‘Punizione collettiva’ e ‘ricatto’: i palestinesi condannano la decisione di Trump di chiudere l’ufficio dell’OLP a Washington

Allison Deger eYumna Patel

10 settembre 2018 Mondoweiss

Oggi l’amministrazione Trump ha ordinato all’ufficio di rappresentanza palestinese di chiudere, ponendo fine a quasi 25 anni di presenza diplomatica della missione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a Washington.

La portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert stamattina ha detto ai giornalisti che la decisione è stata presa dopo che i dirigenti palestinesi hanno rifiutato di “promuovere l’avvio di negoziati diretti e significativi con Israele”, promossi dal primo consigliere della Casa Bianca e genero del presidente, Jared Kushner, e dall’inviato speciale Jason Greenblatt.

Nauert ha detto che i dirigenti palestinesi hanno respinto il piano di Kushner e Greenblatt, un ampio accordo di pace che era circolato nelle scorse settimane ma non era mai stato reso pubblico dopo il rigetto da parte dei dirigenti arabi.

La dirigenza dell’OLP ha condannato un piano di pace USA che non ha ancora visto ed ha rifiutato di impegnarsi con il governo USA relativamente agli sforzi di pace e in altro modo. Stando così le cose, e recependo le preoccupazioni del Congresso, l’Amministrazione ha deciso che l’ufficio dell’OLP a Washington a questo punto dovrà chiudere”, ha proseguito Nauert.

Il Washington Post ha riferito, citando una copia preliminare del suo discorso, che il consigliere di Trump per la sicurezza nazionale John Bolton dovrebbe annunciare la chiusura in un discorso lunedì prossimo, insieme alle intenzioni del governo USA di imporre sanzioni alla Corte Penale Internazionale (CPI) se procederà con le indagini contro gli USA o Israele.

Non collaboreremo con la CPI. Non forniremo assistenza alla CPI. Lasceremo che la CPI muoia per conto suo. Del resto, all’atto pratico, per noi la CPI è già morta”, reciterebbe il testo della bozza.

L’anno scorso gli USA hanno detto che avrebbero chiuso l’ufficio dell’OLP a Washington come misura punitiva dopo che il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva chiesto alla CPI di indagare e perseguire Israele per presunti crimini di guerra.

Trump alla fine ha fatto marcia indietro, limitando le attività dell’ufficio agli “sforzi per raggiungere la pace con Israele.”

Lista dei desideri” di Israele

Dato che la missione dell’OLP a Washington era stata aperta nel 1994 durante i negoziati con Israele in base agli accordi di pace di Oslo per promuovere una soluzione di due Stati, Nauert ha detto che la chiusura di oggi non pregiudica quel percorso.

Gli Stati Uniti continuano a credere che negoziati diretti tra le due parti siano l’unica strada percorribile. Questa azione non deve essere strumentalizzata da coloro che cercano di agire come guastatori per sviare l’attenzione dall’imperativo di raggiungere un accordo di pace”, ha detto.

La reazione di Ramallah è stata dura. L’ambasciatore dell’OLP negli USA, Husam Zomlot, che lo scorso maggio è stato richiamato in Cisgiordania dopo che è stata aperta l’ambasciata USA a Gerusalemme, oggi ha detto in una dichiarazione che l’iniziativa è “ sconsiderata” e si inchina alla “lista dei desideri” di Israele.

Zomlot ha aggiunto che l’amministrazione Trump ha inteso punire i dirigenti palestinesi per aver perseguito un’ inchiesta per crimini di guerra contro Israele presso la Corte Penale Internazionale, dove sono stati inoltrati documenti su presunti crimini di Israele contro l’umanità.

Restiamo fermi nella nostra decisione di non collaborare con questa continua campagna per eliminare i nostri diritti e la nostra causa. I nostri diritti non sono in vendita e fermeremo ogni tentativo di intimidazione e ricatto affinché rinunciamo ai nostri diritti legittimi e condivisi a livello internazionale”, ha detto Zomlot.

Zomlot ha aggiunto che la chiusura dell’ufficio è un affronto al processo di pace ed ha accusato gli Stati Uniti di “minare il sistema internazionale di legittimità e legalità.” Ha promesso di “intensificare” gli sforzi nella comunità internazionale. “Questo ci conferma che siamo sulla strada giusta”, ha detto.

Il governo palestinese ha sospeso ufficialmente i contatti con i dirigenti USA dopo che Trump a dicembre ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, scatenando vaste proteste tra i palestinesi, che considerano Gerusalemme est occupata come la capitale di un futuro Stato palestinese.

L’Autorità Nazionale Palestinese da allora ha boicottato il piano di pace di Trump – il cosiddetto “accordo del secolo” – stilato principalmente da suo genero Jared Kushner, la cui famiglia è collegata al finanziamento delle colonie israeliane illegali.

In una dichiarazione il portavoce dell’ANP Yousef al-Mahmoud ha detto che la chiusura dell’ufficio dell’OLP “è una dichiarazione di guerra agli sforzi di portare pace nel nostro Paese e nella regione”, e incoraggia ulteriormente le violazioni da parte dell’occupazione israeliana contro i diritti umani dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate e nella Striscia di Gaza.

Il ministero degli Esteri palestinese ha definito l’iniziativa “parte della guerra aperta condotta dall’amministrazione USA e dalla sua squadra sionista contro il nostro popolo palestinese, la sua causa e i suoi giusti e legittimi diritti.”

È la continuazione della politica USA di dictat e ricatti contro il nostro popolo per costringerlo ad arrendersi”, continua la dichiarazione.

Punizione collettiva”

L’iniziativa giunge al culmine di una serie di colpi inferti dall’amministrazione ai palestinesi. Nel mese scorso gli USA hanno bloccato tutti gli aiuti all’UNRWA, hanno tagliato 200 milioni di dollari di finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e aiuti per 25 milioni di dollari agli ospedali palestinesi a Gerusalemme est.

Recentemente, dirigenti dell’amministrazione Trump hanno anche messo pubblicamente in questione il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, che è sancito dal diritto internazionale.

I palestinesi hanno già cominciato a sentire gli effetti dei massicci tagli del budget USA, soprattutto a Gaza, dove una crescente crisi umanitaria si è aggravata nei mesi scorsi.

A luglio centinaia di dipendenti dell’UNRWA sono stati licenziati come diretta conseguenza dei tagli dei finanziamenti USA. Il mese scorso migliaia di malati di tumore a Gaza sono stati lasciati in un limbo, quando gli ospedali hanno chiuso i propri dipartimenti di oncologia, a causa di pesanti carenze di farmaci chemioterapici in seguito all’assedio israeliano contro Gaza, in continuo peggioramento.

Questa è un’altra dimostrazione della politica dell’amministrazione Trump di punizione collettiva del popolo palestinese, anche attraverso il taglio agli aiuti finanziari per i servizi umanitari, comprese salute e educazione”, ha dichiarato l’alto dirigente dell’OLP Saeb Erekat.

Questa pericolosa escalation dimostra che gli Stati Uniti intendono smantellare l’ordine internazionale per proteggere i crimini israeliani e gli attacchi contro la terra ed il popolo della Palestina, come anche contro la pace e la sicurezza nel resto della regione”, ha detto Erekat.

Inoltre ha detto: “Ammainare la bandiera della Palestina a Washington significa molto più che un nuovo schiaffo da parte dell’Amministrazione Trump alla pace e alla giustizia; rappresenta l’attacco degli USA al sistema internazionale nel suo complesso, compresi tra gli altri la convenzione di Parigi [che ha istituito l’UNESCO, agenzia dell’ONU, ndtr.], l’UNESCO e il Consiglio [ONU] per i Diritti Umani.”

Allison Deger è vice caporedattore di Mondoweiss.net

Yumna Patel è giornalista multimediale con sede a Betlemme, Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

Mersiha Gadzo e Anas Jnena

18 giugno 2018, Al-Jazeera

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che Israele ha concesso solo a un terzo dei dimostranti feriti il permesso di attraversare il checkpoint di Erez per essere curati

 

Il solo modo in cui ora a Sari al-Shubaki può comunicare è aprire e chiudere le palpebre.

La mattina del 14 marzo un cecchino israeliano l’ha colpito al collo con un proiettile durante le manifestazioni a Gaza. Da allora, il ventiduenne è paralizzato. Un frammento del proiettile è rimasto fra la spalla e il collo.

Nell’ultimo mese è rimasto ricoverato in condizioni critiche nel reparto di cure intensive dell’ospedale Al Shifa della città di Gaza.

Da allora, la famiglia sta aspettando che Israele gli conceda un permesso per uscire attraverso il checkpoint di Erez a nord di Gaza, che i palestinesi chiamano Beit Hanoun, per essere curato.

Il giorno successivo a quello in cui Sari è stato colpito, i medici hanno detto che l’avrebbero trasferito in Egitto per le cure, ma la speciale ambulanza ICU necessaria per spostarlo non è mai arrivata come era stato invece promesso, dice Dawud al-Shubaki, suo padre.

“Non so se è la verità o se è perché lo considerano un caso senza speranza. Mi sembra che abbiano dei casi prioritari, visto che ci sono così tanti feriti” dice Dawuf ad Al Jazeera dall’[ospedale] Al Shifa.

Senza altra possibilità, Dawuf ha continuato a protestare nel cortile dell’ospedale per far conoscere le condizioni del figlio e ricevere aiuto.

“C’è ancora speranza. È cosciente. Ci hanno detto dall’ospedale S. Giuseppe di Gerusalemme che sarebbero pronti ad accoglierlo, ma quanto tempo ci vorrà? Il ferito che era nel letto vicino a lui è morto ieri”, dice Dawuf.

“Faccio appello a chiunque abbia ancora un cuore misericordioso perché faccia sì che mio figlio riceva le cure di cui ha bisogno. Non possiamo pensare di perderlo. Se muore sarà una catastrofe per tutta la famiglia” dice Dawuf, scoppiando in lacrime.

Dall’inizio delle manifestazioni per la Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, l’esercito di Israele ha ucciso per lo meno 129 palestinesi dell’enclave costiera assediata, e ha ferito più di 13000 persone.

