“Ci hanno buttati fuori come se fossimo spazzatura”: i palestinesi che hanno perso le proprie case a Gerusalemme.

Yuval Abraham 

29 aprile 2021 – +972 magazine

Nel 2020 Israele ha demolito un numero record di case palestinesi a Gerusalemme. Dietro ad ognuna di queste c’è una famiglia che ha perso tutto, e molte non sono in grado di ricostruire la propria vita.

Ci sono aridi dati statistici: secondo i numeri forniti dall’associazione per i diritti umani Ir Amim [Ong israeliana impegnata a garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini di Gerusalemme, ndtr.] nel 2020 un record di 140 famiglie palestinesi di Gerusalemme est ha perso la propria casa. Nel 2019 a Gerusalemme 72 famiglie palestinesi hanno assistito alla demolizione della propria abitazione, mentre nel 2018 questo numero era di 59. La maggior parte di queste persone, che hanno visto come i bulldozer sfondavano i muri della loro casa, sono invisibili agli occhi dell’opinione pubblica israeliana. Sono diventati una statistica. Ma ogni casa demolita porta con sé uno sconvolgimento complessivo per la famiglia, con ripercussioni che durano anni, molto al di là della demolizione in sé.

Ho incontrato tre diverse famiglie palestinesi subito dopo che, nel 2020, le loro case erano state demolite. Ho parlato con loro di nuovo alla fine dell’anno scorso per sentire quello che ne è stato delle loro vite da quando le loro abitazioni erano state distrutte. Non sono criminali, sono persone che hanno costruito le proprie case su terreni di proprietà privata che, per loro sventura, si trovavano in zone in cui in base a considerazioni demografiche Israele intende ridurre la presenza palestinese. E quando Israele vuole cacciare degli arabi dalle loro terre trova sempre il modo di farlo.

La famiglia Abadiya

Ismayil Abadiya è nato e cresciuto nel quartiere di Sur Baher, a Gerusalemme est. Quando ha voluto costruire una casa per i figli sulla sua terra ha scoperto che gli era impossibile ottenere una licenza edilizia dalle autorità israeliane. Si è scoperto che il piano regolatore di Sur Baher stilato dal Comune di Gerusalemme e da vari enti regolatori non aveva considerato edificabile il suo terreno.

È così che sono fatti i piani regolatori a Gerusalemme est: la maggioranza di essi non è stata aggiornata per 20 anni ed è molto difficile ottenere una licenza edilizia proprio perché sono stati predisposti per limitare l’ampliamento dei quartieri.

Ismayil non voleva correre rischi e costruire senza permesso, come fanno molti nella sua situazione, e ha deciso di comprare un terreno a Wadi al-Hummus, a soli 10 minuti di macchina dalla sua casa. Wadi al-Hummus si trova fuori dai confini del Comune di Gerusalemme per come sono stati delimitati nel 1967, quando [Israele] ha occupato la parte orientale della città. Vi ha costruito legalmente una casa ed ha ottenuto tutti i permessi necessari dall’Autorità Nazionale Palestinese, che è responsabile delle licenze edilizie nell’Area B della Cisgiordania, dove si trova il terreno.

Dopo che la casa era stata costruita, Ismayil ha scoperto dell’esistenza di un ordine militare che vieta di costruire nei pressi del muro di separazione, che Israele ha eretto a qualche decina di metri di distanza. Il tentativo di Ismayil di portare il suo caso nei tribunali israeliani non ha dato risultati. Ero con lui la notte in cui la sua casa è stata demolita nel 2019. “I soldati sono entrati ed ho immediatamente alzato le mani. Due dei miei figli erano in casa e non volevo violenze,” ha detto.

“In un primo tempo quando hanno bussato alla porta ci siamo rifiutati di andarcene perché quella era la nostra casa. Ma nel momento in cui hanno fatto irruzione, volevo prendere ogni cosa e uscire. Però sono entrati in modo violento e ci hanno buttati fuori come se fossimo spazzatura.”

Lo ricordo seduto sulla strada, con gli occhi gonfi vicino al suo figlio maggiore che tossiva a causa dei lacrimogeni sparati contro di loro solo qualche minuto prima. “Mi spiace, mi spiace,” mormorava Ismayil mentre guardava suo figlio. Ricordo la bicicletta di Hiba, la figlia di quattro anni, tutta rotta e sepolta tra le macerie.

Siamo rimasti in contatto per qualche mese. Mi sono sentito responsabile perché ho scritto di lui e l’ho fotografato per un articolo. Mi sono messo in contatto con ogni sorta di ente benefico, associazione di solidarietà e avvocati per avere un aiuto. Alcuni hanno promesso un aiuto legale, ma non hanno fatto molto. Non c’era veramente niente da fare.

Un mese dopo la distruzione, quando sono andato a trovarlo, Ismayil mi ha ospitato in casa di sua madre dove stavano vivendo lui e i cinque figli. Siamo andati insieme sul luogo in cui si trovava la sua vecchia casa, dove Ismayil va ogni giorno solo per dare un’occhiata. Le proprietà della famiglia erano ancora sepolte lì sotto un cumulo di pietre.

Nel corso del tempo abbiamo iniziato a comunicare sempre meno. Non volevo mollare, ho pensato che forse parlare a più persone di quello che era successo potesse aiutare.

Ho suggerito di iniziare una campagna di finanziamento, ma Ismayil ha categoricamente rifiutato. In un primo tempo ha detto che, poiché il Comune non rilascia licenze edilizie e di conseguenza non c’è per lui un posto in cui costruire legalmente, non sarebbe servito. Un’altra volta mi ha detto: “È qualcosa di fisico nel mio corpo. Non posso chiedere soldi a estranei.” Un po’ alla volta ho smesso di avere notizie da lui. A un certo punto ho anche smesso di chiamarlo.

Lo scorso luglio, proprio un anno dopo che la sua casa era stata demolita, Ismayil mi ha chiamato: “Sono in macchina,” mi ha detto. “Ho viaggiato parecchio. Non riesco più a respirare. Non ho più niente da perdere.”

Mi ha detto che la settimana prima sua figlia aveva festeggiato il suo quinto compleanno. “I suoi amici, dei bambinetti, sono venuti a visitarci. Ci hanno riso in faccia per come eravamo ridotti, dei miserabili, a vivere in una stanza della casa di mia madre. Erano vicino a me e lei gli ha gridato: “Non avvicinatevi a mio padre, è mio. È solo mio. Gli voglio bene.”

“Ha più paura per me di quanto io ne abbia per lei,” ha detto Ismayil. “Di notte si aggrappa a me. Di giorno sta seduta vicino a me in silenzio. Per tutta la mia vita ho cercato di occuparmi di lei, di essere un buon padre, e alla fine è lei che si occupa di me.”

Ho di nuovo offerto di lanciare una raccolta fondi. Ha rifiutato: “Se lo faccio, qual è la differenza tra me è un mendicante?”

“Voglio che tu mi metta in contatto con Ofer Hindi, il funzionario che ha firmato l’ordine di demolizione,” mi ha detto. “Voglio che mi conosca, che sappia chi sono. Gli chiederò di costruire una piccola casa sulla mia terra con una recinzione alta, in modo che non ci siano problemi di sicurezza dovuti alla vicinanza con il muro, qualunque cosa voglia. Mettici solo in contatto.”

La famiglia Ali

Lo scorso giugno le autorità israeliane hanno demolito la casa di of Ihab Hassan Ali nel campo profughi di Shuafat. È stata la terza volta che è stato espulso. “Prima del 1948 vivevamo vicino ad Abu Ghosh (un villaggio arabo nei pressi di Gerusalemme), in un villaggio chiamato Beit Thul. I miei genitori vennero deportati da lì durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica operata dai sionisti, ndtr.], la casa venne demolita e da allora siamo stati una famiglia di rifugiati,” dice. “All’epoca i miei genitori si spostarono nella Città Vecchia (di Gerusalemme). Ma nel 1967 nelle settimane successive all’occupazione [da parte di Israele, ndtr,] vennero cacciati anche da lì. Per questo siamo venuti nel campo di Shuafat.”

Negli ultimi anni molti palestinesi di Gerusalemme sono stati obbligati a vivere nel campo, che si trova dall’altra parte del muro di separazione, dopo che Israele ha negato loro le licenze edilizie all’interno della città o ha demolito le loro case, proprio come nel caso di Ihab.

Il Comune di Gerusalemme non fornisce praticamente alcun servizio allo spaventosamente affollato campo profughi di Shuafat. La costruzione avviene in modo pericoloso, senza supervisione o permessi. Ihab lì ha costruito una casa più di 30 anni fa, quando il campo era scarsamente abitato. Vi abita con i suoi figli e nipoti.

Negli anni ’80, quando Ihab costruì la sua casa, cercò di ottenere una licenza edilizia, ma ricevette la seguente risposta di una sola frase dall’Organismo Municipale e Unità di Monitoraggio di Gerusalemme: “Nessun progetto approvato e nessuna licenza edilizia può essere ottenuta per l’area in questione.” Ihab dice che, come molti palestinesi in città, aveva solo due possibilità: lasciare Gerusalemme o costruire la sua casa senza permesso.

Ihab Hassan Ali sta sulle macerie della sua casa nel campo profughi di Shuafat, Gerusalemme Est. (Rachel Shor)

Più di 30 anni dopo sono arrivati tanti poliziotti ed hanno demolito la sua casa. Era un grande edificio di due piani accanto al supermercato della famiglia. Un rappresentante del Comune ha detto a Ihab che la demolizione era avvenuta allora perché la casa era troppo vicina al muro di separazione.

“Ho costruito questa casa per la mia famiglia molto prima che venisse eretta la barriera,” afferma. “I muratori che l’hanno edificata avrebbero potuto riposarsi nel mio giardino, gli avrei offerto del tè. Se la barriera è vicina alla mia casa è perché Israele l’ha costruita vicino a casa mia.”

Quando l’ho chiamato alla fine dell’anno scorso mi ha detto: “Né io né la mia famiglia ci siamo ripresi dal punto di vista psicologico. Abbiamo cercato di immaginare cosa fare economicamente. Quando ero giovane ho lavorato come muratore, ma ho smesso quando avevo una quarantina d’anni. Ho preso tutti i miei risparmi ed ho aperto un piccolo supermercato. Ora sono tornato a lavorare come manovale senza uno shekel in tasca, ma il mio corpo non è più quello di una volta e alla fine di ogni giornata di lavoro le gambe mi bruciano.”

