La guerra di Israele contro la storia palestinese

Jonathan Cook

7 settembre 2020 – Chronique de Palestine

Lo Stato utilizza diversi mezzi per dare l’impressione che la sua politica nei confronti dei palestinesi sia motivata da preoccupazioni per la sicurezza.

Quando nel 2002 l’attore palestinese Mohammed Bakri realizzò un documentario su Jenin – facendo le riprese immediatamente dopo che l’esercito israeliano si era scatenato nella cittadina cisgiordana, lasciando una scia di morte e distruzione – scelse per la scena di apertura un protagonista insolito: un giovane palestinese muto.

Quando l’esercito israeliano rase al suolo il vicino campo profughi terrorizzando la sua popolazione, Jenin venne isolata dal mondo per quasi tre settimane.

Il film di Bakri, ‘Jenin’, mostra il giovane che si aggira in silenzio tra gli edifici in rovina, servendosi del proprio corpo per mostrare dove i soldati israeliani avevano ucciso dei palestinesi e dove i bulldozer avevano demolito delle case, che a volte erano crollate sui loro abitanti.

Il messaggio generale di Bakri non era affatto difficile da capire: quando si tratta della propria storia, i palestinesi non hanno voce in capitolo. Sono testimoni silenziosi della propria sofferenza ed oppressione e di quella del loro popolo.

Ironia vuole che lo stesso Bakri abbia subito un analogo destino dopo l’uscita del film, 18 anni fa. Oggi a malapena ci si ricorda del suo film o degli atroci crimini che lui aveva filmato, se non per la battaglia legale senza fine per impedire al film di essere proiettato.

Da allora Bakri è perseguito dai tribunali israeliani, accusato di diffamazione nei confronti dei soldati che hanno compiuto l’attacco. Sta pagando un alto prezzo personale. Minacce di morte, perdita del lavoro e infinite spese legali, che lo hanno praticamente mandato in rovina. La sentenza dell’ultimo processo contro di lui, intentato questa volta dal procuratore generale di Israele, è attesa nelle prossime settimane.

Bakri è una vittima particolarmente conosciuta della guerra che Israele conduce da tempo contro la storia palestinese. Ma ci sono moltissimi altri esempi.

Da decenni parecchie centinaia di palestinesi residenti nel sud della Cisgiordania lottano contro l’espulsione, poiché i rappresentanti israeliani li definiscono “squatters” [occupanti abusivi]. Secondo Israele i palestinesi sono dei nomadi che incautamente costruiscono case su terre di cui si sono appropriati all’interno di una zona di tiro dell’esercito.

Le confutazioni degli abitanti furono ignorate fino a quando la verità non è stata recentemente riesumata dagli archivi di Israele.

La presenza di queste comunità palestinesi infatti compare su carte geografiche precedenti l’esistenza di Israele. Documenti ufficiali israeliani presentati in tribunale il mese scorso mostrano che Ariel Sharon, generale diventato uomo politico, ha concepito una politica consistente nello stabilire delle zone di tiro (dell’esercito) nei territori occupati, per giustificare l’espulsione in massa di palestinesi, come le comunità sulle colline di Hebron.

Questi abitanti hanno la fortuna che le loro rivendicazioni sono state ufficialmente confermate, anche se comunque sono in balia di una giustizia aleatoria esercitata da un tribunale dell’occupante israeliano.

Attualmente gli archivi israeliani sono posti sotto sigillo proprio per impedire il rischio che i documenti possano confermare la storia palestinese, da molto tempo esclusa ed ignorata.

Il mese scorso il Controllore di Stato di Israele, un organo di sorveglianza, ha rivelato che oltre un milione di documenti archiviati erano ancora inaccessibili, benché la data per la loro declassificazione sia scaduta. Tuttavia alcuni di essi sono trapelati tra le maglie della rete.

Per esempio, gli archivi hanno confermato alcuni dei massacri su grande scala di civili palestinesi compiuti nel 1948, l’anno in cui Israele fu creato attraverso l’espulsione dei palestinesi dalla loro patria.

Durante uno di quei massacri a Dawaymeh, vicino al luogo in cui oggi i palestinesi lottano contro l’espulsione dalla zona di tiro, furono uccisi a centinaia, anche se non opponevano alcuna resistenza, per spingere l’intera popolazione a fuggire.

Altri documenti hanno confermato le affermazioni palestinesi secondo cui Israele in quello stesso anno distrusse più di 500 villaggi palestinesi nel corso di un’ondata di espulsioni di massa, allo scopo di dissuadere i profughi dal ritornare.

Documenti ufficiali hanno anche smentito l’affermazione di Israele secondo cui esso avrebbe chiesto ai 750.000 rifugiati di tornare alle loro case. Di fatto, come rivelano gli archivi, Israele ha nascosto il proprio ruolo nella pulizia etnica del 1948 inventando una storia di copertura che sostiene che siano stati i dirigenti arabi ad ordinare ai palestinesi di fuggire.

La battaglia per sradicare la storia palestinese non si svolge solo nei tribunali e negli archivi. Inizia nelle scuole israeliane.

Un nuovo studio di Avner Ben-Amos, docente di storia all’università di Tel Aviv, mostra che gli alunni israeliani non imparano quasi niente di vero sull’occupazione, anche se molti di loro la metteranno presto in pratica in quanto soldati di un esercito che si pretende “morale”, che domina sui palestinesi.

Le carte nei manuali di geografia eliminano la cosiddetta “Linea verde”, cioè la frontiera che delimita i territori occupati, per presentare il Grande Israele da tempo sognato dai coloni. I corsi di storia e di educazione civica evitano qualunque trattazione dell’occupazione, della violazione dei diritti umani, del ruolo del diritto internazionale o delle leggi nazionali sul modello dell’apartheid, che trattano i palestinesi in modo differente dai coloni ebrei che vi vivono illegalmente accanto.

La Cisgiordania, invece che come tale, è conosciuta con i suoi nomi biblici di “Giudea e Samaria” e la sua occupazione nel 1967 è definita “liberazione”.

Purtroppo la cancellazione dei palestinesi e della loro storia viene riproposta all’estero da giganti informatici come Google e Apple.

I militanti della solidarietà con la Palestina lottano da anni per ottenere dalle due piattaforme che includano centinaia di comunità della Cisgiordania assenti dalle loro mappe, attraverso l’hashtag “#heresmyvillage” (#ecco il mio villaggio). Quanto alle colonie ebree illegali, hanno la priorità su queste mappe informatiche.

Un’altra campagna, “#Showthewall” (#mostrate il muro), preme sui giganti dell’alta tecnologia perché indichino sulle loro mappe il tracciato del muro israeliano di cemento e acciaio lungo 700 km., di fatto utilizzato da Israele per annettere parti del territorio palestinese occupato in violazione del diritto internazionale.

Ed il mese scorso delle associazioni palestinesi hanno lanciato un’altra campagna ancora, “#GoogleMapsPalestine”, che chiede che i territori occupati siano identificati come “Palestina” e non solamente come Cisgiordania e Gaza. L’ONU ha riconosciuto lo Stato di Palestina nel 2012, ma Google e Apple hanno rifiutato di farlo.

I palestinesi sostengono, a giusto titolo, che queste aziende riproducono il tipo di discriminazione dei palestinesi abituale nei manuali scolastici israeliani e che mantengono una “segregazione cartografica” che rispecchia le leggi di apartheid israeliane nei territori occupati.

I crimini dell’occupazione – demolizioni di case, arresto di militanti e di minori, violenze dei soldati ed espansione delle colonie – sono oggi documentati da Israele, come lo erano i suoi crimini precedenti.

Forse un giorno gli storici riesumeranno questi documenti dagli archivi israeliani e apprenderanno la verità, cioè che le politiche israeliane non erano motivate, come oggi pretende Israele, da preoccupazioni per la sicurezza, ma dalla volontà coloniale di distruggere la società palestinese e di spingere i palestinesi a lasciare la propria patria per far posto agli ebrei.

Le lezioni che i futuri studiosi impareranno non saranno diverse da quelle che hanno imparato i loro predecessori che hanno scoperto i documenti del 1948.

Ma in realtà non è necessario aspettare così tanti anni. Possiamo comprendere fin da ora quel che succede ai palestinesi, semplicemente rifiutando di contribuire a ridurli al silenzio. È tempo di ascoltarli.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale di giornalismo Martha Gellhorn. È l’unico corrispondente straniero che risiede in modo permamente in Israele (a Nazareth dal 2001). I suoi ultimi libri sono: “Israel and the clash of civilizations: Iraq, Iran and the paln to remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair” [Far sparire la Palestina: esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Il piano di annessione di Netanyahu è una finzione. L’apartheid è in atto da decenni

Richard Silverstein

24 giugno 2020 Middle East Eye

L’annessione è una finzione.

Non fraintendetemi: questo non significa che il proposito di annessione della Valle del Giordano da parte di Israele non causerà ulteriori espropriazioni ai palestinesi. Israele ruberà il 30% della terra riservata a uno Stato palestinese sulla base di precedenti proposte di pace fallite, causando ulteriore sofferenza ai palestinesi.

Ma questa particolare proposta di annessione, sulla quale il nuovo governo israeliano si è accordato nel suo programma di coalizione, rappresenta un diversivo, una distrazione dalla natura sistemica dell’espropriazione israeliana nei confronti dei palestinesi. Essa consente ai sionisti progressisti e alla comunità internazionale di focalizzare la loro attenzione sul come annullare questa grave ingiustizia, sollevandoli dalla responsabilità riguardo all’intero regime di apartheid sviluppato da Israele, sia all’interno che all’esterno della linea verde [linea di demarcazione fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti esistente dalla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 -1949 n.d.tr.].

Intolleranza religiosa

Dichiarazioni di leader ebrei britannici, membri del Congresso degli Stati Uniti, funzionari dell’Unione Europea ed esperti in diritti umani hanno ammonito sulle conseguenze dell’annessione. Hanno preso di mira il ventre molle, “moderato”, della coalizione di governo, i membri della Knesset del partito Blu e Bianco [partito di centro, ndtr.], dicendo loro con quanta riprovazione il mondo avrebbe guardato Israele se questa proposta fosse stata approvata.

Ma tutto questo lamentarsi dei progressisti distoglie da un male molto più profondo: un regime di suprematismo ebraico basato sull’intolleranza religiosa e sulla pulizia etnica.

Il problema con lo Stato israeliano non è legato ad una politica particolare, per quanto odiosa. Risale alle stesse fondamenta dello Stato e al pensiero dei suoi fondatori, in primis David Ben-Gurion. Mentre tra i primi leader sionisti esistevano alcune voci che cercavano l’integrazione, o almeno la coesistenza pacifica, con i loro vicini palestinesi, Ben-Gurion era un massimalista che nei suoi diari e lettere ha fatto propria la pulizia etnica molto prima di fondare lo Stato.