In mancanza di risorse adeguate per provvedere alle cure necessarie ai pazienti, i dottori dell’impoverita Striscia di Gaza normalmente derivano i malati agli ospedali di Israele, della Cisgiordania e qualche volta della Giordania.

Ma per andarci i pazienti hanno bisogno di un permesso rilasciato da Israele, che spesso lo rifiuta senza spiegazioni o ci mette troppo tempo a concederlo per condizioni sanitarie urgenti.

L’altra possibilità è di uscire attraverso la frontiera sud di Rafah per essere curati in Egitto, ma la cosa è spesso dilazionata.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), al 3 giugno è stato concesso a 12 feriti su 22 di attraversare Rafah per essere curati in Egitto.

A causa del blocco israelo-egiziano che dura da 11 anni, i malati a Gaza affrontano da tempo ostacoli per lasciare Gaza e sottoporsi a cure indispensabili, cosa che ha causato a molti una lenta morte, ma i dimostranti feriti affrontano ora ostacoli anche più stringenti per attraversare Erez.

Secondo un nuovo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della SAlute, dall’inizio del movimento della Marcia del Grande Ritorno solo un terzo dei palestinesi feriti durante le manifestazioni ha avuto dalle autorità israeliane un permesso di uscita.

Al 3 giugno, dei 66 manifestanti feriti che hanno presentato domanda per essere trasferiti attraverso Erez, solo 22 sono stati approvati – rispetto a un tasso di approvazione del 60% nel primo trimestre del 2018.

Trentatré, cioè il 50%, hanno ricevuto un rifiuto – una percentuale significativamente più bassa rispetto all’8% del primo trimestre 2018.

I restanti pazienti stanno ancora aspettando, e intanto due di loro sono morti.

“È stato deciso che sarà rifiutata senza appello ogni richiesta di ingresso in Israele a scopo medico inoltrata da un terrorista attivo o da un dimostrante che abbia preso parte ai fatti violenti avvenuti vicino alla barriera”, ha commentato in una mail ad Al Jazeera un portavoce del COGAT, l’ente amministrativo dell’occupazione militare di Israele.

‘Una politica punitiva e vendicativa’

Secondo Adalah – il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba -, il rifiuto di Israele di evacuare i manifestanti feriti corrisponde ad una forma di punizione.

Prima del 15 aprile, a nessuno dei feriti durante le proteste della Marcia del Grande Ritorno è stato concesso il permesso di attraversare Erez per le cure.

Il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e Adalah hanno dovuto fare ricorso alla Corte Suprema di Israele perché i malati palestinesi potessero essere trasferiti attraverso Erez.

Il 16 aprile, tre giudici della Corte Suprema israeliana hanno unanimemente deciso che fosse consentito a Yousef Kronz, ventenne, ferito da un proiettile dell’esercito israeliano, di lasciare Gaza per cure mediche urgenti a Ramallah, per salvare la gamba rimasta.

Adalah riferisce che, a causa del ritardo imposto dall’esercito israeliano e dal tribunale riguardo alla sua iniziale richiesta di trasferimento inoltrata più di due settimane prima, Kronz ha già subito l’amputazione di una gamba.

La Corte ha deciso che Kronz non costituiva alcuna minaccia e che la sua condizione sanitaria rappresenta “un totale cambiamento nella sua vita”.

“Dalla nostra esperienza nel caso Kronz, l’esercito israeliano cerca di implementare una politica punitiva e vendicativa nel rifiutare ai residenti di Gaza accesso a trattamenti medici salvavita in Cisgiordania solo perché hanno partecipato ad una manifestazione” ha detto Mati Milstein, coordinatore per i media internazionali di Adalah.

“Di fatto, durante le udienze del tribunale, rappresentanti del governo hanno detto chiaramente che il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha deciso di impedire il trasferimento per trattamenti medici urgenti dei gazawi feriti che abbiano partecipato alle proteste e alle manifestazioni pacifiche – anche a rischio di un’amputazione.”

Secondo le leggi umanitarie internazionali, come forza d’occupazione Israele è obbligato ad assicurare ai palestinesi accesso alle cure e a garantire strutture mediche, ospedali e servizi nei territori occupati.

Tuttavia, per la delegazione di Medici per i Diritti Umani di Israele (PHRI) che ha visitato Gaza in aprile, lavorare nei migliori ospedali disponibili in città è stato come tornare indietro di diversi decenni.

Dr. Jamal Hijazi, del Centro Medico Shaare Tzedek di Gerusalemme, ha spiegato che non ci sono antibiotici, e i malati se li devono portare. Non ci sono nemmeno disinfettanti e lo staff medico usa al loro posto una soluzione salina, aumentando la probabilità di infezioni.

PHRI ha riferito che lo staff medico usa più volte i prodotti usa-e-getta, come pure i medicinali scaduti. Mancano anche materiali fondamentali come garza, morfina, punti di sutura chirurgici, anestetici e tutori per fratture alle gambe.

“I feriti non sono curati adeguatamente, e qualcuno paga con la vita”, ha detto PHRI nell’ultimo rapporto, in riferimento al pesante bilancio di vittime del 14 maggio.

“Costretti a frugare fra i resti delle scorte mediche e dei medicinali, su qualsiasi cosa riescano a mettere le mani, i medici si sentono come nullatenenti che chiedano l’elemosina.”

Non c’è altro da fare che aspettare

Il paramedico Mazen Jabreel Hasna è stato sottoposto a sei operazioni chirurgiche per salvare la sua gamba destra dopo che è stato colpito da un proiettile a frammentazione nell’area di Malaka a Gaza.

I medici hanno detto che avrebbero trasferito il trentatreenne in Egitto o in Giordania per un’operazione chirurgica, ma questo non è ancora successo. Aspettando il permesso, ha paura che le arterie artificiali che i medici hanno usato per salvargli la gamba possano presto esplodere o guastarsi, visto che non sono della misura giusta.

“Ora sono in attesa e se Dio vorrà, potrò farlo prima che qualcosa vada storto”, dice Hasna.

Anche Omar al-Housh, di 25 anni, sta aspettando il permesso di lasciare Gaza per operarsi. Il dolore è continuo, dice. “Giorno e notte.”

Passa tutto il tempo a letto, incapace anche di usare le stampelle e tiene la gamba ferita sotto un lenzuolo; non ha il coraggio di guardarla da quando il 14 maggio un cecchino israeliano l’ha colpita con un proiettile a frammentazione.

Il fratello mostra foto della gamba colpita di Omar – una profonda ferita va dall’anca alla caviglia, muscoli e tessuti completamente esposti.

Quando è arrivato Omar l’ospedale ha chiesto urgentemente donazioni di sangue. Ha ricevuto più di 60 unità di sangue a causa delle vene e dei vasi danneggiati e ha subito tre operazioni per salvargli la gamba.

Omar ha detto che il giorno dopo esser stato colpito gli è stato negato il trasferimento in Egitto.

Attualmente è sulla lista d’attesa per operarsi in Giordania, poiché in punti di sutura usati per cucire le sue vene e i vasi sanguigni danneggiati non sono del tipo giusto e la frattura delle ossa è parzialmente scomposta.

Sta aspettando il permesso dalle autorità israeliane e giordane, ma gli è stato già più volte rifiutato l’ingresso.

“Ci vuole tanto tempo e ho paura che mi rifiuteranno ancora una volta l’ingresso in Israele o in Giordania”, dice Omar.

“I medici hanno fatto un’operazione d’urgenza, temporanea, per evitare che la mia ferita peggiorasse. Voglio poter camminare di nuovo” dice Omar, aggiungendo che la sua pena è diventata anche mentale, poiché soffre di incubi e flashback.

Omar ha lavorato occasionalmente con il fratello come pescatore, ma lui e la sua famiglia non possono pagare le medicazioni e gli analgesici, ciò che aggrava il problema.

“Tutti i giorni ha bisogno di analgesici e iniezioni, altrimenti sveglia tutto il vicinato con le sue urla, ma io non posso permettermeli”, dice il padre Younis al-Housh, insegnante.

“L’altro giorno mi ha chiesto di non prendergli le iniezioni e i medicinali perché si sente di peso. Vedete come è diventata dura la vita qui? Ma ciò che ora è importante è che vogliamo che sia curato fuori di qui e possa camminare.”

(traduzione di Luciana Galliano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Rapporto OCHA del periodo 13-26 marzo 2018 (due settimane)

In Cisgiordania, nel corso di due aggressioni compiute da palestinesi, sono rimasti uccisi tre israeliani (due soldati e un colono) ed un attentatore palestinese.

Il 16 marzo, nei pressi dell’insediamento colonico di Mevo Dotan (Jenin), un palestinese di 26 anni ha guidato il suo veicolo contro un gruppo di soldati israeliani uccidendone due; ha continuato a guidare e, prima di essere arrestato dalle forze israeliane, ha investito un altro gruppo di soldati ferendone due. Secondo testimoni oculari palestinesi, quanto accaduto è sembrato essere un incidente d’auto; al contrario, secondo fonti dei media israeliani, l’autista avrebbe confessato di aver portato un attacco deliberato. Il 18 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese di 28 anni ha accoltellato e ucciso un colono israeliano di 32 anni. L’aggressore, proveniente dal villaggio di Aqraba (Nablus), è stato ucciso sul posto da un ufficiale della polizia israeliana e il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Dall’inizio del 2018, nel contesto di attacchi o presunti attacchi palestinesi, sono stati uccisi cinque israeliani e due aggressori palestinesi.

Lungo la recinzione perimetrale che circonda Gaza, in seguito a molteplici attacchi, scontri e altri episodi di violenza, la tensione è aumentata. Il 15 e il 17 marzo, nella parte settentrionale di Gaza, vicino alla recinzione, sono stati fatti detonare ordigni esplosivi; secondo quanto riferito, ad opera di membri di gruppi armati palestinesi che avevano preso di mira soldati israeliani: non ci sono stati feriti. Il 24 marzo, quattro palestinesi si sono infiltrati in Israele attraverso la recinzione; hanno danneggiato apparecchiature di ingegneria utilizzate dall’esercito israeliano e sono ritornati a Gaza illesi. In risposta a questi episodi, le forze israeliane hanno lanciato diversi raid aerei e sparato colpi di carro armato contro Gaza, mirando, secondo quanto riferito, a siti militari; non sono stati segnalati feriti. Inoltre, in dodici occasioni, sempre nei pressi della recinzione, manifestanti palestinesi si sono scontrati con forze israeliane: 43 palestinesi, di cui 13 minori, sono rimasti feriti; 31 dei feriti sono stati colpiti con armi da fuoco.

