mascheramento.

I sionisti “liberal” hanno già compiuto intensi sforzi per ritrarre personaggi del calibro di Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale kahanista [seguace del defunto rabbino Kahan, ndt] israeliano Itamar Ben-Gvir come aberrazioni che in qualche modo non sono veri rappresentanti di Israele e del sionismo.

Possiamo aspettarci che questi sforzi di occultamento si intensifichino.

Ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich stia semplicemente articolando l’ideologia e la politica fondative di Israele.

Nel 2004, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha intervistato Benny Morris, uno dei “nuovi storici” israeliani che negli anni ’80 ha utilizzato fonti sioniste per convalidare i resoconti palestinesi della Nakba – la sistematica pulizia etnica della Palestina del 1948 durante la quale le milizie sioniste perpetrarono stupri, omicidi arbitrari e dozzine di massacri.

Morris ha spiegato che David Ben-Gurion, il primo ministro fondatore di Israele – come Meir un pilastro del Partito laburista di sinistra nominalmente laico – ha diretto personalmente il deliberato “trasferimento” del popolo palestinese da gran parte della sua patria.

“Ben-Gurion era favorevole al trasferimento”, ha spiegato Morris. “Ha capito che non poteva esistere uno Stato ebraico con una numerosa e ostile minoranza araba al suo interno. Non ci sarebbe stato un tale Stato. Non sarebbe stato in grado di esistere”.

“Non ti sento condannarlo”, ha detto a Morris l’intervistatore di Haaretz.

“Ben-Gurion aveva ragione”, ha risposto Morris. “Se non avesse fatto quello che ha fatto, uno Stato non sarebbe venuto in essere. Questo deve essere chiaro. È impossibile evitarlo. Senza lo sradicamento dei palestinesi, qui non sarebbe sorto uno Stato ebraico”.

Ma per Morris, l’errore di Ben-Gurion è che non ha fatto una sufficiente pulizia etnica.

Dato che lui [Ben-Gurion] era già impegnato nell’espulsione, forse avrebbe dovuto fare un lavoro completo”, ha affermato Morris.

“So che questo fa inorridire gli arabi, i “liberal” e i tipi politicamente corretti”, ha detto Morris. “Ma la mia sensazione è che questo posto sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse effettuato una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”.

“Potrebbe anche diventare evidente che questo è stato il suo errore fatale”, ha aggiunto Morris. “Se avesse effettuato un’espulsione totale – piuttosto che parziale – avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni”.

Nessuno che si definisca sionista, sia di “sinistra” che di estrema destra, può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris.

Ecco perché nessuno che si definisce sionista sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

È per questo che i sionisti, anche della varietà “liberal”, si preoccupano costantemente della “minaccia demografica” derivante dalla nascita di bambini palestinesi.

Questo è genocidio

E se nessun sionista può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris, allora non può nemmeno essere in disaccordo con Smotrich.

In effetti, lo stesso Smotrich ha fatto eco a Morris quasi alla lettera nel 2021, quando ha urlato ai legislatori palestinesi nel parlamento israeliano che “è stato un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non vi abbia buttati fuori nel 1948”.

Possono fingere shock e disgusto per il linguaggio di Smotrich, ma chiunque creda che Israele debba rimanere uno “Stato ebraico” con una maggioranza ebraica deve almeno sostenere la pulizia etnica dei palestinesi che Israele ha perpetrato fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che sostenga o meno attivamente ulteriori espulsioni su vasta scala in futuro.

In effetti la posizione del numero sempre minore di “liberal” israeliani e di altri sostenitori della cosiddetta soluzione dei due Stati può essere riassunta come segue: sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra che Israele ha già effettuato, ma pensiamo che le future espulsioni e sottrazioni di terre dovrebbero essere limitate, anche se è ampiamente aperto il dibattito sulla loro entità.

Mentre la posizione di Smotrich e compagnia è: noi, come voi, sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra fino ad oggi, ma pensiamo che ce ne debba essere molto di più.

Moralmente e praticamente non c’è differenza perché entrambe le posizioni relegano milioni di palestinesi a vivere sotto il brutale dominio del suprematismo e dell’apartheid ebraico, o esiliati dalla loro patria, solo ed esclusivamente perché non sono ebrei.

Insieme alle frequenti affermazioni secondo cui i palestinesi non esistono e non sono mai esistiti come popolo, le espulsioni e i massacri di Israele trascendono il crimine già sufficientemente orribile della pulizia etnica ed entrano nel regno del genocidio: la completa cancellazione dei palestinesi come popolo.

Anche qui, la posizione di Smotrich secondo cui i palestinesi non hanno esistenza e tanto meno diritti come popolo non è un’aberrazione ma un riflesso del consenso israeliano.

Ricordiamo che nel 2018 Israele ha adottato la cosiddetta Legge sullo Stato-Nazione, uno strumento costituzionale che dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico”, negando così ai palestinesi qualsiasi diritto nazionale o esistenza.

E a dicembre, quando il nuovo governo di coalizione di Benjamin Netanyahu si è insediato, ha dichiarato come primi principi guida che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della terra di Israele”.

Israele torna alle sue radici

Si dice spesso, comprensibilmente, che l’attuale governo israeliano sia il più apertamente razzista e di destra della storia.

Ciò può essere vero in termini di retorica, ma non c’è alcuna differenza pratica tra il fondatore “socialista” laico di Israele, David Ben-Gurion, e un sionista religioso di estrema destra come Smotrich.

Ma dopo decenni di soppressione del linguaggio apertamente genocida di Smotrich a favore della presentazione di un volto “liberal” e “democratico”, perché gli israeliani ora stanno abbracciando questa retorica?

Ciò dipende dal fatto che il “problema demografico” di Israele – l’esistenza di “troppi” palestinesi che vivono e respirano sul proprio suolo – sta diventando urgente.

Con gli ebrei ancora una volta una minoranza tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, molti israeliani sentono chiaramente di non avere altra scelta che tornare pienamente alle radici genocide del loro paese.

Ecco perché l’ostracismo verso Smotrich – come hanno fatto i funzionari francesi rifiutandosi di incontrarlo durante la sua permanenza nel loro paese – è insufficiente e fuorviante perché ritrae falsamente un “estremista” come il problema.

Il problema è il sionismo stesso e l’incubo genocida e coloniale in corso che ha scatenato sul popolo palestinese e sulla sua terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’arte dei bambini palestinesi mette in luce il genocidio culturale israeliano

Ramzy Baroud

7 marzo 2023 – Middle East Monitor

Il seguente messaggio di testo racconta l’intera storia di ciò per cui le comunità filo-palestinesi di tutto il mondo stanno combattendo e contro cui combattono i filo-israeliani: “Siamo lieti di annunciare che il Chelsea e il Westminster Hospital ha rimosso un’esposizione di opere d’arte disegnate da bambini provenienti da Gaza”.

Questo è il riassunto di una notizia pubblicata sulla homepage del gruppo lobbista filo-israeliano UK Lawyers for Israel [Avvocati Britannici per Israele, ndt.] (UKLFI). L’associazione è accreditata – se credito è la parola giusta – come lo schieramento che è riuscito a convincere l’amministrazione di un ospedale nella zona ovest di Londra a rimuovere alcune opere d’arte create dai bambini rifugiati nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Per spiegare la logica alla base della loro incessante campagna per la rimozione dell’arte dei bambini, UKLFI ha affermato che i “pazienti ebrei” in ospedale “si sentivano vulnerabili e colpevolizzati dall’esibizione”. Le poche opere d’arte raffiguravano la Cupola della Roccia nella Gerusalemme Est occupata, la bandiera palestinese e altri simboli che non dovrebbero realmente “colpevolizzare” nessuno. L’articolo dell’ UKLFI è stato successivamente modificato, con la rimozione del riassunto offensivo, sebbene sia ancora accessibile sui social media.

Per quanto ridicola possa sembrare questa storia, in realtà è l’essenza stessa della campagna anti-palestinese lanciata da Israele e dai suoi alleati in tutto il mondo. Mentre i palestinesi si battono per i diritti umani fondamentali, la libertà e la sovranità come sancito dal diritto internazionale, il campo filo-israeliano si batte per la totale cancellazione di tutto ciò che è palestinese.

Alcuni chiamano ciò genocidio o etnocidio culturale. Sebbene i palestinesi abbiano familiarità con questa pratica israeliana in Palestina sin dall’inizio dello stato di occupazione, i confini della guerra sono stati ampliati per raggiungere qualsiasi parte del mondo, specialmente nell’emisfero occidentale.

La disumanità dell’UKLFI e dei suoi alleati è abbastanza palpabile, ma l’associazione non può essere l’unica da biasimare. Quegli avvocati non sono che la continuazione di una cultura coloniale israeliana che osserva l’esistenza stessa di un popolo palestinese, inclusa l’arte dei bambini rifugiati, attraverso una visione politica, come una “minaccia esistenziale” per lo stato di occupazione.

Il rapporto tra l’esistenza stessa di un Paese e l’arte dei bambini può sembrare assurdo, – e lo è – ma ha una sua, seppur strana, logica: finché questi bambini profughi si riconosceranno come palestinesi continueranno a vedere se stessi, ed essere considerati da altri, come parte di un tutto più grande, il popolo palestinese. Questa autoconsapevolezza e il riconoscimento da parte di altri – per esempio, pazienti e personale di un ospedale di Londra – di questa identità palestinese collettiva, rende difficile, di fatto impossibile, per Israele vincere.

Per palestinesi e israeliani la vittoria significa due cose completamente diverse, che sono conciliabili. Per i palestinesi la vittoria significa libertà per il popolo palestinese e uguaglianza per tutti. Per Israele la vittoria può essere raggiunta solo attraverso la cancellazione dei palestinesi sul piano geografico, storico, culturale e sulla base di ogni altro aspetto che potrebbe costituire parte dell’identità di un popolo.

Purtroppo il Chelsea and Westminster Hospital assume ora una parte attiva in questa tragica cancellazione dei palestinesi, allo stesso modo in cui nel 2018 Virgin Airlines [compagnia aerea privata britannica, ndt.] ha ceduto alle pressioni quando ha accettato di rimuovere il “cuscus di ispirazione palestinese” dal suo menu. All’epoca questa storia sembrò un bizzarro episodio del cosiddetto “conflitto israelo-palestinese”, anche se in realtà la vicenda rappresentava il nucleo stesso di questo “conflitto”.

Per Israele la guerra in Palestina ruota attorno a tre finalità fondamentali: acquisire terra; cancellare le persone; riscrivere la storia. Il primo obiettivo è stato in gran parte raggiunto attraverso un processo di pulizia etnica e di folle colonizzazione della Palestina dal 1947-48. L’attuale governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu spera solo di portare a termine questo processo. Il secondo compito va oltre la pulizia etnica, perché anche la semplice consapevolezza della loro identità collettiva da parte dei palestinesi, ovunque si trovino, costituisce un problema. Da qui il processo attivo del genocidio culturale. E sebbene Israele sia riuscito a riscrivere la storia per molti anni, questo compito viene ora sfidato, grazie alla tenacia dei palestinesi e dei loro alleati e al potere delle reti sociali e digitali.