“Non faccio vedere ai miei figli e nipoti quanto sia difficile, “continua Ihab. “Dico loro di non preoccuparsi, che le cose vanno così, che in futuro compreremo un altro appezzamento di terra, vivremo come gli altri, costruiremo una casa con gli stessi pavimenti e finestre che avevamo prima. Non li lascio andare alle macerie, che sono ancora lì nel campo. Passo per altre strade, ma è difficile perché la loro scuola è lì vicino.”

“Sulla carta sono un cittadino, ma non ho diritti. Le autorità arrivano nel campo ogni giorno. Consegnano solo multe e ordini di demolizione per fare in modo che lasciamo la città. Questo processo non ha fatto che aumentare negli ultimi 20 anni. Prima di Oslo non era così, iniziò a cambiare tutto nel 1994. A Gerusalemme si sono accaniti con imposizioni contro la costruzione da parte dei palestinesi, senza fornire piani regolatori che consentissero di costruire legalmente.”

All’inizio del 2020 il Comune ha inviato a Ihab una convocazione, informandolo di una multa che avrebbe dovuto pagare per la demolizione della sua casa. “Calcolo che la multa sarà attorno al mezzo milione di shekel [circa 127.000 euro], so che c’erano un sacco di soldati e mezzi pesanti. Capisci? Mi verrà a costare come la casa. Compri da loro quello che hanno distrutto.”

La famiglia Abu Diab

Le autorità hanno demolito la casa di Ahmad Abu Diab, nel quartiere di Silwan, lo scorso giugno. Per qualche ragione il piano regolatore della zona ha destinato il suo terreno a “spazio pubblico aperto” in cui è vietato costruire. “Cosa pensano, che questa sia un’area per coltivare aranci, limoni?” chiede. “Questo è un piccolo appezzamento di terra privata di mia proprietà. Non ho nessun altro posto al mondo su cui costruire una casa.”

“Ho chiesto al Comune perché non cambiano la destinazione d’uso,” afferma Ahmad. “Dicono che me ne dovrei occupare io stesso e mi hanno chiesto di pagare un ingegnere, un avvocato, utilizzare un velivolo per fotografare tutte le case del quartiere dall’alto, e poi mappare la terra dei vicini. Questo, dicono, è l’unico modo secondo loro di verificare se sia possibile aggiornare il piano regolatore. Ma questa è responsabilità loro! Dove vado a prendere centinaia di migliaia di shekel per fare una cosa del genere?”

“Se fossimo ebrei potremmo costruire ovunque. E non è solo un problema mio, tutta Silwan è piena di ordini di demolizione per gente che ha costruito sulla propria terra senza permesso perché non se ne può ottenere uno. Quelli che hanno ricevuto un ordine di demolizione e hanno abbastanza soldi possono pagarsi un avvocato e presentare appello. In questo modo rimandano la demolizione più e più volte. Ma alla fine dovranno comunque demolire (la casa). È un modo per prendere tempo. Non ho neppure i soldi per un avvocato, quindi non posso guadagnare tempo.”

“Dopo la demolizione ci siamo spostati nel soggiorno di una casa vicina di parenti,” dice Ahmad. “Abbiamo vissuto lì per un mese, tutti in una stanza.”

“Degli amici mi hanno offerto di andare dall’altra parte del muro di separazione, nel campo profughi di Shuafat, ma non ho voluto. Sono di Silwan, il nonno di mio nonno è sepolto qui. Sono le mie radici, tutta la mia famiglia vive qui vicino, nei giorni di festa mi ci vuole solo un’ora per visitare chiunque. Non me ne voglio andare. Ho cercato un’abitazione in affitto, ma è molto difficile perché non ci sono case. Quando ho trovato qualcosa, i proprietari si sono rifiutati perché ho cinque bambini piccoli e avevano paura che distruggessimo la casa. Alla fine ho trovato un appartamento a Silwan, dove viviamo adesso.”

“La vita di tutta la mia famiglia è cambiata tanto da non riconoscerla più,” continua. “Soprattutto quella della mia figlia maggiore, Manal, che fa la seconda elementare. Gli altri sono troppo piccoli, non parlano della demolizione. Ma lei sì, ricorda la stanza e il bagno che aveva nell’altra casa. Tutte le nostre cose sono state distrutte. Sono rimaste troppo tempo al sole sotto le macerie. Ho ricomprato tutto.”

“Parlando di soldi, ce la caviamo a malapena. Ho dovuto mettere i miei figli in una scuola diversa per ragioni economiche e da allora i loro voti sono nettamente peggiorati. Un mese fa il Comune mi ha mandato una multa di 27.000 shekel [circa 6.800 €] per la demolizione e per pagare quelli che sono venuti a farla.”

Yuval Abraham è uno studente di fotografia e linguistica.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un viaggio diventato un calvario

Dima Ghanim

26 aprile 2021 WeAreNotNumbers

È difficile viaggiare nel deserto del Sinai in agosto, zanzare e particelle finissime di sabbia trasportate da folate di vento bollente caldo entrano nella macchina. Il sole allunga le sue braccia ardenti che si infilano dentro la gabbia metallica e opprimono i nostri corpi sudati.

Il taxi guadagna velocità, ma appena le gomme stridono per l’entusiasmo, i freni rispondono con un altro stridio e la velocità si riduce rapidamente: un altro checkpoint. Il motore dell’auto ottiene un riposo sgradito ogni cinque minuti, quando ci imbattiamo in un posto di blocco dopo l’altro.

Guardo fuori dal finestrino posteriore e seguo la nostra lenta avanzata. Punti di domanda volteggiano nell’aria torrida. Quanto ci vorrà prima che le gomme della macchina fondano? Abbiamo percorso abbastanza chilometri così il viaggio non si prolungherà durante la notte?

Le peculiari abilità degli autisti di confine

Gli autisti di confine non sono come quelli di taxi. Sono sempre in lotta con il tempo, passano giornate o settimane lontano dalle loro famiglie, in una corsa per portare e prendere passeggeri. Sanno a memoria i livelli di difficoltà di ogni checkpoint. Li vedo afferrare i loro cellulari e comunicarsi l’un l’altro i nuovi ordini sulle strade. Hanno i loro trucchi per trattare con i soldati dei checkpoint.

Il piano B può essere un’alternativa se sei disposto a correre il rischio di deviare dalla strada principale. Qualche volta si suggerisce di prendere un’altra via, cosa che può essere facilmente rifiutata se ci va troppo tempo e se nel viaggio di ritorno non ci sono passeggeri paganti. Funziona così per tentare di sfruttare ogni istante.

Mi dispiace per voi,” dice l’autista egiziano, interrompendo il silenzio. “Che dio vi assista in quello che state subendo. Tempo fa di solito portavamo i passeggeri dal valico di confine di Rafah al Cairo in cinque ore.” [valico tra Gaza e l’Egitto, aperto sporadicamente dalle autorità egiziane, ndtr.]

Le scene folli al confine

Sei ore prima al confine egiziano, le persone sembravano uno stormo di uccelli che sbattevano le ali. Si affollavano nello stanzone dell’attraversamento di Rafah, attenendosi al protocollo in maniera concertata, cercando di conservare la risorsa principale del loro viaggio, il tempo.

I miei familiari avevano ognuno un compito: compilare i nostri documenti di viaggio, fare la fila, ottenere i timbri e stare attenti ai bagagli. Dopo aver consegnato i passaporti, c’era solo da aspettare. L’attesa diventava sempre più insopportabile con i nuovi arrivati che si ammassavano nella sala e la torre sempre più alta di passaporti impilati davanti agli ufficiali. 

Finalmente uno si è alzato per chiamare i nomi di quelli i cui passaporti erano stati timbrati, la gente è saltata su dalle sedie o si è bloccata sorpresa mentre si aggirava nell’ufficio (non si erano mai allontanati per paura di non sentire quando il proprio nome sarebbe stato chiamato). Per quelli non ancora chiamati è cominciata un’altra condanna all’attesa, mentre quelli che avevano sentito la chiamata della salvezza erano liberati dalla gabbia. Ma non erano completamente liberi, anche se avevano provato la gioia di avanzare fino alla gabbia successiva.

Comunque la gioia poteva rapidamente essere strappata via. Una signora, la cui famiglia era stata costretta nel 1948 a fuggire da Giaffa, la propria patria, per andare in Siria, per poi scappare dalla guerra in Siria per subirne un’altra a Gaza, aveva optato per un altro scenario per il futuro dei figli. Dopo una lunga notte di attesa e speranza, lei, i suoi quattro figli (incluso quello che stava scalciando nella sua pancia, impaziente di vedere la luce) e l’anziana mamma avevano avuto autorizzazione di incamminarsi sul loro incerto futuro. Ma era destinata a portare questa responsabilità da sola, perché al marito era stato vietato di unirsi a loro.

No! Non me ne andrò senza di lui!” gridava a squarciagola. 

 “Dovete andare,” ha detto tranquillamente il padre alla sua famiglia. “Non preoccupatevi. Io vi seguirò fra poco.” Controllava la propria disperazione, i bambini si aggrappavano al loro papà con calde lacrime salate che scorrevano sulle loro guance rosate.

I palestinesi hanno provato ogni tipo di perdita al punto che non sono più in grado di esprimerla a parole. Ironicamente, ai loro occhi, determinazione e paura della perdita racchiudono tutto. L’ho visto negli occhi della nonna. Erano come un rubinetto non completamente chiuso con gocce pesanti che si accumulavano sull’orlo e poi cadevano. Uno dei bambini le si era avvicinato e le picchiettava la mano che sembrava una pergamena, fissandola negli occhi senza dire una parola. Il piccolo affetto da autismo aveva dei problemi a comunicare, ma aveva provato empatia verso le sofferenze e l’infelicità di un altro essere umano e stava manifestando compassione con il linguaggio più semplice ed espressivo.

Confini e checkpoint sono una parte integrale di ciò che siamo come palestinesi. Possono aprire le porte all‘opportunità di far parte del mondo e di testimoniarne la diversità. O possono buttare la chiave della porta in acque profonde, rimandandoci indietro con cuori pesanti di delusione. In entrambi i casi, confini e posti di blocco restano un modo sicuro e crudele di ricordare occupazione e blocco.  

Sulla nostra lunga, lunga strada

Dopo dodici ore di attesa al confine, avevamo i nostri passaporti timbrati e ci siamo avviati in taxi per Il Cairo, sapendo di avere davanti a noi altre sfide e molte altre ore. “Non pensare. Ignora tutto quello di cui sei stata testimone, come se questa giornata non fosse mai esistita,” dice mio padre, assurdamente.  Essere un palestinese significa adattarsi a ogni difficoltà in cui ci imbattiamo. Impariamo ad acclimatarci al cambiamento del labirinto di sentieri e programmi: se davanti a te c’è un muro, scava e riappari dall’altro lato come un mago. Noi affrontiamo con cuore risoluto ogni difficoltà che ci si presenta.