Sempre a Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, in almeno 35 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento per far rispettare il divieto di accesso, interrompendo le attività di sussistenza di agricoltori e pescatori palestinesi, ma senza causare feriti. Dall’inizio del 2018, nelle Aree ad Accesso Riservato, ci sono stati almeno 181 episodi di spari verso contadini e pescatori, con due morti e 13 feriti. Durante il periodo di riferimento, all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, per altre nove volte le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi. In un altro caso, al valico di Erez, tre palestinesi, di cui due malati in viaggio per cure mediche, sono stati trattenuti dalle forze israeliane.

A partire dal 30 marzo, i principali partiti politici di Gaza hanno promosso una serie di proteste di massa lungo la recinzione perimetrale, inclusa una marcia dei manifestanti verso Israele. Lungo la recinzione sono stati approntati diversi siti dove erigere tende per accogliere i manifestanti. Sebbene gli organizzatori abbiano chiesto dimostrazioni non violente, c’è la preoccupazione che gli eventi possano degenerare in scontri violenti con le forze israeliane e causare un numero elevato di vittime. L’Ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commissario per i diritti umani ha esortato tutti “a rispettare il diritto al raduno pacifico e alla libertà di espressione” e ha esortato Israele “a conformarsi agli obblighi previsti dalle norme sui diritti umani e ad esercitare il massimo controllo sull’uso della forza durante le operazioni di accertamento del rispetto della legge”.

In Cisgiordania, durante numerose proteste e scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 646 palestinesi, tra cui 181 minori. La stragrande maggioranza dei ferimenti (89%) è avvenuta nel contesto delle proteste settimanali contro le restrizioni di accesso e contro l’espansione degli insediamenti colonici, nonché durante manifestazioni contro il riconoscimento da parte degli Stati Uniti (6 dicembre 2017) di Gerusalemme quale capitale di Israele. Altri 59 ferimenti sono avvenuti durante scontri scoppiati nel corso di sei delle 176 operazioni di ricerca-arresto effettuate nel periodo di riferimento. Il maggior numero di feriti è stato registrato durante scontri nella città di Qalqiliya, seguita dai villaggi Kafr Qalil e Al Lubban ash Sharqiya (entrambi in Nablus) e Abu Dis (Gerusalemme). Di tutte le ferite, 38 sono state causate da armi da fuoco, 99 da proiettili gommati e 507 da inalazione di gas lacrimogeno, richiedente cure mediche oppure direttamente dalle bombolette lacrimogene sparate. Da evidenziare il caso di un ragazzo palestinese di 13 anni: è stato colpito agli occhi da un proiettile gommato sparato dalle forze israeliane durante scontri presso la scuola di Burin (Nablus); il fatto ha innescato una sospensione delle lezioni per il resto della giornata.

Il 22 marzo, nella striscia di Gaza, nel Campo Profughi di An Nuseirat, durante scontri armati innescati da un’operazione di arresto condotta da forze palestinesi, due agenti di polizia palestinesi e altri due palestinesi sono rimasti uccisi. Secondo quanto riferito, l’operazione mirava a catturare gli autori di un attacco avvenuto il 13 marzo, quando un ordigno esplosivo venne fatto detonare vicino a un convoglio di auto con cui viaggiavano il Primo Ministro palestinese ed alti funzionari. L’esplosione si verificò poco dopo l’ingresso dei veicoli nella Striscia di Gaza e ferì sette palestinesi addetti alla sicurezza.

A scopo “punitivo” le autorità israeliane hanno sigillato con calcestruzzo una stanza nella città di Qabatiya (Jenin), colpendo sei palestinesi. Il locale fa parte della casa di famiglia di uno degli autori palestinesi di un attacco avvenuto nell’ottobre 2017 a Kafr Qasem, in Israele, dove fu ucciso un colono israeliano.

In area C e nella zona est di Gerusalemme, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate altre dodici strutture, sfollando 18 palestinesi, tra cui sei minori, e diversamente colpendo altre 14 persone. Nove delle strutture prese di mira erano a Gerusalemme Est (Jabal al Mukabir, Ath Thuri e Al Watta), le altre tre nella zona C dei villaggi Kafr Malik e Silwad (entrambi a Ramallah).

Sono stati segnalati undici attacchi di coloni israeliani con conseguenti ferimenti di palestinesi o danni alle loro proprietà. In cinque diversi episodi, cinque contadini palestinesi che lavoravano sulle proprie terre, nei villaggi di Turmus’ayya (Ramallah), Immatin (Qalqiliya), At Tuwani (Hebron), Huwwara e Burin (entrambi in Nablus), sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni israeliani; in quest’ultima località è stato danneggiato anche un trattore. Inoltre, a Gerusalemme Est, un ragazzo palestinese di 16 anni è stato aggredito fisicamente e ferito. Nella città di Hizma e nel villaggio di Beit Iksa (entrambi a Gerusalemme), coloni israeliani hanno vandalizzato cinque veicoli di proprietà palestinese ed hanno spruzzato sui muri di una casa palestinese scritte razziste e “Questo è il prezzo che dovete pagare”. In tre diversi episodi, coloni israeliani hanno tagliato 17 alberi di proprietà palestinese nei villaggi di Qaryut (Nablus) e Al Jab’a (Betlemme) ed hanno rubato il bestiame di un contadino del villaggio di Urif (Nablus). In As Sawiya e Madama (Nablus), Kardala e Khirbet Tell el Himma (Tubas) ed in A Seefer e At Tuwani (Hebron), coloni hanno sparato o lanciato pietre contro contadini palestinesi che lavoravano vicino alle aree di insediamento colonico; non sono stati segnalati feriti. Dall’inizio del 2018, la media settimanale degli attacchi di coloni con ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà, ha registrato un aumento del 50 % rispetto al 2017 e del 67% rispetto al 2016.

In Cisgiordania, secondo quanto riportato dai media israeliani, sono stati segnalati, almeno dodici episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguenti danni a tre veicoli. Gli episodi sono stati segnalati nelle aree di Hebron e Betlemme. Inoltre, a Gerusalemme Est sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera nell’area di Shu’fat.

Il 27 marzo, nell’area (H2) di Hebron sotto controllo israeliano, coloni israeliani, sotto la protezione delle forze israeliane, hanno occupato due case disabitate, sostenendo di averne acquisito la proprietà. Da parte palestinese vengono respinte queste affermazioni. Una delle case era stata precedentemente occupata da coloni nel gennaio 2016 e successivamente evacuata in seguito a una decisione dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana. La stretta vicinanza di abitazioni di coloni alla Moschea di Ibrahimi solleva preoccupazioni in merito a potenziali restrizioni di accesso a questo sito religioso, ma anche di ulteriori tensioni e scontri nella zona. Il 22 marzo, nella stessa zona, coloni israeliani hanno evacuato, sempre in conseguenza di una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia, parti di un edificio di proprietà palestinese (Abu Rajab), che erano state occupate nel luglio 2017.

Il 24 marzo, l’unica Centrale Elettrica di Gaza è stata spenta avendo esaurito le riserve di carburante; le interruzioni di corrente sono così salite a 20 ore al giorno. Ciò consegue all’interruzione, a partire dal 21 gennaio, delle importazioni di carburante dall’Egitto. Una delle due turbine della Centrale è rientrata in funzione il 26 marzo, a seguito della ripresa delle consegne di carburante. La grave crisi dell’elettricità ha continuato a minare la fornitura di servizi essenziali, tra cui sanità, acqua potabile e servizi igienici, incidendo direttamente sulla vita dei 2 milioni di persone che vivono a Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto per tre giorni (23-25 marzo): un giorno in entrambe le direzioni e due giorni in una direzione, permettendo a 830 palestinesi di entrare in Gaza e a 620 di uscirne. Secondo le autorità palestinesi a Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo per dieci giorni: cinque giorni in entrambe le direzioni e cinque giorni in una direzione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Israele condanna centinaia di palestinesi alla disoccupazione – a causa del loro cognome

Gideon Levy, Alex Levac |

23 marzo 2018, Haaretz

Le autorità israeliane hanno revocato i permessi di lavoro a più di mille palestinesi per il solo motivo che hanno lo stesso cognome dell’autore di un’aggressione col coltello.

Se questa non è una punizione collettiva, allora che cos’ è una punizione collettiva? Se questo non è arbitrio, allora che cos’ è un arbitrio? E se questa misura non innesca il fuoco nella relativamente tranquilla cittadina di Yatta, in Cisgiordania, allora a che cosa mira questo provvedimento? Yatta è sconvolta, la sua economia minaccia di collassare, e tutto per via di una persona che ha compiuto un reato, a causa del quale Israele sta punendo un’intera città.

Fino a pochi mesi fa più di 7000 residenti di questa cittadina a sud delle colline di Hebron avevano permessi di lavoro. Secondo l’ufficio palestinese di Coordinamento e Contatto [con gli occupanti israeliani] di Yatta, 915 di loro, con il cognome Abu Aram, lavoravano in Israele ed altre centinaia nelle colonie. Ma poi quei lavoratori hanno perso il lavoro in Israele e nelle colonie, solo a causa del loro cognome, in seguito ad un’ incredibile, draconiana decisione dell’Amministrazione Civile, l’ente israeliano che governa in Cisgiordania. Disperati, decine di loro hanno addirittura cambiato i loro cognomi sulle carte di identità, ma è stato inutile. Il loro ingresso per lavorare in Israele, dove per anni hanno avuto un impiego, è bloccato, benché non abbiano fatto niente di male. Ecco ciò che è successo.

Lo scorso 2 agosto un diciannovenne residente a Yatta, Ismail Abu Aram, accoltellò Niv Nehemia, vicedirettore di un supermercato nella città israeliana di Yavneh, ferendolo gravemente. L’aggressore fu arrestato. Il giorno seguente le autorità decisero – in base alla procedura standard dopo un attacco terroristico – di vietare alla famiglia dell’aggressore l’ingresso in Israele. Il divieto venne revocato 10 giorni dopo, i membri della famiglia tornarono ai loro impieghi in Israele e nelle colonie e Yatta riprese la sua vita normale.