I palestinesi sono senza dubbio i maggiori beneficiari dello sviluppo dei media digitali. Questi hanno contribuito al decentramento delle narrazioni politiche e persino storiche. Per decenni la conoscenza da parte dell’opinione pubblica di cosa rappresentino “Israele” e “Palestina” nell’immaginario dominante è stata ampiamente controllata attraverso una specifica narrazione approvata da Israele. Coloro che deviavano da questa narrazione venivano attaccati ed emarginati, e quasi sempre accusati di “antisemitismo”. Sebbene queste tattiche siano ancora scatenate contro i critici di Israele, il risultato non è più garantito.

Ad esempio, un singolo tweet che descrive la “gioia” dell’UKLFI ha ricevuto oltre 2 milioni di visualizzazioni su Twitter. Milioni di britannici indignati e utenti di social media in tutto il mondo hanno trasformato quella che doveva essere una vicenda locale in uno degli argomenti riguardanti Palestina e Israele più discussi in tutto il mondo. Com’era prevedibile, non molti utenti dei social media hanno condiviso la “gioia” dell’ UKLFI, costringendo così il gruppo di pressione a riformulare l’articolo originale. Ancora più importante, in un solo giorno milioni di persone sono venuti a conoscenza di un argomento completamente nuovo su Palestina e Israele: la cancellazione culturale. La “vittoria” si è trasformata in un’assoluta figuraccia per la lobby filo-israeliana, forse addirittura una sconfitta.

Grazie alla crescente popolarità della causa palestinese e all’impatto dei social media, le iniziali vittorie israeliane quasi sempre gli si ritorcono contro. Un altro esempio recente è stato il licenziamento e la rapida reintegrazione dell’ex direttore di Human Rights Watch [una delle principali ong per i diritti umani, ndt.] (HRW), Kenneth Roth. A gennaio, il dottorato di Roth presso la Kennedy School dell’Università di Harvard è stata revocato a causa del rapporto di HRW che definisce Israele un regime di apartheid. Un’importante campagna avviata da piccole organizzazioni di media alternativi ha portato in pochi giorni alla reintegrazione di Roth. Questo e altri casi dimostrano che criticare Israele non determina più la fine di una carriera, come spesso accadeva in passato.

Israele continua ad impiegare tattiche obsolete per controllare il confronto e la narrazione sulla sua occupazione della Palestina. Sta fallendo perché quelle tattiche tradizionali non possono più funzionare in un mondo moderno in cui l’accesso alle informazioni è decentrato e dove nessuna censura può controllare il confronto. Per i palestinesi questa nuova realtà è un’opportunità per ampliare la loro rete di sostegno in tutto il mondo. Per Israele la missione è fragile, soprattutto quando le vittorie iniziali possono diventare in poche ore sconfitte totali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ai palestinesi di Gerusalemme serve molto di più che le condanne arabe

Jalal Abukhater

12 febbraio 2023 – Al Jazeera

I gerosolomitani affrontano occupazione e apartheid. Né forti dichiarazioni né promesse di denaro possono aiutarli.

Il 12 febbraio la Lega Araba ha tenuto una conferenza su Gerusalemme per dimostrare il sostegno degli arabi alla città occupata, suscitando grandi speranze dell’Autorità Palestinese (ANP). Il Presidente Mahmoud Abbas ha parlato delle sofferenze del popolo palestinese di Gerusalemme, dei loro diritti e della loro resilienza.

In vista dell’evento Fadi al-Hidmi, il ministro dell’AP per gli Affari di Gerusalemme, ha dichiarato che questa conferenza sarebbe stata “diversa” dalle precedenti, che avrebbe causato interventi che sarebbero stati avvertiti sul posto e che l’evento avrebbe messo la città occupata in cima all’“agenda araba”.

Ma questa nuova iniziativa della Lega Araba ha suscitato in molti gerosolomitani più che altro scetticismo. L’ultima volta che Gerusalemme è stata inclusa nel titolo di una loro riunione, il cosiddetto summit di Gerusalemme del 2018, per noi non è cambiato molto.

Il summit aveva rilasciato un comunicato dai toni forti in cui si respingeva il riconoscimento USA di Gerusalemme quale capitale di Israele e il trasferimento della sua ambasciata nella città occupata. Ciononostante solo due anni dopo parecchie nazioni arabe hanno firmato accordi di normalizzazione con quello stesso Israele sponsorizzato da quegli stessi USA.

Quei cosiddetti “Accordi di Abramo” danneggiano irrevocabilmente la causa palestinese e di riflesso Gerusalemme. Negli ultimi cinque anni successivi governi israeliani hanno accelerato l’ebraizzazione della città occupata con il deciso sostegno degli USA e la garanzia della normalizzazione con gli Stati arabi.

A Gerusalemme alcuni dei più brutali mezzi di pulizia etnica sono stati lo sfratto forzato e le demolizioni delle case, perpetrati contro gli abitanti palestinesi in violazione del diritto internazionale. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ci sono circa mille palestinesi che rischiano l’imminente minaccia di sfratto con vari pretesti giuridici. Le loro case saranno occupate da coloni israeliani o demolite.

Solo a gennaio sono state demolite dalle autorità israeliane 39 case e altri edifici civili palestinesi, spossessando circa 50 persone.

La spiegazione che il governo israeliano dà più spesso per questi atti criminosi è che gli edifici palestinesi non hanno i permessi rilasciati dallo Stato israeliano. Secondo le Nazioni Unite un terzo delle case palestinesi non ha queste autorizzazioni, il che mette a rischio di sfratto forzato in qualunque momento circa 100.000 abitanti.

Inutile dire il Comune di Gerusalemme raramente rilascia permessi ai palestinesi, mentre li rilascia prontamente agli ebrei israeliani e ai coloni ebrei. Dal 1967 sono state costruite oltre 55.000 unità abitative per ebrei nella Gerusalemme Est occupata.

L’anno scorso le autorità locali hanno approvato la costruzione di una nuova colonia illegale di 1.400 unità abitative in mezzo a due quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, Beit Safafa e Sur Baher, separandoli l’uno dall’altro. Questo è uno dei molti esempi di come Israele stia deliberatamente interrompendo la continuità territoriale palestinese ed eliminando ogni possibilità di realizzare la cosiddetta di soluzione dei due Stati che la Lega Araba continua a richiedere.

Lo Stato israeliano ha anche accelerato l’espansione delle infrastrutture che forniscono servizi alle colonie ebraiche illegali a Gerusalemme a scapito dei palestinesi.

Prendiamo per esempio la cosiddetta ‘Strada Americana’, un progetto di superstrada per collegare colonie illegali a sud, est e nord della Gerusalemme Est occupata. Attraverserà parecchi quartieri palestinesi come Jabal Al-Mukabber e causerà la demolizione di decine di case palestinesi.

Mentre sta intensificando lo sfratto forzato dei palestinesi nella Gerusalemme occupata, Israele sta anche facendo di tutto per rendere la vita invivibile a chi resta. In qualità di potenza occupante lo Stato israeliano ha l’obbligo, ai sensi del diritto internazionale umanitario e delle leggi per i diritti umani, di garantire il benessere della popolazione, ma non lo sta facendo.

Sebbene i palestinesi, proprio come gli israeliani, paghino le tasse allo Stato di Israele, essi non ottengono la stessa qualità di servizi. Infrastrutture e forniture essenziali in quartieri palestinesi sono trascurate poiché il comune israeliano di Gerusalemme alloca meno del 10% del suo budget agli abitanti palestinesi, che rappresentano più del 37% della popolazione della città.

Nel 2001 la Corte Suprema israeliana ha rilevato che a Gerusalemme Est le autorità israeliane stanno violando i loro obblighi giuridici di garantire un adeguato accesso all’istruzione ai palestinesi. Prevedibilmente nel ventennio successivo il problema non ha fatto che peggiorare e oggi, a causa della sistematica incuria israeliana, nelle scuole palestinesi mancano 3.517 aule.

Naturalmente i palestinesi non hanno strumenti legali per accertare la responsabilità delle violazioni da parte delle autorità israeliane. A loro non è permesso di votare alle elezioni politiche israeliane e di scegliere i propri rappresentanti. Al contempo il governo israeliano sta cercando di impedire loro di partecipare alla politica palestinese. Nel 2021, quando avrebbero dovuto tenersi le elezioni legislative palestinesi, Israele ha detto chiaramente che non avrebbe permesso agli abitanti palestinesi di Gerusalemme di votare.

I partiti politici palestinesi non possono agire liberamente a Gerusalemme. Si fa irruzione e si blocca ogni evento che si sospetti abbia dei legami con l’AP. Agli inizi di gennaio, per esempio, la polizia israeliana ha fatto un raid nel quartiere di Issawiya contro un comitato di genitori che si erano riuniti per discutere la carenza di insegnanti. Gli agenti israeliani li hanno informati che stavano interrompendo la riunione perché era “un summit terroristico”.

Peggio ancora, il governo israeliano ha anche ribadito che non è in alcun modo impegnato a rispettare lo status quo nei luoghi sacri di Gerusalemme. Recentemente l’ambasciatore giordano è stato espulso con violenza dal complesso di Al-Aqsa dalla polizia israeliana, che ha deciso che non era autorizzato alla visita, nonostante il fatto che in base a un accordo riconosciuto a livello internazionale la Giordania abbia il diritto di amministrare quello stesso complesso e altri luoghi a Gerusalemme.

Secondo le norme della fondazione del waqf di Gerusalemme gestita dalla Giordania, ai non musulmani è permessa la visita ad Al-Aqsa solo in alcuni orari e solo se rispettano il luogo sacro. Ma negli ultimi anni si è assistito a un aumento di fedeli ebrei autorizzati dalla polizia israeliana a pregare ad Al-Aqsa, in violazione di tali norme. Contemporaneamente ai palestinesi musulmani provenienti da fuori Gerusalemme è regolarmente impedito di far visita ai loro luoghi sacri e di pregarvi.

Non sorprende neppure che, mentre si privano i palestinesi delle loro abitazioni, dei servizi e persino dell’accesso ai loro luoghi sacri, Israele stia anche inasprendo l’oppressione economica del popolo palestinese a Gerusalemme.

I gerosolomitani palestinesi sono afflitti da alti livelli di povertà e di insicurezza economica che si stanno solo aggravando. Si stima che a Gerusalemme Est il 77% dei palestinesi viva al di sotto della soglia di povertà a confronto del 23% degli abitanti ebrei di Gerusalemme Ovest.