Il sine qua non dello Stato era per lui una maggioranza e la superiorità degli ebrei. Gli “arabi” avrebbero potuto rimanere all’interno dei confini della nuova Nazione, ma solo se avessero accettato la loro condizione di inferiorità.

Anche allora Ben-Gurion temeva così tanto la presenza palestinese che lui e la milizia Palmach [“compagnie d’attacco”, forze paramilitari fondate all’epoca del protettorato britannico, ndtr.] organizzarono e condussero il Piano Dalet, [“Piano D”, redatto durante la prima fase della guerra arabo-israeliana del 1948, ndtr.] che provocò la Nakba – l’espulsione di 750.000 palestinesi, in concomitanza con la fondazione di Israele nel 1948.

Le comunità palestinesi sopravvissute alla guerra rimasero sotto la legge marziale per due decenni, sebbene non rappresentassero alcuna minaccia per la sicurezza.

Bollire la rana

Come ebreo americano, sono cresciuto con il sionismo progressista. Mi è stato insegnato sin da piccolo che Israele era uno Stato ebraico e democratico. Mi è stato insegnato ad essere orgoglioso della coesistenza reciproca di quei due termini. Ma la componente religiosa dell’identità israeliana, come è stata definita, preclude la democrazia; non possono coesistere. Mi ci sono voluti decenni per rendermene conto.

Mentre sarebbe sconsigliato tentare di eliminare o reprimere la religione in uno Stato Israele-Palestina veramente democratico, la religione dovrebbe essere separata dalla governance politica se questo Stato dovesse mai diventare normale.

Le religioni dei cittadini ebrei e palestinesi di Israele rimarranno determinanti per loro e per le loro identità. Se praticate in modo appropriato, arricchirebbero il tessuto dello Stato senza pregiudicare un gruppo religioso o etnico rispetto a un altro. Ma l’attuale regime israeliano ha molto in comune con la repubblica islamica iraniana, il protettorato islamico dell’Arabia Saudita o i talebani afgani piuttosto che con la democrazia occidentale.

Uno degli aspetti astuti dell’espansionismo sionista è quello di perseguire i suoi obiettivi gradualmente, piuttosto che tutti in una volta. La povera rana non si rende conto di essere bollita nella pentola fino a quando non è troppo tardi, perché la fiamma aumenta la temperatura gradualmente e quasi impercettibilmente.

Pertanto, Netanyahu ha già rinunciato alla sua proposta originale di annettere l’intera Valle del Giordano. Ora si sta baloccando con un'”annessione leggera”, che comprenda le principali enclavi di colonie di Ariel, Maaleh Adumim e Gush Etzion, lasciando intatto il resto del territorio. Ciò nasconde il fatto che una volta che questi blocchi diverranno parte di Israele, il territorio circostante risulterà palestinese solo di nome; tutto ciò che rimarrà sarà circondato da recinzioni, strade e infrastrutture israeliane. E Israele potrebbe, in un secondo momento, annettere il resto.

L’unica cosa positiva

In un recente webinar su Middle East Eye, il professor Rashid Khalidi [noto storico americano-palestinese, ndtr.] ha descritto l’annessione come “in gran parte un diversivo”, osservando che essa è in corso in un modo o nell’altro dal 1967, con le leggi israeliane già applicate in tutti i territori occupati.

“Dobbiamo pensare in termini più ampi rispetto al linguaggio strettamente diplomatico che è stato utilizzato. Israele ha iniziato ad annettere, costruendo la realtà di uno Stato unico, dal 1967. Questo [attuale piano di annessione] è solo un piccolo passo nel processo”, ha detto Khalidi, osservando che la proposta più limitata di Netanyahu riguardante le tre enclavi di insediamenti coloniali equivale a una “farsa”.

“Dovremmo parlare in termini molto più essenziali dei problemi strutturali sistemici che sarà necessario affrontare se questo problema deve essere risolto su una base giusta ed equa”, ha affermato.

Se c’è un lato positivo nel piano di annessione, è che i sionisti progressisti, i quali una volta denunciavano il movimento di boicottaggio e chiunque etichettava Israele come uno Stato di apartheid, sono stati costretti a fare i conti con il fallimento della loro visione.

Benjamin Pogrund, attivista anti-apartheid sudafricano, che ha trascorso decenni a combattere l’idea che Israele sia uno Stato di apartheid, ha recentemente dichiarato in un’intervista: “Se annettiamo la Valle del Giordano e le aree coloniali, siamo un’apartheid. Punto. Non ci sono dubbi al riguardo.”

I bantustan sudafricani [enclavi di confinamento razziale del Sudafrica dell’era dell’apartheid, n.d.tr.] “erano semplicemente una forma più raffinata di apartheid per mascherare la realtà”, ha aggiunto Pogrund, osservando che le conseguenze della prevista annessione da parte israeliana “saranno ovviamente estremamente gravi. I nostri amici nel mondo non saranno in grado di difenderci ”.

Crepe e divisioni

Allo stesso modo, anche il partito tedesco pro-Israele Die Linke [La Sinistra, ndtr.] ha chiesto di sanzionare Israele se questo programma andrà avanti. “Se il governo israeliano dovesse decidere di attuare l’annessione – ha affermato in una nota – Die Linke proporrà la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele.

Questo protocollo UE è importante non solo perché offre a Israele scambi senza dazi doganali e privilegi degli Stati membri, ma anche per lo status che conferisce a Israele, sia in Europa che nel mondo. Perdere questi privilegi sarebbe un duro colpo economico e politico.

Come notato dal giornalista Ali Abunimah, la dichiarazione del partito, si avvicina all’abbandono della soluzione dei due Stati, che è il nucleo del sionismo progressista che Die Linke sostiene: “Di fronte all’apparente rifiuto del governo israeliano di un equa soluzione con due Stati, in cui i cittadini di entrambe le parti vivrebbero con pari diritti, Die Linke chiede pari diritti civili per palestinesi e israeliani “, ha affermato il partito.

“Per Die Linke, il seguente principio vale ovunque e sempre: tutti gli abitanti di ogni Paese dovrebbero godere di pari diritti, indipendentemente dalla loro religione, lingua o gruppo etnico.”

È importante non esagerare il significato di questi cambiamenti. Sicuramente segnano delle variazioni nelle fila dei sostenitori progressisti di Israele. Non vi sono, inoltre, dubbi sugli scivolamenti tettonici nella politica americana su Israele / Palestina, che hanno notevolmente ampliato il dibattito. Ma come abbiamo visto in passato, proprio come le placche tettoniche possono rompersi e dividersi, le forze geologiche possono riportarle di nuovo insieme.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato ad esporre gli eccessi dello Stato di sicurezza nazionale israeliano. I sui lavori sono apparsi su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006, A Time to Speak Out [Un tempo per parlare a voce alta, ndtr.] (Verso) ed è autore di un altro saggio della raccolta, Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood [Israele e Palestina: punti di vista alternativi sulla governance] (Rowman & Littlefield)

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




Il piano di annessione israeliano pregiudicherà la normalizzazione arabo-israeliana?

Yousef Alhelou

17 giugno 2020 – Middle East Monitor

La posizione adottata dagli Stati Arabi sul piano israeliano di annettere dal prossimo mese aree della Cisgiordania occupata, compresa la Valle del Giordano, può essere scomposta in linea di massima in tre orientamenti: i Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrain, Qatar, Marocco ed Egitto offrono un esplicito sostegno all’ “accordo del secolo” degli Stati Uniti, che comprende l’annessione e lo scambio di territori; alcuni Paesi, come Palestina, Giordania, Algeria, Iraq e Tunisia respingono totalmente il piano; e altri hanno delle riserve e non hanno espresso un parere in un senso o nell’altro.

L’annessione implica il controllo della terra e il trasferimento degli attuali abitanti. In Palestina, si tratta di una continuazione della pulizia etnica israeliana dei territori iniziata nel 1948 che non sarebbe nemmeno all’ordine del giorno senza il sostegno degli Stati Uniti. L’attuale amministrazione di Washington guidata dal presidente Donald Trump ha già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv alla Città Santa e ha affermato che gli insediamenti israeliani costruiti sulla terra palestinese “non necessariamente” sarebbero illegali. Ha anche bloccato tutti gli aiuti statunitensi ai palestinesi.

Tuttavia, con una mossa insolita, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef Al-Otaiba, ha scritto un commento su Yedioth Ahronoth, il più diffuso quotidiano in lingua ebraica d’ Israele. “Annessione o Normalizzazione” si rivolge principalmente all’ala destra israeliana e invia un velato avvertimento ai funzionari e all’opinione pubblica in generale. Ha anche twittato un video in inglese per enfatizzare il suo messaggio. Al-Otaiba ha messo in guardia contro la prospettiva dell’annessione e ha menzionato le sue probabili conseguenze. L’ambasciatore desidera proteggere la normalizzazione formale dei legami con Israele, legami diplomatici, economici, culturali e sulla sicurezza.

Mentre i critici affermano che il suo messaggio è più un consiglio amichevole che un avvertimento formale, altri credono che Al-Otaiba stia cercando di salvare la faccia dopo che gli Emirati Arabi Uniti si sono viste respinte due diverse spedizioni di aiuti medici per i palestinesi perché non si sarebbero coordinati in anticipo con l’Autorità Nazionale Palestinese. Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti ospitano anche l’ex funzionario di Fatah Mohammed Dahlan, espulso dal movimento da Mahmoud Abbas. Tuttavia, gli Emirati Arabi Uniti rimangono un grande sostenitore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) che fornisce i beni di prima necessità a milioni di rifugiati palestinesi.

È chiaro che qualsiasi instabilità che facesse seguito all’annessione potrebbe ravvivare nella coscienza araba lo spirito della lotta armata in tutta la regione. Se esplodesse, in aperta solidarietà con i palestinesi oppressi, la rabbia popolare, potrebbe anche danneggiare i rapporti diplomatici in fase di sviluppo, mettendo a repentaglio la piena e pubblica normalizzazione dei legami tra gli Stati arabi e Israele.

L’Iran e i suoi alleati nello Yemen, nel Libano meridionale e a Gaza non possono essere ignorati, poiché Teheran è il nemico comune di Israele e di alcuni Stati musulmani sunniti. Qualsiasi destabilizzazione dello status quo in Cisgiordania o Gerusalemme potrebbe incoraggiare la mobilitazione di gruppi filo-iraniani e attacchi contro obiettivi nel Golfo. La Turchia, nel frattempo, potrebbe sostituire il sostegno arabo alla legittima causa palestinese e fornire sostegno finanziario a coloro che vivono sotto l’occupazione militare di Israele. Inoltre, le industrie petrolifere e del turismo potrebbero soffrirne se, ad esempio, gli Houthi filo iraniani cercassero di vendicarsi contro la coalizione araba guidata dai sauditi che combattono nello Yemen e sostengono i palestinesi e i loro diritti. Hamas e altri gruppi di resistenza palestinese hanno anche avvertito delle gravi conseguenze se l’annessione dovesse procedere. Tutte le opzioni, a quanto pare, sono sul tavolo.