Tuttavia, il 14 dicembre, senza ragioni apparenti, Israele improvvisamente si è ricordato dell’incidente e ha reintrodotto un divieto generalizzato nei confronti di migliaia di persone, senza preavviso né spiegazione.

Benché simili misure siano prassi consueta di Israele dopo gli attacchi, questa volta le dimensioni [del provvedimento] non hanno precedenti. Abu Aram è la più numerosa hamula (clan) di Yatta. Secondo gli attivisti, il lavoro in Israele e nelle colonie dà sostentamento a migliaia di residenti. I lavoratori e le loro famiglie sono ora condannati alla disoccupazione e agli stenti a causa dell’accoltellamento compiuto da Ismail, anche se la maggior parte di loro non lo conosce nemmeno.

Dal momento del divieto, la città è sconvolta e la sua economia in grave pericolo. Migliaia di lavoratori sono rimasti a casa inattivi per quattro mesi, si sono accumulati debiti e annullati matrimoni, gli assegni vengono respinti, i magazzini sono vuoti e i ragazzi hanno abbandonato la scuola. In base a caute stime, la cittadina, i cui residenti sono quasi interamente dipendenti dal lavoro in Israele, al momento ha una riduzione di centinaia di migliaia di shekel [100.000 ILS= 23.000 €, ndtr.] di entrate al mese.

Questa settimana gli abitanti di Yatta si sono riuniti per sfogare la loro angoscia e protestare. Più di 100 uomini si sono recati in un ristorante all’ingresso della città. In vista del nostro arrivo, qualcuno aveva preparato dei poster in un ebraico approssimativo per esprimere la loro protesta: “Lavoratori contro la punizione”, “No alla politica delle rappresaglie”. Dalla collina su cui è arroccata una moschea sono scesi sempre più uomini, in maggioranza di mezza età, i volti bruciati dal sole e non rasati, le mani da lavoratori, al polso orologi di plastica di poco valore – i muratori e gli asfaltatori, a cui ora si nega questa possibilità.

Sono gli uomini che si alzano alle tre del mattino per iniziare il lavoro alle sette, a Tel Aviv, Be’er Sheva, Gerusalemme, Beit Shemesh o Ashdod, e tornano a casa quando è buio. Ora languiscono a casa, arrabbiati e frustrati. Quasi tutti parlano ebraico. Mostrano i loro permessi di lavoro. I documenti rosa si accumulano sul tavolo; alcuni sono ancora validi, altri sono scaduti e non possono essere rinnovati e nessuno di essi ora consentirà loro di entrare in Israele a lavorare. Non sono colpiti solo i lavoratori manuali: commercianti e anche persone che hanno bisogno di cure mediche hanno il divieto di ingresso in Israele a causa del blocco “Abu Aram”.

Qui useremo solo il loro nome, perché hanno tutti lo stesso cognome, per loro disgrazia. Naim, di 52 anni, padre di otto figli, lavora per la Bardarian Brothers di Gerusalemme, impresa che si occupa di progettazione di infrastrutture e movimento terra. Di fatto, circa 300 membri della famiglia [allargata] lavorano per questa impresa. Naim vi ha lavorato per 13 anni. Il giorno dopo l’aggressione di Yavneh, si è alzato a notte fonda per andare a lavorare, ma al checkpoint 300 di Betlemme è stato rimandato a casa insieme ad altre centinaia di persone del clan. Gli è stato detto che il divieto sarebbe stato revocato dopo 10 giorni.

Ed è stato così. Dopo una settimana e mezza tutti sono tornati al lavoro, felici e sollevati. Poi è arrivato quel giorno nero di dicembre, quattro mesi dopo. Quella notte, ai checkpoint che attraversano andando al lavoro – Tarqumiya, Meitar e Checkpoint 300 – gli è stato detto: “ Tutti quelli della famiglia Abu Aram tornino a casa.” Almeno per sei mesi. Anche ai loro datori di lavoro israeliani è stato intimato: non assumete nessuno con il cognome proibito.

I lavoratori erano sconvolti, anche Naim. “Siamo andati a casa e vi siamo rimasti da allora”, dice, imbarazzato. Solo pochi di loro hanno nuovamente tentato la fortuna ai checkpoint negli ultimi mesi, e tutti sono stati mandati a casa. A quelli che hanno fatto molti tentativi sono stati anche confiscati i permessi – non che sarebbero serviti a qualcosa.

Abitualmente i permessi di lavoro devono essere rinnovati ogni sei mesi. Ecco il permesso di Sabar, valido fino al 10 marzo. Il permesso di Mohammed era valido fino al 14 febbraio. Gettano i documenti sul tavolo allo stesso modo in cui le carte da gioco vengono buttate sul tappeto verde di un tavolo di casinò; magari accadrà una magia e ritorneranno validi. “Permesso di uscita per lavoro in Israele. Il lavoro dura tutto il giorno. In Israele, tranne che a Eilat [città del sud di Israele, ndtr.]. Firmato Yitzhak Levy, ufficiale responsabile per l’impiego.”

Gli uomini sono andati negli uffici dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.] ed all’unità distrettuale di Coordinamento e Contatto [ente locale dell’ANP, ndtr.], a Hebron, ed alle principali sedi amministrative di Beit El. Nessuno li ha neppure ascoltati, tantomeno gli ha dato spiegazioni. Solo un impiegato si è preso la briga di dirgli che l’ordine era arrivato dall’alto. Quanto in alto? Non si può sapere. Hanno anche tentato la fortuna al municipio di Hebron, ma ovviamente nessuno là li ha potuti aiutare.

Nasser, un commerciante di rottami di ferro, è disoccupato. Ha 51 anni e nove figli. Con sei anni di lavoro nello stesso posto, dice: “È davvero brutto, fratello. Stiamo male.” Mahmoud, di 43 anni e cinque figli, ha lavorato come fattorino per la Levy Brothers negli ultimi 11 anni: “Uno abituato a stare in Israele per tutta la vita, può lavorare nei territori? Non c’è lavoro a Yatta. All’inizio ci alzavamo al mattino e andavamo al checkpoint. Adesso io mi alzo al mattino e litigo con mia moglie. Vogliamo che ciò che diciamo giunga (alle autorità israeliane).”

Anche Mohammed, 42 anni, passa le giornate in casa. Lavora per Y.D. Barzani, una ditta di costruzioni di Gerusalemme che ogni giorno faceva arrivare 10 lavoratori da Yatta per i suoi cantieri; adesso sono tutti qui, bloccati in casa. In base ai loro permessi, dovrebbero lavorare nelle costruzioni a Har Hotzvim, la zona di alta tecnologia industriale a Gerusalemme. Si avvicina suo figlio di 12 anni; ci avevano detto che ha lasciato la scuola perché i suoi genitori non hanno i soldi per comprargli i quaderni. “Non ci sono nemmeno 2 shekel ( 0,46 €) per comprare qualcosa per la ricreazione”, dice uno degli uomini. Altri dicono che alcuni residenti sono stati arrestati dalla polizia palestinese a causa di assegni a vuoto e debiti non pagati.

Alcuni disoccupati di Yatta più intraprendenti sono andati alla sede locale del ministero dell’Interno palestinese per modificare i propri nomi. Sabri Abu Aram è diventato Sabri Hassin, Mahmoud Abu Aram è diventato Mahmoud Mahmed, Radi Abu Aram si è trasformato in Radi Gabrin. I nomi sono stati modificati sulla loro carta d’identità – eccoli qui, per farceli controllare – ma al checkpoint israeliano non è cambiato niente: il numero di carta di identità era lo stesso.

Nasser, il commerciante di rottami di ferro, fa una domanda: “Metti che adesso andiamo sulla strada principale. Vogliamo fare una manifestazione pacifica. Vogliamo solo dire che vogliamo vivere. L’esercito è vicino. Sulla collina, a cinque minuti di distanza. C’è la possibilità che vengano qui e voi possiate parlare con loro?”

Ibrahim dice che se c’è un cespuglio spinoso nel giardino, tu sradichi il cespuglio, non l’intero giardino. Ibrahim, di 52 anni, si definisce un attivista per la pace, che probabilmente è il motivo per cui gli è stato negato l’ingresso in Israele negli ultimi 20 anni. Calcola che 30.000 persone siano colpite dal divieto, e di conseguenza tutta la città di Yatta, in quanto non vi è più entrato denaro. I negozi sono vuoti, dice.

“Ci vedono come nemici. Ma questa è una politica che accresce il livello di violenza. La vostra gente non lo capisce? Noi siamo a favore della vicinanza e della pace – ma questo agisce nel senso opposto”, dice Ibrahim. “Vorremmo che la sinistra israeliana sentisse la pressione, sollevasse la questione anche alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. Abbiamo già scritto lettere a tutte le organizzazioni per la pace.”

Interrogato sul tema, il portavoce del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori ha detto a Haaretz: “Il 2 agosto 2017 Ismail Abu Aram del villaggio di Yatta ha compiuto un’aggressione col coltello a Yavneh, durante la quale un civile è stato ferito gravemente. Come conseguenza, i permessi rilasciati ai membri del clan Abu Aram sono stati immediatamente sospesi.”

A Yatta dicono che prima del 1967 c’erano molti più cognomi in città. Dopo la conquista israeliana tutti i rami del grande clan vennero registrati col nome del mukhtar, il capo, Abu Aram. Ora vengono puniti.

Il lavoratore disoccupato Radi chiede se gli israeliani hanno trattato gli assassini (ebrei) della famiglia Dawabsheh a Duma [un bambino di 18 mesi, sua madre e suo padre sono morti arsi vivi in seguito all’attacco di coloni, ndtr.] nello stesso modo.

Io chiedo a Radi: “Almeno dormi fino tardi al mattino adesso?”

“Che cosa intendi con dormire, abbiamo ogni genere di pensieri e preoccupazioni.”

Raccolgono i loro permessi dal tavolo e li infilano in fondo alle tasche, il loro tesoro nascosto, e lentamente tornano a casa.