A Gerusalemme le attività economiche palestinesi sono soffocate, poiché Israele aggrava il nostro isolamento dal resto della Palestina. Un sistema di muri e posti di blocco militari nega l’accesso a Gerusalemme a visitatori e clienti dalle vicine città gerosolomitane come Abu Dis, Al-Ram e Hizma così come dalla Cisgiordania e Gaza. Questo isolamento danneggia l’economia locale.

Inoltre i proprietari di attività palestinesi devono affrontare tasse esorbitanti senza alcun supporto dallo Stato israeliano o dall’AP. Secondo i media locali ciò ha causato in anni recenti la chiusura di almeno 250 negozi di proprietà palestinese.

In effetti Gerusalemme ha bisogno di aiuto anche finanziario. L’AP spera che la conferenza al Cairo aiuti a raccogliere fondi di cui c’è gran bisogno per sostenere i settori dell’istruzione, della salute e per dare all’economia locale una spinta essenziale con investimenti dall’estero.

Ma qualsiasi sostegno, se mai si materializzasse, porterebbe ai gerosolomitani solo un sollievo limitato e temporaneo. La nostra città soffre per la disoccupazione e l’apartheid. Abbiamo bisogno di iniziative sul fronte politico e ne abbiamo bisogno immediatamente. Forti condanne e comunicati non bastano.

È vero che noi gerosolomitani siamo famosi per la nostrasumud” (resilienza) e che, come durante la riunione della Lega Araba, essa dovrebbe essere celebrata in contesti internazionali. Ma sotto l’oppressione di uno spietato occupante stiamo raggiungendo i limiti della nostra sopportazione.

Jalal Abukhater, gerosolomitano, ha conseguito la laurea in Politica e Relazioni Internazionali presso l’università di Dundee.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione di Mirella Alessio)




Ilan Pappe sulle formazioni socio-politiche dietro il governo neo-sionista di Israele

Ilan Pappe

6 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Due mesi dopo l’elezione del nuovo governo israeliano il quadro offuscato sta diventando più chiaro e sembra che si possano offrire alcuni spunti più informati riguardo alla sua composizione, alle personalità che ne fanno parte e alle possibili politiche e reazioni ad esse nel futuro.

Non sarebbe esagerato definire Benjamin Netanyahu il meno estremista di questo governo, il che la dice lunga sulle personalità e politiche di tutti gli altri.

Ci sono tre schieramenti principali nel governo, e qui non faccio riferimento ai vari partiti politici, ma piuttosto alle formazioni socio-politiche.

Sionizzazione degli ebrei ultraortodossi

Nel primo schieramento ci sono gli ebrei ultra-ortodossi, sia dell’ortodossia europea che di quella degli ebrei arabi. Ciò che li caratterizza è il processo di sionizzazione che hanno subito dal 1948.

Da un ruolo marginale in politica solo a favore delle loro comunità, ora fanno parte dei dirigenti di questo nuovo Stato. Da moderati e sostenitori dei sacri precetti ebraici che non riconoscevano la sovranità ebraica sulla Terra Santa, ora emulano la destra israeliana laica: appoggiano la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio contro la Striscia di Gaza, fanno discorsi razzisti nei confronti dei palestinesi ovunque essi siano, invocano politiche dure e aggressive e nel contempo cercano di occupare lo spazio pubblico e di giudaizzarlo in base alla loro versione rigida del giudaismo.

L’unica eccezione sono i Neturei Karata, fedeli al loro tradizionale antisionismo e alla solidarietà con i palestinesi.

Gli ebrei nazional-religiosi

Del secondo schieramento fanno parte gli ebrei nazional-religiosi, che vivono in maggioranza in Cisgiordania nelle colonie costruite su terre palestinesi espropriate e recentemente hanno creato dei “centri di formazione” di coloni nelle città miste arabo-ebraiche in Israele.

Essi appoggiano sia le politiche criminali dell’esercito israeliano che le azioni di gruppi di coloni vigilantes che vessano i palestinesi, sradicano le loro coltivazioni, sparano contro di loro e mettono in discussione il loro modo di vivere.

L’intento è di dare sia all’esercito che a questi vigilantes mano libera per opprimere la Cisgiordania occupata, nella speranza di spingere più palestinese ad andarsene. Questo gruppo è anche la spina dorsale dei centri di comando del servizio segreto israeliano e domina i ranghi degli alti ufficiali dell’esercito.

I due succitati schieramenti condividono la volontà di imporre un apartheid più stretto all’interno di Israele contro gli arabi del ’48 [i palestinesi rimasti durante e dopo la guerra del 1947-49 in quello che era diventato Israele, ndt.] e nel contempo iniziare una crociata contro la comunità LGBT chiedendo anche una più rigida marginalizzazione delle donne nello spazio pubblico.

Essi condividono anche una visione messianica e credono di essere ora nelle condizioni di metterla in pratica. Al centro di questo progetto c’è la giudaizzazione dei luoghi sacri che ora sono “ancora” islamici o cristiani. Quello più ambito è l’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, per gli ebrei il Monte del Tempio, ndt.].

Il prodromo è stato la provocatoria visita del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir sull’Haram. Il prossimo passo sarà a Pasqua, con un tentativo di invadere in massa l’Haram con preghiere e ministri ebrei. Azioni simili verranno attuate a Nablus, Hebron e Betlemme. È difficile prevedere fin dove arriveranno.

L’emarginazione degli ebrei laici del Likud

Il secondo gruppo è rappresentato anche nel partito di maggioranza del governo, il Likud. Ma la maggioranza dei suoi membri fa parte di una terza componente socio-politica: gli ebrei laici che aderiscono nel contempo alle tradizionali pratiche ebraiche.

Essi cercano di distinguersi sostenendo che il liberalismo economico e politico è ancora un importante pilastro del programma politico del Likud. Netanyahu soleva essere uno di loro, ma ora sembra averli abbandonati quando si è trattato di spartirsi il bottino, cioè nel governo li ha emarginati. Ha bisogno degli altri più che del suo stesso partito per evitare di essere processato e per rimanere al potere.

Il progetto sionista

I membri di spicco di tutti questi gruppi sono arrivati con iniziative legislative e politiche già pronte, tutte intese senza eccezioni, a consentire a un governo di estrema destra di annullare qualunque cosa sia rimasta della parodia chiamata democrazia israeliana.

La prima iniziativa è già iniziata, sterilizzando il sistema giudiziario in modo tale che non possa, se mai lo ha voluto, difendere i diritti delle minoranze in generale e quelli dei palestinesi in particolare.

Per la verità, tutti i precedenti governi israeliani sono stati caratterizzati dal complessivo disprezzo riguardo ai diritti civili e umani dei palestinesi. Questa è solo una fase in cui ciò viene reso più costituzionale, più generalmente accettato e più evidente, senza alcun tentativo di nascondere lo scopo che gli sta dietro: impossessarsi della maggior parte possibile della Palestina storica con il minor numero possibile di palestinesi.

Tuttavia, se si concretizzerà in futuro, ciò avvicinerà ulteriormente Israele al suo futuro neo-sionista, cioè il vero raggiungimento e la maturazione del progetto sionista: uno spietato progetto di colonialismo d’insediamento costruito su apartheid, pulizia etnica, occupazione, colonizzazione e politiche genocidarie.

Un progetto che finora è sfuggito a qualunque significativa opposizione da parte del mondo occidentale e che viene tollerato dal resto del mondo, anche se è censurato e respinto da molti nella società civile internazionale. Finora non è riuscito a trionfare solo per la resistenza e resilienza palestinese.

Fine dell’“Israele immaginario”

Questa nuova situazione evidenzia una serie di domande che ci si deve porre, anche se per il momento non possiamo dare una risposta.

I governi arabi e musulmani, che solo di recente si sono uniti alla legittimazione di questa farsa, si renderanno conto che non è troppo tardi per cambiare strada?

I nuovi governi di sinistra, come quello eletto in Brasile, saranno in grado di aprire la via, portare a un cambiamento di atteggiamento dall’alto, che rifletterebbe democraticamente quanto richiesto dal basso?

E le comunità ebraiche saranno sufficientemente scioccate da svegliarsi dal sogno dell’“Israele immaginario” e si renderanno conto del pericolo rappresentato dall’Israele di oggi, non solo per i palestinesi ma anche per gli ebrei e il giudaismo?

Sono domande a cui non è facile rispondere. Quello che possiamo sottolineare è, ancora una volta, l’appello all’unità palestinese in modo da estendere la lotta contro questo governo e l’ideologia che esso rappresenta. Tale unità diventerà una bussola per il poderoso fronte internazionale che già esiste, grazie al movimento BDS e che è intenzionato a continuare il suo lavoro di solidarietà e ad allargarlo ulteriormente e più ampiamente: mobilitare i governi, così come le società, e riportare la Palestina al centro dell’attenzione internazionale.

Le tre componenti del nuovo governo israeliano non hanno sempre convissuto facilmente, quindi c’è anche la possibilità di un precoce collasso politico, dato che in definitiva stiamo parlando di un gruppo di politici incompetenti quando si tratta di far funzionare un’economia così complicata come quella israeliana. Probabilmente non saranno in grado di bloccare l’alta inflazione, l’aumento dei prezzi e la crescente disoccupazione.

Tuttavia, anche se ciò avvenisse, non c’è una quarta componente socio-politica alternativa che possa guidare Israele. Quindi un nuovo governo sarebbe formato da un’altra combinazione delle stesse forze, con le stesse intenzioni e politiche.

Dovremmo trattarla come una sfida strutturale, non episodica, e prepararci a una lunga lotta, basata su una solidarietà internazionale ancora più ampia e una più stretta unità dei palestinesi.

Questo governo canaglia, e quello che rappresenta, non dureranno in eterno. Dobbiamo fare tutto il possibile per ridurre l’attesa per la sua sostituzione con un’alternativa molto migliore non solo per i palestinesi, ma anche per gli ebrei e per chiunque altro viva nella Palestina storica.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Mondiali 2022: come i tifosi arabi dicono la verità a Israele sulla Palestina

Emile Badarin

2 dicembre 202-Middle East Eye

Rifiutando le interviste ai giornalisti israeliani, i tifosi arabi si rifiutano di conferire legittimità al sistema di apartheid dello Stato israeliano.

I giornalisti israeliani sono accorsi a Doha questo mese per coprire la Coppa del Mondo, alcuni trasformandola in una missione per far “parlare con Israele” l’opinione pubblica araba. Ma nelle frequenti interazioni catturate tramite i social media, i tifosi hanno cortesemente rifiutato l’offerta in modi diversi.

Alcuni si sono rifiutati di dialogare; altri hanno sottolineato il loro impegno per la causa palestinese; altri si sono semplicemente allontanati dopo aver capito che il giornalista proveniva da Israele.