Ora, dopo quattro ore di fermate e ripartenze, di viaggi da checkpoint a checkpoint, abbiamo raggiunto quello più difficile che dovevamo attraversare prima di mezzanotte per non dormire in macchina fino alla mattina dopo. Una fila di auto era ferma in attesa del proprio turno di un’ispezione dettagliata il che significava che sì, avremmo passato la notte qui.

La mattina dopo quando siamo ripartiti, ho deciso di liberarmi di tutti i pensieri negativi guardando un film che avevo scaricato: “Schindler’s List”. Ho accettato il consiglio di mio padre e mi sono distratta dalIa corsa piena di interruzioni guardando questo film e pensando alla tragedia vissuta dagli ebrei tedeschi. Il protagonista, Oscar Schindler, piange per non aver venduto tutti i suoi beni e aver riscattato una vita in più perché sfuggisse a una morte inevitabile. L’Olocausto è considerato il più noto esempio di pulizia etnica fomentata da nazionalismo estremista nella storia. Ma, come palestinesi, noi siamo esposti quotidianamente a successive ripetizioni di pulizia etnica. Il più recente di tali progetti è il trasferimento degli abitanti di Sheikh Jarrah [quartiere arabo della città occupata, ndtr.] a Gerusalemme, per ordine del tribunale israeliano in favore dei coloni. Quello che sta succedendo a Sheikh Jarrah è un frammento di una visione più ampia per cancellare i palestinesi dalla terra tramite l’occupazione. L’occupazione sfrutta l’Olocausto per i propri scopi politici di oggi e maschera i feroci atti odierni compiuti contro il popolo nativo.

Io non so da quanto tempo questi pensieri mi girano per la testa. Tuttavia, il rumore del motore dell’auto mi riporta alla realtà. Fa ritornare la gioia di essere in viaggio. Ma altrettanto improvvisamente, il rumore cessa. Dopo due giorni di strada per andare da Gaza al Cairo, sono finalmente all’aeroporto proprio come qualsiasi altro viaggiatore, sto godendo della libertà di tenere in una mano il biglietto dell’aereo e nell’altra l’euforia.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Ambasciatrice israeliana boicottata da un gruppo giovanile sionista per le sue opinioni “razziste”

Redazione di MEM

22 aprile 2021 – Middle East Monitor

L’ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna Tzipi Hotovely è stata boicottata da un movimento giovanile ebraico a causa delle “opinioni razziste e contrarie al pluralismo” della quarantaduenne. Il Noam, con sede in Gran Bretagna, è affiliato al movimento ebraico Conservatore-Masorti [l’ebraismo conservatore è una corrente religiosa ebraica innovativa rispetto a quelle ortodossa e ultraortodossa, ndtr.] e ha portato al boicottaggio della controversa rappresentante israeliana di estrema destra, con il rifiuto di partecipare ieri a un webinar collettivo.

L’evento era stato organizzato da Masorti, ma il suo ramo giovanile ha annunciato che non vi avrebbe preso parte a causa delle opinioni politiche e religiose di Hotovely. Secondo Times of Israel Noam ha cercato di convincere Masorti a ritirare l’invito a Hotovely a partecipare al webinar.

“Crediamo nell’importanza di impegnarsi per Israele così com’è, con tutte le gioie e le sfide che ne conseguono,” ha spiegato Noam in un comunicato ufficiale. “Ciononostante pensiamo che le dichiarazioni di Hotovely siano inaccettabili.”

Hotovely ha “sistematicamente rifiutato di riconoscere la cultura palestinese,” ha aggiunto il gruppo giovanile. Ha ricordato che una volta lei ha invitato a parlare alla Knesset (il parlamento israeliano) Lehava, un’organizzazione molto discussa che si dedica a lottare contro i matrimoni misti tra ebrei ed arabi. Il comunicato ha anche espresso preoccupazione per le passate affermazioni di Hotovely riguardo all’ebraismo non ortodosso.

Benché un certo numero di organizzazioni progressiste ebraiche abbia criticato la nomina di Hotovely, questa è la prima volta che è stata organizzata una protesta contro la rappresentante del Likud da quando lo scorso agosto ha assunto il suo incarico all’ambasciata di Israele a Londra. Circa 1.500 ebrei britannici avevano firmato una petizione per chiedere al governo di Boris Johnson di non accettare la sua nomina.

Nel suo primo discorso, durante un evento organizzato dal gruppo della lobby filoisraeliana Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici, Hotovely ha descritto la Nakba del 1948 come “una ben radicata e popolare menzogna araba”. Nei fatti più di 750.000 palestinesi furono vittime della pulizia etnica e cacciati dalle proprie case quando venne creato lo Stato sionista di Israele in Palestina.

Due giorni fa, durante la prima apparizione al telegiornale della BBC, Hotovely ha rifiutato di dire se crede alla soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese, nonostante sia stata sollecitata parecchie volte dal presentatore Emily Maitlis.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Università e Palestina: tre tipi di silenzio.

Nick Riemer,

8 Aprile 2021, ARENA

Il libro di Edward Said del 1979 sulla continua espropriazione del suo popolo era intitolato The Question of Palestine. Per Said, la Palestina poteva essere considerata una ‘questione’, un oggetto di controversia. In quanto tale, era qualcosa da cui ci si poteva aspettare una varietà di risposte. Da allora, nello stesso momento in cui ha privato i palestinesi della loro terra e delle loro vite, Israele ha altresì lavorato per derubarli anche di questa “questione”. Per Israele, non può esserci una vera “questione della Palestina” perché la Palestina non esiste, o non dovrebbe esistere. E se, nonostante tutti i suoi sforzi, una questione palestinese ostinata continua a essere posta, l’unica risposta possibile, per l’anti-palestinismo sionista, può essere il silenzio – il silenzio sui palestinesi, coltivato attraverso una rigorosa censura e guerra legale, e il silenzio da parte della stessa Palestina, imposto attraverso le varie strategie di Israele di pulizia etnica: le leggi dell’apartheid, il muro di separazione, il mostruoso blocco di Gaza, la soffocante occupazione.

Le università sono luoghi particolari in cui viene imposto il silenzio sulla Palestina. Nelle ultime settimane sono giunto a un nuovo apprezzamento della consistenza e della violenza di questo silenzio imposto. Il silenzio, come l’ho incontrato di recente, è di tre tipi: silenzio imposto, silenzio scelto e silenzio concesso. Insieme, questi silenzi sono tanto eloquenti sullo stato attuale della lotta per la Palestina nel campus quanto sulla natura della professionalità accademica nel 2021.

Il silenzio imposto era quello di un collega palestinese in un’università della Cisgiordania. Li avevo invitati – visto quanto segue, non specificherò nemmeno il loro genere – a una discussione online sulle difficoltà che i palestinesi devono affrontare nell’istruzione superiore sotto occupazione militare. La conversazione doveva essere ospitata dallo staff della Sydney University per BDS, un gruppo dello staff dell’Università di Sydney che sostiene l’appello palestinese per il boicottaggio accademico istituzionale di Israele. Ero felicissimo e anche un po’ sorpreso quando il mio collega ha accettato immediatamente ed entusiasta l’invito. Ma poi, in seguito, è arrivata l’email di scuse: dopotutto non potevano parlare, anche in condizioni di completo anonimato, anche con la fotocamera spenta. Israele aveva recentemente negato un altro ingresso di un accademico in Giordania a causa del suo attivismo digitale. Il mio collega semplicemente non poteva rischiare questa o qualsiasi altra possibile conseguenza che potesse mettere a repentaglio il suo lavoro o quello del suo dipartimento. Completamente comprensibile, avevano raggiunto la stessa decisione di molti altri accademici palestinesi: il silenzio era la loro unica opzione.

Il silenzio scelto era completamente diverso e richiede più tempo per descriverlo. A febbraio, la professoressa Alison Bashford, illustre storica della medicina e della salute dell’UNSW (University of New South Wales), è stata nominata una dei vincitori del premio annuale Dan David di Israele, che nel 2021 ha individuato contributi eccezionali alla medicina e alla sua più ampia comprensione da parte del pubblico. La Fondazione Dan David è strettamente legata all’establishment politico e accademico israeliano: ha sede e amministrazione presso l’Università di Tel Aviv, e il suo presidente è un ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti; Henry Kissinger siede nel consiglio che sovrintende al premio annuale. Il premio è stato naturalmente inteso come una celebrazione e plauso internazionale della risposta di Israele alla pandemia, un tema che figurava esplicitamente nella citazione di Alison Bashford. La quota del 2021 del premio David ha quindi contribuito all’immagine di Israele come leader nella sanità pubblica, distogliendo l’attenzione dal fatto che sta negando l’accesso ai vaccini ai cinque milioni e più di palestinesi sotto il suo controllo nei territori occupati.

Accettare il premio è stata una chiara violazione dell’appello rivolto agli accademici dalla società civile palestinese a tagliare i legami con le istituzioni israeliane fino a quando Israele non abbandonerà le sue politiche di apartheid. Quando i tentativi di avvicinarsi alla professoressa Bashford in privato sono falliti, è stata coordinata da me e da altri colleghi una lettera aperta, che ha chiarito le ragioni per rifiutare il premio, proprio come aveva fatto nel 2016 la professoressa Catherine Hall, storica dell’University College di Londra, dopo esortazione da parte degli attivisti del BDS. La lettera è stata ora firmata da oltre 340 accademici e studenti in tutto il mondo. I firmatari includono studiosi di spicco come Rashid Khalidi, Judith Butler, Nadia Abu El-Haj, Wael Hallaq, Ilan Pappe, John Keane e altri, così come molti altri colleghi di storia e discipline umanistiche correlate in Australia. Pochi giorni dopo l’inizio della lettera, con già oltre 220 firme, ho scritto alla professoressa Bashford avvertendola e sottolineando che le due principali organizzazioni australiane per i diritti dei palestinesi, l’Australia Palestine Advocacy Network e BDS Australia, avevano entrambe sostenuto l’invito a rifiutare il premio. La professoressa Bashford non ha risposto.

La lettera aperta ha riunito molti firmatari, ma non tutti quelli cui abbiamo chiesto di aggiungere il loro nome erano disposti a farlo. Alcuni ci hanno confidato che, sebbene fossero d’accordo, non erano disposti a dirlo pubblicamente perché erano “preoccupati per le conseguenze”. Questo è il terzo silenzio sulla Palestina – non imposto direttamente e chiaramente dalle circostanze, come il silenzio del mio collega palestinese, né scelto, come quello della professoressa Bashford. Questo silenzio è concesso, con diversi gradi di riluttanza, ai tabù predominanti della professione accademica, tra i quali l’antisionismo occupa un posto di rilievo.