Quando a gennaio Trump ha annunciato i dettagli del suo “piano di pace”, gli ambasciatori degli Emirati Arabi Uniti, del Bahrain e dell’Oman si trovavano alla Casa Bianca in piedi accanto al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu . Trump li ha ringraziati per il loro supporto. Nessun funzionario palestinese era presente. L'”accordo” è stato una pugnalata alle spalle; un piano pro-Israele; un matrimonio forzato della “sposa” israeliana con un “sposo” palestinese riluttante. Gli stati arabi intenzionati a normalizzare i legami con Israele hanno bisogno di pace e coesistenza tra palestinesi e israeliani, per porre fine alla loro imbarazzante diplomazia sotto copertura e consentire loro di avere un rapporto economico aperto con lo Stato occupante.

Sorprendentemente, gli unici due Paesi arabi che hanno firmato trattati di pace con Israele – Egitto e Giordania, rispettivamente nel 1979 e nel 1994 – non hanno partecipato alla cerimonia della Casa Bianca. Entrambi hanno intense relazioni con l’Autorità Nazionale Palestinese e condividono più o meno la stessa visione su come porre fine al conflitto Israele-Palestina: piena normalizzazione in cambio della fine dell’occupazione militare israeliana in Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme, e un ritorno ai confini del 1967. Questa è la base dell’iniziativa di pace araba approvata dalla Lega araba nel 2002 al suo vertice di Beirut.

Gli accordi di Oslo firmati nel 1993 dovevano portare alla costituzione di uno Stato palestinese entro cinque anni. Quasi tre decenni dopo centinaia di migliaia di coloni ebrei vivono in enormi blocchi di insediamenti costruiti da Israele nonostante gli Accordi. Ancora altri territori palestinesi sono stati rubati per costruire il muro dell’apartheid lungo 708 chilometri che si snoda lungo il confine della Cisgiordania [in prevalenza il muro si trova nel territorio cisgiordano, n.d.tr.]; ci sono più di 600 posti di blocco militari fissi e mobili; e le comunità palestinesi sono state isolate, creando bantustan separati. Inoltre, le case e gli altri edifici palestinesi vengono regolarmente demoliti dagli israeliani e i palestinesi nativi di Gerusalemme si vedono revocare i loro permessi di residenza mentre la giudaizzazione della Città Santa continua. Sotto i governi consecutivi di estrema destra di Netanyahu, la più estremista della storia di Israele, Israele ha fatto fuori la cosiddetta “soluzione a due Stati”.

La Giordania ha respinto il piano di annessione perché la valle del Giordano occupata si estende lungo il confine del Regno Hascemita [la dinastia hashemita, fondata nel 1916, dominò prima nel igiāz (regione comprendente La Mecca e Medina) in Arabia, poi in Iraq e Transgiordania, e infine nel Regno hashemita di Giordania, n.d.tr.] L’area costituisce circa il 30% della Cisgiordania, con una popolazione di circa 65.000 palestinesi e 11.000 coloni illegali. In realtà, Israele ha quasi il controllo totale di quello che è già di fatto un territorio annesso.

Tutto ciò suggerisce che l’avvertimento di Al-Otaiba potrebbe essere ascoltato, perché Netanyahu non vorrà perdere alleati nel mondo arabo, non ultimi nuovi amici come il Sudan, nel caso che la situazione si dovesse deteriorare nei territori palestinesi occupati. Il leader israeliano è il più consapevole di tutti del fatto che il presidente dell’ANP Abbas ha annunciato il mese scorso che sta ponendo fine a tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti, inclusa la cooperazione in materia di sicurezza con le forze di occupazione.

È vero che la causa palestinese è diventata un grattacapo per alcuni regimi arabi, in particolare nel Golfo, ma per altri è ancora la “questione centrale” che unisce tutti gli arabi e i musulmani. Senza una giusta soluzione in Palestina, non ci sarà mai stabilità in Medio Oriente. Sebbene l’ANP sotto Abbas sia accusata di aver aperto per prima le porte alla normalizzazione, i palestinesi insistono sul fatto che i legami con Israele non devono procedere a spese del popolo palestinese che ha lottato per decenni per la libertà e l’autodeterminazione .

Israele ha investito molto nella normalizzazione dei legami con gli Stati del Golfo. Sono stati fatti molti incontri reciproci segreti e sono state utilizzate molte applicazioni di social media per colmare le lacune culturali e politiche esistenti, nell’incoraggiare gli arabi del Golfo a rivoltarsi contro i palestinesi demonizzandoli come ostacolo alla pace con Israele.

Al momento, tuttavia, tutto ciò che conta per Netanyahu è la luce verde di Trump. È stato in grado di mettere insieme un governo di “unità” che condivide il potere e rimanere al potere significa tutto per lui. L’annessione faceva parte della sua campagna elettorale ed è tempo di adempiere al suo impegno. Le posizioni palestinesi e arabe non gli interessano molto, ma è un politico esperto e scaltro, che prenderà in considerazione i pro e i contro con attenzione.

Il velato avvertimento del capo ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Al-Otaiba, sarà sufficiente per fermare o ritardare il piano di annessione? O Israele andrà avanti a prescindere e quindi pregiudicherà la normalizzazione con gli Stati arabi che temono disordini popolari nei loro paesi? Solo il tempo lo dirà, ma ci sono rischi per tutti i soggetti coinvolti, in particolare per i palestinesi, indipendentemente dal modo in cui si guardi la cosa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Un’israeliana ricercata per crimini di guerra riceve un premio tedesco per la pace

Ali Abunimah

17 giugno 2020 – Electronic Intifada

I difensori dei diritti umani stanno invitando il Brückepreis tedesco a ritirare l’assegnazione del premio del 2020 a Tzipi Livni, politica israeliana che si è vantata del suo ruolo in crimini di guerra contro i palestinesi.

La motivazione del Bridge Prize [premio Ponte], com’è conosciuto in inglese, afferma che Livni viene premiata per aver promosso “la libertà di pensiero, la democrazia, l’apertura e l’umanità” e per “la sua politica di pace orientata alla libertà”.

Il premio viene assegnato a personaggi che abbiano dedicato il proprio operato alla democrazia e a una comprensione pacifica tra i popoli ed è accompagnato da un premio in denaro pari a 2.800 dollari [circa 2.500 euro].

Ma, lungi dal promuovere la pace, Livni è accusata di essere coinvolta in “crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza assediata” quando era ministra degli Esteri di Israele durante l’attacco del 2008-09 contro Gaza, come ha scritto martedì l’associazione per i diritti umani Euro-Med Monitor in una lettera al presidente del Brückepreis Willi Xylander.

Livni “durante l’operazione, condannata a livello internazionale, operò incessantemente per mascherare l’aggressione di Israele contro la popolazione civile di Gaza,” aggiunge la lettera, sottolineando che l’attacco israeliano costò la vita a 1.400 palestinesi, in grande maggioranza civili.

Vero teppismo”

Livni non si è neppure mai vergognata del suo ruolo e del suo appoggio al massacro di Gaza. Nel gennaio 2009 dichiarò ai media israeliani: “Come auspicavo, nel corso delle recenti operazioni Israele ha dimostrato un vero teppismo.”

Anche il rapporto Goldstone, la commissione d’inchiesta indipendente dell’ONU sull’attacco, cita le affermazioni di Livni: “Israele non è un Paese su cui puoi sparare missili senza che reagisca. È un Paese che, quando spari ai suoi cittadini, risponde scatenandosi, e ciò è positivo.”

E invece di promuovere la democrazia, Livni ha appoggiato la pulizia etnica dei cittadini palestinesi di Israele per rendere la popolazione di Israele ancor più esclusivamente ebraica. Ex-ministra della Giustizia, Livni ha anche detto ai negoziatori palestinesi: “Io sono contraria alle leggi – in particolare a quelle internazionali. Contro le leggi in generale.”

Non pare proprio che queste siano le credenziali di una persona che meriti riconoscimenti per aver contribuito alla pace e la comprensione a livello internazionale.

Perseguita per crimini di guerra

In parecchie occasioni Livni ha dovuto sfuggire all’arresto o agli interrogatori da parte di autorità giudiziarie che cercavano di inquisirla per crimini di guerra nel Regno Unito, in Svizzera e in Belgio.

Assegnare il Brückepreis a una politica israeliana accusata di crimini di guerra “contribuirebbe a ripulire l’immagine dei crimini dell’occupazione israeliana a danno dei palestinesi e incentiverebbe ulteriormente i politici israeliani ad accentuare le atrocità contro i palestinesi, sapendo che tali brutalità non danneggerebbero la loro posizione internazionale,” aggiunge Euro-Med Monitor.

Eppure tristemente in Germania la classe dirigente continua a credere che offrire un appoggio incondizionato a Israele indipendentemente da quali crimini commetta ed elogiare i criminali di guerra israeliani sia un modo per espiare l’uccisione da parte del governo tedesco di milioni di ebrei europei. La vera lezione da trarre dai crimini della Germania dovrebbe essere che nessuno possa sfuggire al dover rendere conto dei crimini di guerra, compresa Tzipi Livni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




David Friedman a proposito di “quando i palestinesi diventeranno canadesi”

JONATHAN OFIR 

11 maggio 2020 – Mondoweiss

Due giorni fa sul quotidiano gratuito Israel Hayom [giornale israeliano di estrema destra, ndtr.], finanziato da Sheldon Adelson [miliardario statunitense finanziatore di Trump e delle colonie israeliane, ndtr.], organo della propaganda di Netanyahu noto in ebraico anche come “Bibiton” (“Bibi” per Benjamin, “iton” che significa carta in ebraico) è apparsa un’intervista con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman.

L’intervista è un potente strizzata d’occhio a Israele perché prosegua con l’annessione di un terzo della Cisgiordania, una importante prospettiva aperta dall’“accordo del secolo” di Trump e un progetto alla base del nuovo accordo Netanyahu-Gantz per il governo di unità. L’annessione dovrebbe iniziare il 1° luglio.

“Stiamo dialogando, e tutti concordano che a luglio la gente che sta dalla parte degli israeliani vuole essere pronta il 1° luglio a procedere”, afferma Friedman. “Non siamo noi che stiamo dichiarando la sovranità – il governo di Israele deve dichiararla. E allora saremo pronti a riconoscerla in base a quello. Come ha affermato il segretario di Stato, è in primo luogo una decisione di Israele. Quindi, dovete procedere voi per primi.”

Dobbiamo ricordare che chi parla così è un patrono delle colonie ebraiche. Friedman ha curato una delle maggiori raccolte di fondi per la colonia di Beit El, costruita interamente su proprietà privata palestinese rubata. Come Jared Kushner, che con il patrimonio familiare ha finanziato gli insediamenti dei coloni religiosi più fondamentalisti (come la yeshiva [scuola religiosa, ndtr.] Od Yosef Chai a Yitzhar), il fatto che Friedman qui finga “imparzialità” è assolutamente ridicolo.