La politica del riconoscimento ispira la “missione giornalistica” israeliana in Qatar e altrove. Questi giornalisti, come gran parte dell’opinione pubblica israeliana e dei media occidentali, sembrano essersi convinti che la Palestina e i palestinesi siano scomparsi dalla coscienza araba a causa dei mutamenti geopolitici in tutto il mondo arabo.

Per gli “esperti” israeliani e occidentali questi cambiamenti geopolitici hanno rappresentato una versione ridotta della fine della storia in Medio Oriente. Generalmente considerano la presunta “scomparsa” dei palestinesi come un fattore positivo che ha consentito nel 2020 i cosiddetti Accordi di Abramo e la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e quattro Stati arabi.

Forse non c’è occasione migliore per raccogliere i frutti della normalizzazione di una Coppa del Mondo ospitata da uno Stato arabo che ha temporaneamente permesso ai media israeliani di viaggiare liberamente e informare dal Qatar, anche se questo non ha legami ufficiali con Israele. Sembra che alcuni giornalisti israeliani si siano presi la briga di dimostrare che non sono stati solo i regimi arabi a riconciliarsi con – o meglio, a capitolare davanti al progetto coloniale sionista, ma anche la popolazione araba.

In questo senso l’atto di “parlare a Israele” è interpretato come una forma di riconoscimento, o almeno un potente indicatore di avvicinarsi sempre più verso l’evanescente punto finale del colonialismo di insediamento in Palestina. Punto finale che richiede la legittimazione della sovranità di Israele dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo [cioè su tutta la Palestina storica, ndt.] e la deportazione della popolazione indigena.

In Qatar hanno trovato l’opposto. Sebbene Israele abbia ottenuto il riconoscimento di alcuni regimi arabi, inclusa l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, non è riuscito assolutamente a ottenere il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica araba.

Espropriazione dei palestinesi

Parlare con Israele” in questo contesto ha lo scopo di ottenere un riconoscimento popolare che legittimerebbe e normalizzerebbe la struttura del colonialismo d’insediamento israeliano che continua a espropriare i palestinesi. Pertanto, rifiutandosi di parlare, i cittadini arabi inviano un chiaro messaggio a coloro che sono al potere in Medio Oriente e in Occidente: sono contrari alla normalizzazione senza giustizia, indipendentemente da quanti accordi di “pace” firmi Israele con i regimi arabi.

Invece di “parlare” i tifosi arabi hanno mostrato uno specchio davanti alle telecamere israeliane, ricordando agli spettatori ciò che hanno ostinatamente tentato di dimenticare: la Palestina. Ciò ricorda ai giornalisti israeliani e al loro pubblico il colonialismo di insediamento, la pulizia etnica, l’occupazione, i rifugiati palestinesi e la Nakba (catastrofe) in corso dal 1948. I tifosi del Marocco alludevano a questo quando hanno dispiegato una bandiera della Palestina al 48° minuto della partita Marocco-Belgio.

Ciò che sorprende è lo shock israeliano nel vedere riflesso, nonostante il passare del tempo, l’indignazione per la violenza e la costruzione di Israele sulla terra rubata ai palestinesi che non è svanita.

Questa è la stessa realtà coloniale che la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh ha mostrato instancabilmente al mondo, fino a quando un cecchino israeliano le ha sparato uccidendola lo scorso maggio, un omicidio che è stato ripreso dalle telecamere. Inoltre non è un caso che un anno prima, nel maggio 2021, Israele abbia distrutto la torre dei media di Gaza che ospitava diverse agenzie di stampa internazionali che informavano dall’enclave assediata.

Come i tifosi di calcio in Qatar, Abu Akleh e i suoi colleghi giornalisti in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme e altrove hanno alzato degli specchi che hanno riflesso la brutta immagine del colonialismo israeliano che i popoli arabi non hanno né dimenticato né perdonato. Mentre Abu Akleh è stata uccisa e il mondo non può più vedere il riflesso di Israele attraverso la sua macchina fotografica, non è stato possibile reprimere i messaggi dei tifosi in Qatar.

Coscienza distorta

Di conseguenza, alcuni giornalisti israeliani sembrano essersi rivolti alla narrativa del vittimismo per respingere l’immagine inquietante del colono, il che richiede creatività e autoinganno. È notevole la rapidità con cui alcuni sono ricorsi al “manuale” sionista, presentando il loro fallimento nell’ottenere una “buona parola” su Israele come una manifestazione di odio arabo e musulmano e un desiderio di “cancellare (gli israeliani) dalla faccia della terra”.

Non solo in Israele, ma in tutto il mondo del colonialismo d’insediamento europeo, il senso di vittimismo tra i coloni è un veicolo per rivendicare un’innocenza che galleggia in una coscienza distorta che rappresenta l’anormale e l’ingiusto come normale e giusto.

In questa prospettiva, Israele è solo un altro Stato “normale”- se non l’unico Stato civile e rispettoso dei diritti umani in Medio Oriente, indipendentemente dal fatto che secondo Human Rights Watch ha varcato la soglia dell’apartheid – che ha relazioni “normalizzate” con diversi Stati arabi: uno Stato che gli arabi dovrebbero ammirare, con cui fare amicizia e guardare come un esempio.

Affinché questa normalità immaginaria abbia un senso gli israeliani devono vivere il mito sionista della terra senza popolo per un popolo senza terra. Pertanto devono attivamente dimenticare che i palestinesi esistono davvero, anche dopo un secolo di espropriazione ed eliminazione da parte del colonialismo d’insediamento sionista. L’ironia di far dimenticare continuamente i palestinesi è che li rende più presenti.

Il movimento per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti ha sostenuto la necessità di dire la verità al potere nella lotta contro la segregazione razziale e l’ingiustizia. Ma cosa succede se il parlare stesso può essere trasformato in un veicolo per togliere potere e spogliare?

Tentando di far parlare il popolo arabo con Israele i giornalisti hanno cercato un riconoscimento popolare che conferisse legittimità normativa all’apartheid e all’ingiustizia israeliane. Rifiutarsi di parlare è un atto di resistenza. Paradossalmente [il rifiuto di parlare, ndt.] sta dicendo la verità al potere dei regimi arabi, di Israele e del resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele condanna un film Netflix dove appare l’assassinio di una famiglia palestinese durante la guerra del 1948

Bethan McKernan 

30 novembre 2022 – The Guardian

Farha, debutto di una regista giordana, descrive le atrocità sioniste contro i palestinesi durante il conflitto della Nakba

Un film Netflix dove si vedono le forze sioniste che massacrano una famiglia palestinese durante la guerra del 1948

nel contesto della fondazione di Israele è stato condannato da politici israeliani perché “crea una falsa narrazione”.

Farha, debutto della regista giordana Darin Sallam, è stato presentato, dopo la sua uscita l’anno scorso, a parecchi festival cinematografici internazionali ed è candidato per la Giordania agli Oscar 2023. Da giovedì sarà trasmesso in streaming per un pubblico internazionale sul servizio di intrattenimento online.

Il film è incentrato sulle esperienze di una ragazza quattordicenne chiusa a chiave dal padre in uno sgabuzzino durante gli eventi della Nakba, [Catastrofe], termine arabo che indica la pulizia etnica ed espulsione di circa 700.000 palestinesi. Quando i soldati del nascente Israele arrivano al suo villaggio, Farha assiste, attraverso una fessura della porta del ripostiglio, all’uccisione della sua intera famiglia, inclusi due bambini piccoli e un neonato.

Il trailer e le pubblicità dicono che il film è inspirato a fatti reali.

È pazzesco che Netflix abbia deciso di trasmettere in streaming un film il cui unico scopo è di creare falsità e aizzare contro i soldati israeliani,” ha detto in una dichiarazione il ministro delle Finanze del governo uscente, Avigdor Lieberman. Lieberman ha anche detto che prenderà in considerazione il taglio dei fondi statali al teatro arabo-ebraico dove è stato proiettato il film a Giaffa, città [israeliana] a maggioranza araba.

Hili Tropper, ministro della Cultura israeliano, ha detto che Farha descrive “bugie e calunnie” e che mostrarlo in un teatro israeliano “è una vergogna”. Il teatro non ha risposto immediatamente a una richiesta di commenti.

In Israele rappresentazioni di atrocità commesse da forze ebraiche nella guerra del 1948, romanzate o meno, restano un tema estremamente delicato. Un documentario uscito all’inizio di quest’anno sul massacro dei palestinesi a Tantura, un villaggio costiero distrutto in quello che ora è il nord di Israele, ha incontrato molte critiche.

Nel corso di alcune interviste Sallam ha detto di aver fatto il film perché, mentre molti raccontano vicende palestinesi, pochi si concentrano sulle cause alla radice del conflitto e dell’occupazione. Farha, dice, è la storia di un’amica di sua madre, due giovani donne che si sono incontrate in Siria.

Negli anni la storia ha viaggiato ed è arrivata fino a me. Mi è rimasta dentro. Quando ero bambina avevo paura degli ambenti chiusi, bui, e pensavo sempre a questa ragazza e a quello che le era successo,” ha detto la regista ad Arab News.

Sallam ha anche detto che, pur non volendo tracciare un deliberato parallelismo con Anna Frank, trova delle somiglianze nelle traumatiche esperienze delle due adolescenti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il regime israeliano di apartheid ordina la demolizione della scuola a Ein Samiya

28 agosto 2022 – Stop the wall

Mentre gli studenti in tutto il mondo aspettano la riapertura della scuola quelli palestinesi di Ein Samiya attendono con angoscia l’imminente demolizione della loro da parte di Israele. Se non si interviene per sventare questo piano per questi alunni i sogni di un futuro migliore attraverso l’accesso all’istruzione potrebbero finire sepolti dalle macerie della loro scuola se i bulldozer israeliani la abbatteranno.

All’inizio di questo mese il tribunale distrettuale israeliano a Gerusalemme, su richiesta dell’Amministrazione Civile dell’esercito di occupazione israeliano, ha emanato un ordine di demolizione contro la scuola di Ein Samiya. L’edificio è stato costruito nel gennaio 2022 su terreni privati donati da un palestinese di Kafr Malik (Ramallah).

Secondo Montaser Al- Malki, un attivista di movimenti di base a Ein Samiya: “Gli studenti della comunità beduina di Ein Samiya una volta andavano a piedi lontano, fino al villaggio di Kufr Malik, percorrendo strade insicure e fangose, specialmente in inverno. Erano spesso oggetto di attacchi dei coloni, sotto il sole d’estate e nei freddi inverni. La costruzione della scuola ha risparmiato agli alunni tutte queste traversie”. E aggiunge: “Noi crediamo che la sua presenza nella zona proteggerebbe i terreni dalla confisca e sarebbe uno dei fattori che rinforzerebbe la determinazione della comunità a resistere all’espansione delle colonie israeliane.”