I seguaci di questo terzo tipo di silenzio hanno raramente ben chiaro quali potrebbero essere le conseguenze che tanto temono, né perché il rischio di criticare Israele sia maggiore per loro che per altri. Le loro ansie emergono dalla penombra di apprensione, disagio ed evasione che i sionisti hanno attentamente alimentato ogni volta che si è trattato di criticare Israele. Questo non è il silenzio tattico del sostenitore determinato della Palestina, basato sulla necessità di scegliere le proprie battaglie in modo da difendere con più forza la causa in seguito. Le persone che lo osservano non stanno, in generale, prendendo tempo per poi schierarsi formalmente dalla parte dei diritti dei palestinesi in un momento più opportuno. Il sostegno esplicito alla Palestina semplicemente non è nella loro agenda.

Questo silenzio esprime le sue paure di una rappresaglia nel linguaggio della vulnerabilità. Ma sottilmente, e spesso senza dubbio sconsideratamente, mette in atto il contrario: rifiutandosi di esporre se stessi a causa di vaghe preoccupazioni sulle “conseguenze”, chi osserva il terzo silenzio isola ulteriormente coloro che scelgono di parlare, lasciandoli affrontare ogni possibile contraccolpo da soli. Questo tipo di silenzio è, ovviamente, del tutto umano, e pochi ne sono mai stati estranei, se non sulla Palestina, comunque su altre questioni. Tuttavia è una delle principali fonti del tacito ascendente che ha il sionismo nelle università.

Quando è stato annunciato il premio David, il successo della professoressa Bashford è apparso in breve sul Sydney Morning Herald e lei ha concesso un’intervista all’Australian Academy of the Humanities. Quando il suo premio è stato annunciato, non ha avuto riluttanza – comprensibilmente – a commentarlo pubblicamente. Da un punto di vista umano – a lungo negato ai palestinesi – è anche abbastanza comprensibile che abbia preferito ignorare i palestinesi e i loro sostenitori quando hanno criticato la sua accettazione del premio. Ma per qualsiasi studioso che evidenzi la rilevanza del proprio lavoro per i problemi attuali, tale mancanza di sensibilità è una sconfitta intellettuale e politica.

Come il silenzio degli altri partecipanti al Premio David, anch’essi invitati a rifiutare l’onorificenza, il silenzio della professoressa Bashford di fronte al razzismo di Israele contro i palestinesi è un caso da manuale dell’eccezione della Palestina nella politica progressista. Esso contrasta notevolmente con le posizioni mostrate nelle sue pubblicazioni, dove suggerisce un’opposizione inequivocabile a tutte le forme di razzismo, apartheid e oppressione politica, espressa in riferimenti alla “famigerata” politica dell’Australia Bianca, il “rozzo razzismo coloniale” della storia australiana, o il “gradito” annullamento delle leggi razziste sull’immigrazione.

A volte, questo antirazzismo è abbastanza esplicito, ad esempio, quando si discute dell’autorità sanitaria pubblica australiana RW Cilento, che si dice fornisca un esempio di una tendenza più ampia nella medicina tropicale australiana: “In una straordinaria mossa colonizzatrice”, scrive la professoressa Bashford, “le persone non bianche sono state rese assenti da questo spazio, le popolazioni indigene sono state minimizzate in modo digressivo e controllate come un problema di salute pubblica gestibile”. Eppure questa minimizzazione digressiva è esattamente ciò che attua il suo stesso silenzio sulla Palestina.

Questo tipo di silenzio è sintomatico di un’avversione ampiamente condivisa a una decisiva azione politica nella professione accademica. L’avversione è più lampante quando si tratta di resistere alla corruzione e al degrado inflitti alle università dalle pratiche di gestione neoliberale e dal ritiro del sostegno finanziario del governo. C’è molta opposizione, in astratto. Tuttavia quando si tratta di parlare quando conta di più, l’impressionante acume critico della professione, il più delle volte, si zittisce.

Che si tratti della Palestina o del degrado delle università, questi silenzi rafforzano la morale imposta per decenni dalla palla demolitrice neoliberista: la cultura umanistica non ha nulla da offrire al mondo reale. Non suggerisce nulla su come dovrebbero agire gli individui, o su come dovrebbero essere gestite la società o persino le università. Al di fuori della sfera accademica autoreferenziale e del suo tapis roulant di onori, distinzioni e ricompense, i suoi valori sono irrilevanti e privi di significato.

Se l’antirazzismo può essere attivato e disattivato come principio – ripetutamente affermato a stampa, ma bruscamente sospeso quando viene sollevata la questione della Palestina – allora le sue espressioni vengono degradate a mere rappresentazioni. Se non sono effettivamente promulgate, le dichiarazioni accademiche di antirazzismo funzionano principalmente come segni di distinzione, le insegne di un’élite intellettuale esentata dalla necessità di mettere in pratica i suoi principi.

Da quando è stata pubblicata la lettera aperta, la nuova Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo, nonostante i suoi difetti, ha rafforzato la mano dei sostenitori del boicottaggio riconoscendo il fatto, ovvio per quasi tutti tranne che per i fanatici della pulizia etnica e dell’apartheid, che il boicottaggio è una forma normale di protesta e non antisemita. Ulteriore sostegno viene dal semplice fatto che, come ho sostenuto altrove, i boicottaggi politici sono in realtà una pratica comune nel mondo accademico e non dovrebbero quindi essere esclusi nel caso di Israele.

Questo è ancora più vero quando, in realtà, un boicottaggio politico interno nella comunità sionista ha plasmato gli inizi dell’istruzione superiore ebraica in Palestina. Nel 1914, gli insegnanti sionisti boicottarono le scuole superiori gestite dall’Hilfsverein der deutschen Juden, l’Organizzazione di soccorso degli ebrei tedeschi, uno degli sponsor del Technion di Haifa (la prima università ebraica in Palestina). I sionisti boicottarono le scuole elementari dell’Hilfsverein per costringerlo a fare dell’ebraico (non del tedesco) la principale lingua di insegnamento. I genitori minacciarono anche di boicottare la scuola Hilfsverein a Jaffa allontanandone i figli a meno che l’ebraico non fosse usato per insegnare le scienze. Questo episodio è stato raramente citato nelle discussioni sul boicottaggio accademico, che hanno giustamente sottolineato la lunga storia palestinese dei boicottaggi, ma esso ha un significato reale: lungi dall’essere violazioni oltre il limite di presunte norme universali di libertà intellettuale, i boicottaggi politici come quello attualmente richiesto contro Israele sono stati determinanti nel plasmare la preistoria del sistema universitario israeliano.

È un segno di quanto lontana sia la giustizia per la Palestina nella cui lotta le università sono attualmente in prima linea. Affinché la lotta dei palestinesi contro l’apartheid israeliano prevalga nel campus e affinché gli accademici palestinesi siano liberati dal silenzio loro imposto, gli alleati dei palestinesi dovranno fare sentire la loro voce e dovranno essere rotti i silenzi scelti volontariamente o concessi a malincuore nelle università in posti come l’Australia.

Traduzione di Angelo Stefanini




Biden difende Israele mentre il Jewish National Fund israeliano progetta l’insediamento di nuove colonie

Tamara Nassar

15 febbraio 2021, Electronic Intifada

Secondo quanto riferito, il Fondo Nazionale Ebraico di Israele [ente non profit dell’Organizzazione sionista mondiale con poteri para-statali fondato nel 1901 a Basilea per comprare e acquisire terra nella Palestina ottomana ed espandere l’insediamento degli ebrei, ndtr.] sta pianificando di acquistare terra palestinese di proprietà privata nella Cisgiordania occupata per espandere le colonie di soli ebrei.

Domenica la dirigenza dell’organizzazione ha approvato la proposta, che era stata riportata dai media israeliani nei giorni precedenti. Il consiglio di amministrazione dovrebbe prendere una decisione finale dopo le elezioni politiche israeliane di marzo.

Sembra che la proposta del Fondo dia priorità all’espansione delle colonie nella Valle del Giordano, nella Gerusalemme occupata, nel blocco degli insediamenti di Gush Etzion nella Cisgiordania meridionale e nell’area delle colline a sud di Hebron. Secondo i media israeliani, il gruppo non costruirà nuove colonie ma amplierà quelle già esistenti.

L’ “ampliamento” delle colonie esistenti – spesso ben oltre i confini originali – è uno stratagemma che Israele utilizza da tempo nel tentativo di minimizzare le critiche internazionali alla sua colonizzazione della terra palestinese. Inoltre, “l’acquisto di terreni” da parte delle organizzazioni israeliane delle colonie in Cisgiordania è spesso fraudolento.

Sebbene la mossa del Fondo venga descritta nei media israeliani come un “importante cambiamento politico”, essa è del tutto coerente con la sua agenda storica.

Sin dalla sua creazione nel 1901 da parte di Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista di colonizzazione della Palestina, il Fondo ha un obiettivo fondamentale: acquisire terra palestinese ad uso esclusivo degli ebrei.

Terra rubata

 L’organizzazione ha collaborato alla pulizia etnica dei palestinesi sulle loro terre al fine di costruirvi colonie per soli ebrei.

Il Fondo pretende di possedere circa il 15% della terra nell’attuale Israele.

Questa terra è riservata all’uso esclusivo degli ebrei, anche se gran parte di essa è stata rubata ai palestinesi. Il Fondo tenta spesso di dare una facciata di ambientalismo alla colonizzazione della terra palestinese. Notoriamente pianta foreste sulle rovine dei villaggi palestinesi per cancellarne la presenza.

A causa del suo ruolo nella pulizia etnica e nel razzismo, gli attivisti di tutto il mondo hanno fatto una campagna per privare il Fondo del suo status di ente di beneficenza, che gli permette di raccogliere donazioni deducibili dalle tasse. Il giornalista israeliano Barak Ravid ha riferito che l’ultima mossa del Fondo è stata sollecitata dalla lobby degli insediamenti israeliani.

I leader dei coloni mirano a più che raddoppiare il numero di coloni ebrei da circa 400.000 a un milione nell’Area C, il 60% della Cisgiordania occupata che rimane sotto il completo dominio militare israeliano. Il Fondo da sempre opera per colonizzare la terra di tutta la Palestina storica – sia nella parte risultante dalla fondazione di Israele nel 1948 che nei territori che occupa dal 1967 – tanto direttamente che attraverso gruppi di facciata.

