500 arrestati al Campidoglio tra gli attivisti ebrei che chiedono il cessate il fuoco a Gaza

Michael Arria

19 ottobre 2023 – Mondoweiss

Se non recuperiamo la nostra comune umanità non credo che potremo mai tornare indietro da tutto questo”, ha detto ai manifestanti la deputata Rashida Tlaib. “E al nostro Presidente: voglio che sappia che come palestinese-americana e persona di fede musulmana, non dimenticherò. E credo che molte persone non dimenticheranno.”

Cinquecento persone, comprese due dozzine di rabbini, sono state arrestate mercoledì a Washington quando attivisti ebrei hanno guidato una protesta dentro e fuori Capitol Hill. I manifestanti chiedevano ai deputati di appoggiare un cessate il fuoco a Gaza.

Centinaia di manifestanti sono entrati nella rotonda dell’edificio principale della Camera dei Rappresentanti dove hanno cantato, scandito slogan ed esposto cartelli che chiedevano un immediato cessate il fuoco. Gli attivisti indossavano magliette con davanti la scritta “Non in nostro nome” e “Gli ebrei dicono cessate il fuoco adesso”.

La polizia del Campidoglio ha comunicato che stava chiudendo le vie intorno al Campidoglio per garantire la sicurezza dei manifestanti all’esterno.

Al mattino presto più di 5.000 ebrei americani e loro alleati si sono radunati sul National Mall (il viale monumentale). La folla era guidata dalle deputate Rashida Tlaib (del Minnesota) e Cori Bush (del Montana). “Ringraziamo la nostra comunità ebraica per essere qui a dire ‘Mai più’ “, ha detto Bush.

Il 16 ottobre Tlaib, Bush e diversi altri rappresentanti progressisti hanno presentato una risoluzione che chiede all’amministrazione Biden di premere per un immediato cessate il fuoco a Gaza.

L’impegno legislativo è appoggiato da decine di associazioni per i diritti umani, comprese Adalah Justice Project, American Muslims for Palestine (AMP) e U.S.Campaign for Palestinian Rights (USCPR).

Se non recuperiamo la nostra comune umanità non credo che potremo mai tornare indietro da tutto questo”, ha detto Tlaib. “E al nostro Presidente: voglio che sappia che come palestinese-americana e persona di fede musulmana, non dimenticherò. E credo che molte persone non dimenticheranno.”

Jewish Voice for Peace’ ha messo in evidenza l’azione in un post su Twitter:

Oggi 500 ebrei sono stati arrestati e 10.000 sono scesi in strada per sostenere e chiedere un cessate il fuoco e la fine del genocidio palestinese. Fermiamo il congresso per attirare una massiccia attenzione alla complicità degli USA nella continua oppressione di Israele sui palestinesi. Ma il nostro lavoro non è finito.

Possiamo fermare il genocidio a Gaza e lo faremo. Ma questa orribile situazione è stata resa possibile solo grazie al lavoro di fondo condotto dallo Stato israeliano da 75 anni. Dal 1948 il governo israeliano ha costruito un sistema di apartheid e di occupazione illegale.

Così come chiediamo la fine del genocidio a Gaza, dobbiamo compiere lo stesso sforzo per smantellare il sistema di sionismo, apartheid e colonialismo che ci ha portati a questa situazione.

L’unica strada per la pace e la sicurezza – per tutti – passa attraverso la giustizia e l’uguaglianza per tutti. Ciò significa essere solidali con i palestinesi. Significa costruire un mondo al di là del sionismo. Significa creare sistemi di sicurezza attraverso la solidarietà. Volete unirvi a noi?

La manifestazione di mercoledì si è svolta solo due giorni dopo che attivisti ebrei avevano bloccato tutti gli ingressi alla Casa Bianca, chiedendo a Biden di sostenere un cessate il fuoco.

Fin da bambini molti di noi si sono detti che non sarebbero stati a guardare se fossero mai stati testimoni di violenza genocida. Ci siamo detti che avremmo alzato la voce. Ci siamo detti che avremmo frapposto i nostri corpi. Abbiamo promesso che tali orrori non sarebbero mai più avvenuti sotto i nostri occhi”, ha detto la scrittrice e attivista Naomi Klein, che ha parlato anch’essa ai manifestanti. “Il ‘mai più’ di tutta la nostra vita sta accadendo proprio adesso a Gaza. E noi ci rifiutiamo di stare a guardare.”