La demolizione della scuola al servizio dell’espansione coloniale

La demolizione che incombe sulla scuola di Ein Samiya fa parte della sistematica pulizia etnica da parte di Israele dei palestinesi della zona e specialmente delle comunità beduine. Il sistema israeliano di apartheid sta usando politiche di apartheid contro gli studenti dell’Area C [in base agli accordi di Oslo sotto il pieno controllo israeliano, ndt]. Negare ai palestinesi uno dei diritti umani, quello all’istruzione, crea un contesto coercitivo per costringere i palestinesi ad andarsene dalle proprie terre e impossessarsene a favore dei coloni illegali.

La scuola Ras Al-Tin a Ein Samiya è l’esempio perfetto delle politiche israeliane di pulizia etnica attuata privando i palestinesi del loro diritto all’istruzione. La scuola Ras Al-Tin, edificata nel 2020, è stata utilizzata solo per un mese poiché poco dopo i bulldozer l’hanno ridotta in macerie. La distruzione, che ha coinciso ed è stata seguita dall’intensificarsi delle demolizioni di abitazioni e dalla sistematica violenza dell’esercito, si è conclusa nel 2022 con lo sfratto della comunità di Ras Al-Tin. Per il regime di apartheid di Israele i 120 palestinesi che ci vivevano erano stati per decenni un ostacolo all’espansione delle colonie israeliane.

Il valore economico di Ein Samiya l’ha resa vulnerabile a fronte dell’espansione delle colonie israeliane e delle strade di collegamento solo per ebrei. Ein Samiya è una zona agricola di 58.000 dunam [5.800 ettari]. Ha anche abbondanti risorse idriche grazie alle sei sorgenti che soddisfano le necessità delle migliaia di palestinesi residenti nei villaggi situati a nord del distretto di Ramallah.

Questo è il motivo per cui, come parecchie comunità beduine palestinesi nell’Area C, anche quella di Ein Samiya è vittima di varie pratiche e politiche israeliane di apartheid delle risorse idriche. Inoltre la comunità di Ein Samiya affronta continuamente la riduzione delle proprie terre, specialmente quelle da pascolo, come anche sistematici attacchi dei coloni.

Scuole in pericolo nell’Area C

Il caso della scuola di Ein Samiya non è l’unico di questo tipo.  Parecchie scuole nell’Area C sono minacciate da imminenti abbattimenti da parte delle autorità israeliane di occupazione.  Un totale di 51 edifici scolastici palestinesi sono costantemente minacciati di demolizione. Dal 2019 a oggi 43 scuole situate nell’Area C e 8 a Gerusalemme Est hanno ricevuto un ordine di demolizione parziale o totale.

Per esempio nella valle del Giordano cinque scuole ne hanno ricevuti parecchi e potrebbero essere rase al suolo in qualsiasi momento. Si stanno distruggendo edifici scolastici palestinesi a rischio nella valle del Giordano e un tendone sul terreno della scuola a Khirbet Al-Maleh. Questa sovraffollata scuola che va fino alla quarta elementare consiste di quattro aule per oltre 40 studenti di Khirbet Al-Maleh e delle due comunità beduine dei dintorni, Ein Al-Helweh e Al-Farsiya. 

Nel 2020 Stop the Wall ha lanciato, sul posto e internazionalmente, la campagna per il Diritto all’istruzione volta a sostenere il diritto all’educazione dei palestinesi nell’Area C. Nel corso del 2020 Stop the Wall ha operato per migliorare l’ambiente educativo e renderlo più adatto ai bambini nella scuola e nell’asilo del villaggio arabo di Al-Ka’abneh. Abbiamo anche ristrutturato e costruito altre scuole e asili nella valle del Giordano. 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




La sovranità illegale sulla terra palestinese

Mella Jongebloed

27 agosto 2022 – Mondoweiss

La violenza dei coloni a Hebron svela il vero volto coloniale del progetto sionista, e il mondo non può continuare a guardare mentre esso va avanti.

Passa un gruppo di undici giovani coloni, di età compresa tra i quindici e i diciotto anni. Li accompagnano due soldati a piedi e li affianca un veicolo militare. Lungo il ciglio della strada ci sono degli avamposti dove i soldati tengono sempre le armi pronte. I coloni ci dicono in ebraico qualcosa che non capiamo, i loro volti mostrano un’arroganza che non si addice alla loro età. Lungo la strada, a pochi metri, vediamo uno di loro sputare addosso a un palestinese che siede sulle scale davanti a casa sua. Nel passargli davanti pensiamo che quell’uomo sia muto. Borbotta parole incomprensibili, indica con le braccia i coloni, apparentemente sconvolto ma incapace di dire cosa sia successo.

È il giugno del 2022. Ho preso una pausa dai miei studi e sto trascorrendo tre mesi a Hebron, dall’inizio di maggio all’inizio di agosto. Sono solidale con la causa palestinese da quando ho appreso dell’occupazione nell’ambito dei miei studi sul Medio Oriente. Ma per diventare credibile nella difesa di questa causa ho voluto vivere la situazione in prima persona.

E l’ho sperimentata.

Dai piccoli gesti di violenza, come sputare addosso a un palestinese, danneggiare le finestre delle case palestinesi e far chiudere i battenti agli esercizi commerciali, fino a quasi uccidere un uomo disarmato nella sua terra, la vita a Hebron è piena di violenza da parte dei coloni. Fino ad oggi in Cisgiordania, sebbene la presenza di coloni sia illegale, i progetti di colonizzazione sono cresciuti e si sono intensificati. A Hebron circa 800 coloni ebrei vivono nel cuore della Città Vecchia. Al di fuori della città vecchia, negli insediamenti chiamati Kiryat Arba e Giv’at Ha-Avot, risiedono altri 8.000 coloni.

I palestinesi sono impotenti contro i coloni che, contrariamente a loro, possono portare i mitra a tracolla e sono costantemente scortati da un numero sproporzionato di soldati. I coloni agiscono come i sovrani illegali del territorio palestinese, rendendo la vita dei palestinesi insopportabile anche nella piccola porzione di Palestina su cui sono stati lasciati sopravvivere. Dato che Israele cerca di impedire ai turisti di recarsi in Cisgiordania intimidendoli è mio dovere testimoniare ciò che ho visto.

Nuovi vicini

Il 28 luglio dei coloni hanno occupato una casa palestinese all’inizio di via Shuhada. Questa strada era il principale centro di vita di Hebron, fino a quando non fu in gran parte chiusa ai palestinesi dopo il massacro del 1994 nella moschea di Ibrahimi, quando Baruch Goldstein, un medico estremista sionista, uccise 29 palestinesi in preghiera. La sua tomba è ancora visitata e venerata dai coloni.

La casa occupata dai coloni è una delle più belle della strada. Le pietre gialle sembrano aver preso il colore dal sole e dalla casa si può vedere la Moschea Ibrahimi e il resto della Città Vecchia.

Il primo giorno centinaia di coloni sono saliti lungo le scale di metallo appena installate che conducono alla casa di proprietà palestinese. Vengono costantemente sorvegliati da una ventina o una trentina di soldati, posizionati sul tetto, sui balconi e intorno alla casa. Quando sul tetto un gruppo di giovanissimi coloni tira fuori la prima bandiera israeliana, i vicini palestinesi osservano intimiditi.

Già accerchiati da 21 posti di blocco militari da ogni lato, con telecamere montate su ogni muro e con a fianco una casa di proprietà di coloni, crescerà la presenza di coloni e soldati violenti e, insieme, le violazioni dei diritti umani che sono parte integrante della vita quotidiana. Un palestinese che abita di fronte alla casa dice che ha già difficoltà a dormire. I coloni spesso bevono molto e maltrattano i vicini palestinesi. Ci lanciano pietre e ci maledicono, dice.

Souvenir in frantumi

Um Mahmoud, che vive con il marito e i figli accanto ai coloni, subisce tali molestie almeno ogni settimana. Solo due giorni fa alle 22:00 i coloni hanno lanciato pietre e bottiglie di birra contro la loro casa.

Durante le feste ebraiche i soprusi sono più gravi che mai. “L’anno scorso hanno lanciato uova, verdure marce e frutta, e hanno mandato in pezzi un sacco di cose”, spiega. “L’albero di limoni, le piante, le finestre, tutto è stato danneggiato e hanno lanciato pietre contro la nostra auto di famiglia”.

“I soldati, quando arrivano, spesso non fanno nulla o arrestano uno di noi”, spiega Um Mahmoud. Suo figlio Said, di 18 anni, è rimasto in prigione un mese e mezzo, e suo figlio Wadia, di 17 anni, una settimana. “Riesci a immaginare quali effetti hanno queste cose su un adolescente?” Sospira.

Nelle vecchie strade di Hebron la violenza dei coloni aleggia sopra la vostra testa. Sassi, sedie rotte, bottiglie vuote e quant’altro sono sparsi sulle reti tese sopra le strade a protezione degli abitanti. Un negoziante mi dice che i coloni gettano continuamente acqua sporca dalle loro finestre danneggiando i prodotti dei commercianti. Uno di loro, Bader Tamimi, ha un negozio proprio di fronte a un insediamento coloniale ebraico. I soldati controllano da una torre di guardia il suo negozio che viene regolarmente attaccato dai coloni. Il 9 agosto hanno iniziato a lanciare pietre contro il negozio, i commercianti e i clienti.

Il lancio di pietre era più intenso del solito. Siamo andati a cercare i soldati perché li fermassero, ma dopo essere usciti dalla loro postazione hanno iniziato a spararci addosso lacrimogeni e granate stordenti”.

Tour dei coloni

Questa non era la prima volta. Durante i settimanali “tour dei coloni” gruppi nutriti di coloni scortati da soldati visitavano la città vecchia di Hebron e il più delle volte molestavano i palestinesi lungo strada. Il negozio di Bader è stato spesso preso di mira a sassate. Mi mostra i lacrimogeni scagliati contro il suo negozio.

“Sia i coloni che i soldati vogliono renderci impossibile lavorare qui, o anche solo condurre le nostre vite”, dice.

Incastrati tra i coloni

La famiglia al-Ja’bari abita esattamente tra gli insediamenti coloniali di Kiryat Arba da una parte e Giv’at Ha-Avot dall’altra. Un sentiero che collega gli insediamenti attraversa proprio il loro terreno. Nel 2006 i coloni hanno posizionato sulla terra di al-Ja’bari una grande tenda con la funzione di sinagoga. Nonostante una sentenza del tribunale israeliano del 2015 secondo cui la tenda avrebbe dovuto essere rimossa, l’esercito ha permesso ai coloni di continuare a usarla. Ogni sabato accorrono a decine, mentre nelle festività ebraiche il numero sale a centinaia. Le Nazioni Unite hanno documentato molteplici attacchi alla famiglia da parte dei coloni: dagli spari al lancio di pietre, all’irruzione dentro casa, fino al vandalismo. I coloni hanno anche rubato bestiame e raccolti. Secondo la famiglia, a causa delle aggressioni da parte dei coloni ogni loro componente ha dovuto in una qualche circostanza essere ricoverato in ospedale. Ultimo il 64enne Abdul Karem al-Ja’bari.