Il suo “non siamo noi che stiamo dichiarando la sovranità” è un clamoroso falso, in quanto non spetta comunque agli Stati Uniti farlo, e quindi non è che quella frase esprima in realtà alcun tipo di ripensamento. In pratica sta dicendo “andate avanti e noi vi seguiremo”. La cosa si aggiunge poi ai recenti riconoscimenti statunitensi delle annessioni unilaterali israeliane, prima di Gerusalemme est (con lo spostamento dell’ambasciata) e poi delle alture siriane occupate del Jolan (Golan). È quasi come se Friedman stesse pregando Israele: “Fallo, siamo proprio qui per metterci il timbro d’approvazione”. E Friedman sa che non ha davvero bisogno di pregare molto.

Ma, come per gli accordi di Oslo (anche se Rabin aveva assicurato che sarebbe finita sicuramente con “meno di uno Stato [palestinese]”), qualcuno a destra si preoccupa che questo “accordo del secolo” possa in qualche modo tradursi in una qualche specie di Stato palestinese, fosse anche solo uno Stato-bantustan a tutti gli effetti e scopi pratici.

E qui arriva la potente strizzata d’occhio razzista di Friedman:

“Li capisco, ma [stiamo dicendo] che non dovete convivere con quello Stato palestinese, dovrete convivere con uno Stato palestinese quando i palestinesi diventeranno canadesi. E quando i palestinesi diventeranno canadesi, tutti i vostri problemi saranno scomparsi.

Questo a molti può sembrare un linguaggio mistico – invece è un linguaggio chiaramente codificato per coloro a cui Friedman si rivolge. In pratica sta dicendo “Non preoccupatevi, comunque non succederà mai”, perché i palestinesi non diventeranno mai canadesi.

E le sue espressioni fanno chiaramente eco a quelle di un ex consigliere capo del primo ministro israeliano Ariel Sharon, Dov Weissglas, che nel 2004 cercava di sopire la preoccupazione che l’imminente piano di “disimpegno” da Gaza del 2005 potesse in qualche modo dare come risultato uno Stato palestinese.

Weissglas diceva:

Ciò su cui sono totalmente d’accordo con gli americani è che una parte degli accordi non sarebbe stata per niente concordata [con i palestinesi, ndtr.], e che non ci saremo occupati neppure del resto fino a quando i palestinesi non diventeranno finlandesi. Questo è il senso di ciò che abbiamo fatto.” (sottolineatura mia).

Vale la pena di leggere una sezione più ampia dell’intervista di Weissglas ad Haaretz nel 2004, per scoprire la logica complessiva:

Il significato del piano di disimpegno è il congelamento del processo di pace. E congelando quel processo si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si impedisce una discussione sui rifugiati, i confini e Gerusalemme. In effetti, l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto ciò che comporta, è stato rimosso a tempo indefinito dalla nostra agenda. E tutto questo con autorevolezza e con il nulla osta. Tutto con la benedizione del presidente e la ratifica di entrambe le aule del Congresso. […] Questo è esattamente ciò che è successo. Infine, il termine “processo di pace” è un insieme di concetti e impegni. Il processo di pace è l’istituzione di uno Stato palestinese con tutti i rischi per la sicurezza che questo comporta. Il processo di pace è l’evacuazione delle colonie, è il ritorno dei rifugiati, è la divisione di Gerusalemme. E tutto questo è stato ora congelato … Ciò su cui sono totalmente d’accordo con gli americani è che una parte degli accordi non sarebbe stata per niente concordata [con i palestinesi, ndtr.], e che non ci saremmo occupati neppure del resto fino a quando i palestinesi non diventeranno finlandesi. Questo è il senso di ciò che abbiamo fatto.

È una logica molto simile a quella di Friedman. Il piano ha lo scopo di congelare le cose. C’è apparentemente anche un congelamento parziale, per un periodo di 4 anni, della costruzione di colonie su metà dell’ “Area C”, poiché questa area è potenzialmente assegnata, secondo il piano Trump, ad una “espansione” delle aree palestinesi A e B. Secondo gli accordi interinali di Oslo, l’area C, che comprende oltre il 60% della Cisgiordania, avrebbe dovuto essere temporaneamente sotto il pieno controllo israeliano per un periodo di cinque anni, durante i quali si sarebbero dovuti iniziare i negoziati sullo status finale. In realtà, Oslo ha permesso a Israele di congelare l’area C e di farne una grande arena di pulizia etnica. L’area A (con i principali centri abitati) era prevista sotto il pieno controllo palestinese e l’area B con un controllo condiviso tramite il coordinamento dell’Autorità Nazionale Palestinese con l’esercito israeliano.

Friedman spiega la diversa logica dell’annessione dell’area C:

“Esistono tre categorie di territorio nell’area C: quella popolata da comunità ebraiche e la sovranità territoriale consente a queste comunità di crescere in maniera significativa. Questa è la maggioranza – diciamo un 97% della popolazione – e in quelle aree non ci sono restrizioni alla crescita. Ad esempio, Ariel diventerà uguale a Tel Aviv (non ci saranno restrizioni). E questa è la prima categoria. Una seconda categoria è rappresentata dalla metà dell’area C riservata ai palestinesi (da destinare a uno Stato palestinese durante i quattro anni concessi), e non vi è prevista alcuna costruzione, né israeliana né palestinese. Poi c’è una terza categoria, e sono le “enclavi” o “bolle”. Questo è un 3%, sono comunità ebraiche lontane. Quindi, ciò che accade a quelle comunità è che Israele dichiara la propria sovranità su di loro, ma non si espandono, possono ingrandirsi ma non possono espandersi. Per quanto riguarda la stragrande maggioranza delle colonie, le regole sarebbero quelle stesse che vigono allinterno della Linea Verde (linea del cessate il fuoco di Israele del 1949). ”

A Friedman viene chiesto “Quando inizia il conto alla rovescia dei quattro anni?” e lui risponde: “Il giorno in cui Israele inizia a far valere la propria sovranità e dichiara il blocco delle costruzioni nelle aree concordate dell’area C.”

Friedman afferma che non ci sono ulteriori termini o condizioni, ma l’intervistatore Ariel Kahana lo sfida: “Qualcun altro ha detto che c’è una nuova condizione dell’impegno israeliano ad accettare la creazione di uno Stato palestinese”.

Friedman dà una risposta di basso profilo, che placa gli espansionisti israeliani, i quali sanno cosa significhi veramente “processo di pace” – in pratica, niente, apparentemente in “buona fede”:

In proposito la condizione è che il primo ministro [israeliano] accetti di negoziare con i palestinesi e li inviti a un incontro, si impegni nelle discussioni, e le mantenga aperte e le persegua in buona fede per quattro anni.”

Kahana offre la prevista propaganda a favore di Netanyahu: “In realtà l’ha già fatto.”

E Friedman prende spunto da questo valzer apologetico israeliano:

E deve continuare così. In questo momento, i palestinesi non sono disposti a venire al tavolo, ma se tra due anni tornano e dicono: “Aspetta, abbiamo fatto un errore e siamo disposti a negoziare”, dovrà essere disposto a sedersi e discutere. Ma solo per un tempo limitato, vogliamo mantenere [valida] questa opzione per quattro anni. Questa è l’idea.”

Ecco, non si pensa che accada davvero. Il tutto è congegnato per porre condizioni che garantiscano che il negoziato non abbia mai luogo, ad esempio l’insistenza dal 2009 di Netanyahu sul fatto che i palestinesi non si limitino a riconoscere Israele (cosa che avevano già fatto con gli accordi del 1993), ma lo riconoscano come Stato ebraico. Questa definizione in sostanza richiede ai palestinesi di rendere onore all’essenza della propria espropriazione, sbattendoci la testa dopo aver già riconosciuto Israele più di quanto Gandhi avesse fatto col Pakistan. Solo allora Netanyahu dirà di essere disposto a parlare “senza precondizioni”.

Questa nella terminologia sionista è la “buona fede”. Allo stesso modo, Friedman sta presentando l’immediata annessione di metà dell’Area C come un fatto compiuto, e qualunque cosa ne verrà ai palestinesi, essi dovrebbero esserne persino felici.

Secondo i suoi criteri è anche generoso:

“Abbiamo gettato le basi di un fondo infrastrutturale che crescerebbe notevolmente se i palestinesi arrivassero al tavolo e vi si impegnassero. Abbiamo identificato i cambiamenti che dovrebbero verificarsi all’interno della società e del governo palestinesi affinché il tutto funzioni – non ignoriamo il fatto che i palestinesi continuano a pagare i terroristi e continuano a incitare alla violenza. E’ molto più in là di dove chiunque altro sia arrivato finora.”

Friedman rilancia il solito argomento dell’hasbara [la propaganda israeliana, ndtr.], secondo cui i palestinesi “pagano i terroristi”, poiché l’Autorità Nazionale Palestinese sostiene le famiglie dei palestinesi incarcerati o uccisi da Israele. Che ci possano essere atti che prendono di mira i civili e quindi rientrino probabilmente nella definizione di “terrorismo” è un fatto, ma la definizione di Israele è molto ampia e considera qualsiasi attacco ai soldati armati come “terrorismo”.

Analogamente, Israele imprigiona regolarmente i palestinesi senza alcun processo legale (“Detenzione Amministrativa”) per periodi di 6 mesi rinnovabili e infligge regolarmente punizioni collettive sotto forma di demolizioni di case, revoca di residenza e permessi di lavoro ai familiari ecc., e dunque l’assistenza economica palestinese deve essere vista anche come un rimedio temporaneo all’essere stati presi di mira. Ma la generalizzazione fatta da Friedman ha lo scopo di etichettare i palestinesi come terroristi e sostenitori del terrorismo.

Ed è improbabile che i terroristi diventino canadesi, no?

Friedman si emoziona per il “cuore biblico di Israele”, non importa che sia in Palestina. E parla della sua creatura, Beit El. Tutta quella terra rubata è come la “Statua della Libertà”:

“E poi Hebron, Shiloh, Beit El, Ariel, intendo dire che questi posti non si discutono (non sono da restituire ai palestinesi). Qualcuno metteva persino in discussione Gush [Etzion, prima colonia israeliana nei territori occupati, ndtr.] e Maaleh Adumim [una delle colonie più grandi, nei pressi di Gerusalemme, ndtr.], forsanche un’ amministrazione democratica può averlo ritenuto possibile, ma nessuno ha mai messo in discussione il cuore biblico di Israele. Era in parte perché non capivamo quanto fosse importante per Israele. È impensabile chiedere a Israele di rinunciarvi. È come chiedere agli Stati Uniti di rinunciare alla Statua della Libertà “.