La sezione di Washington della Anti-Defamation League (ADL) [associazione ebraica contro l’antisemitismo, fondata negli USA, ndt.] ha calunniato i manifestanti in una dichiarazione e ha affermato che gli anti-sionisti sono antisemiti. L’amministratore delegato dell’ADL Jonathan Greenblatt in un tweet ha paragonato gli attivisti ai suprematisti bianchi.

L’ADL è spaventata perché loro, come altre organizzazioni ebraiche istituzionali, hanno la sensazione di perdere il controllo di chi può parlare a nome degli ebrei americani”, ha scritto Ben Lorber, un membro di IfNotNow (Se non ora) e JVP (Jewish Voice for Peace). “Francamente, fanno bene a spaventarsi. Il loro fallimentare centrismo è il passato e le associazioni come IfNotNow e JVP sono il presente e il futuro.”

Michael Arria è il corrispondente USA per Mondoweiss.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)





Cambio di passo: un funzionario del Dipartimento di Stato si dimette a causa della politica su Gaza

MICHAEL ARRIA 

19 ottobre 2023, Mondoweiss

Il funzionario del Dipartimento di Stato Josh Paul si è dimesso a causa della politica su Gaza dell’amministrazione Biden. Nella dichiarazione in cui annunciava il suo abbandono ha definito la politica americana “miope, devastante, ingiusta e contraddittoria rispetto agli stessi valori che sosteniamo pubblicamente “.

Dimissioni al Dipartimento di Stato nella crescente preoccupazione per la politica di Biden su Gaza

Il funzionario del Dipartimento di Stato Josh Paul si è dimesso dalla sua carica a causa della politica dell’amministrazione Biden su Gaza. Lavorava presso l’Ufficio di Stato per gli Affari Politico-militari.

Sono fermamente convinto che in tali conflitti, quelli in cui siamo terzi, la parte con cui schierarsi non è quella di uno dei combattenti, ma quella delle persone intrappolate nel mezzo, e quella delle generazioni ancora a venire”, ha scritto Paul in un post su Linkedin annunciando il suo abbandono. “È nostra responsabilità aiutare le parti in conflitto a costruire un mondo migliore. Mettere al centro i diritti umani, non cercare di accantonarli o eluderli attraverso programmi di crescita economica o manovre diplomatiche. E, quando accadono, essere in grado di denunciare gravi violazioni dei diritti umani, indipendentemente da chi le commette, ed essere in grado di riconoscerne gli autori responsabili quando sono avversari, il che è facile, ma soprattutto quando sono partner. “

“Non posso lavorare a sostegno di una serie di importanti decisioni politiche incluso l’invio di più armi a una parte del conflitto, decisione che ritengo miope, devastante, ingiusta e contraddittoria proprio rispetto ai valori che sosteniamo pubblicamente”, ha continuato.

Le dimissioni di Paul sono avvenute poco dopo che l’HuffPost ha pubblicato un articolo di Akbar Shahid Ahmed sui membri dello staff di Biden che si sentono messi a tacere sulle loro preoccupazioni per i palestinesi.

Sto cercando di informare le persone sulla Palestina attraverso i social media, ma ho paura di perdere il mio certificato di sicurezza [che determina l’affidabilità e l’idoneità a ricoprire una posizione sensibile, ndt.] per aver criticato il presidente o biasimato gli Stati Uniti per il massacro di civili”, ha detto al sito web un membro dello staff. “Sento che non c’è più posto per me in America, e sono sul filo del rasoio per il mio certificato [di sicurezza] a causa del mio retaggio e perché mi importa se la mia gente muore.”

Ci si sente come dopo l’11 settembre, quando ci sentivamo come se i pensieri fossero controllati e c’era davvero paura di essere visti come antiamericani o antisemiti”, ha detto un altro funzionario.