Tubo di ferro

Nel corso di un tour politico da lui guidato l’attivista e difensore dei diritti umani Badia Dwaik ci ha informato di una aggressione avvenuta contro gli al-Ja’bari il giorno prima, il 17 giugno. Dwaik ha deciso di non portarci in quella zona di Hebron per motivi di sicurezza. Circa una settimana dopo sono andata con Badia a visitare Abdul Karem al-Ja’bari, chiamato anche Abu Anan. Aveva testa e braccio bendati. Più calmo di quanto ci si potesse aspettare, ci ha raccontato cosa era successo.

Ogni anno Abu Anan raccoglie le sue olive, e così stava facendo anche quest’anno. Alcuni soldati hanno attraversato il suo terreno, seguiti da un gruppo di coloni. Uno dei coloni camminava da solo. Secondo Abu Anan il suo aggressore era il figlio del direttore del consiglio dell’insediamento coloniale di Kiryat Arba e faceva parte di un gruppo di coloni che lo avevano minacciato una settimana prima. Erano andati via dopo che Abu Anan ha chiamato la polizia. Questa volta il colono si è fermato sul luogo in cui lui stava raccogliendo le sue olive. E’ rimasto lì per un po’ e sembrava studiare la situazione. Poi si è allontanato, continuando a camminare fino a raggiungere la propria casa nell’insediamento coloniale.

Inginocchiato e con gli occhi rivolti a terra, Abu Anan ha proseguito la raccolta e non ha notato il gruppo di coloni che si avvicinava alle sue spalle. Uno dei coloni lo ha colpito alla nuca. Il telefono di Abu Anan era caduto a terra, quindi ha raccolto il telefono, si è alzato e si è voltato, guardando negli occhi il suo aggressore. Questi indossava una maschera, ma i suoi vestiti erano riconoscibili; era lo stesso uomo. Il colono aveva nelle mani un tubo di ferro, la cui estremità era affilata come un coltello. Ha colpito Abu Hanan sulla testa. Al.Ja’bari a causa dell’adrenalina non sentiva ancora la profonda ferita nella sua testa. Si è accorto che dietro al colono ce n’erano all’incirca altri dodici con in mano dei bastoni.

Sangue e spray al peperoncino

L’aggressore di Abu Anan aveva nell’altra mano uno spray al peperoncino e ha iniziato a spruzzarglielo in faccia, ma Abu Anan è riuscito a farglielo cadere di mano con il telefono. Poi il colono lo ha colpito di nuovo in testa con maggiore violenza. Ha poi raccolto una pietra di circa cinque chili e l’ha lanciata contro Abu Anan, che ha alzato la mano per difendersi e si è ritrovato con un braccio rotto.

Nel frattempo gli occhi di Abu Anan iniziavano a bruciare. Erano stati raggiunti dallo spray al peperoncino e il sangue che usciva della ferita alla testa fluiva fino agli occhi. Mentre Abu Anan cercava di scappare il colono lo ha colpito alla testa un’ultima volta, per poi scappare con un gruppo di altri coloni che avevano assistito alla scena nei pressi dell’ingresso dell’insediamento coloniale. Con una mano fratturata e il sangue che sgorgava dalle tre profonde ferite alla testa, al-Ja’bari ha iniziato a correre in strada fino alle porte di Kiryat Arba. Ha gridato aiuto in ebraico ai soldati.

Abu Anan è morto”

I soldati israeliani hanno chiamato un’ambulanza, ma quando è arrivata l’ambulanza israeliana è comparso sul luogo uno dei più famigerati coloni di Kiryat Arba, Ofer Hanna. Secondo Abu Anan, questi ha impedito a chiunque, compreso il personale dell’ambulanza, di prestare aiuto. Ofer ha iniziato ad inventare una storia, dicendo che al-Ja’bari era stato aggredito perché era entrato nella tenda, situata sul suo terreno, che funge da sinagoga. Nel frattempo è arrivata un’altra ambulanza israeliana, oltre a otto soldati e alla guardia di sicurezza dell’insediamento. Dalle 9 alle 10 del mattino non è stato prestato ad al-Ja’bari nessun primo soccorso. Gli operatori dell’ambulanza erano evidentemente spaventati da Ofer e rimanevano semplicemente a guardare. Terrorizzata per suo marito, il cui sangue dall’estremità della mano scorreva giù per tutto il corpo, la moglie di al-Ja’bari ha chiamato la Mezzaluna Rossa Palestinese. Alla fine è arrivata un’ambulanza palestinese e ha trasportato al-Ja’bari in ospedale.

Nel frattempo, sotto gli occhi dei figli di al-Ja’bari, i coloni avevano tirato fuori un grande altoparlante davanti alla stazione di polizia dell’insediamento, situato a una cinquantina di metri dalla casa di al-Ja’bari. Cantavano “Abu Anan è morto”.

Impunità dei coloni

I medici hanno detto ad al-Ja’bari che non potevano credere che fosse ancora vivo. Sono stati necessari trenta punti di sutura alla testa. Il suo braccio è stato interamente ingessato. I medici gli hanno prescritto cinquanta giorni di riposo.

Ma non è morto. Quando la notizia ha raggiunto i coloni un gruppo di una ventina di persone ha iniziato ad attaccare la casa di al-Ja’bari, come si può vedere dalle riprese delle telecamere di sicurezza dell’abitazione. Le pietre sono finite sul tetto e hanno colpito il muro. Un colono ha cercato di distruggere l’auto di uno dei figli di Abu Anan. Quando la moglie di Abu Anan, Samira al-Ja’bari, ha chiamato la polizia, i coloni sono scappati.

Domenica l’amministrazione civile israeliana ha chiamato al-Ja’bari e gli ha proposto di sporgere denuncia alla stazione di polizia. Il governatore militare ha detto che i responsabili dovevano essere puniti. La polizia israeliana ha radunato in una stanza i coloni presumibilmente coinvolti, in quanto tutti inquadrati dalle telecamere posizionate dagli israeliani a ogni angolo di strada. Al-Ja’bari ha indicato con precisione chi aveva fatto cosa. Tra i presenti c’erano tre figli di Itamar Ben-Gvir, avvocato e membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]. L’ufficiale di polizia ha detto ad Abu Hanan: sono sicuro che stai dicendo la verità. Questi coloni dovrebbero andare in prigione. Il giorno successivo, dopo aver trascorso una notte in carcere, tutti i coloni sono stati rilasciati senza accusa.

Restare a guardare

Oltre il 90% dei casi di violenza dei coloni rimane impunito, come riporta l’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din. Che stiano lanciando pietre contro negozi e case palestinesi, sputando e imprecando contro i palestinesi, prendendo illegalmente il controllo di case di proprietà palestinese o tentando di uccidere un anziano palestinese, i coloni sono protetti dai soldati e raramente puniti per i loro crimini. Con questo i soldati israeliani a Hebron stanno inviando un messaggio al mondo intero: noi stiamo a guardare mentre i padroni illegali della Cisgiordania fanno quello che vogliono.

Gli stranieri tendono a confortarsi al pensiero che questi coloni debbano essere i più estremisti, e non tutti gli israeliani siano come loro. Ma il numero crescente di israeliani che si trasferiscono in insediamenti illegali in Cisgiordania e i ricchi benefici che ricevono dal loro governo suggeriscono che questi coloni non appartengano al versante più estremista dello spettro [politico] israeliano, ma facciano piuttosto parte della famigerata prima linea del piano con cui Israele intende estendere il suo progetto coloniale.

Una sporca impresa coloniale

Naturalmente la colonizzazione della Cisgiordania è un’estensione della precedente occupazione delle terre colonizzate nel 1948, ora conosciuta come “Israele propriamente detto” e ampiamente accettata come status quo. Ma chi ricorda ancora gli oltre 400 villaggi e città palestinesi che vi furono cancellati, e chi ricorda ancora i 750.000 palestinesi che furono cacciati dalle loro case durante la Nakba del 1948? Vedere la situazione in Cisgiordania chiarisce come il 78% della Palestina storica, rappresentato dai territori colonizzati nel 1948, non sia mai stato abbastanza.

Tutti coloro che ancora sostengono la soluzione dei due Stati chiudono un occhio sul fatto che Israele non ha mai mostrato alcun rispetto per la sovranità dei palestinesi. Come dimostrano la violenza dei coloni e l’accanita protezione nei loro confronti da parte dei soldati, la pulizia etnica dei palestinesi continua ogni giorno e l’obiettivo finale del progetto sionista è cacciarli tutti dalla Palestina storica, anche da quel poco di terra che resta loro.

Non sorprende che Israele cerchi di impedire ai turisti di andare in Cisgiordania; qui il marciume e l’abiezione del progetto sionista sono messi a nudo, sotto gli occhi di tutti gli spettatori. L’ho visto e continuerò a raccontare queste storie finché il mondo non somiglierà più ai soldati che stanno a guardare.

Mella Jongebloed

Mella Jongebloed è una giornalista e blogger, studiosa di Studi Medio Orientali e Filosofia.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come Ibrahim al-Nabulsi è diventato il “Leone di Nablus”

Mariam Barghouti

15 agosto 2022 Mondoweiss

Ibrahim Al-Nabulsi ha dimostrato che è possibile riaccendere lo spirito di resistenza di una nuova generazione. Ecco perché Israele lo ha ucciso.

Huda, o Um Eyad, madre di Ibrahim al-Nabulsi, combattente della resistenza ucciso a 18 anni, siede accanto alla sua unica figlia e unica sorella di Ibrahim, Shahd al-Nabulsi, 23 anni.

L’abito blu scuro di Shahd contrasta con il suo pulito velo viola. C’è una macchia sotto le sue mani, sul lato sinistro dell’abito. Leggermente più scura del resto del vestito, sembra fuori luogo. Um Eyad cattura il mio sguardo. «È il sangue di Ibrahim, questa macchia», dice. Proprio il giorno prima, il 9 agosto, Um Eyad ha perso il suo terzogenito, Ibrahim, che non avrebbe più compiuto i 19 anni in ottobre.

Nel pomeriggio, il cimitero Gharbiyyeh di Khallet al-Amoud a Nablus si è appesantito di tre corpi. Ibrahim al-Nabulsi, Hussein Taha e Islam Subuh vi riposano in pace. I tre sono stati uccisi il 9 agosto nella città vecchia di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale occupata, in un’operazione militare israeliana in coordinamento con l’intelligence israeliana.