E questo simbolismo è molto importante, è nel “DNA nazionale” del “popolo ebraico”:

“È una piccola cosa [la Statua della Libertà] ma non l’abbandoneremmo mai, è molto importante per noi. O il memoriale di Lincoln, a nessun costo! Perché è il nostro DNA nazionale. E (lo stesso vale per) il popolo ebraico “.

Mai, a nessun costo! Caspita, che fervore religioso! Ma se i palestinesi vogliono solo Gerusalemme Est come capitale? Oh, dai, siate ragionevoli! È soltanto del popolo ebraico! E se i palestinesi dicono che è “molto importante” per loro, se il diritto internazionale dice che Israele non dovrebbe annetterla? Peggio per loro. E se dicono che non si arrenderanno, ” a nessun costo”? Bene, allora sono solo terroristi fondamentalisti, che insensati!

Friedman sta dicendo a Israele: tieni duro, continua con le pantomime per 4 anni, abbiamo fatto questo per te. I palestinesi non si trasformeranno in canadesi in quattro anni. Faremo questo passo, consolideremo un’altra parte della conquista colonialista della Palestina e poi procederemo a prenderne di più. David Friedman non sta consigliando ai palestinesi di emigrare in Canada – sta dicendo loro di andare all’inferno.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi sono una minaccia “demografica” per Israele, affermano autorevoli difensori

Philip Weiss

28 aprile 2020 – Mondoweiss

I sostenitori progressisti di Israele avvertono che gli ebrei stanno per essere sopraffatti dall’alto tasso di natalità dei palestinesi

L’argomentazione “demografica” a favore della soluzione dei due Stati rappresenta la manifestazione della paura che gli ebrei divengano una minoranza in Israele, e quindi il “popolo ebraico” perda il diritto di rivendicare la sovranità.

È un’argomentazione apertamente razzista, che contempla la possibilità che gli ebrei vengano sopraffatti dalle nascite, o dagli elettori, palestinesi, tale da poter essere avanzata con molta difficoltà nei principali luoghi di discussione statunitensi. Lo studioso Ian Lustick [scienziato e giornalista americano, studioso delle politiche mediorientali, sostenitore della soluzione dello Stato israeliano palestinese unico, ndtr.] ha recentemente confessato la sua vergogna riguardo la formulazione dell’argomentazione demografica per la soluzione dei due Stati. È stato un “patto col diavolo”, ha detto Lustick. “Mia madre non approverebbe.”

Bene – ecco due autorevoli organizzazioni sioniste americane che si considerano illuminate ma che hanno recentemente avanzato quella vergognosa teoria.

Per prima, la Israel Policy Forum [organizzazione ebraico-statunitense che dal 1993 opera a favore della soluzione dei due Stati, ndtr.] ha pubblicato a febbraio un rapporto sui possibili esiti del conflitto firmato da presunti progressisti americani – l’ambasciatore di Obama [in Israele, ndtr.] Dan Shapiro ha scritto la prefazione, Shira Efron ed Evan Gottesman hanno scritto il rapporto – il quale afferma che è “importante” valutare se i palestinesi stiano divenendo la maggioranza nel territorio tra il fiume[Giordano, ndtr.] e il mare [Mediterraneo, ndtr.], e nello stesso Israele, e fanno osservazioni sui tassi di “fertilità” ebraici e palestinesi come se fosse un modo accettabile di vedere le cose.

Questi progressisti avvertono che anche una minoranza consistente di palestinesi all’interno di Israele “metterà in pericolo” il Paese. Se e quando i palestinesi diverranno una maggioranza è una domanda importante, ma la capacità di Israele di conservare le proprie credenziali di Stato ebraico e democratico sarebbe messa a repentaglio anche se i palestinesi diventassero anche solo una minoranza consistente. La proposta di annettere in parte o del tutto la Cisgiordania potrebbe aggiungere 2,6 milioni di palestinesi alla popolazione israeliana. Se diventassero cittadini con uguali diritti avrebbero un immenso potere politico, costituendo quasi il 40% della popolazione e modificando il carattere ebraico di Israele.

Pensate se diceste che le persone di colore mettono a repentaglio il carattere degli Stati Uniti … Che persone sareste? Poi questo fine settimana l’American Jewish Committee [organizzazione internazionale per la promozione e difesa dei diritti religiosi e politici degli ebrei, ndtr.] ha ospitato David Horovitz del Times of Israel [quotidiano israeliano indipendente online, ndtr.] per un dibattito sulla rete in cui ha spiegato che lui e Benjamin Netanyahu sono a favore di uno Stato palestinese sempre che non abbia reali possibilità di minacciare Israele. E indovina un po’, la minaccia non è solo militare ma “demografica”.

Una solida soluzione con due Stati, una soluzione sicura dei due Stati, una soluzione dei due Stati che non minacci gli interessi demografici e di sicurezza di Israele – penso che questo dovrebbe essere un nostro obiettivo …

Penso che Netanyahu direbbe che il problema riguardo alla soluzione dei due Stati sia la rigidità della nozione di Stato, e direbbe: se uno Stato per i palestinesi fosse un’entità non in grado di minacciarci militarmente o demograficamente, mi trovereste pronto ad appoggiare i palestinesi per quel tipo di Stato. Ma preciserebbe che le definizioni condivise a livello internazionale sono tali che direbbe: ‘No, io non posso appoggiare per l’immediato futuro i palestinesi nella realizzazione di uno Stato su quelle basi’.

Horovitz potrebbe dire che la divisione debba essere fatta in modo tale che in Israele rimanga il maggior numero possibile di ebrei e il minor numero di palestinesi. Più probabilmente, si riferirebbe al ritorno in Palestina dei rifugiati, il cui numero dovrebbe essere limitato, in modo da non sopraffare numericamente gli ebrei israeliani.

La sua argomentazione riecheggia i leader ebrei di Israele che hanno cercato a lungo una maggioranza ebraica “forte” e per raggiungere questo obiettivo hanno fatto ricorso alla pulizia etnica. E a proposito, i palestinesi hanno già eguagliato o superato il numero degli ebrei se si includono i territori occupati – circa 6,5 milioni ciascuno.

È sorprendente che questi argomenti siano considerati kosher [corretti, ndtr.]. Ma i sostenitori di Israele li fanno regolarmente, nei circoli progressisti americani! Non dimenticherò mai il discorso di Ali Abunimah [giornalista palestinese-statunitense, acceso sostenitore della soluzione di uno Stato unico, ndtr.] che affermava che la più grande minaccia per il sionismo sono … i bambini palestinesi … Beh, i sionisti lo sostengono.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Per la prima volta nella storia di Israele, tra la popolazione ebraica si profila un vero campo della pace

Jonathan Cook

giovedì 5 marzo 2020  Middle East Eye

Nonostante il fatto che Benjamin Netanyahu e l’estrema destra siano i grandi vincitori del voto di lunedì, un numero senza precedenti di ebrei israeliani sembra aver sostenuto la “Lista Unita”

Gli ci sono forse voluti un anno e tre elezioni per riuscirci, ma martedì Benjamin Netanyahu ha iniziato ad assomigliare al grande Houdini – il re dell’evasione – della politica israeliana.

La coalizione di Netanyahu, composta da partiti di coloni ed estremisti religiosi, ha ottenuto 58 seggi sui 120 del parlamento, e quindi gli mancano 3 seggi per avere la maggioranza assoluta.

Ma, cosa ancor più importante, il suo Likud ha ottenuto tre seggi in più del suo principale rivale, Benny Gantz, ex-generale dell’esercito che guida il partito laico di destra “Blu e Bianco”.

Netanyahu ha vinto, anche se il procuratore generale recentemente lo ha incriminato per una serie di accuse di corruzione. Il suo processo deve iniziare tra due settimane.

I palestinesi vanno a votare

Eclissato dalla trama principale, che si è giocata tra Netanyahu e Gantz, l’altro argomento importante di queste elezioni è l’ondata di sostegno alla “Lista Unita”, la fazione che rappresenta la grande minoranza palestinese d’Israele.

Ha ottenuto quindici seggi – due deputati in più che in settembre – cioè la sua rappresentanza più numerosa alla Knesset. La “Lista Unita” è ora di gran lunga il terzo più grande partito del Paese.

Benché sia troppo presto per sapere con certezza perché il tasso di partecipazione a favore della Lista sia aumentato, ci sono tre probabili spiegazioni.

Una di queste è che i cittadini palestinesi, ossia un quinto della popolazione israeliana, sembrano avere per la prima volta l’impressione che il loro voto sia importante, o almeno che dovrebbe esserlo.

Lo scorso aprile, alle prime elezioni dell’attuale serie [di votazioni], meno della metà degli elettori di questa minoranza era andata alle urne, facendo ottenere alla Lista 10 seggi. È probabile che questa volta abbiano votato circa i due terzi.

Ciò è in parte legato al piano Trump, che favorisce quello che viene chiamato uno “scambio di terre”, un obiettivo della destra guidata da Netanyahu. Questo scambio permetterebbe a Israele di annettere delle colonie e in cambio circa 250.000 palestinesi sarebbero privati della cittadinanza israeliana e assegnati allo “Stato (palestinese) in attesa” ridotto a brandelli.

Questa minaccia – la pulizia etnica attraverso un gioco di prestigio – ha molto probabilmente fatto infuriare molti cittadini palestinesi d’Israele che in precedenza avevano boicottato le elezioni o che erano troppo disillusi per andare a votare. Volevano dimostrare che il fatto che siano cittadini non può essere ignorato, né da Trump né da Netanyahu.

Un nuovo potere

Ma la rimonta della “Lista Unita” è precedente al piano Trump. In settembre il tasso di partecipazione della minoranza era salito a circa il 60%.

Fino a poco tempo fa – e sicuramente dopo lo scoppio della seconda Intifada, vent’anni fa -, la sensazione era che la politica israeliana fosse una faccenda esclusivamente ebraica. La maggioranza sionista era d’accordo sulle questioni politiche fondamentali, e i cittadini palestinesi non credevano di poter cambiare le cose. La loro voce non aveva la minima importanza.

Ma le ultime tre elezioni suggeriscono un lieve cambiamento. È vero che questa minoranza continua a non essere ascoltata. Di fatto gli oppositori di Netanyahu, che si tratti di “Blu e Bianco” di Gantz o della nuova coalizione guidata dai laburisti, hanno attivamente preso le distanze dalla “Lista Unita”, dato che Netanyahu ha ribattuto loro che sarebbe immorale contare sui deputati “arabi” per governare.

Quello che hanno invece dimostrato le tre elezioni è che, con il suo voto, la minoranza potrebbe bloccare il cammino di Netanyahu verso il potere e vendicarsi così del suo costante incitamento all’odio contro di loro e i loro rappresentanti in quanto traditori e nemici dello Stato ebraico.