La scorsa settimana Ahmed ha riferito di una nota interna del Dipartimento di Stato che ordinava ai diplomatici di utilizzare precisamente tre frasi: “riduzione dell’escalation/cessate il fuoco”, “fine alla violenza/spargimento di sangue” e “ripristino della calma”.

Gli Stati Uniti pongono il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza su Gaza

Mercoledì gli Stati Uniti hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sostenuta dal Brasile che chiedeva “tregue umanitarie” a Gaza per consentire l’ingresso degli aiuti.

L’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield ha affermato che gli Stati Uniti non possono sostenere la misura perché “non fa menzione del diritto all’autodifesa di Israele”.

“Anche se non abbiamo potuto sostenere questa risoluzione, in futuro continueremo a lavorare a stretto contatto con tutti i membri del Consiglio su questo urgente problema”, ha aggiunto. “Così come continueremo a ribadire la necessità di proteggere i civili, compresi i lavoratori dei media, gli operatori umanitari e i funzionari delle Nazioni Unite”.

L’ambasciatore brasiliano Sérgio França Danese ha espresso frustrazione per il veto. “Abbiamo accolto un appello con un senso di urgenza e responsabilità, a nostro avviso il Consiglio di Sicurezza doveva agire e operare molto rapidamente”, ha affermato. “La paralisi del Consiglio di fronte a una catastrofe umanitaria non è nell’interesse della comunità internazionale”

Attivisti ebrei protestano davanti all’ufficio di Warren

Almeno sei attivisti ebrei sono stati arrestati davanti all’ufficio di Boston della senatrice Elizabeth Warren (Massachusetts), dove più di 100 manifestanti le chiedevano di fare pressione per un cessate il fuoco a Gaza.

Il Boston Globe ha riferito che gli attivisti sono entrati nell’edificio federale John Fitzgerald Kennedy e hanno tentato di organizzare un sit-in nell’ufficio.

La senatrice Warren ha il potere di chiedere il permesso di far entrare gli oltre 100 camion di aiuti umanitari bloccati fuori Gaza”, ha detto Mira Revesz, membro di If Not Now Boston [movimento di ebrei americani che chiede la fine del sostegno statunitense al sistema di apartheid israeliano, ndt.] “Ma tutto ciò che la senatrice Warren ha fatto finora è stato chiedere a Israele di ridurre al minimo i danni ai civili. Gli ultimi quattro giorni hanno dimostrato in modo straziante che Israele non sta affatto minimizzando i danni ai civili”.

Apprezzo che delle persone siano venute nel mio ufficio a condividere le loro opinioni ed esperienze: ecco in cosa consiste la democrazia. Israele ha sia il diritto di difendersi dagli attacchi terroristici sia l’obbligo di proteggere i civili innocenti secondo le leggi internazionali di guerra”, ha affermato Warren in una dichiarazione successiva. “I civili palestinesi hanno diritto agli aiuti umanitari comprendenti cibo, acqua, alloggio e medicine. C’è urgente bisogno di corridoi sicuri a Gaza per fornire aiuti umanitari e continuerò a sottolineare l’imperativo di proteggere i civili”.

500 arresti a Washington fra gli attivisti ebrei che chiedono il cessate il fuoco

Mercoledì cinquecento ebrei americani e loro sostenitori, tra cui più di venti rabbini, sono stati arrestati all’interno del Campidoglio. I manifestanti chiedevano che i parlamentari adottassero alla Camera una risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza.

Gli attivisti indossavano magliette con davanti la scritta “Non nel nostro nome” e “Gli ebrei dicono cessate il fuoco adesso”. Cantavano, scandivano slogan e esponevano cartelli.

Migliaia di persone hanno protestato per le strade di Washington per poi entrare nella rotonda del Cannon House Office [il più antico edificio del Congresso a Washington, ndt.]

Se non recuperiamo la nostra comune umanità non credo che ci riprenderemo mai più da tutto ciò”, ha detto alla folla la deputata Rashida Tlaib, sostenitrice della risoluzione. “E al nostro Presidente: voglio che sappia che, in quanto palestinese-americana e di fede musulmana, non dimenticherò. E penso che molte persone non dimenticheranno”.