In risposta all’articolo del quotidiano israeliano Haaretz, il Fondo ha detto di “aver operato nel corso degli anni e di continuare a farlo in modo trasparente, in tutte le parti della Terra di Israele, comprese la Giudea e la Samaria”. Giudea e Samaria è il nome che Israele usa per la Cisgiordania occupata, per addurre una rivendicazione pseudo-biblica sulla terra palestinese. Tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, comprese Gerusalemme Est e le alture del Golan in Siria, sono illegali secondo il diritto internazionale e sono considerate crimini di guerra.

In risposta ai piani del Fondo, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che l’amministrazione statunitense ritiene “sia fondamentale astenersi da passi unilaterali che esacerbino le tensioni e che minino gli sforzi per far avanzare una soluzione negoziata a due Stati”.

L’amministrazione Biden sostiene la politica di Trump

Sebbene possa sembrare una critica rispetto all’amministrazione Trump, questa dichiarazione non rappresenta un cambiamento sostanziale. Pressato dai giornalisti, Price si è apertamente rifiutato di definire illegali le colonie israeliane – come avevano fatto tradizionalmente per decenni le amministrazioni statunitensi anche se non hanno mai intrapreso alcuna azione per fermarle.

 Invece, Price ha sostenuto il cambiamento di politica dell’amministrazione Trump del novembre 2019 dichiarando che le colonie non violano il diritto internazionale. L’amministrazione Biden sembra non meno determinata di Trump a proteggere Israele dalle conseguenze delle sue azioni. Dopo che all’inizio di questo mese la sentenza della Corte Penale Internazionale ha aperto la strada a un’indagine sui crimini di guerra israeliani in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, compresa la costruzione di colonie, l’amministrazione Biden ha espresso senza mezzi termini la sua opposizione all’indagine.

Nel frattempo Israele ha continuato a demolire case e strutture palestinesi a ritmo accelerato. Negli ultimi mesi, le forze israeliane hanno più volte sequestrato e distrutto strutture della comunità di Khirbet Humsa nella Cisgiordania occupata. Secondo la documentazione delle Nazioni Unite nel mese di febbraio Israele ha demolito e sequestrato più di 60 strutture della comunità e ha sfollato con la forza 175 persone – più di metà delle quali bambini. Tutto questo fa parte dell’impegno di lunga data di Israele a cambiare con la forza la composizione demografica nell’area – pulizia etnica – e garantire una maggioranza ebraica in preparazione dell’annessione.

 

Ali Abunimah ha contribuito alle ricerche.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Artisti come me vengono censurati in Germania perché sosteniamo i diritti dei palestinesi

 Brian Eno

4 febbraio 2021  The Guardian

Una risoluzione parlamentare del 2019 ha avuto un effetto raggelante sui critici della politica israeliana. Adesso il settore culturale si fa sentire.

Sono solo uno dei tanti artisti che sono stati colpiti da un nuovo Maccartismo che ha preso piede in un clima crescente di intolleranza in Germania. La romanziera  Kamila Shamsie, il poeta Kae Tempest, i musicisti Young Fathers e il rapper Talib Kwelli, l’artista visuale Walid Raad e il filosofo Achille Mbembe * sono tra gli artisti, accademici, curatori e altri che sono stati coinvolti in un sistema di interrogatori politici, liste nere ed esclusione che è ormai diffuso in Germania grazie all’approvazione di una risoluzione parlamentare del 2019. In definitiva, si tratta di prendere di mira i critici della politica israeliana nei confronti dei palestinesi.

Recentemente, una mostra delle mie opere d’arte è stata cancellata nelle sue fasi iniziali perché sostengo il movimento non-violento, guidato dai palestinesi, per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). La cancellazione non è mai stata dichiarata pubblicamente, ma a quanto mi risulta, è stata la conseguenza del timore di operatori culturali in Germania che loro e la loro istituzione sarebbero stati puniti per aver promosso qualcuno etichettato come “antisemita”. Così funziona la tirannia: creare una situazione in cui le persone siano abbastanza spaventate da tenere la bocca chiusa e l’autocensura farà il resto.

Ma poiché la mia storia è relativamente minore, vorrei parlarvi della mia amica, la musicista Nirit Sommerfeld.

Nirit è nata in Israele e cresciuta in Germania, e da tutta la vita mantiene il suo legame con entrambi i luoghi, inclusa la sua famiglia allargata in Israele. Come artista, si occupa da più di 20 anni in canzoni, testi e performance del rapporto tra tedeschi, israeliani e palestinesi, dedicando tutti i suoi spettacoli alla comprensione internazionale e interreligiosa.

Eppure ora Nirit si ritrova impedita nello svolgere liberamente il suo lavoro culturale. Nel considerare la sua domanda di finanziamento artistico, i funzionari statali hanno detto a Nirit che dovevano controllare il suo lavoro; quando ha cercato di prenotare un luogo per un suo concerto a Monaco, la sua città natale, le è stato detto dagli organizzatori che lo spettacolo sarebbe stato cancellato a meno che non avesse confermato per iscritto che non avrebbe espresso alcun “sostegno per il contenuto, l’argomento e gli obiettivi” della campagna BDS. È stata ripetutamente bersaglio di campagne diffamatorie.

Perché è successo?

Perché ha parlato di ciò che ha visto con i suoi occhi: le leggi razziste di Israele contro i suoi stessi cittadini che sono palestinesi; i posti di blocco militari israeliani, le demolizioni di case, il muro di separazione, l’accaparramento delle terre, l’incarcerazione di bambini e i soldati israeliani che umiliano e uccidono palestinesi di tutte le età. È stata testimone dell’uso illegale di bombe al fosforo contro Gaza e dell’indifferenza – nella migliore delle ipotesi – di molti nella società israeliana.

Ho chiesto a Nirit come si sente riguardo a questa situazione: “Dopo essere tornata per due anni a Tel Aviv e molte visite nei territori palestinesi occupati, ho capito che Israele non è all’altezza dei suoi elevati standard morali che dichiara. La lezione appresa dall’Olocausto è stata ‘Mai più!’ Ma è inteso solo per proteggere noi ebrei? Per me ‘Mai più!’ Deve includere ‘mai più razzismo, oppressione, pulizia etnica ovunque – così come mai più antisemitismo’. “

La musica di Nirit celebra il suo passato e presente ebraico attraverso il canto. In qualità di artista, il cui nonno è stato assassinato nel genocidio nazista, trova “profondamente inquietante” il fatto di essere soggetta alla censura e al maccartismo inquisitorio da parte di funzionari e istituzioni pubbliche tedesche.

Secondo Nirit, “quando i difensori di Israele insistono sul fatto che queste politiche di occupazione e di apartheid sono fatte a nome di tutti gli ebrei nel mondo, alimentano l’antisemitismo. La lotta all’antisemitismo non dovrebbe e non può essere fatta demonizzando la lotta per i diritti dei palestinesi “.

L’esperienza di Nirit è un esempio della situazione kafkiana in cui siamo scivolati: una donna ebrea, il cui lavoro è incentrato sulla storia, la memoria, la giustizia, la pace e la comprensione, falsamente accusata di antisemitismo dalle istituzioni tedesche. L’assurdità dell’accusa rende chiara una cosa: non si tratta affatto di antisemitismo, ma di limitare la nostra libertà di discutere la situazione politica e umanitaria in Israele e Palestina.

Allora come si è verificata questa situazione?

Nel 2019 in Germania è stata approvata una risoluzione parlamentare vagamente formulata non vincolante, che falsamente equipara il movimento BDS all’antisemitismo. In un breve lasso di tempo, questa risoluzione ha aperto la strada a un’atmosfera di paranoia, alimentata da disinformazione e opportunismo politico.

Il BDS è un movimento pacifico che mira a fare pressione su Israele affinché ponga fine alle sue violazioni dei diritti umani palestinesi e rispetti il ​​diritto internazionale. È modellato sui precedenti del movimento per i diritti civili degli Stati Uniti e, soprattutto, del movimento contro l’apartheid in Sud Africa. Si rivolge alla complicità con un regime ingiusto e prende di mira le istituzioni, non gli individui o l’identità. Il BDS avverte la coscienza pubblica di uno status quo insostenibile e profondamente ingiusto e mobilita l’azione per porre fine a qualsiasi coinvolgimento nel sostenerlo.

Eppure i direttori di festival, coloro che fanno programmazione e istituzioni interamente finanziate con fondi pubblici stanno sottoponendo gli artisti a test politici, controllando se hanno mai criticato la politica israeliana. Questo sistema di sorveglianza e autocensura è nato perché le istituzioni culturali si trovano sotto attacco da parte di gruppi anti-palestinesi quando invitano un artista o accademico che ritiene inaccettabile per loro la visione dell’occupazione israeliana.

Per fare un esempio tra i tanti, il direttore del Museo ebraico di Berlino, Peter Schäfer, è stato costretto a rassegnare le dimissioni dopo che il museo ha twittato il collegamento a un articolo su un giornale tedesco relativo ad una lettera aperta di 240 studiosi ebrei e israeliani, inclusi i massimi esperti di antisemitismo, che era critico nei confronti della risoluzione anti-BDS.

Ma ora, con una mossa senza precedenti, i rappresentanti di 32 delle principali istituzioni culturali tedesche, incluso l’ Istituto Goethe, si sono espressi insieme, manifestando allarme per la repressione delle voci critiche e delle minoranze in Germania a seguito della risoluzione anti-BDS del parlamento.

La loro dichiarazione congiunta afferma: “Invocando questa risoluzione, le accuse di antisemitismo vengono utilizzate in modo improprio per mettere a tacere voci importanti e distorcere le posizioni critiche”. Pochi giorni dopo, più di 1.000 artisti e accademici hanno firmato una lettera aperta a sostegno della protesta delle istituzioni culturali.

In un momento in cui le eredità coloniali sono sempre più messe in discussione, discutere di questo particolare esempio di colonialismo in corso sta invece diventando tabù. Ma non è mai stato più urgente: la situazione per i palestinesi che vivono sotto l’apartheid e l’occupazione peggiora di settimana in settimana.

Dovremmo essere tutti allarmati da questo nuovo maccartismo. Gli artisti, come tutti i cittadini, devono essere liberi di parlare apertamente e intraprendere azioni significative, inclusi boicottaggi su questioni di principio, contro i sistemi di ingiustizia. Se lasciato incontrastato, il silenziamento del dissenso e l’emarginazione dei gruppi minoritari non si fermerà ai palestinesi e a coloro che li sostengono.