Infatti, se il tasso di partecipazione dei cittadini palestinesi fosse stato sensibilmente minore, Netanyahu avrebbe probabilmente ottenuto i 61 seggi di cui ha bisogno.

È precisamente il suo timore del voto dei palestinesi che ha portato Netanyahu a moderare le sue provocazioni contro la minoranza durante le ultime tappe della campagna elettorale. Precedenti considerazioni, del tipo che “gli arabi ci vogliono annientare tutti, uomini, donne e bambini,” durante le ultime elezioni di settembre gli si sono rivoltate contro, facendo salire la partecipazione della minoranza.

Tuttavia questa nuova sensazione di potere potrebbe non durare. Deriva dal fatto che Netanyahu ha profondamente diviso l’elettorato ebraico. Senza di lui potrebbe ristabilirsi rapidamente un consenso sionista, che tratta i palestinesi come semplici pedine da spostare a piacere sullo scacchiere ebraico.

Scomparsa del campo della pace

L’altra spiegazione probabile, e ottimistica, di questa ondata è che un numero senza precedenti di ebrei israeliani sembrano aver sostenuto la “Lista Unita”.

La Lista comprende quattro partiti politici, di cui uno solo – il socialista “Hadash” – si presenta come un partito di arabi ed ebrei. L’unico posto che riservava di solito a un parlamentare ebreo in una posizione nella sua lista che ne permettesse l’elezione rifletteva il fatto che pochissimi ebrei israeliani sostenevano il partito.

La riduzione del sostegno degli ebrei non ha fatto che aumentare quando “Hadash” è stato obbligato da una nuova legge che ha imposto una soglia di sbarramento ad entrare nell’accordo della “Lista Unita” in tempo per le elezioni del 2015. Ha dovuto stare insieme a un partito islamista e a un partito liberale che rifiuta esplicitamente Israele in quanto Stato ebraico.

E allora, perché questo palese cambiamento in queste elezioni?

Gli ebrei che si identificano come parte del campo della pace si sono sentiti abbandonati dai loro partiti tradizionali di “sinistra sionista” – laburisti e Meretz. Nel momento in cui l’opinione pubblica ebraica si sposta sempre più a destra, i due partiti della “pace” si sono affrettati a seguirla. Né l’uno né l’altro ormai parlano più di uno Stato palestinese o della fine dell’occupazione.

Il colpo finale è stato durante queste elezioni quando, per salvarsi dall’oblio elettorale, il Meretz, il partito sionista più a sinistra, è entrato in una coalizione formale non solo insieme al partito Laburista, di centro, ma con “Gesher”, la cui dirigente Levy-Abekasis è una transfuga del partito di estrema destra di Lieberman, “Israel Beytenu [Israele Casa Nostra, ndtr.].

I laburisti, partito fondatore di Israele, e il Meretz speravano che questa decisione li avrebbe rafforzati. Al contrario, segna un altro importante passo verso la loro scomparsa. Insieme dovrebbero ottenere sette seggi, uno in più di quelli che i laburisti avevano conquistato da soli lo scorso aprile – il peggior risultato del partito fino ad allora.

Una vera sinistra”

Il centro israeliano è schiacciato da ogni lato: i sostenitori più guerrafondai del partito Laburista si sono rivolti verso “Blu e Bianco”, mentre i pacifisti del Meretz sembrano attratti dalla “Lista Unita”.

Può darsi che si tratti di un piccolo numero, ma è uno sviluppo incoraggiante – quasi rivoluzionario. Ciò suggerisce che per la prima volta nella storia d’Israele nella popolazione ebraica si profila un vero campo della pace. Non un campo alla ricerca di un’illusoria soluzione a due Stati, fondata sui privilegi degli ebrei, ma un campo pronto a sedersi a fianco dei partiti palestinesi in Israele e a sostenerli, anche se come partner di minoranza.

Il capo della “Lista Unita”, Ayman Odeh, martedì ha festeggiato questo cambiamento, dichiarando: “È l’inizio della nascita di una vera sinistra.”

Questo potrebbe dimostrarsi l’aspetto positivo in un quadro molto più cupo di queste elezioni, nelle quali gran parte della popolazione ebrea israeliana ha chiaramente indicato non solo che, ancora una volta, non si interessa affatto delle violenze contro i palestinesi, sotto occupazione o cittadini [d’Israele, ndtr.], ma che ora è diventata insensibile all’autoritarismo e agli abusi contro ciò che resta delle loro istituzioni democratiche.

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism [il premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




I palestinesi non hanno altra scelta: restare e lottare

David Hearst

29 gennaio 2020 – Middle East Eye

Una nuova ondata di lotte deve ora iniziare per ottenere la parità dei diritti in uno Stato che comprenda tutta la Palestina storica

Per anni sulla strada dei piani messianici di Benjamin Netanyahu per stabilire lo Stato di Israele fra il fiume e il mare, c’è stata una trappola per elefanti.

Si tratta del dato demografico secondo il quale, in quello spazio, c’erano più palestinesi che ebrei. Secondo i dati dell’Ufficio Centrale di Statistica (CBS) del 2016 forniti alla Commissione di Difesa e Affari Esteri della Knesset israeliana, fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo c’erano 6,5 milioni di mussulmani e 6,44 milioni di ebrei, anche se quei dati ora sono superati. La commissione si riferiva ai musulmani, non ai palestinesi, escludendo perciò i palestinesi cristiani.

Ciò significa che il piano di annessione di Netanyahu da solo non può funzionare. Le enormi infrastrutture di calcestruzzo con cui Israele ha cosparso di cemento la Cisgiordania che occupa – colonie, muri, strade e tunnel – e lo stato di apartheid imposto, crudele e totale più di quello messo in pratica in Sud Africa, sono tutti palliativi – medicine con cui ridurre il dolore di uno Stato a maggioranza ebrea, senza eliminarne la causa.

Un’altra Nakba

Si può annunciare quante volte si vuole, come ha fatto ieri Donald Trump, che Israele occuperà la valle del Giordano e quindi circa il 30% della Cisgiordania e imporre la legge israeliana sulle colonie, ma senza spostare fisicamente numeri sempre maggiori di palestinesi fuori da uno Stato di Israele ingrandito, poco cambia. L’annessione diventa solo un’altra forma di occupazione.

Perciò al centro della “visione” di pace di Trump e Netanyahu sta un trasferimento di popolazione, in massa, un’altra Nakba o Catastrofe.

Questa è una pace per modo di dire. È il silenzio che si sente nei villaggi palestinesi nel 1948, a Beit Hanoun nel 2014, quando nel nord di Gaza Israele ha bombardato una scuola dell’ONU affollata di centinaia di civili sfollati, uccidendone 15 e ferendone 200, o ad Aleppo est o a Mosul, dopo averle bombardate, una dopo l’altra, fino a ridurle in macerie. È la pace creata dalla totale e completa sconfitta della lotta dei palestinesi per costruire uno Stato sulla propria terra.

Il piano segreto

Per me quindi il centro della visione apocalittica non sta nei discorsi suprematisti di Trump o Netanyahu, in cui entrambi proclamano “missione compiuta”, e la vittoria totale del movimento sionista sui palestinesi. Sta invece in un paragrafo ben sepolto nelle 180 pagine del documento, il documento più dettagliato, si vanta Trump, mai prodotto prima su questo conflitto. Esattamente.

È il paragrafo che dice che lo scambio di terre fatto dagli israeliani potrebbe includere le ” aree popolate e non popolate “. Il documento è preciso sulla popolazione a cui si riferisce, è la popolazione palestinese del 1948 del cosiddetto triangolo settentrionale di Israele – Kafr Qara, Baqa-al-Gharbiyye, Umm al-Fahm, Qalansawe, Tayibe, Kafr Qasim, Tira, Kafr Bara e Jaljulia.

Il documento continua: “La Visione contempla la possibilità, soggetta all’accordo delle parti, che i confini di Israele vengano ridisegnati in modo che le comunità del Triangolo vengano a far parte dello Stato di Palestina. In questo accordo, i diritti civili degli abitanti delle comunità del Triangolo saranno assoggettate alle leggi, ove applicabili, e alle decisioni giudiziarie delle autorità competenti.”

Questa è la parte nascosta ma più pericolosa di questo piano. Il Triangolo ospita circa 350.000 palestinesi, tutti cittadini israeliani, abbarbicati sul confine nord-occidentale della Cisgiordania. Umm al-Fahm, la città principale, ha dato i natali ad alcuni dei più attivi difensori di Al Aqsa.

Yousef Jabareen, un membro della Knesset della Lista Araba Unita [formata da partiti arabi di Israele e terza forza nel parlamento israeliano, ndtr.] mi ha detto: “Umm al-Fahm è la mia città, Wadi Ara è la mia anima. Il Triangolo è la patria di centinaia di migliaia di cittadini arabo-palestinese che vivono sulla propria terra. Il programma di annessione e trasferimento di Trump e Netanyahu ci strappa dalla nostra patria e revoca la nostra cittadinanza; un danno esistenziale a tutti i cittadini della minoranza araba. Ora è il momento per gli ebrei e gli arabi che hanno a cuore democrazia e uguaglianza di schierarsi e lavorare insieme contro questo pericoloso piano.” 

‘Pulizia etnica’ ufficiale

Per anni i leader israeliani di centro o di destra hanno giocherellato con il “trasferimento statico” di queste popolazioni fuori da Israele. All’idea di uno scambio di popolazione e territori avevano alluso gli ex primi ministri Ehud Barak e Ariel Sharon. Ma è stato solo Avigdor Lieberman ad aver sposato la causa dell’espulsione dei palestinesi. 

Egli propugna di privare un numero ipotetico di 350.000 palestinesi del Triangolo della loro cittadinanza israeliana e costringere l’altro 20% della popolazione israeliana non ebrea a fare un “giuramento di lealtà” a Israele quale ” Stato Sionista Ebraico ” o affrontare l’espulsione in uno Stato palestinese.

Due anni fa Netanyahu aveva suggerito a Trump che Israele avrebbe dovuto liberarsi del Triangolo. Oggi questi piani di pulizia etnica sono stati suggellati in un documento ufficiale della Casa Bianca. 

Ayman Odeh, un membro palestinese della Knesset, ha twittato che l’annuncio di Trump dà “il semaforo verde alla revoca della cittadinanza a centinaia di migliaia di cittadini arabo- palestinesi che vivono nel nord di Israele”.

Sostegno a Trump

L’altro aspetto notevole dell’annuncio di martedì alla Casa Bianca è stata la presenza nell’uditorio degli ambasciatori degli Emirati, Bahrain e Oman. Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno accolto il piano senza riserve. Anche il Qatar lo ha fatto, sebbene abbia aggiunto che lo Stato palestinese dovrebbe essere negoziato con i confini del 1967 e i palestinesi dovrebbero mantenere il diritto al ritorno.