Ibrahim, quello che si definisce attivista, ha telefonato giovedì per dirci che il giorno prima quattro uomini del clan Abu Aram di Yatta hanno fatto un’escursione sui Monti della Giudea. Nel tardo pomeriggio, mentre scendevano in una gola che conduce al Mar Morto, hanno sentito grida di aiuto. Si sono imbattuti in una coppia di giovani escursionisti israeliani, di Be’er Sheva, che si erano persi ed erano sfiniti. Gli uomini se li sono caricati sulle spalle e li hanno portati dal letto del fiume fino alla loro macchina. Dopo aver raggiunto la strada principale, la coppia ha chiamato l’unità di sicurezza della vicina colonia di Carmel per chiedere aiuto.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Ferito da un proiettile in testa e poi arrestato, Mohammed Tamimi non si perde d’animo

Tessa Fox

28 febbraio 2018, Middle East Eye

L’adolescente, come altri dieci palestinesi, è stato arrestato nel quadro della continua repressione da parte di Israele contro il villaggio di Nabi Saleh, noto per la sua resistenza di lunga durata contro l’occupazione.

Nabi Saleh, Cisgiordania occupata – Alle tre del mattino Mohammed Tamimi è stato svegliato dalle urla e dai colpi alla porta d’entrata della casa della sua famiglia.

Mentre era ancora a letto, la porta della sua camera si è aperta ed ha visto dei soldati israeliani avvicinarglisi, mentre suo padre li seguiva.

Sapeva che stava per essere arrestato.

Il villaggio palestinese di Nabi Saleh, a nord ovest di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, è abituato alle incursioni notturne delle forze israeliane. Mohammed, 15 anni, come altri dieci giovani palestinesi del villaggio, è stato arrestato alla mattina presto del 26 febbraio. Tutti tranne due hanno meno di 18 anni.

Quello di Mohammed è un caso speciale, dato che è uscito dall’ospedale solo alla fine di dicembre.

Mohammed ha passato quattro giorni in coma ed ha subito due operazioni per togliere un proiettile di acciaio ricoperto di gomma piantato nella parte posteriore del suo cervello dopo essere stato colpito quasi a bruciapelo dalle forze israeliane. La sua ferita gli impedisce di andare a scuola per almeno sei mesi.

La madre di Mohammed, Emthal Tamimi, è sembrata molto preoccupata riguardo al figlio dopo il suo arresto.

Un’esperienza traumatica

Sono impazzita,” ha confermato Emthal Tamimi a Middle East Eye.

Ha chiesto ai soldati di lasciare in pace suo figlio a causa del suo precario stato di salute. “Abbiamo avuto una discussione, gli ho detto che era inutile prenderlo, che è ferito, che tutte le mattine e tutte le sere deve prendere delle medicine,” ha raccontato Emthal. Disobbedendo ai soldati che le avevano ordinato di rimanere in casa, Emthal è corsa dietro a suo figlio mentre era portato dentro una camionetta blindata. “Li ho seguiti e gli ho chiesto di ammanettarlo davanti perché ha male ad una spalla, ma gli hanno lasciato le manette dietro,” ha ricordato.

Contrariamente agli altri giovani di Nabi Saleh, Mohammed è stato liberato il giorno stesso, a metà pomeriggio.

L’avvocato della famiglia ha potuto individuare il luogo in cui i soldati l’hanno portato e farlo liberare. “Sabato ha subito un’altra operazione, è per questo che hanno potuto ottenere il suo ritorno anticipato,” ha spiegato Emthal.

Dopo essere stata avvertita che Mohammed sarebbe stato riportato al villaggio entro un’ora, Emthal ha atteso pazientemente a casa, circondata da amici e dalla sua famiglia. “Spero che stia bene,” ha confidato Emthal, innervosita per il suo stato di salute e per la brutalità dei soldati.

Sempre su di morale

Dopo essere tornato a casa, Mohammed era tutto sorridente.

Ha preso la madre tra le braccia nella sala della loro casa. Emthal avrebbe voluto che questa parentesi fosse durata un più a lungo. Chiaramente non voleva perderlo di nuovo.

Mohammed sembrava rilassato e calmo, ma quando si è seduto vicino a sua madre, è stato sopraffatto dall’emozione e ha trattenuto a stento le lacrime. Tuttavia, quando ha iniziato a parlare, si è messo a scherzare.

Penso che si sia trattato solo di sfortuna,” ha detto.

Poi ha spiegato, scherzando, che le forze israeliane l’avevano arrestato perché aveva spostato i mobili della sua camera.

Quando ho cambiato la posizione del mio letto, sono venuti ad arrestarmi,“ ha dichiarato Mohammed a Middle East Eye. “All’inizio era messa così,” ha spiegato tracciando la stanza con le sue mani, “e loro non sono venuti.”

È la seconda volta. In precedenza mi hanno arrestato una volta, anche quella dopo che avevo spostato il mio letto,” ha indicato Mohammed agitando le braccia e ridendo, nel tentativo di confermare la validità della sua teoria.

Non sapendo più come mettere il letto per evitare di essere arrestato, Mohammed ha affermato che ormai avrebbe “spostato (il letto) in un’altra camera.”

Mohammed si è detto sorpreso di essere stato liberato il giorno stesso del suo arresto, pur tenendo conto del suo stato. “Stavo dormendo, mi hanno svegliato e mi hanno detto che avrei potuto tornare a casa,” ha raccontato.

Gli manca ancora una parte del cranio perché i chirurghi aspettano che il suo cervello si sgonfi per potergliela rimettere.

Non si può esporre ai raggi del sole e deve fare molta attenzione ad evitare urti contro la sua testa.

I soldati israeliani hanno ignorato il fatto che il suo cervello non è protetto. “Mi hanno colpito alle gambe, mi hanno schiaffeggiato in faccia e facevano come se non notassero quello che ho alla testa,” ha dichiarato Mohammed. “Ho fatto del mio meglio per proteggermi la testa perché a loro non importava. Hanno continuato a colpirmi e a darmi delle pedate.”

Liberato per trasmettere un messaggio

Mohammed e il resto della sua famiglia sanno che è stato arrestato con gli altri ragazzi di Nabi Saleh per farne un esempio. Una volta liberato, si ritrova nel ruolo di messaggero degli israeliani per il resto della comunità.

Il primo messaggio che mi hanno affidato (durante la mia detenzione) è stato: “Tutte le notti ne arresteremo sei, fino ad arrivare a quaranta,’” ha riferito Mohammed.

L’altro messaggio è rivolto ai più anziani: arresteranno la maggioranza di loro, tutti quelli che parlano,” ha proseguito, aggiungendo che prenderanno di mira soprattutto i dirigenti della resistenza di Nabi Saleh.

Hanno cercato di farmi dire dei nomi, perché sapevano che avevo paura che mi dessero delle pedate e mi ferissero in testa.” Questi messaggi e questi arresti in massa fanno parte della punizione collettiva che Israele continua ad infliggere a Nabi Saleh dopo che nel 2010 il villaggio ha iniziato a protestare contro l’occupazione israeliana.

Anche Naji Tamimi, il padre di Noor Tamimi, di 20 anni e arrestata insieme a sua cugina Ahed a metà dicembre, è stato minacciato durante l’incursione notturna.

Mi hanno fatto delle domande sulla resistenza a Nabi Saleh, vogliono che io me ne assuma la responsabilità,” ha dichiarato Naji a Middle East Eye.

Gli ho detto che il problema è l’occupazione, che la resistenza è un altro aspetto dell’occupazione. Che se vogliono mettere fine alla resistenza, devono porre fine all’occupazione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




54 pazienti sono morti in attesa che Israele gli permettesse di uscire da Gaza

Ali Abunimah

14 febbraio 2018, The Electronic Intifada

Cinquantaquattro palestinesi sono morti l’anno scorso aspettando che Israele permettesse loro di lasciare la Striscia di Gaza per curarsi.

Una di loro era Faten Ahmed, una ragazza ventiseienne con una rara forma di cancro. E’ morta in agosto mentre aspettava da Israele il permesso di viaggiare per ricevere trattamenti di chemioterapia e radioterapia non disponibili a Gaza.

Aveva già mancato otto appuntamenti ospedalieri a causa di ritardi o rifiuti da parte di Israele del “benestare di sicurezza”, riferisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ahmed è una delle cinque donne morte di cancro nello stesso mese in attesa del permesso da Israele che non è mai arrivato.

In totale, fra i morti l’anno scorso in attesa del permesso, 46 erano malati di cancro.

Uno scioccante numero di morti

Questo sconcertante pedaggio evidenzia l’impatto letale dell’assedio sempre più stretto di Israele sui due milioni di persone che vivono a Gaza.

Vediamo sempre più Israele ritardare o negare l’accesso a trattamenti che potrebbero salvare delle vite, che sia il cancro o altro, e di conseguenza un numero impressionante di malati palestinesi muoiono, mentre il sistema sanitario di Gaza – sottoposto a mezzo secolo di occupazione e a un decennio di blocco totale – è sempre meno in grado di provvedere ai bisogni della popolazione” ha detto martedì Aimee Shalan, amministratore delegato di Medical Aids for Palestinians.

La sua associazione assistenziale, insieme ad Amnesty International, Human Rights Watch, il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e i Medici per i Diritti Umani di Israele, ha rivolto un urgente appello a Israele affinché “tolga le illegali restrizioni totali alla libertà di movimento della popolazione di Gaza, molto problematiche per coloro con gravi problemi di salute.”

Nel 2017 le autorità di occupazione israeliane hanno accettato solo il 54% delle domande di permesso a lasciare Gaza per ragioni mediche, la percentuale più bassa da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha cominciato a raccogliere dati nel 2008.

Israele ha tragicamente rafforzato la stretta mortale; la percentuale di permessi concessi è caduta dal 92 % del 2012 all’82% del 2014 per poi scendere al 62 % nel 2016 prima di raggiungere l’anno scorso il punto più basso.

Le associazioni per la salute e i diritti umani segnalano che l’ONU e il Comitato Internazionale della Croce Rossa hanno dichiarato il blocco di terra, navale e aereo di Israele su Gaza, che impedisce i movimenti della popolazione, una “punizione collettiva” – un crimine di guerra.