Um Eyad è ora facilmente riconoscibile – i social media palestinesi sono stati inondati dalla sua immagine che fendeva la folla di migliaia per lo più uomini che assistitevano al funerale dei martiri, portando il cadavere del “Leone di Nablus“.

Era un quadro diverso dalle immagini comuni di uomini che trasportano i morti. Non lo faceva perché era il corpo di una nuova icona palestinese – era suo figlio.

Il 10 agosto, all’interno della piccola sala di comunità nel quartiere Khallet Al-Amoud della Città Vecchia di Nablus, le donne sedevano in abiti neri a contrasto con le luminose sciarpe bianche sulle teste. Le spalle coperte da kuffiyeh palestinesi bianche e nere rendevano più facile a coloro che porgevano le condoglianze distinguerle dal resto della folla di donne in lutto.

Il più giovane dei martiri, Hussein Taha, aveva solo 16 anni quando fu ucciso. Sua madre e sua sorella sedevano accanto a Um Eyad, in lacrime e sorrisi stentati nel riconoscere gli ospiti che si radunavano. Anche il maggiore dei martiri, Islam Subuh, 32 anni, è stato ucciso nella battaglia, un evento che segna ora una nuova era della resistenza armata palestinese.

La stanza era piena di madri, mogli e sorelle di martiri palestinesi uccisi dal regime coloniale. Sulla scena continuavano ad arrivare autobus con le famiglie dei martiri di Jenin e altre zone della Cisgiordania. Le giovani donne della piccola città di Khallet al-Amoud si muovevano rapidamente per servire caffè – una tradizione del lutto in Palestina – e acqua per la sete delle persone in lutto col caldo.

“Gli avevo comprato un cappellino”, ha detto a Mondoweiss Shahd, 23 anni, il giorno dopo l’assassinio di suo fratello Ibrahim nel municipio a poche centinaia di metri dalla casa di famiglia. Trattenendo le lacrime, Shahd si dispera di non aver potuto darglielo. Fa un respiro e sussurra una preghiera, “al-hamdulilah [lode a Dio]”, un’espressione di umiltà e gratitudine per il proprio destino, comunemente ripetuta sia nei momenti di difficoltà che di gioia.

“Era così amato nella comunità”, ha detto a Mondoweiss Haifa, la zia di al-Nabulsi, 41 anni. “Era anche così ribelle e tenace. È cresciuto in queste strade, non sono strade facili in cui crescere, specialmente nei primi anni di infanzia”.

Ibrahim è nato nel 2003, nel pieno della Seconda Intifada, quando la città natale di Nablus era costantemente sotto assedio da parte dell’esercito israeliano.

Dalla sua nascita, ogni anno sempre più bambini palestinesi come lui venivano uccisi e arrestati dall’esercito israeliano. Proprio l’anno scorso, il 2021, è stato documentato come il più letale per i bambini palestinesi dal 2014, per via degli attacchi israeliani da parte di coloni e militari.

Incastrato tra le antiche mura

Nella Città Vecchia, ogni angolo reca le tracce di una battaglia che i palestinesi hanno combattuto contro i coloni o l’esercito israeliano. E se no le vecchie mura sono segnate da pietre più recenti, di ristrutturazioni seguite alle parziali distruzioni della città durante le invasioni.

La città vecchia di Nablus è piena di manifesti di palestinesi uccisi, da combattenti della resistenza a bambini trattenuti ai posti di blocco. Poster appena stampati con foto di al-Nabulsi e dei suoi compagni caduti decorano le pareti. Alcuni striscioni sembrano più vecchi dello stesso al-Nabulsi, ma in agosto il quartiere di Faqous nella Città Vecchia si è riempito della storia del “Leone di Nablus” palestinese.

“Fammi una foto, fammi una foto”, dice uno dei bambini, chiamandomi mentre mi dirigo verso il quartiere di Al-Faqous, alla ricerca delle tracce dell’assalto israeliano del 9 agosto.

Il bambino, con il suo cane Luka, posa con gli amici. Mentre il fotografo scatta la foto, noto una collana sul collo del ragazzo, con la foto di un altro ragazzo. La collana somiglia ad altre che avevo visto prima sul collo delle donne nella sala del lutto, immagini di familiari uccisi o imprigionati.

Gli ho chiesto chi era nella foto. «Un mio amico », dice con un sorriso timido.

Subito ho pensato che fosse suo padre, suo fratello o suo zio, perché nella cultura palestinese queste collane non servono semplicemente per commemorazione o esibizione, ma sono autentiche testimonianze della perdita di una persona cara per mano dell’occupazione. Non mi ero resa conto che la foto fosse di un altro ragazzo.

L’amico del ragazzo era Ghaith Yamin, il sedicenne ucciso a Nablus con un colpo di arma da fuoco alla testa mentre si trovava sul tetto di casa sua, vicino alla Tomba di Giacobbe, quando lo scorso 24 maggio l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella città.

In qualche modo ho capito l’ostilità di cui parlava Haifa solo poche ore prima ricordando l’infanzia di al-Nabulsi. La continua violenza a cui hanno assistito bambini, giovani e adulti palestinesi di ogni ceto e in modi così diversi si sentiva più cocente mentre il ragazzo cercava di confortare Luka, che si era messa ad abbaiare.

La luna sorta e alta in cielo, la moschea Khudari nella Città Vecchia fa eco alla chiamata alla preghiera maghrebina, “Allahu Akbar [Dio è grande]”. Un mantra islamico che significa umiltà; i vicoli risuonano ricordando che solo Dio è grande e il resto è solo umanità. La luce dorata che baluginava pochi istanti prima è scomparsa e la porta crivellata di proiettili dove sono stati uccisi al-Nabulsi e Subuh diventa invisibile.

Un gruppo di uomini nelle vicinanze segue la mia intrusione. Eppure, se un turista fosse passato vicino non si sarebbe reso conto del delitto perpetrato lì solo due sere prima.

Il cucciolo testardo

Secondo chi l’ha conosciuto, prima di diventare un combattente della resistenza al-Nabulsi era un tipico adolescente, leale e aggressivo allo stesso tempo. Le storie che sua zia raccontava mi hanno ricordato molti uomini, un tempo ragazzi, che ho incontrato nelle città della Palestina. Al-Nabulsi è ricordato da bambino come un “Nimrood”, termine preso a prestito dalla storia biblica di Nimrod per indicare lo spirito di un ribelle che rifiuta di sottomettersi all’autorità.

I vicoli di Al-Faqous e le macerie lasciate dall’esercito israeliano all’interno dell’edificio in cui fu assassinato al-Nabulsi richiamano alla memoria le violente invasioni dell’esercito israeliano nel 2002 a Nablus e Jenin.

All’epoca, la Città Vecchia era obiettivo di una spietata campagna militare di bombardamenti e scontri di strada, che danneggiavano non solo i rifugi, i mezzi di sussistenza e le persone palestinesi, ma distruggevano anche reperti storici in una città fra le più antiche al mondo. È stato anche il momento in cui le autorità e i ministri israeliani hanno impostato la famigerata politica del “fuoco aperto”.

Quasi esattamente due decenni dopo la scena sembra familiare ai residenti. Il sangue di al-Nabulsi, o forse Subuh, è schizzato sui muri all’interno della casa demolita, segnando il luogo della loro ultima resistenza. Se non avessimo avuto le torce sarebbe stato difficile capacitarci dell’entità del crimine. In un angolo di quella che sembra essere stata usata come cucina c’era un unico sacchetto di pane pita e una padella. Tra i detriti anneriti c’era il marrone e giallo brillante di una tavoletta di cioccolato Aero, mai aperta.

La dichiarazione di due decenni fa, quando nei primi anni 2000 il governo israeliano stava decidendo di lanciare un attacco, sembra ancora attuale: “Israele agirà per sconfiggere l’infrastruttura del terrore palestinese in tutte le sue sezioni e componenti; a tal fine, sarà intrapresa una vasta azione fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto”. In quegli anni, intere città erano sottoposte al coprifuoco, e le persone potevano uscire di casa solo per fare la spesa ogni tre o quattro giorni ad un’ora stabilita.

La pandemia mondiale di COVID-19 ha forse dato al mondo un piccolo assaggio di cosa significhi essere costretti a rimanere chiusi in casa per lunghi periodi di tempo, anche se senza la costante minaccia di bombe e morte che incombe su di te da ogni parte. Nell’infanzia di al-Nabulsi, questa non solo era la norma, era anche imposta dai carri armati e dalle truppe paramilitari israeliane che hanno in seguito ammesso di aver commesso crimini di guerra.

Ancora ai nostri giorni i ministri israeliani giustificano quei crimini esaltandone la capacità di scoraggiare l’attività di resistenza. Eppure, più di due decenni dopo, la falsità delle affermazioni di Israele è evidente nella persistenza della resistenza palestinese. Ciò sottolinea che la strategia militare di Israele non solo si è rivelata inefficace, ma fa anche un uso ambiguo della voce “sicurezza nazionale” per nascondere le politiche criminali di pulizia etnica

Ibrahim al-Nabulsi, nato anche lui al culmine della Seconda Intifada palestinese, divenne rapidamente una leggenda nelle strade palestinesi e tra la sua generazione. La resistenza palestinese si è scontrata con carri armati, missili e distruzioni di massa. Circa un mese prima di nascere, al-Nabulsi ancora nel grembo materno, i militari israeliani demolirono un edificio di 7 piani come punizione collettiva usando l’artiglieria pesante sulle case dei civili. Solo tre anni prima, un’immagine di Faris Odeh, il bambino che affrontava un carro armato militare israeliano a Gaza, si diffuse in tutto il mondo, impersonando la battaglia tra il proverbiale David palestinese che affronta un imponente Golia israeliano.

I primi anni dell’infanzia di al-Nabulsi hanno coinciso con i crimini militari israeliani nei campi profughi di Jenin e Nablus tra il 2001 e il 2004. Nonostante la conferma e l’ampia documentazione, i comandanti e i soldati israeliani non sono ancora stati incriminati.

A quel tempo, anche la Cisgiordania stava esplodendo grazie ai combattenti della resistenza armata palestinese. Nel marzo 2002 il regime israeliano lanciò l’Operazione Scudo di Difesa, che ha una sorprendente somiglianza con l’attuale campagna lanciata esattamente 20 anni dopo nel marzo di quest’anno, Operazione Break the Wave. Che comprende l’operazione Breaking Dawn, l’attacco di tre giorni alla Striscia di Gaza in cui sono stati uccisi decine di civili, compresi molti bambini.