Trump ha detto di essere stato stupito dal numero di chiamate che ha ricevuto dai leader di tutto il mondo a sostegno del suo piano, incluso il Primo Ministro britannico, Boris Johnson.

Buttando al vento quattro decenni di politica estera britannica sulla soluzione dei due Stati, Johnson ha sostenuto il piano di Trump con tutto il peso del Regno Unito. Anche il ministro degli esteri Dominic Raab ha dato appoggio all’accordo “chiaramente una proposta seria che riflette i grandi sforzi e il lungo tempo richiesto.” ha detto.

“Non riesco a credere alle dimensioni del sostegno ricevuto stamattina.” si è vantato Trump. “Mi hanno chiamato dei leader, Boris [Johnson] ha chiamato; così tanti hanno chiamato. Tutti mi dicono ‘cosa possiamo fare per aiutare’”.

Ci sono alcuni comunque che si sono resi conto del pericolo di questo piano. Il Senatore Chris Murphy è uno di loro. Ha twittato: “L’annessione unilaterale della valle del fiume Giordano e delle colonie esistenti, dichiarata illegale dalle leggi USA e internazionali, riporta indietro di decenni il processo di pace. E pone un rischio reale di violenze e un’enorme destabilizzazione in luoghi come la Giordania.”

 A casa da soli

Nessuno dovrebbe sottovalutare la portata storica della dichiarazione appena fatta. La soluzione dei due Stati o l’idea che uno Stato palestinese contiguo sia attuabile e possa essere creato a fianco di uno Stato a maggioranza ebraica è morta. Ed era morta ben prima degli accordi di Oslo. 

Ai sostenitori arabi come il re di Giordania Hussein venne detto sia dai sovietici, Yevgeny Primakov, che da James Baker, l’allora Segretario di Stato, che non si sarebbe mai ottenuto uno Stato palestinese indipendente. E questo ben prima della conferenza di Madrid che precedette Oslo. Il re non aveva bisogno di presenziare al funerale del suo amico Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995, per rendersene conto. Lo sapeva già. Ma adesso è veramente morto. 

Gli USA ora hanno dato il loro imprimatur ufficiale ai confini orientali dello Stato di Israele. La mappa (vedi map Middle East Eye published) dice tutto. Lo Stato palestinese immaginato dal piano sembra la TAC del cervello di una vittima dell’Alzheimer. Lo Stato palestinese è interamente divorato.

Il messaggio di questa mappa per i palestinesi di qualsiasi fazione è ora totalmente chiaro. Dimenticate le vostre divisioni, dimenticate cosa è successo tra Fatah e Hamas a Gaza nel 2007, accantonate pretese di colpi di stato e unitevi. Unitevi contro una minaccia esistenziale.

I palestinesi sono completamente soli. Tutti i punti fermi delle loro posizioni di negoziazione sono spariti. Non hanno Gerusalemme, niente diritto al ritorno, nessun rifugiato può ritornare, niente Alture di Golan e ora niente Valle del Giordano. Non hanno alleati arabi. La Siria è distrutta, l’Iraq diviso, Egitto e Arabia Saudita sono ora fantocci nelle mani di Israele. I palestinesi hanno perso il supporto della più popolosa e ricca Nazione araba.

Non hanno un posto dove fuggire. L’Europa è chiusa per ogni futura migrazione di massa. Hanno una sola alternativa: restare e lottare. Uniti possono annullare i piani israeliani suprematisti di pulizia etnica. L’hanno fatto in precedenza e lo possono fare di nuovo.

Una nuova lotta

Ora i palestinesi devono far fronte a questa situazione. Il riconoscimento di Israele da parte dell’OLP nel 1993 è finalmente arrivato a fine corsa, come si poteva immaginare. Le leggi USA e internazionali e le risoluzioni ONU non sarebbero mai venute in loro soccorso e, ma solo in questo senso, il brutale piano di Trump ha fatto un favore ai palestinesi. Ha fugato fantasie durate decenni.

Quella che deve cominciare ora è una nuova ondata di lotte per l’uguaglianza dei diritti in uno Stato su tutto il territorio della Palestina storica. Questo comporterà una lotta enorme. Nessuno dovrebbe sottostimare cosa succederà se i palestinesi insorgeranno ancora una volta. Ma nessuno dovrebbe aver alcun dubbio sulle conseguenze dell’accettazione.

Questa è la prima volta dal 1948 che tutti i palestinesi possono unirsi per farlo. Devono cogliere questa opportunità o scomparire e diventare una nota a piè pagina della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le opinioni editoriali di Middle East Eye.




Isolate e dimenticate: cosa bisogna sapere sulle “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania

 Ramzy Baroud

14 gennaio 2020  palestinechronicle

Una notizia apparentemente ordinaria, pubblicata sul giornale israeliano Haaretz il 7 gennaio, ha fatto luce su un argomento da tempo dimenticato ma cruciale: le cosiddette “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania.

Secondo Haaretz “Israele ha sequestrato l’unico veicolo disponibile di una equipe medica che fornisce assistenza a 1.500 palestinesi residenti all’interno di una zona di tiro militare israeliana in Cisgiordania”.

La comunità palestinese a cui è stato negato l’unico servizio medico disponibile è Masafer Yatta, un piccolo villaggio palestinese sulle colline a sud di Hebron.

Masafer Yatta, in completo e assoluto isolamento dal resto della Cisgiordania occupata, si trova nell’”Area C”, la più grande zona territoriale, circa il 60%, della Cisgiordania. Ciò significa che il villaggio, insieme a molte città, villaggi e piccole comunità isolate palestinesi, è sotto il totale controllo militare israeliano.

Non fatevi ingannare dalla fumosa logica degli Accordi di Oslo; tutti i palestinesi, in tutte le zone della Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza assediata, sono sotto il controllo militare israeliano.

Tuttavia, sfortunatamente per Masafer Yatta e per gli abitanti dell'”Area C”, il grado di controllo vi è così soffocante che ogni aspetto della vita palestinese – libertà di movimento, istruzione, accesso all’acqua potabile e così via – è controllato da un complesso sistema di ordinanze militari israeliane che non hanno alcun riguardo per il benessere delle comunità assediate.

Non sorprende quindi che l’unico veicolo di Masafer Yatta, il disperato tentativo di realizzare un ambulatorio mobile, sia stato già confiscato in passato, e recuperato solo dopo che gli abitanti impoveriti sono stati costretti a pagare una multa ai soldati israeliani.

Non esiste una logica militare al mondo che possa giustificare razionalmente il blocco dell’accesso alle cure mediche per una comunità isolata, specialmente quando una potenza occupante come Israele è legalmente obbligata, ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, a garantire l’accesso all’assistenza medica ai civili che vivono in un territorio occupato.

È naturale che la comunità di Masafer Yatta, come tutti i palestinesi nell'”Area C” e nell’intera Cisgiordania, si senta trascurata – e apertamente tradita – dalla comunità internazionale e dalla propria leadership collaborazionista.

Ma c’è qualcosa di più che rende il villaggio di Masafer Yatta veramente unico, guadagnandogli la sfortunata definizione di bantustan [territori formalmente autogovernati dalla popolazione di colore nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] all’interno di un bantustan, poiché sopravvive sottoposto ad un sistema di controllo molto più complesso rispetto a quello imposto al Sud Africa nero durante il regime dell’apartheid.

Poco dopo aver occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, Israele ideò uno stratagemma a lungo termine per mantenere il controllo sui territori appena occupati. Ha destinato alcune aree alla futura ricollocazione dei propri cittadini – che ora costituiscono la popolazione di coloni ebrei illegali ed estremisti in Cisgiordania – e si è anche riservato ampie parti dei territori occupati come zone di sicurezza e aree cuscinetto.

Ciò che è molto meno noto è che, durante gli anni ’70, l’esercito israeliano ha dichiarato circa il 18% della Cisgiordania “zona di tiro”.

Queste “zone di tiro” erano presumibilmente destinate ad essere campi di addestramento per i soldati dell’esercito israeliano di occupazione – sebbene i palestinesi intrappolati in quelle regioni riferiscano spesso che all’interno delle cosiddette “zone di tiro” non si svolge quasi alcun addestramento militare.

Secondo l’Ufficio di Coordinamento delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) in Palestina, ci sono ancora circa 5.000 palestinesi, divisi in 38 comunità, che vivono in circostanze veramente terribili all’interno delle cosiddette “zone di tiro”.

L’occupazione del 1967 portò a una massiccia ondata di pulizia etnica che vide l’espulsione forzata di circa 300.000 palestinesi dai territori appena conquistati. Fra le molte vulnerabili comunità ripulite etnicamente c’erano anche i beduini palestinesi, che continuano a pagare il prezzo dei progetti coloniali israeliani nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e in altre parti della Palestina occupata.

La loro vulnerabilità è aggravata dal fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) agisce con poco riguardo per i palestinesi che vivono nell'”Area C”, lasciati da soli a sopportare e resistere alle pressioni israeliane, ricorrendo spesso all’ingiusto sistema giudiziario di Israele per riconquistare alcuni dei propri diritti fondamentali.

Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 tra la leadership palestinese e il governo israeliano, dividevano la Cisgiordania in tre regioni: “Area A”, teoricamente sotto controllo palestinese autonomo e costituita dal 17,7% della dimensione complessiva della Cisgiordania; “Area B”, 21% e sotto il controllo condiviso di Israele-ANP; “Area C”, il resto della Cisgiordania sotto il totale controllo di Israele.

L’accordo avrebbe dovuto essere temporaneo, e terminare nel 1999 una volta conclusi i “negoziati sullo status finale” e firmato un accordo di pace complessivo. Invece, è diventato a priori lo status quo.

Per quanto sfortunati siano i palestinesi che vivono nell'”Area C”, quelli che vivono nella “zona di tiro” all’interno dell'”Area C” affrontano difficoltà ancora maggiori. Secondo le Nazioni Unite, le loro traversie includono “la confisca delle proprietà, la violenza dei coloni, i maltrattamenti da parte dei soldati, le restrizioni di accesso e movimento e/o la scarsità d’acqua”.

Come ci si poteva aspettare, nel corso degli anni molti insediamenti ebraici illegali sono sorti in queste “zone di tiro”, un chiaro segno del fatto che queste aree non hanno mai avuto uno scopo militare, ma erano destinate a fornire una giustificazione legale a Israele per confiscare quasi un quinto della Cisgiordania per una futura espansione coloniale.

Nel corso degli anni, Israele ha messo in atto la pulizia etnica di tutti i palestinesi che rimanevano in queste “zone di tiro”, lasciandone solo 5.000, che probabilmente subiranno lo stesso destino se l’occupazione israeliana dovesse continuare lungo la stessa direttrice di violenza.

Questo rende la storia di Masafer Yatta un microcosmo della più ampia e tragica storia di tutti i palestinesi. È anche un riflesso della maligna natura del colonialismo israeliano e dell’occupazione militare, per cui i palestinesi sotto occupazione perdono la loro terra, la loro acqua, la loro libertà di movimento e, infine, persino le cure mediche di base.