I palestinesi di Gaza hanno perso più di 11.000 appuntamenti medici programmati nel 2017 in seguito al rifiuto o alla risposta fuori tempo delle autorità israeliane alle richieste di permessi”, dichiarano le associazioni.

La complicità di Egitto e Autorità Nazionale Palestinese

Le associazioni sottolineano anche come l’Egitto e l’Autorità Nazionale Palestinese con sede a Ramallah abbiano avuto un ruolo nel peggiorare la situazione: “L’Egitto ha per lo più tenuto chiuso dal 2013 il valico di Rafah alla popolazione di Gaza, contribuendo così a diminuire l’accesso alle cure mediche.”

In quanto Stato confinante con un territorio che soffre di una lunga crisi umanitaria, l’Egitto dovrebbe facilitare l’accesso della popolazione agli aiuti umanitari”, affermano. “Ciò nonostante, la responsabilità finale resta a Israele, la forza di occupazione.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha anche drasticamente ridotto il sostegno finanziario alle cure mediche fuori Gaza come parte delle sanzioni intese a forzare Hamas perché ceda il controllo sulla gestione di Gaza.

Queste restrizioni da parte dell’ ANP hanno causato almeno un morto, secondo le associazioni. Ma le autorità mediche di Gaza hanno detto che più di una dozzina di persone, inclusa una bimba di tre anni con un problema cardiaco, sono morte aspettando un sostegno economico da Ramallah.

Tutto questo accade nel mezzo di una crisi prodotta dal prolungato assedio, che ha portato al collasso di pezzi fondamentali del sistema sanitario.

In una condizione di diffusa povertà e disoccupazione, almeno il 10% dei bambini più piccoli soffre di malnutrizione cronica, a Gaza manca più della metà di tutte le medicine e le dotazioni mediche necessarie o è inferiore al fabbisogno mensile, e la cronica mancanza di elettricità ha fatto sì che le autorità abbiano tagliato sulla sanità e altri servizi essenziali”, affermano le associazioni della sanità e dei diritti umani.

Fine dell’assedio

All’inizio di questo mese, gli ospedali di Gaza hanno cominciato a chiudere i battenti poiché i generatori d’emergenza sono rimasti senza combustibile, costringendo a rimandare centinaia di operazioni chirurgiche.

Mercoledì, RT (Russia Today) ha mandato in onda questo resoconto da Gaza sulla situazione critica dei malati di cancro. La corrispondente Anya Parampil ha parlato con Zakia Tafish il cui marito Jamil è morto dopo che gli è stato più volte impedito di andare a Gerusalemme a operarsi.

L’emittente ha anche trasmesso un notiziario sul peggioramento della situazione degli ospedali nei territori.

A seguito dell’allarme ONU sull’incombente catastrofe, il Qatar e gli Emirati Arabi si sono impegnati la scorsa settimana ad un finanziamento a breve termine di 11 milioni di dollari per prevenire per qualche altro mese una catastrofe ancora peggiore.

Comunque, come notano le associazioni dei diritti umani, non c’è altra soluzione a lungo termine che la fine dell’assedio.

Le restrizioni di movimento imposte dal governo israeliano sono direttamente legate alla morte dei pazienti e all’aggravarsi delle sofferenze, dovendo i malati chiedere i permessi”, ha detto Issam Younis direttore di Al Mezan.

Queste pratiche fanno parte del regime di chiusura e di permessi che impedisce ai malati di vivere dignitosamente, e viola il diritto alla vita.”

Medical Aid for Palestinian, con sede in Inghilterra, si sta appellando alla gente perché si rivolga ai legislatori del parlamento britannico e “chieda loro di premere sul governo britannico affinché agisca per salvare delle vite a Gaza.”

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




INTERVISTA. Ilan Pappe: come Israele ha trasformato la Palestina nella più grande prigione al mondo

Mustafa Abu Sneineh

Venerdì 24 novembre 2017, Middle East Eye

Una storia dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza analizza quali meccanismi militari vengono usati per controllare le vite dei palestinesi.

La guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e gli eserciti arabi ha portato all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Israele ha spacciato la storia di questa guerra come se fosse stata accidentale. Ma nuovi documenti storici e verbali d’archivio dimostrano che Israele l’aspettava da tempo.

Nel 1963 elementi dell’amministrazione militare, legale e civile israeliana frequentarono un corso presso l’università ebraica di Gerusalemme per stendere un piano complessivo per gestire i territori che Israele avrebbe occupato quattro anni dopo e per controllare un milione e mezzo di palestinesi che ci vivevano.

La ragione stava nella fallimentare gestione israeliana dei palestinesi a Gaza durante la breve occupazione nel periodo della crisi di Suez del 1956 [in cui l’esercito israeliano, affiancando inglesi e francesi, combatté contro l’Egitto di Nasser, che aveva nazionalizzato il canale, ndt.].

Nel maggio 1967, settimane prima della guerra, i governatori militari israeliani ricevettero istruzioni legali e militari su come controllare le città ed i villaggi palestinesi. Israele avrebbe proceduto a trasformare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in mega prigioni sotto governo e controllo militare.

Insediamenti, posti di blocco e punizioni collettive fecero parte di questo piano, come dimostra lo storico israeliano Ilan Pappe in “The biggest prison on earth: a history of the occupied territories(“La più grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati”), una descrizione in profondità dell’occupazione israeliana.

Pubblicato nel cinquantesimo anniversario della guerra del 1967, il libro è stato selezionato per il “Palestine Book Award 2017”, organizzato da Middle East Monitor, in attesa di essere proclamato a Londra il 24 novembre. Pappe ha parlato con Middle East Eye del libro e di ciò che esso rivela.

Middle East Eye: Quanto questo libro si basa sul suo saggio precedente, “The ethnic cleansing of Palestine” (“La pulizia etnica in Palestina”) sulla guerra del 1948?

Ilan Pappe: È decisamente un proseguimento del mio precedente libro “The ethnic cleansing”, che descrive gli eventi del 1948. Io vedo l’intero progetto sionista come uno schema, non solo come un singolo evento. Una struttura di colonialismo di insediamento attraverso cui un movimento di coloni si insedia in una nazione. Fin quando la colonizzazione non è completa e la popolazione indigena resiste con un movimento di liberazione nazionale, ognuno dei periodi di cui mi occupo non è che una fase all’interno della stessa struttura.

Benché “La più grande prigione” sia un libro di storia, siamo tuttora all’interno dello stesso capitolo storico. Quindi a questo riguardo probabilmente ci sarà in seguito un terzo libro che tratterà degli eventi del XXI secolo, di come la stessa ideologia di pulizia etnica e di espropriazione viene attuata nella nuova era e di come i palestinesi vi resistono.

MEE: Lei parla della pulizia etnica che ebbe luogo nel giugno 1967. Che cosa accadde allora ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza? In che modo essa si differenziò dalla pulizia etnica della guerra del 1948?

I.P. Nel 1948 c’era un piano molto chiaro per cercare di espellere quanti più palestinesi possibile dalla maggior parte possibile della Palestina. Il progetto colonialista di insediamento credeva di avere la forza di creare uno spazio ebraico in Palestina che fosse totalmente privo di palestinesi. Non ha funzionato così bene, ma è stato quasi vincente, come tutti sapete. L’80% dei palestinesi che vivevano all’interno di quello che diventò lo Stato di Israele divennero rifugiati.

Come dimostro nel libro, vi erano alcuni politici israeliani che pensavano che fosse possibile fare nel 1967 ciò che era stato fatto nel 1948. Ma la grande maggioranza di loro comprese che la guerra del 1967 fu molto breve, durò sei giorni, e c’era già la televisione e parecchi di coloro che volevano espellere erano già dei rifugiati del 1948.

Quindi io penso che la strategia non fu di compiere una pulizia etnica nello stesso modo in cui fu condotta nel 1948. Fu ciò che chiamerei una pulizia etnica progressiva. In alcuni casi espulsero masse di persone da certe zone quali Gerico, la Città Vecchia di Gerusalemme e i dintorni di Qalqilya. Ma nella maggior parte dei casi decisero che un governo militare ed un blocco che rinchiudesse i palestinesi all’interno delle proprie aree sarebbe stato tanto vantaggioso quanto espellerli.

Dal 1967 fino ad oggi c’è stata una pulizia etnica molto lenta, che probabilmente copre un periodo di 50 anni ed è così lenta che a volte può colpire una sola persona in un giorno. Ma se si guarda l’intero panorama dal 1967 ad oggi, stiamo parlando di centinaia di migliaia di palestinesi che non hanno il permesso di tornare in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza.

MEE: Lei distingue tra due modelli militari utilizzati da Israele: il modello di prigione aperta in Cisgiordania e il modello di prigione di massima sicurezza nella Striscia di Gaza. Come definisce questi due modelli? E si tratta di termini militari?

IP: Uso questi termini come metafora per spiegare i due modelli che Israele offre ai palestinesi nei territori occupati. Insisto ad usarli perché ritengo che la soluzione dei due Stati sia in realtà il modello di prigione aperta.

Gli israeliani controllano i territori occupati direttamente o indirettamente e cercano di non penetrare all’interno delle città e dei villaggi palestinesi con alta densità di popolazione. Hanno separato la Striscia di Gaza [dalla Cisgiordania, ndt.] nel 2005 e stanno ancora suddividendo la Cisgiordania in parti. Esistono una Cisgiordania ebrea ed una Cisgiordania palestinese, che non è più una zona dotata di contiguità territoriale.

A Gaza gli israeliani sono i guardiani che tengono chiusi i palestinesi dal mondo esterno, ma non interferiscono con ciò che essi fanno all’interno.

La Cisgiordania è come una prigione a cielo aperto in cui si mandano piccoli criminali a cui si consente più tempo per uscire e lavorare all’esterno. E non c’è un regime duro all’interno, ma è sempre una prigione. Persino il presidente Mahmoud Abbas, se si sposta dall’area B [sotto controllo amministrativo dell’ANP e controllo militare israeliano, ndt.] all’area C [sotto totale controllo israeliano, ndt.], ha bisogno che gli israeliani gli aprano il cancello. E secondo me è veramente emblematico il fatto che il presidente non possa spostarsi senza che il carceriere israeliano apra la gabbia.