Brian Eno è un musicista, artista, compositore e produttore

Traduzione di Flavia Donati

da Palestinaculturalibertà




Il cantante Assaf è l’ultima vittima della guerra contro la cultura palestinese

Ramzi Baroud

11 gennaio 2021- ArabNews

Perché le autorità israeliane odiano il cantante palestinese Mohammed Assaf? Avi Dichter, parlamentare della Knesset nel partito di destra Likud, ha annunciato questo mese che sarà revocato il permesso speciale di Assaf per entrare nella Cisgiordania occupata.
Assaf, originario di Gaza, ora vive con la sua famiglia negli EAU [Emirati Arabi Uniti, ndtr.]. È diventato una celebrità nel 2013 quando ha vinto il talent show “
Arab Idol”. La sua performance vincente della canzone “Raise Your Keffiyeh” ha suscitato un raro momento di unità in tutte le comunità palestinesi. Mentre pubblico, giudici e milioni di arabi ballavano con lui, Assaf ha conquistato il centro della scena a Beirut, offrendo alla cultura palestinese di dar nuovamente prova del suo valore come strumento politico che non può essere ignorato.
Da allora, Assaf ha cantato di tutto quello che è palestinese: dalla Nakba, la catastrofica perdita della patria palestinese, all’intifada e al dolore di Gaza, a ogni altro simbolo culturale palestinese.
Nato e cresciuto nella Striscia di Gaza, ha sperimentato in prima persona l’occupazione militare israeliana, parecchie guerre terribili e, naturalmente, l’assedio tuttora in corso. Entrambi i genitori sono rifugiati, la madre viene da Beit Daras [città a nord est di Gaza svuotata dei suoi abitanti dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.] e il padre da Beir Al-Saba [l’attuale Be’er Sheva, principale città del Negev, ndtr.]. L’abilità del giovane di andare oltre il doloroso vissuto della sua famiglia e restare ciononostante dedito ai valori culturali della sua società, merita alcune riflessioni e molte lodi.
L’annuncio di Dichter che ad Assaf sarà impedito di ritornare in patria non è così scandaloso come potrebbe sembrare. La guerra di Israele contro la cultura palestinese è vecchia quanto Israele stesso.

Negli ultimi settant’anni, Israele ha dimostrato la sua capacità di sconfiggere militarmente i palestinesi e persino interi eserciti arabi e inoltre, con l’aiuto dei suoi benefattori occidentali, è riuscito a dividere i palestinesi in gruppi rivali, spezzando nel contempo l’unita araba sulla Palestina. I palestinesi sono stati divisi geograficamente e isolati in tanti spazi ridotti nella speranza che ogni collettività avrebbe poi sviluppato aspirazioni diverse basate su priorità politiche completamente differenti. Di conseguenza i palestinesi sono stati assediati a Gaza, trattenuti in zone segregate in Cisgiordania e Gerusalemme Est, in comunità economicamente marginalizzate all’interno di Israele e dispersi nella “shatat” (diaspora).
Persino i palestinesi della diaspora, alcuni diventati più volte di seguito rifugiati, sopravvivono in contesti politici su cui hanno pochissimo controllo. I palestinesi dell’Iraq, per esempio, si sono trovati a dover fuggire all’inizio dell’invasione americana di quel Paese nel 2003; la stessa cosa è successa prima in Libano e poi in Siria.

I continui tentativi israeliani miranti a distruggere la Palestina si sono anche spostati dalla sfera fisica a quella virtuale, facendo pressioni per censurare le voci palestinesi sui social e persino rimuovendo dai menù delle linee aeree i riferimenti alla Palestina.
Naturalmente niente di tutto ciò avviene per caso, dato che i leader israeliani capiscono che la distruzione della Palestina, tangibile e presente, deve essere accompagnata dalla distruzione dell’idea palestinese, l’insieme di valori culturali e politici che garantiscono la sua coesione e continuità nelle menti di tutti i palestinesi, ovunque essi siano.
Dato che la cultura si basa su una miriade di forme di espressione, Israele ha dedicato molta energia e molte risorse a eliminare espressioni culturali palestinesi che permettono alla Palestina di esistere, nonostante le divisioni politiche, le divisioni fra arabi e la frammentazione geografica. Ci sono numerosi esempi che dimostrano ampiamente l’ossessione della dirigenza israeliana per sconfiggere la cultura palestinese. Come se l’obliterazione fisica della Palestina nel 1948 non fosse abbastanza, i politici israeliani inventano costantemente nuovi modi per rimuovere ogni rimanente simbolo di cultura palestinese e araba.
Nel 2009, per esempio, il governo di destra israeliano ha avviato il processo per cambiare i nomi dall’arabo all’ebraico su migliaia di cartelli stradali. E nel 2018 la “legge dello Stato-Nazione”, apertamente razzista, ha degradato lo status della lingua araba.
Ma questi esempi sono stati solo l’inizio della guerra israeliana contro la cultura palestinese. I fondatori di Israele erano consci dei pericoli che la cultura palestinese poneva per la sua capacità di unificare il popolo palestinese dopo la pulizia etnica di circa due terzi della popolazione dalla loro patria storica.

Una lettera ufficiale mandata a Yitzhak Gruenbaum, il primo ministro degli Interni israeliano, gli ordinava di cambiare i nomi di villaggi e regioni palestinesi recentemente spopolati con alternative in ebraico. “I nomi tradizionali devono essere sostituiti dai nuovi … dato che, in una anticipazione del rinnovamento dei nostri giorni come erano anticamente, per vivere la vita di un popolo sano con le sue radici nella terra del proprio Paese, noi dobbiamo cominciare con la fondamentale ebraicizzazione della sua carta geografica,” affermò. Subito dopo, fu creata una commissione governativa con il compito di cambiare nome a tutto ciò che era arabo palestinese.

Un’altra lettera, scritta nell’agosto 1957 da un funzionario del ministero degli Esteri israeliano, sollecitava il Dipartimento delle Antichità a velocizzare la distruzione delle case palestinesi svuotate durante la Nakba. “Le rovine dei villaggi e dei quartieri arabi o gli isolati di edifici che sono rimasti vuoti dal 1948 risvegliano connessioni sgradevoli che causano considerevole danno politico,” scrisse. “Devono essere spazzati via.”

Per Israele, cancellare dalla memoria la Palestina e strappare il popolo palestinese dalla storia della loro patria è sempre stata un’impresa di valore strategico. Spostiamoci velocemente all’oggi e la macchina ufficiale israeliana resta dedita alla stessa missione coloniale. L’accordo firmato nel 2016 fra il governo israeliano e Facebook per porre fine alla “istigazione ” palestinese online ha lo stesso obiettivo: zittire la voce del popolo palestinese.
La cultura palestinese è stata molto utile alla lotta del popolo palestinese. Nonostante l’occupazione israeliana e l’apartheid, gli ha dato un senso di continuità e coesione, tenendolo legato ad un senso collettivo di identità.
L’annuncio di Israele che vieterà a un cantante palestinese di ritornare e quindi di esibirsi per i palestinesi che vivono sotto occupazione non è, dal punto di vista israeliano, per niente scandaloso. È un altro tentativo di interrompere il flusso naturale della cultura palestinese che, nonostante la perdita della Palestina stessa, è forte e concreto, come sempre lo è stato.

  • Ramzy Baroud è giornalista e direttore di ‘The Palestine Chronicle’. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons[Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane] (Clarity Press, Atlanta).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’espulsione di palestinesi a Sheikh Jarrah è parte della politica israeliana

Linah Alsaafin

20 novembre 2020 – Al Jazeera

La minaccia di espulsione dalle proprie case incombe sulla testa di almeno una decina di famiglie palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah, quartiere della Gerusalemme est occupata, paralizzando ogni progetto per il futuro.

Ad ottobre il tribunale israeliano di Gerusalemme ha sentenziato di espellere 12 delle 24 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah e di consegnare le loro case a coloni ebrei israeliani. Il tribunale ha anche stabilito che ogni famiglia deve pagare ai coloni 70.000 shekel (circa 17.000 euro) di spese processuali.

Alle famiglie sono stati concessi 30 giorni per presentare appello, ma la maggioranza ha espresso scarse speranze in una sentenza a proprio favore, affermando che il sistema giudiziario israeliano non è altro che uno strumento della politica di occupazione israeliana di espulsione forzata e cancellazione della presenza palestinese a Gerusalemme.

Dall’ordine di espulsione abbiamo vissuto con il timore giornaliero di non sapere quando l’esercito israeliano arriverà e ci caccerà dalle nostre case,” dice Ahmad Hammad, un abitante di Sheikh Jarrah.

Tutti i miei ricordi sono qui. Sono nato qui e mio padre, le mie zie e zii, i miei nonni hanno vissuto in questa casa.”

Una macchina coloniale ben oliata”

Sheikh Jarrah, che si trova alle falde del Monte Scopus, subito a nord della Città Vecchia, ospita 3.000 palestinesi, tutti rifugiati che erano stati espulsi dalle loro case in altre parti della Palestina storica durante la Nakba [la Catastrofe in arabo, la pulizia etnica ad opera delle forze sioniste, ndtr.] nel 1948.

Il quartiere è una giustapposizione di zone ricche e povere, sede della Colonia Americana [fondata nel 1881 da membri di una società utopica cristiana, ndtr.] e degli hotel Ambassador. Ma la parte in cui vivono i rifugiati e i loro discendenti è segnata da strade non asfaltate e da case che sono in rovina a causa del fatto che il Comune di Gerusalemme impedisce ogni tipo di lavoro di ristrutturazione.

I rifugiati, 28 famiglie cacciate dalle loro case da Israele, poterono risistemarsi a Sheikh Jarrah nel 1956, dopo che la Giordania, che aveva un mandato sulla parte orientale di Gerusalemme, vi costruì case popolari per loro. Un accordo tra le Nazioni Unite e la Giordania stabiliva che le famiglie avrebbero ricevuto le case in cambio della rinuncia alla loro condizione di rifugiati con l’agenzia ONU per i rifugiati e che dopo tre anni il governo giordano avrebbe trasferito il titolo di proprietà alle famiglie.

Tuttavia ciò non avvenne e nel 1967 Israele si impossessò di Gerusalemme est.

Secondo Fayrouz Sharqawi, direttore della mobilitazione globale di “Grassroots Jerusalem” [Gerusalemme di base, associazione della società civile gerosolimitana, ndtr.], è “assurdo” basarsi sul sistema giudiziario israeliano per proteggere i diritti dei palestinesi.

Questo sistema è parte integrante dello Stato colonialista sionista, definito ‘Stato ebraico’, e di conseguenza opprime, spoglia ed espelle sistematicamente i palestinesi,” dice ad Al Jazeera.

Sentenze che sospendono momentaneamente gli ordini di espulsione o di demolizione servono solo ad Israele, in quanto creano l’illusione che sia uno Stato democratico in cui i tribunali ritengono responsabili il governo o l’esercito e impediscono le violazioni dei diritti dei palestinesi,” aggiunge.