Secondo le Nazioni Unite, queste dure “condizioni creano un ambiente coercitivo che fa pressione sulle comunità palestinesi affinché abbandonino quelle aree”. In altre parole, pulizia etnica, da sempre l’obiettivo strategico di Israele.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’antisionismo riguarda la correzione di errori storici, non l’incoraggiamento all’antisemitismo

Ran Greenstein

23 dicembre 2019 – +972

Il dibattito sul sionismo è fondamentale, ma non deve diventare anche un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.

Il decreto del presidente Trump dell’11dicembre non cita sionismo o antisionismo, Israele o Palestina. Eppure ha determinato un acceso dibattito su tutte e quattro le questioni, in particolare sul rapporto tra antisionismo e antisemitismo. Buona parte di questo dibattito si sta svolgendo come se avessimo una comprensione condivisa di questi termini e come se fossero interconnessi. Sarebbe opportuno riflettere su questi problemi per chiarire le questioni che ci troviamo ad affrontare oggi.

Il sionismo – l’ideologia, il movimento politico e il progetto di insediamento nato nell’Europa centro-orientale alla fine del XIX° secolo – nella sua essenza vedeva gli ebrei come un gruppo nazionale che necessitava di una propria patria o un proprio Stato indipendente in cui essere al sicuro dalle persecuzioni. Questa patria doveva essere il loro “vecchio-nuovo” territorio ancestrale: la storica terra di Israele, che allora era la terra di Palestina abitata da arabi.

Comprendere il sionismo, così come l’atteggiamento internazionale nei suoi confronti, richiede di guardare al contesto storico in cui è nato, con tre dimensioni fondamentali. La prima è l’emergere dell’etno-nazionalismo negli imperi territoriali in declino, in cui all’epoca viveva la maggior parte degli ebrei – gli imperi russo, austro-ungarico e ottomano – che videro minoranze cercare l’indipendenza dai loro dominatori imperiali. La seconda è l’ultimo stadio dell’espansione coloniale degli imperi marittimi – in particolare di Gran Bretagna e Francia – che videro vaste parti dell’Asia e dell’Africa cadere sotto la dominazione straniera. La terza, che si sviluppò in seguito, è la decolonizzazione dei domini coloniali degli imperi e il sorgere di nuove forme di potere imperialista, che hanno portato alla Guerra Fredda e alle sue conseguenze.

Nei suoi primi decenni il sionismo non riuscì a conquistarsi l’adesione della maggior parte degli ebrei. Alcuni di loro adottarono esplicite posizioni antisioniste e rifiutarono l’appello alla concentrazione territoriale degli ebrei in un proprio Stato. Queste posizioni erano variamente motivate da visioni del mondo religiose, di sinistra e liberali.

La maggioranza degli ebrei non era attivamente contraria al sionismo, ma non lo seguì ideologicamente o nella pratica. Privilegiavano invece altre possibilità: l’integrazione come uguali nei propri Paesi di residenza (su base individuale o collettiva); l’assimilazione nelle culture dominanti; l’immigrazione in luoghi più favorevoli, dove gli ebrei potessero vivere liberi dai vecchi pregiudizi europei contro di loro, come il Nord e il Sud America e il Sudafrica.

In contrasto con questa linea di condotta, il sionismo chiese agli ebrei di tutto il mondo di insediarsi in Palestina. Alcuni lo fecero durante le prime fasi del movimento sionista, ma non necessariamente per un impegno ideologico. Di fatto molti immigrati ebrei si spostarono e si insediarono là perché costretti e in mancanza di alternative migliori – in particolare gli ebrei polacchi negli anni ’20 e quelli tedeschi negli anni ’30, il cui viaggio verso l’ovest era stato bloccato da leggi restrittive.

Comunque centinaia di migliaia di ebrei si spostarono in Palestina, incrementando la popolazione ebraica locale da 50.000 alla fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918 a 450.000 alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939. Non era solo il numero crescente che importava: durante quel periodo sotto la direzione delle agenzie sioniste gli ebrei comprarono grandi appezzamenti di terra, fondarono decine di nuovi insediamenti urbani e rurali e costruirono vaste infrastrutture economiche ed istituzionali.

Naturalmente gli arabi palestinesi si opposero all’immigrazione, all’acquisto di terre e allo sviluppo politico sulla loro terra guidati fin dalla nascita dal movimento dai sionisti. Tuttavia avevano scarso interesse nel sionismo come l’ideologia della costruzione dello Stato e dell’identità ebraici: il movimento nazionale palestinese si è sempre concentrato sulle conseguenze pratiche dell’insediamento sionista, su come lo colpiva direttamente. Che ciò fosse messo in pratica in particolare dagli ebrei era una preoccupazione molto marginale, ed è lo stesso ora. Alcuni atteggiamenti negativi verso gli ebrei potrebbero essere emersi come conseguenza dello scontro con il sionismo, ma questi furono un risultato, non una causa, della resistenza ad un progetto politico visto come intenzionato a cacciarli e a sostituirli.

Negli anni ’40, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale e all’Olocausto, il principio fondante del sionismo – la necessità di una patria sicura o di uno Stato per gli ebrei – conquistò un vastissimo appoggio internazionale e divenne la posizione maggioritaria tra gli ebrei. Anche allora la maggioranza di quanti emigrarono nel nuovo Stato di Israele continuò a farlo per mancanza di opzioni migliori, in particolare a causa dell’espulsione fisica e di condizioni politiche difficili nell’Europa orientale del dopoguerra e della crescente sensazione di insicurezza e di esclusione politica in Medio Oriente e in Nord Africa. L’impegno politico giocò ancora un ruolo secondario in questo processo. La percezione del sionismo come la possibilità di un rifugio per gli ebrei in circostanze disperate e di fare tutto quanto fosse possibile per garantire la loro sopravvivenza alla fine si consolidò nelle menti degli stessi ebrei e nel resto del mondo.

Tuttavia questa forma di sopravvivenza degli ebrei comportò un prezzo notevole. Israele venne edificato sulle rovine della società arabo-palestinese e la sua creazione diede come risultato la pulizia etnica, la frammentazione e l’esilio su larga scala. Quindi l’opposizione a Israele divenne molto vasta nel mondo arabo e islamico. Parte di questa opposizione venne occasionalmente espressa in discorsi e azioni antisemiti, ma fu quasi sempre un risultato dell’indignazione per l’espulsione dei palestinesi, non la sua causa. Così è in buona misura ancora ai giorni nostri.

Globalmente il sionismo è stato visto contemporaneamente come una forma di autodeterminazione nazionale e come una forma di dominio colonialista sulla popolazione indigena del territorio. Per i palestinesi, sionismo significa spoliazione e privazione dei diritti; per la maggior parte degli ebrei, significa appoggiare il concetto di uno Stato ebraico. Le precise implicazioni del carattere ebraico dello Stato, la sua relazione con l’ebraismo come religione, le conseguenze pratiche per i cittadini ebrei e non ebrei e i suoi confini e le sue politiche sono tutti messi in discussione all’interno. Non c’è una posizione sionista unitaria su questi argomenti, e non c’è mai stata.

Di fronte a questo scenario, per la maggioranza degli attivisti della solidarietà di oggi, antisionismo significa il rifiuto della nozione di Israele come Stato esclusivamente ebraico in cui i palestinesi sono sottoposti a una posizione di inferiorità o ne sono del tutto esclusi. In pratica antisionismo significa appoggiare l’uguaglianza, la giustizia e il risarcimento per i palestinesi che vivono come cittadini di seconda classe, soggetti all’occupazione o rifugiati senza Stato. Ciò significa appoggiare i diritti degli ebrei di vivere come uguali in Israele-Palestina, e in qualunque altro luogo di residenza, senza particolari privilegi o obblighi. Ciò va oltre la contrapposizione rispetto a politiche specifiche, come l’occupazione del 1967 o l’assedio di Gaza, che non richiedono una posizione antisionista.

Le principali obiezioni nel dibattito interno tra gli ebrei sul sionismo nel periodo precedente al 1948 sono di grande interesse per gli accademici. Tuttavia sono diventate marginali nel discorso pubblico a causa della concentrazione di molti attivisti sulle sole politiche israeliane. Queste questioni rimangono rilevanti oggi: gli ebrei sono una Nazione, una religione o una combinazione di entrambe? Hanno bisogno di uno Stato solo per loro? La diaspora è un’anomalia o una caratteristica permanente, forse desiderabile, dell’esistenza ebraica?

In questo contesto di solidarietà e di lotta, la divisione tra prospettive liberali e radicali si basa sulla questione dello Stato ebraico, che tende a separare i sionisti dagli antisionisti. Ma ciò non dovrebbe essere un ostacolo per la mobilitazione su preoccupazioni pratiche condivise: opposizione all’occupazione del 1967 e alle politiche di colonizzazione, uguaglianza per i cittadini palestinesi, e via di seguito. Qui la regola pratica è costruire un vasto fronte basato su quello che abbiamo in comune, facendo nel frattempo attivismo in modo separato per pubblici diversi su questioni che ci dividono. La questione del sionismo, per quanto fondamentale, non deve diventare un test di purezza che indebolisca la solidarietà dove può essere costruita.

Un modo per garantire questo è l’adozione di un linguaggio strategico semplice. Le forze che mettono in atto l’assedio di Gaza, spogliano il popolo della propria terra su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania, ndtr.] e tengono i palestinesi sotto occupazione sono lo Stato di Israele e i suoi organi militari e civili. Sono aiutati e spalleggiati da sostenitori (sia ebrei che non ebrei) che agiscono come agenti dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.] all’estero. Non sono i “sionisti” genericamente etichettati (per non parlare degli “zios” [termine spregiativo per indicare i sionisti, ndtr.]) che lo fanno. Semmai è una concreta serie di forze affiliate in vario modo all’apparato statale israeliano.

Più prendiamo di mira individui, istituzioni e politiche concreti ed evitiamo di usare termini vaghi e fumosi, meglio possiamo concentrare gli sforzi di solidarietà e resistenza e contrastare con efficacia accuse di antisemitismo come armi utilizzate contro il movimento per porre fine all’apartheid israeliana e ottenere giustizia ed uguaglianza per tutti.

Ran Greenstein è professore associato di sociologia all’università del Witwatersrand a Johannesburg, in Sudafrica. Tra le sue opere ci sono “Zionism and its Discontents: A Century of Radical Dissent in Israel/Palestine [Il sionismo e i suoi dissidenti: un secolo di dissenso radicale in Israele/Palestina], (Pluto, 2014) e “Identity, Nationalism, and Race: Anti-Colonial Resistance in South Africa and Israel/Palestine [Identità, Nazionalismo e Razza: resistenza anticolonialista in Sudafrica e in Israele/Palestina] (Routledge, in uscita).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)