Ovviamente c’è una continua reazione palestinese a tutto questo. I palestinesi non rimangono passivi e non lo accettano. Abbiamo assistito alla Prima e alla Seconda Intifada, e forse ne vedremo una terza. Gli israeliani dicono ai palestinesi, secondo una mentalità da gestione carceraria, ‘se voi resistete noi vi toglieremo tutti i vostri privilegi, come facciamo in carcere. Non potrete lavorare all’esterno. Non potrete muovervi liberamente e subirete punizioni collettive.’ E’ questo il genere di versione repressiva, la punizione collettiva come rappresaglia.

MEE: La comunità internazionale condanna timidamente la costruzione o l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati. Non considera questo come elemento centrale del sistema coloniale israeliano, come lei descrive nel suo libro. Come hanno avuto inizio le colonie israeliane e questo è avvenuto su basi razionali o religiose?

IP: Dopo il 1967 c’erano due mappe di insediamenti o colonizzazione. C’era una mappa strategica ideata dalla sinistra israeliana. Il padre di questa mappa fu il defunto Yigal Allon, il grande stratega, che lavorò con Moshe Dayan nel 1967 al piano per controllare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Si basavano su un principio strategico, non troppo ideologico, benché ritenessero che la Cisgiordania appartenesse ad Israele.

Erano più interessati ad assicurare che gli ebrei non si insediassero in zone arabe densamente popolate. Dicevano che dovunque i palestinesi non vivessero in forti concentrazioni, là noi potevamo insediarci. Quindi iniziarono con la Valle del Giordano, poiché là vi erano piccoli villaggi, ma non c’era una densità di popolazione come in altre aree.

Il problema per loro fu che, nello stesso momento in cui elaboravano la loro mappa strategica, emerse un nuovo movimento religioso messianico, Gush Emunim, un movimento religioso nazionalista di ebrei che rifiutavano di insediarsi in base alla mappa strategica. Volevano insediarsi secondo la mappa biblica. La loro idea era che la Bibbia è un testo che dice esattamente dove si trovano le antiche città ebraiche. E si dà il caso che la mappa prevedesse che gli ebrei dovessero insediarsi nel centro di Nablus, Hebron e Betlemme, nel bel mezzo delle aree palestinesi.

Inizialmente il governo israeliano cercò di controllare questo movimento biblico in modo che gli insediamenti si facessero in modo più strategico. Ma parecchi giornalisti israeliani hanno rivelato che Shimon Peres, ministro della Difesa nei primi anni ’70, decise di consentire gli insediamenti biblici. I palestinesi della Cisgiordania furono sottoposti a due piani di colonizzazione, quello strategico e quello biblico.

La comunità internazionale sa che secondo il diritto internazionale non conta che le colonie siano strategiche o bibliche, sono tutte illegali.

Ma purtroppo dal 1967 la comunità internazionale ha accettato la formula israeliana, che recita: “Le colonie sono illegali, ma sono provvisorie, una volta che vi sia la pace noi garantiremo che tutto sia legale. Ma finché non vi è pace noi abbiamo bisogno delle colonie poiché siamo ancora in guerra con i palestinesi.”

MEE: Lei sostiene che ‘occupazione’ non è il termine adeguato per descrivere la realtà in Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza. E in un dialogo con Noam Chomsky, ‘On Palestine’, lei critica il termine ‘processo di pace’. Questo è discutibile. Perché questi termini non sono adeguati?

IP: Penso che il linguaggio sia molto importante. Il modo in cui si definisce una situazione incide sulla possibilità di cambiarla.

Abbiamo descritto la situazione in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’interno di Israele con un vocabolario e dei termini errati. Occupazione significa sempre una situazione temporanea.

La soluzione per l’occupazione è la fine dell’occupazione, il ritiro dell’esercito invasore a casa sua, ma non è questa la situazione né in Cisgiordania né nella Striscia di Gaza. Questa è colonizzazione, ritengo, benché suoni come un termine anacronistico nel XXI secolo, penso che dovremmo comprendere che Israele sta colonizzando la Palestina. Ha iniziato a colonizzarla alla fine del XIX secolo e continua ancora oggi.

C’è un regime di insediamento coloniale che controlla l’intera Palestina in modi differenti. Nella Striscia di Gaza il controllo è dall’esterno. In Cisgiordania il controllo è differenziato nelle aree A, B e C. Esistono politiche differenti verso i palestinesi nei campi profughi, dove ai rifugiati non è permesso di ritornare a casa. Non permettere alle persone espulse di ritornare è un altro modo di mantenere la colonizzazione. È sempre parte della stessa ideologia.

Perciò penso che i termini ‘processo di pace’ e ‘occupazione’, quando vengono usati insieme, creino la falsa impressione che tutto ciò che serve è che l’esercito israeliano esca dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza e che vi sia una pace tra Israele e la futura Palestina.

Ora, l’esercito israeliano non è presente nella Striscia di Gaza né nell’area A. Lo è anche poco nell’area B, dove non ha bisogno di esserci. Ma non c’è pace. C’è una situazione che è molto peggiore di quella precedente agli accordi di Oslo del 1993.

Il cosiddetto processo di pace ha consentito ad Israele di aumentare le colonie, ma questa volta con il sostegno internazionale. Quindi suggerisco di parlare di decolonizzazione, non di pace. Suggerisco di parlare di cambiare il regime giuridico che governa la vita degli israeliani e dei palestinesi.

Penso che dovremmo parlare di uno Stato di apartheid. Dovremmo parlare di pulizia etnica. Dovremmo scoprire che cosa sostituisce l’apartheid. Ed abbiamo un buon esempio in Sudafrica. L’unico modo per sostituire l’apartheid è un sistema democratico. Una persona, un voto, o almeno uno Stato bi-nazionale. Penso che sia questo il tipo di terminologia che dovremmo incominciare ad usare, perché se continuiamo ad usare le vecchie parole continueremo a sprecare tempo e sforzi e non cambieremo la realtà sul terreno.

MEE: Cosa riserva il futuro al governo militare israeliano sui palestinesi? Assisteremo ad un movimento di disobbedienza civile come quello di luglio a Gerusalemme?

IP: Penso che vedremo disobbedienza civile non solo a Gerusalemme, ma in tutta la Palestina, compresi i palestinesi all’interno di Israele. La società non accetterà per sempre questa realtà. Non so quali mezzi utilizzerà. Possiamo vedere che cosa succede quando non c’è una chiara strategia dall’alto e gli individui decidono di fare la propria guerra di liberazione.

C’è stato qualcosa di veramente impressionante nel caso di Gerusalemme, quando nessuno credeva che una resistenza popolare potesse costringere gli israeliani a ritirare le misure di sicurezza imposte ad Haram al-Sharif [si riferisce all’imposizione di metal detector sulla Spianata delle Moschee, terzo luogo sacro dell’Islam, che comprende la moschea di Al Aqsa e la Cupola della Roccia, ndt.]. Penso che possa essere questo il modello. Una resistenza popolare per il futuro che non si limiti ad un solo luogo, ma avvenga in luoghi differenti.

La resistenza popolare continua senza sosta in Palestina. I media non ne danno notizia. Ma ogni giorno il popolo protesta contro il muro dell’apartheid, contro l’esproprio delle terre, le persone fanno lo sciopero della fame perché sono prigionieri politici. La resistenza palestinese dal basso continua. La resistenza palestinese dall’alto resta in sospeso.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come Israele sta silenziosamente trasferendo palestinesi da Gerusalemme est

Mersiha Gadzo

25 settembre 2017,Mondoweiss

Jabal Mukaber, Gerusalemme est occupata – A poche centinaia di metri dalla casa di Manwa al-Qanbar c’è il muro di separazione che divide Gerusalemme est occupata dal resto della Cisgiordania occupata.

La sessantunenne al-Qanbar potrebbe essere presto espulsa dall’altro lato del muro, ma si rifiuta di pensare a questa possibilità.

“Dove potrei andare? Puoi lasciare la tua casa dopo averci vissuto per 35 anni? Io non me ne andrò”, ha detto al-Qanbar a Mondoweiss tenendo in braccio la sua nipotina appena nata.

A gennaio suo figlio Fadi di 28 anni è stato colpito a morte dopo aver lanciato il suo furgone su un gruppo di soldati israeliani nella colonia ebraica illegale di Talpiot est, uccidendone quattro.

Due giorni dopo al-Qanbar ha ricevuto dal ministero dell’Interno israeliano l’informazione che intendevano revocarle lo status di residenza permanente. Anche altri dieci membri della famiglia allargata di Fadi, compresi due minori di otto e dieci anni, hanno ricevuto avvisi che i loro permessi sarebbero stati revocati.

La residenza permanente di al-Qanbar è stata revocata nel gennaio 2017, segnando la prima volta in cui Israele ha punito con la revoca del permesso di residenza un membro della famiglia di un aggressore.

Il tribunale d’appello ha emesso un ordine temporaneo di sospensione della “deportazione” e i membri della famiglia sono ora in causa presso la corte per rimanere con i loro familiari a Jabal Mukaber.

“D’ora in poi chiunque trami, pianifichi o prenda in considerazione di condurre un attacco saprà che la sua famiglia pagherà un pesante prezzo per il suo atto”, ha dichiarato in un comunicato il ministro dell’Interno Arye Deri.

“Le conseguenze saranno gravi e di vasta portata, come la decisione che ho preso nei confronti della madre e dei parenti del terrorista (Fadi al-Qanbar), che ha compiuto l’attacco nel quartiere di Armon Hanatziv a Gerusalemme.”

Le organizzazioni della società civile sostengono che con la revoca punitiva delle residenze, Israele si sta impegnando in “una silenziosa deportazione e colonizzazione” dei palestinesi allo scopo di conservare una maggioranza ebrea a Gerusalemme.

Israele ha cercato di conservare il suo dominio mantenendo un equilibrio demografico del 60% di ebrei e 40% di palestinesi a Gerusalemme, in base al suo progetto complessivo.

“Fa parte della politica generale dell’occupazione israeliana ottenere una maggioranza demografica ebrea attraverso mezzi illegali”, ha detto Nada Awad, responsabile della difesa del “Centro di Azione della Comunità” dell’università di Al Quds.