Sharqawi dice che persino nel migliore degli scenari più di 70 anni di occupazione dimostrano che le decisioni dei tribunali rimandano ma raramente annullano questi ordini, che prima o poi sono messi in pratica. “I palestinesi, soprattutto a Gerusalemme, devono affrontare una macchina colonialista ben oliata: l’esercito e il sistema burocratico e giudiziario israeliani, che lavorano congiuntamente per la spoliazione ed espulsione dei palestinesi,” afferma.

Le espulsioni sono parte dell’“equilibrio demografico” israeliano

Per quanto riguarda Hammad, egli conosce fin troppo bene la situazione.

Non sono ottimista riguardo all’appello,” afferma. “Sento che ci vorrà più tempo, ma solo perché accada l’inevitabile. Abbiamo tutti i documenti e le prove necessari,” aggiunge. “Ma la sensazione prevalente è di timore e di vedere le nostre case tolte e assegnate ai coloni.”

Dagli anni ’70 il governo israeliano ha lavorato per mettere in pratica a Gerusalemme un “equilibrio demografico” con un rapporto di 70 a 30, limitando la popolazione palestinese in città al 30% o meno.

Questo progetto urbano è stato messo in atto attraverso una serie di politiche come la confisca di terreni, le espulsioni e la colonizzazione dei quartieri palestinesi.

Il 26 novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha autorizzato l’espulsione di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa, nel quartiere di Silwan di Gerusalemme est occupata, a favore dell’organizzazione di coloni israeliani “Ateret Cohanim”[organizzazione che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme est, ndtr.].

Gli 87 abitanti palestinesi di Batan al-Hawa hanno vissuto nelle loro case dal 1963. Dopo aver iniziato un procedimento giudiziario contro gli abitanti, “Ateret Cohanim” ha insediato 23 famiglie israeliane, pesantemente protetti, tra gli 850 abitanti palestinesi.

Altre organizzazioni di coloni, alcune finanziate da singoli cittadini statunitensi, includono [quella del quartiere religioso ebraico di] Nahalat Shimon e l’Israel Land Fund [Fondo per la Terra di Israele, storica organizzazione sionista che si occupa dell’acquisto e dello sfruttamento a favore degli ebrei delle terre in Palestina, ndtr.].

Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel solo 2020 nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, sono state demolite 689 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

Indiscutibilmente politico”

Per Mohammed al-Kurd, poeta e scrittore di Sheikh Jarrah che attualmente studia a New York, le evizioni di palestinesi, che descrive come “espulsioni forzate”, non sono solo un evento isolato.

È il percorso di un movimento di spoliazione duratura,” dice ad Al Jazeera.

Dobbiamo sempre costantemente ricordare alla gente che non si tratta solo di qualche povera famiglia palestinese (che) per qualche bizzarra ragione giuridica perde la sua proprietà. Ciò riguarda centinaia di migliaia di palestinesi in tutta Gerusalemme e nelle città vicine, nella Palestina in generale, che devono affrontare le feroci zanne di un sistema giudiziario concepito intrinsecamente per cacciarli.”

Al-Kurd aveva solo 11 anni quando nel novembre 2009 alcuni coloni ebrei occuparono con la forza metà della sua casa e descrive il fatto di aver dovuto condividerla con “occupanti abusivi con accento di Brooklyn” come “insopportabile, intollerabile (e) terribile.”

Si sono piazzati nella nostra casa, tormentandoci, maltrattandoci, facendo il possibile non solo per obbligarci ad andarcene dalla nostra metà della casa ma spingendo anche i nostri vicini a lasciare le proprie case come parte di un tentativo di annullare totalmente la presenza palestinese a Gerusalemme,” dice.

Haddad, cresciuto con al-Kurd, afferma che è difficile pensare e pianificare il futuro.

Non so quello che succederà se ci cacciano,” dice. “Questa sentenza è arrivata in un momento in cui la vita è arrivata a un punto morto a causa della pandemia da coronavirus.

Andiamo avanti alla giornata,” continua. “Anche se decidessimo di piantare una tenda fuori dalla nostra casa e viverci, il governo israeliano non ce lo consentirebbe.”

Al-Kurd sostiene che la sua famiglia non può permettersi di affittare un posto a Gerusalemme e l’unica alternativa sarà andare nella Cisgiordania occupata, dove perderanno la residenza a Gerusalemme e non potranno ritornare in città.

Questo è il problema più generale qui,” spiega. “Sono le demolizioni di case, le espulsioni forzate, le evizioni, ma è anche un problema psicologico, perdere la possibilità di rientrare a Gerusalemme.

Israele ha fatto in modo che questo sembri una specie di problema giuridico, ma non lo è, è indiscutibilmente politico.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli ultimi gesti di Trump verso Israele

Asa Winstanley

21 novembre 2020 – Middle East Monitor

All’inizio di quest’anno, in queste pagine, ho sostenuto che in un modo o nell’altro stesse per realizzarsi l’annessione della Cisgiordania.

La Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituivano il restante 22% della Palestina storica lasciata ai palestinesi nel 1949, dopo il cessate il fuoco tra Israele e gli Stati arabi.

Tra il 1947 e il 1949 le milizie sioniste e poi l’appena costituito esercito israeliano (il precedente era confluito in quest’ultimo) espulsero con la forza circa 800.000 palestinesi.

Questo intervento massiccio di pulizia etnica – la Nakba – fu l’atto fondante dello Stato di Israele. Era l’unico modo per istituire uno Stato ebraico in un Paese la cui popolazione, solo due generazioni prima, era composta per il 95% da arabi palestinesi originari del luogo.

Il popolo ebraico è sempre stato una minoranza in Palestina. Fu solo dopo l’intervento dell’impero britannico, dal 1917 in poi, che nel Paese venne imposto il progetto coloniale del movimento sionista.

Un risultato dell’espulsione illegale dei palestinesi da parte di Israele nel 1948 fu che per la prima volta era stata illegalmente istituita nel Paese una maggioranza ebraica, attraverso l’utilizzo di una violenza estrema e dell’oppressione coloniale.

Oggi quella fugace maggioranza ebraica è scomparsa da tempo. I palestinesi rappresentano ancora una volta la maggioranza tra il fiume (Giordano) e il mare.

Nel 1967 Israele scatenò un’altra violenta guerra di aggressione contro il popolo palestinese e i vicini Stati arabi, occupando illegalmente il restante 22% del territorio della Palestina. E’ seguita un’altra ondata di espulsioni forzate di palestinesi.

Da allora, nei decenni successivi, Israele ha gradualmente annesso sempre più territori palestinesi. I centri abitati palestinesi vengono distrutti, rasi al suolo con i bulldozer e cancellati, in modo che sulle rovine possano essere costruite, per soli ebrei, colonie, “parchi naturali” e le strade dell’apartheid.

Israele ha sempre operato secondo il principio del “il massimo di terre, il minimo di arabi”.

È per questo motivo che Israele ha potuto annettere solo con gradualità la Cisgiordania.

Dal punto di vista sionista c’è poco da guadagnare nel rimuovere i palestinesi dalla loro terra a meno che non ci siano nuovi coloni israeliani pronti a prendere il loro posto. Altrimenti i palestinesi potrebbero gradualmente ritornare.

Nel corso di oltre 123 anni il popolo palestinese si è ostinatamente rifiutato di ammettere di essere un popolo sconfitto e quindi, grazie solo alla sua forza di volontà collettiva di resistere, è rimasto imbattuto. Vengono uccisi ed espulsi, ma continuano a tornare.

Anche la maggior parte delle comunità ebraiche del mondo si è ostinatamente rifiutata di piegarsi ai dettami del sionismo. I più si sono rifiutati di lasciare i propri paesi nativi per realizzare un illusorio “ritorno” nella Palestina, al fine di diventare coloni e mandar via, nell’operazione, le persone del luogo.

Il progetto sionista prospettava la famigerata doppia pratica della “conquista della terra” e della “conquista del lavoro”.

Non solo i lavoratori palestinesi furono espulsi dalle loro terre dalle milizie sioniste (anche nel periodo coloniale pre-Nakba), ma vennero loro anche negati i posti di lavoro – una delle ragioni principali per l’esplosione della rivolta araba palestinese iniziata nel 1936 contro l’occupazione britannica e i coloni europeo-sionisti.

“La conquista della terra” era coniugata all’interno dell’ideologia “laburista-sionista” con il concetto razzista del “lavoro ebraico” – il che significa che solo gli ebrei potevano lavorare e vivere nei nuovi insediamenti coloniali ebraici. La federazione sindacale razzista israeliana Histadrut escluse gli arabi palestinesi fino alla fine degli anni ’50.

Ma ci fu anche una terza “conquista” meno conosciuta – quella che Theodor Herzl [scrittore e uomo politico ungherese fondatore del sionismo, ndtr.] al secondo congresso sionista del 1898 chiamò “la conquista delle comunità“.

Ciò ha significato un percorso attraverso le istituzioni delle organizzazioni rappresentative delle comunità ebraiche europee, con l’obiettivo di rilevarle per conto del movimento sionista. Questo processo ha richiesto molti lunghi decenni, ma alla fine ha avuto un discreto successo.

Questo è il motivo per cui oggi nel Regno Unito il Consiglio dei deputati degli ebrei britannici (che era antisionista fino al 1939) si sente in grado di affermare senza vergogna di essere quasi l’unico rappresentante legittimo di un’entità apparentemente monolitica che ama definire “la comunità ebraica” – nonostante il fatto che consideri come suo ruolo primario nella vita pubblica quello di “fare spudoratamente pressioni a favore di Israele”.

Questo è il contesto storico di riferimento attraverso cui comprendere il cosiddetto piano di pace di Trump e il complotto israeliano per annettere gran parte della Cisgiordania.

All’inizio di quest’anno quei piani sembravano imminenti. Ma c’è stato un cambiamento di opinione e non sono stati ritenuti politicamente vantaggiosi, almeno per il momento.

Ma ora, negli ultimi mesi della presidenza Trump, sembra che Israele abbia un’altra finestra per portare avanti la sua visione massimalista ed espansionista.

Il segretario di Stato di Trump Mike Pompeo – un ex direttore della CIA – ha annunciato questa settimana che tutta una serie di organizzazioni di attivisti per i diritti umani, gruppi che organizzano campagne e sostengono i diritti umani palestinesi, sarebbero state decretate “antisemite”, semplicemente per il presunto crimine di opporsi agli abusi israeliani e al razzismo di Israele.

Sarebbe un grave ultimo saluto, anche se è improbabile che regga, né davanti al tribunale dell’opinione pubblica né di quello autentico.