Un dispaccio ufficiale dell’esercito israeliano ha definito i “risultati” dell’operazione Scudo di Difesa in termini di arresto di “molti terroristi ricercati” e sequestro di “quantità enormi di armi” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Questo ha segnato il momento in cui la strategia israeliana di sradicare sistematicamente i rifugi della resistenza palestinese ha portato all’emarginazione di gruppi armati come la Brigata dei martiri di Al-Aqsa (l’ala militare di Fatah) all’interno del panorama politico della Cisgiordania. Secondo quanto riferito, Al-Nabulsi era diventato un membro proprio di quella brigata, che, nonostante la campagna di repressione israeliana e la collusione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel disarmo, è riuscita a sopravvivere e riorganizzarsi, stabilendo una presenza crescente anche se tenue in luoghi come Jenin e la Città Vecchia di Nablus.

Le parole della madre di al-Nabulsi, Um Eyad, mi risuonano ancora nelle orecchie quando diceva: “Non voglio concedergli nemmeno le mie lacrime. Ibrahim è un martire, al-hamdulilah». Queste parole non sembravano consolare davvero il suo dolore, ma almeno consentivano di collocarlo in una speranza di cambiamento.

Dopo essere scoppiata a gridare in ospedale quando il dottore ha annunciato scusandosi “istash-had [è stato martirizzato]”, Um Eyad ha in seguito detto a una folla di persone in lutto: “Si sbagliano se pensano di aver ucciso Ibrahim. Tutti sono Ibrahim”.

Considerando quelle parole ho pensato alla forza di questa donna, a come ha messo da parte il proprio dolore per dimostrare a tutti il vero significato del sacrificio di Ibrahim. Poi ho detto fra me e me una preghiera: che nessuna madre sia messa nella posizione di trovare in qualche modo la forza di portare come simbolo il nome del figlio ucciso.

Dopo aver raccontato diverse storie di famiglie di martiri e aver assistito al dolore di mia madre quando suo nipote fu ucciso nella Seconda Intifada, ho appreso necessariamente un diverso tipo di dolore. Non è semplicemente la perdita di un figlio, un fratello, un marito, una figlia, una sorella o una moglie: è la brutalità della perdita per mano di un regime criminale. Una volta una madre lo descrisse come qualcosa di simile a un costante bruciore nel petto.

Mai nascosto, Al-Nabulsi era connesso alla sua realtà

“È stato come un film dell’orrore, continuo a ricordare i giorni dell’invasione”, ha detto a Mondoweiss accanto al luogo dell’assassinio S., una vicina. “Era così gentile.”

Ha ricordato quando negli ultimi mesi lo vedeva camminare per la Città Vecchia, sfuggendo a diversi tentativi di omicidio israeliani.

“Continuo a non crederci”, dice Shahd, sorella di al-Nabulsi, mentre la sua piccola Mariam si slancia col magro corpo sulle scale di cemento sotto il vestito blu scuro della madre.

Nel mese prima della sua uccisione la Città Vecchia ha visto al-Nabulsi più della sua stessa famiglia. “Mi dispiace, non verrò con te sul luogo [dell’assassinio]”, mi ha detto il ricercatore palestinese residente nella Città Vecchia di Nablus Bassel Kittaneh, da un tetto di fronte alla moschea più vicina al luogo dove al-Nabulsi è stato ucciso. Ha spiegato scusandosi: “Non sono ancora pronto”.

Giorni dopo l’uccisione di al-Nabulsi, Taha e Subuh, i quartieri della Città Vecchia erano ancora pieni di vita. Nonostante la terribile perdita, c’è stata una rinnovata fiamma di sfida che il suo personaggio ha acceso – una dimostrazione di rispetto per come un giovane quale al-Nabulsi sia stato in grado di compattare la forza di uno degli apparati di sicurezza più potenti del mondo, i Servizi di sicurezza generali (Shin Bet) e l’esercito israeliano, per chiedere il suo assassinio.

Secondo testimoni e residenti della Città Vecchia di Nablus e delle città vicine, al-Nabulsi non si è mai nascosto. Quando lo si vedeva camminare non era necessariamente con orgoglio, ma con una postura che faceva pensare a uno che si assumesse delle responsabilità. Chiunque in Palestina sfogliando TikTok troverà i post di residenti di Nablus che hanno filmato Nabulsi mentre camminava per la Città Vecchia, chiamandolo per nome e scattandosi selfie con lui che sorrideva quasi imbarazzato. Era quasi come se lo stessero salutando, sapendo che prima o poi sarebbe stato martirizzato.

“Era sincero e gentile nei suoi rapporti”, mi ha detto Kittaneh.

Eppure, nonostante la forza e la sfida dimostrate da al-Nabulsi negli scontri, è discutibile che al-Nabulsi costituisse la minaccia che i media e i portavoce militari israeliani hanno fatto credere. Ma ciò che Nabulsi rappresentava – la minaccia di riaccendere lo spirito di resistenza armata in Cisgiordania – era qualcosa che Israele non era disposto a lasciar accadere. In effetti, l’esercito israeliano ha preso di mira i palestinesi sospettati di resistenza armata e li ha assassinati extragiudizialmente come parte dell’operazione ‘Breaking the Wave’.

Funzionari delle Nazioni Unite e organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente segnalato la recente intensificazione da parte dell’esercito israeliano delle campagne contro i palestinesi, ricorrendo persino alla pratica illegale della detenzione amministrativa di avvocati per i diritti umani e usando forza letale contro manifestanti palestinesi disarmati.

Il tutto è parte di una strategia di “controllo dell’escalation”, un approccio coercitivo per controllare l’intensificarsi della resistenza in modo da porre l’altra parte in una posizione di svantaggio riducendo la sua capacità di reazione. Anche l’intelligence israeliana e le unità militari hanno dato il via libera e rilanciato la strategia di sparare per uccidere in tutta la Cisgiordania. Ciò è avvenuto mesi prima dell’attacco a Gaza nella prima settimana dell’agosto di quest’anno.

Eppure, nell’assordante sete di annessione e apartheid di Israele, Ibrahim Al-Nabulsi, non ancora 19enne, ha detto addio alla Città Vecchia di Nablus combattendo, armato solo di un fucile.

Secondo i testimoni, Israele ha usato missili a spalla ad alta tecnologia per bombardare il suo rifugio, con fori dei proiettili dappertutto sulla porta di metallo. Un filmato che si dice sia di al-Nabulsi mostra un giovane che spara goffamente con una pistola durante una precedente invasione militare. Senza un addestramento militare formale e con armi obsolete, al-Nabulsi non ha mai avuto una vera possibilità.

Il miracolo è stato che, nonostante l’attacco spietato, in qualche modo al-Nabulsi è uscito vivo dalla devastazione. La morte è stata dichiarata in ospedale circa un’ora dopo.

Il ruggito del leone per la liberazione

L’ascesa di una nuova generazione palestinese di resistenza armata sembra aver creato l’effetto contrario a ciò che l’esercito e il controspionaggio israeliani speravano in termini di “deterrenza”.

“Perfino durante l’ultima ondata di ripresa della resistenza abbiamo visto anche la nascita di nuova vita a Nablus”, ha spiegato Kittaneh a Mondoweiss. “La Città Vecchia sta riacquistando rilievo e il suo antico senso di importanza.”

Kittaneh ha scontato 15 anni con l’accusa di affiliazione alle Brigate Palestinesi Izz el-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Fu arrestato lo stesso anno in cui nacque al-Nabulsi. Con la città di Nablus che si stende all’orizzonte alle sue spalle, Kittaneh riflette sulla sua giovinezza. “Ogni generazione reagirà in modo diverso, ma ogni generazione reagirà”, dice a Mondoweiss.

Per garantire il controllo dell’escalation, Israele ha deciso di creare un effetto collettivo di shock e terrore nei palestinesi. Ciò include gli omicidi extragiudiziali di palestinesi come le decine di persone uccise nella prima metà di quest’anno, o l’incarcerazione di bambini di appena 12 anni.

Questa tattica, come ha spiegato la pluripremiata giornalista Naomi Klein, garantisce di infliggere danni emotivi, mentali o fisici in modo progressivo nel tempo, per paralizzare lentamente una popolazione fino all’inerzia. “Lo shock svanisce, ma non quando te lo aspetti, come nel momento preciso della liberazione. . . le esperienze di shock convivono con l’eredità della paura per anni “, ha spiegato Klein in un’intervista.

Le agenzie e i resoconti hanno definito il giovane combattente “comandante supremo” e “militante esperto”, ma al-Nabulsi ha vissuto un’altra vita, quella con i suoi amici e la sua famiglia. “Quando gli chiedevamo perché andasse avanti, rispondeva: ‘Sto facendo rivivere lo spirito di resistenza di un’intera generazione'”, ha detto Shahd a Mondoweiss. Sembra che la resistenza continui ad alimentarsi col riconoscere che non esiste un’infanzia palestinese.

“Quello di cui Israele non ha tenuto conto è che, quando la gente della Città Vecchia ha visto l’esercito israeliano entrare e fare irruzione a Nablus in pieno giorno per arrestare i giovani o assassinarli in quel modo orrendo…” Kittaneh si interrompe mentre dice così, fermandosi un attimo prima di continuare. “La cosa non ha spaventato di più le persone. Al contrario, ha spinto ancora di più i palestinesi verso lo scontro”.

È sempre più evidente che la profondità della sfida di al-Nabulsi e di Subuh deriva dal riconoscimento del fatto che gli è stata rubata l’infanzia, il suo stesso diritto di essere. Mi ricorda le immagini dei bambini che, per quanto piccoli e magri, in qualche modo raccoglievano la forza di affrontare i soldati, rifiutandosi di essere terrorizzati da loro.

Una ninna nanna per la famiglia

Una bambina dorme in grembo alla madre nonostante il caldo di metà pomeriggio a Nablus. Entrano ed escono donne sconosciute che si sporgono sul suo piccolo corpo per rendere omaggio alle tre famiglie che hanno perso i loro figli, uno di soli 16 anni.

“Hayat”, mi dice una donna anziana, indicando la piccola che dorme tra le sue braccia durante il funerale. È la nipote di al-Nabulsi.

«Il suo nome significa vita», dice la donna.

Se al-Nabulsi è celebrato come il “Leone di Nablus”, era anche conosciuto come lo zio giovane e ribelle, critico di tutto ciò che gli era stato detto, impegnato per la sua libertà e la libertà di tutti coloro che lo circondavano, inclusa Hayat .

Pochi giorni dopo la sua morte, la famiglia di Ibrahim si è riunita una sera nella casa di Nablus. La zia di Ibrahim ha continuato a disperarsi per l’assenza del nipote dalle loro vite. “Quando ci sediamo a tavola e la sedia di Ibrahim è vuota sentiamo la sua mancanza”, dice tristemente. “E quando in qualche modo viviamo un momento di gioia, cominciamo tutti a dire ‘se solo Ibrahim fosse con noi.'”

Mariam Barghouti è corrispondente senior dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)