“Con il pretesto della sicurezza, Israele sta deportando palestinesi da Gerusalemme est occupata… Se non vengono fermate, queste misure di punizione collettiva costituiranno preoccupanti precedenti che condurranno alla deportazione di palestinesi per atti compiuti da un membro della loro famiglia allargata.”

Bassam Alam, genero della sorellastra di Fadi, è uno dei membri della famiglia il cui permesso a rischio. Originario della Cisgiordania, ha ottenuto il permesso di vivere a Gerusalemme con la procedura di ricongiungimento familiare, dato che sua moglie Susan è di Gerusalemme est.

Nel corso dell’audizione del 10 settembre l’avvocato difensore, Murad al-Khatib, ha chiesto perché a membri della famiglia allargata che non hanno mai incontrato Fadi vengano revocati i permessi.

“Lo Shabak [agenzia di intelligence interna israeliana, nota anche come Shin Bet, ndt.] ha detto che hanno cercato di revocare la residenza del marito della sorellastra di Fadi. Ma Susan (la moglie di Bassam) non è nemmeno la sorellastra di Fadi: sono parenti molto più alla lontana, non si sono mai incontrati; non sono neanche della stessa famiglia”, ha detto al-Khatib.

Al-Khatib ha inoltre sostenuto che, mentre il ministero dell’Interno ha l’autorità di revoca di ogni permesso di residenza se la persona costituisce una minaccia alla sicurezza o è coinvolta in attività criminali, nel caso di Susan e Bassam Alam non è presente nessuna delle due ipotesi.

Al-Qanbar aveva ottenuto il suo status di residenza permanente attraverso il matrimonio. Rischia di essere trasferita a forza sulla base del fatto che il suo matrimonio durato 35 anni era presumibilmente poligamico, illegale secondo la legge israeliana. Lei dice che suo marito era già divorziato quando lo ha sposato.

E’ diventato sempre più difficile per i palestinesi stabilirsi e vivere con la famiglia a Gerusalemme est. In base all’”ordine temporaneo” entrato in vigore nel 2003, i palestinesi della Cisgiordania che sposano un cittadino israeliano (compresi quelli di Gerusalemme est) non possono ottenere la cittadinanza o la residenza israeliana. Possono ricevere solo “permessi temporanei” secondo rigidi criteri, che devono essere rinnovati ogni anno. I permessi di ricongiungimento familiare per le coppie di residenti a Gerusalemme e a Gaza sono stati completamente eliminati nel 2008.

Tra il 2000 e il 2013 è stato respinto il 43% delle richieste di ricongiungimento familiare, il 20% per motivi di sicurezza.

Più di 14.500 palestinesi si sono visti revocare lo status di residenti a partire dall’occupazione israeliana di Gerusalemme nel 1967, illegale secondo le leggi internazionali. Da allora i palestinesi sono stati trattati come immigrati nel loro stesso Paese e gli è stato dato uno “status di residenza permanente”. In pratica, secondo le organizzazioni della società civile, lo status non è permanente, ma è piuttosto una “concessione revocabile”, invece che un “diritto pieno”.

Da ottobre 2015 Israele ha intensificato l’uso della punizione collettiva come strumento di deportazione dei palestinesi da Gerusalemme est.

Il governo israeliano punisce abitualmente l’aggressore emettendo un ordine di demolizione per la sua casa, ma nei giorni seguenti all’attacco da parte di Fadi le autorità israeliane hanno bloccato tutte le strade principali e consegnato avvisi di demolizione a 81 case a Jabal Mukaber, con il pretesto di aver costruito senza la licenza edilizia.

“Hanno punito tutti quelli del quartiere. Il giorno dopo l’attacco hanno interrotto l’acqua e l’elettricità in tutte le case e bloccato tutti gli ingressi al quartiere. Hanno addirittura distrutto le tende per le pecore”, ha detto al-Qanbar.

La moglie di Fadi con i quattro bambini si è trasferita nella casa vicina alla loro, quella di al-Qanbar, dopo che gli israeliani hanno sigillato col cemento la sua casa, fin quasi al soffitto. Il cemento caldo e compresso ha presto dato fuoco alla casa, con un costo di 100.000 shekel [circa 24.000 €, ndt.] di danni per la ristrutturazione, come ha spiegato al-Qanbar.

Anche i servizi sanitari e sociali sono stati revocati ad al-Qanbar, ma lei continua a sperare di poter mantenere la sua residenza.

Dice: “Gli avvocati con cui ho parlato hanno detto che legalmente loro non hanno il diritto di togliermela…Ho vissuto qui da quando mi sono sposata ed ho sempre pagato le tasse per gli spazi in cui abito; ho pagato le bollette dell’elettricità e dell’acqua. Perciò perché dovrebbero togliermi la residenza? Me la stanno togliendo a causa di mio figlio.”

Mersiha Gadzo è una giornalista multimediale. Ha scritto articoli per Al Jazeera, CBC, Canadian Dimension e Middle East Eye. Il suo indirizzo twitter è: @MersihaGadzo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La politica miope di Abbas a Gaza

Tareq Baconi – 6 luglio 2017,Al-Shabaka

I tentativi del leader dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas di accentuare l’isolamento di Hamas – tagliando i salari e poi l’energia elettrica alla Striscia di Gaza – rispecchiano le dinamiche regionali nell’era Trump. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e l’Egitto si sono tutti mobilitati per isolare il Qatar, un importante investitore nella Striscia di Gaza e un sostenitore della Fratellanza Musulmana in Egitto e di Hamas a Gaza.

La crisi elettrica a Gaza è stata scongiurata, con un voltafaccia ironico, dalla volontà del presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi di fornire carburante alla centrale elettrica di Gaza come misura temporanea nonostante le proteste di Abbas. La decisione è stata mediata da Mohammed Dahlan, storicamente nemico di Hamas, non da ultimo per il suo tentativo di togliere dal potere Hamas in seguito alla sua [di Hamas] vittoria nelle elezioni democratiche.

La maldestra strategia di Abbas

Abbas rimane legato al presupposto del blocco di Gaza, in atto dal 2007: questo crescente isolamento di Hamas e le sofferenze dei palestinesi di Gaza destabilizzeranno il governo di Hamas e provocheranno la ribellione dei palestinesi contro il movimento – anche se ciò dovesse portare a un “collasso totale”, come le organizzazioni per i diritti umani hanno definito la riduzione di elettricità.

Questa logica suppone che l’ANP sarebbe in grado di assumere l’amministrazione della Striscia di Gaza una volta che il potere di Hamas venisse indebolito. Ciò è improbabile per due ragioni:

  • Israele trae vantaggio dalla divisione geografica e politica nei territori palestinesi ed ha minato precedenti tentativi di unità, anche con un intervento militare. L’accordo di Shati [campo profughi nella Striscia di Gaza, ndt.] del 2014 tra Hamas e Fatah è stato una delle ragioni dell’attacco militare israeliano contro la Striscia di Gaza di quell’anno.

  • Il ritorno dell’ANP a Gaza implicherebbe una ripresa del coordinamento per la sicurezza con Israele. Perché ciò avvenga, Hamas dovrebbe disarmare. Ciò è improbabile persino con un ulteriore isolamento , in quanto ciò provocherebbe uno scontro esistenziale per Hamas, che potrebbe preparare la strada a un altro episodio di guerra civile armata.

Implicazioni delle ultime iniziative di Abbas

  • Esse dimostrano la volontà di Abbas di adottare la logica della punizione collettiva su cui poggia il blocco e di perpetuare le sofferenze di due milioni di palestinesi per interessi di fazione. Ciò è moralmente condannabile per un presunto leader della lotta dei palestinesi.

  • Istituzionalizzano le divisioni tra Gaza e la Cisgiordania, e portano Gaza ad avvicinarsi all’Egitto, aiutando a realizzare la politica israeliana di divide et impera nei territori palestinesi.

  • Creano una possibilità di alleanza tra Dahlan [ex-dirigente di Fatah a Gaza, espulso prima dalla Striscia insieme ai militanti del movimento e poi da Fatah ed attualmente in esilio, ndt.] e Hamas e un’opportunità per Dahlan di rientrare nel contesto politico palestinese, portando con sé la sua volontà di vedere la lotta palestinese attraverso le lenti della sicurezza imposte dagli USA e da Israele.

Cosa possono fare i palestinesi

  • Chiedere conto alla dirigenza della Cisgiordania del fatto che utilizzi i palestinesi di Gaza come pedine del gioco politico, mettendo in luce l’illegalità del blocco come una continuazione dell’occupazione e una forma di punizione collettiva. In particolare i palestinesi dovrebbero chiedere, e ricordare, alla leadership in Cisgiordania che sono responsabili di tutti i palestinesi, compresi quelli di Gaza.

  • Spingere per misure economiche che riducano la crisi umanitaria a Gaza chiedendo al contempo una soluzione politica del conflitto in termini complessivi.

  • Garantire che ogni misura riavviata per affrontare l’impasse tra palestinesi ed israeliani non lasci ai margini la Striscia di Gaza o la presenti come un semplice problema umanitario che può essere gestito dall’Egitto o da un’autorità di autogoverno locale.

TareqBaconi

Tareq G. Baconi è un collaboratore politico di Al-Shabaka che risiede negli USA. Il suo libro in uscita, “Hamas: le politiche di resistenza, consolidamento a Gaza” sta per essere pubblicato dalla Stanford University Press. Tareq ha conseguito un dottorato in relazioni internazionali al Kings College di Londra, che ha completato insieme a un’attività di consulente energetico. Ha anche ottenuto titoli all’università di Cambridge (Relazioni internazionali) e all’Imperial College di Londra (Ingegneria chimica). Tareq è ricercatore associato presso “US Middle East Project [Progetto USA per il Medio Oriente, un istituto di analisi politica indipendente sul Medio oriente con sedi a New York e a Londra, ndt.]. I suoi scritti sono apparsi su Foreign Affairs, Sada: Carnegie Endowment for International Peace, The Guardian, The Huffington Post, The Daily Star, Al Ghad e Open Democracy.

(traduzione di Amedeo Rossi)