Trump userà questa finestra anche per spingere Israele a mettere in atto i suoi piani per annettere gran parte della Cisgiordania? Alcuni analisti filo-israeliani pensano che sia una possibilità concreta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’amministrazione statunitense uscente definisce il BDS “antisemita”

Tamara Nassar

19 novembre 2020 – ELECTRONIC INTIFADA

Giovedì il segretario di Stato Mike Pompeo ha formalmente etichettato il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi come “antisemita” e ha promesso che l’amministrazione statunitense uscente lo combatterà.

Questa è l’ultima violazione della libertà di parola da parte del governo degli Stati Uniti nel suo tentativo di reprimere il sostegno ai diritti dei palestinesi.

“Come abbiamo chiarito, l’antisionismo è antisemitismo”, ha detto Pompeo, equiparando la critica nei confronti di Israele e della sua ideologia politica razzista al sionismo da un lato, al fanatismo contro gli ebrei dall’altro.

Gli Stati Uniti sono “impegnati a contrastare la campagna globale del BDS in quanto manifestazione di antisemitismo”, ha affermato Pompeo.

Giovedì, a Gerusalemme, in una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, egli ha inoltre definito il BDS un “cancro”.

Pompeo ha affermato che l’inviato del Dipartimento di Stato per l’antisemitismo avrebbe “identificato le organizzazioni che si impegnano o in altro modo sostengono” il BDS per consentire al Dipartimento di Stato di interrompere qualsiasi finanziamento governativo.

Giovedì Amnesty International ha dichiarato che gli attacchi mirati di Pompeo contro i gruppi “che, in quanto antisemiti, utilizzano strumenti pacifici, come il boicottaggio, per porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i palestinesi, violano la libertà di espressione e sono un regalo per chi cerca di mettere a tacere, perseguitare, intimidire e opprimere coloro che difendono i diritti umani in tutto il mondo”.

Le organizzazioni della società civile palestinese hanno lanciato la campagna BDS nel 2005 per fare pressione su Israele affinché rispettasse i diritti dei palestinesi e si attenesse al diritto internazionale. Si basa sul modello della campagna che ha contribuito a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

Il movimento BDS si oppone a tutte le forme di razzismo e fanatismo, compreso l’antisemitismo, e sostiene l’uguaglianza come questione di principio.

Il Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio, il gruppo direttivo della campagna globale del BDS, ha denunciato il verificarsi della “fanatica alleanza Trump-Netanyahu” che “continua a consentire e normalizzare la supremazia bianca e l’antisemitismo negli Stati Uniti e nel mondo, diffamando contemporaneamente il BDS.”

Omar Shakir di Human Rights Watch ha affermato che l’amministrazione Trump “sta compromettendo la lotta contro l’antisemitismo equiparando quest’ultimo alle forme di boicottaggio pacifico”.

Vendita delle merci dei coloni

Pompeo ha anche dichiarato che le merci prodotte nelle colonie insediate sulla terra palestinese occupata devono essere etichettate come “Made in Israel” – nascondendo che sono state prodotte in colonie costruite nel territorio occupato in violazione del diritto internazionale.

Ciò verrà applicato a tutti i prodotti dell’Area C – il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo militare israeliano secondo gli accordi di Oslo degli anni ’90. È l’area in cui si trova la maggior parte delle colonie israeliane.

Questo avviene nel momento in cui quattro senatori repubblicani hanno scritto questa settimana una lettera al presidente Donald Trump chiedendogli di cambiare la politica doganale degli Stati Uniti per consentire alle merci prodotte nelle colonie di essere etichettate come “Made in Israel”.

Pompeo ha aggiunto che le merci prodotte nelle aree della Cisgiordania occupata nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese saranno etichettate come prodotte in “Cisgiordania”.

Pompeo ha anche affermato che gli Stati Uniti “non accetteranno più” l’etichettatura congiunta dei prodotti della Cisgiordania occupata e di Gaza, poiché i due territori “sono separati politicamente e amministrativamente e devono essere trattati di conseguenza”.

Queste misure possono essere interpretate come un ulteriore riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell’annessione de facto del territorio palestinese da parte di Israele, mentre negano ai palestinesi qualsiasi riconoscimento che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscano un’unica entità politica.

Il Comitato nazionale del BDS ha definito la fusione intenzionale di antisionismo e antisemitismo da parte del Dipartimento di Stato un tentativo “revisionista e fraudolento” di mettere a tacere non solo i sostenitori del BDS, ma anche le organizzazioni per i diritti umani – come Human Rights Watch – che non sostengono il BDS ma si oppongono al commercio dei prodotti delle colonie.

Il vino delle colonie

Giovedì in un tweet Pompeo ha anche attaccato la politica della UE, scarsamente applicata, volta a richiedere che le merci delle colonie israeliane siano etichettate come tali.

A quanto pare Pompeo avrebbe poco dopo cancellato il tweet per poi ripubblicarlo senza l’immagine, originariamente inclusa, di quello che sembrava il villaggio palestinese di Mukhmas [a nord-est di Gerusalemme, nella Cisgiordania centrale, ndtr.]

Ciò è avvenuto quando Pompeo e l’ambasciatore statunitense David Friedman hanno visitato le Cantine Psagot, un’azienda coloniale che opera su terre palestinesi occupate e rubate.

“Oggi ho pranzato nella pittoresca cantina Psagot”, ha scritto Pompeo.

“Sfortunatamente, Psagot e altre aziende sono state prese di mira dalle dannose iniziative della UE riguardo l’etichettatura, le quali agevolano il boicottaggio delle aziende israeliane”.

Funzionari statunitensi avevano già visitato, nel corso dell’amministrazione Trump, i territori occupati.

La sosta di Pompeo presso le cantine Psagot era tuttavia chiaramente intesa a fornire un sostegno di alto profilo alle colonie illegali di Israele.

Il vino prodotto dalle Cantine Psagot è ottenuto da uve provenienti da diverse colonie della Cisgiordania.

Le cantine sono costruite su un terreno di proprietà dei palestinesi della vicina città di al-Bireh [adiacente a Ramallah, in Cisgiordania, ndtr.], i cui abitanti hanno protestato contro la visita di Pompeo.

Alla stregua di altri colonizzatori europei Israele ha cercato a lungo di vendere all’interno del mercato vinicolo internazionale vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati, come ha scritto recentemente il professore della Columbia University Joseph Massad [docente di politica araba moderna e storia intellettuale, ndtr.].

Il vino prodotto sulle alture del Golan siriano occupate sarà presto in vendita anche negli Emirati Arabi Uniti.

Durante la sua visita Pompeo ha anche esaltato la costruzione della cosiddetta Città di David, un parco a tema costruito nel quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, da dove Israele sta espellendo con la forza i residenti palestinesi.

Giovedì Pompeo ha inoltre visitato il sito battesimale vicino al fiume Giordano, al confine della Cisgiordania occupata con la Giordania.

Pompeo aveva anche in programma una sosta sulle alture del Golan. Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sull’area nel marzo 2019, in barba al diritto internazionale.

Rafforzamento dell’alleanza anti-Iran

La visita di Pompeo ha coinciso con quella del ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al Zayani, arrivato mercoledì a Tel Aviv per la sua prima visita ufficiale da quando, a settembre, il suo paese ha accettato di normalizzare i rapporti con Israele.

Al Zayani si è unito a Pompeo e Netanyahu a Gerusalemme per una conferenza stampa congiunta.

Al Zayani ha annunciato che Israele e Bahrein si scambieranno presto le ambasciate. Dal prossimo mese, ha aggiunto, israeliani e bahreiniti potranno ottenere visti elettronici e presto potranno viaggiare con voli regolari tra i due paesi.

Gli accordi di normalizzazione tra gli stati arabi e Israele fanno parte degli sforzi degli Stati Uniti per costruire un’alleanza anti-Iran tra Israele e gli stati del Golfo sotto la supervisione americana.

Pompeo si è vantato del fatto che i recenti accordi tra Israele e gli Stati arabi abbiano reso l’Iran “sempre più isolato”, con la sua influenza “in declino”.

Ciò avviene mentre l’amministrazione Trump intensifica le sanzioni economiche contro l’Iran nel tentativo di rendere irreversibile, dopo che Joe Biden lo avrà sostituito come presidente, il ritiro di Trump dall’accordo nucleare del 2015.

Trump, ha riferito il New York Times martedì, ha persino preso in considerazione di bombardare il principale impianto nucleare iraniano nel corso delle ultime settimane della sua presidenza.

Secondo quanto riferito, dei consiglieri, tra cui Pompeo e il vicepresidente Mike Pence, lo avrebbero dissuaso da ciò.

L’accordo del 2015 raggiunto dall’amministrazione Obama e da altri stati ha visto l’Iran limitare volontariamente il suo programma di produzione di energia nucleare in cambio della revoca delle sanzioni economiche.

Israele ha incessantemente fatto pressioni per intensificare la guerra economica contro l’Iran, che causa sofferenza ai normali cittadini iraniani e devasta l’economia del paese nel corso di una pandemia.

Mercoledì Pompeo ha strombazzato la campagna dell’amministrazione contro l’Iran “Massima pressione”.

“Oggi l’economia iraniana deve affrontare una crisi valutaria, un aumento del debito pubblico e un aumento dell’inflazione”, ha affermato Pompeo. Ha ammonito sulle “conseguenze dolorose” per gli stati e le società che sfidano le sanzioni statunitensi.

Lettera del Congresso

Prima dell’arrivo di Pompeo in Israele, il membro del Congresso Mark Pocan si è fatto promotore di una lettera con la richiesta al Segretario di Stato di condanna delle recenti demolizioni di case palestinesi da parte di Israele.

Co-firmata da altri 40 membri del Congresso, la lettera si riferisce alla demolizione, il 3 novembre, della comunità di Khirbet Humsa [villaggio nella parte settentrionale della valle del Giordano, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

La distruzione ha lasciato più di 70 palestinesi senza casa, inclusi 41 bambini – la più grande demolizione di questo tipo da molti anni.

Il membro del Congresso Ilhan Omar, una dei cofirmatari, ha definito la demolizione “un crimine grave” e ha affermato che gli Stati Uniti “non dovrebbero finanziare la pulizia etnica”.

La lettera chiede se siano stati utilizzati per la demolizione strumenti forniti dagli americani – il che Omar aveva precedentemente ammonito sarebbe stato illegale.

Chiede inoltre con forza che negli ultimi due mesi del mandato di Pompeo, “le violazioni dei diritti umani e le violazioni del diritto internazionale continuino ad essere respinte con la forza dal governo americano”.

È molto chiaro, tuttavia, che Pompeo è determinato a utilizzare il suo tempo restante per incoraggiare e premiare il maggior numero possibile di violazioni da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)