L’ADL calunnia gli attivisti ebrei

La sezione di Washington dell’Anti-Defamation League (ADL) [associazione ebraica negli Stati Uniti dal 1913 di contrasto all’antisemitismo, ndt.] ha insultato in una dichiarazione i manifestanti del Campidoglio e ha affermato che l’antisionismo è antisemitismo. Il CEO di ADL Jonathan Greenblatt è arrivato al punto di paragonare in un tweet gli attivisti ebrei ai suprematisti bianchi.

Questa settimana, in una delle sue numerose apparizioni nei notiziari via cavo, Greenblatt ha affermato che “l’antisionismo è in realtà un preludio al genocidio”. In un’altra intervista è stato ancora più diretto: “l’antisionismo è un genocidio”, ha dichiarato.

Con i funzionari dell’ADL che compaiono sulle televisioni di tutto il mondo denunciando [come antisemite] le tante manifestazioni che chiedono la fine della violenza genocida di Israele contro i palestinesi stiamo assistendo all’esito più pericoloso della lunga storia dell’ADL di affermarsi come gruppo per i diritti civili”, scrive Emmaia Gelman sul sito.

La propria definizione dell’ADL come baluardo contro i pregiudizi è completamente smentita dalla sua difesa della politica islamofobica, dal suo lavoro per promuovere la polizia militarizzata e l’iper-sorveglianza, e dal suo ruolo chiaramente espresso a sostegno delle politiche israeliane, compreso l’apartheid. L’ADL strumentalizza grossolanamente le reali preoccupazioni del pubblico riguardo all’antisemitismo, producendo statistiche scandalosamente gonfiate che elencano centinaia di proteste contro la violenza israeliana come ‘episodi di antisemitismo’. Come risultato di questo atteggiamento ipocrita, l’ADL viene consultata come esperta su questa guerra”.

Gli attivisti hanno raccolto alcuni materiali per i genitori preoccupati del fatto che i loro figli tornino a casa dalla scuola con materiale ADL.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Indebolire il ‘legame indissolubile’: ecco perché l’indagine dell’FBI su Israele è importante

Ramzy Baroud

23 novembre 2022 – Palestine Chronicle

La recente decisione del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di aprire un’inchiesta sull’omicidio, a maggio, della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh non è una svolta epocale, ma tuttavia è importante e degno di riflessione.

In base alla lunga storia del sostegno militare e politico a Israele da parte degli USA e del loro continuo scudo offerto a Tel Aviv a protezione contro le responsabilità dell’occupazione illegale della Palestina, si può con certezza concludere con sicurezza che non ci sarà nessuna vera inchiesta.

Una vera e propria inchiesta sull’uccisione di Abu Akleh potrebbe aprire il vaso di Pandora di ulteriori scoperte concernenti molte altre pratiche israeliane illegali e violazioni di leggi internazionali, e persino di quelle statunitensi. Per esempio, gli investigatori americani dovrebbero esaminare l’uso israeliano di armi e munizioni USA che sono utilizzate quotidianamente per soffocare le proteste palestinesi, confiscare terre palestinesi, imporre assedi militari contro aree civili e così via. Una legge USA, la Leahy Law, proibisce specificamente al “governo USA di usare fondi per assistere unità di forze di sicurezza ove ci siano informazioni attendibili che implichino quell’unità nella perpetrazione di gravi violazioni di diritti umani.”

Inoltre un’indagine comporterebbe anche l’assunzione di responsabilità se concludesse che Abu Akleh, una cittadina statunitense, fosse stata deliberatamente uccisa da un soldato israeliano, come parecchie organizzazioni per i diritti umani hanno già concluso.

Anche questo è irrealistico. Infatti uno dei principali pilastri su cui si poggiano le relazioni USA-Israele è che, sul palcoscenico internazionale, il primo gioca il ruolo del protettore del secondo. Ogni tentativo palestinese, arabo o internazionale di indagare sui crimini israeliani ha totalmente fallito semplicemente perché Washington ha sistematicamente bloccato ogni possibile inchiesta con la scusa che Israele è in grado di investigare sé stesso, sostenendo a volte che ogni tentativo di ritenere Israele responsabile sia una caccia alle streghe e equivale all’antisemitismo.

Secondo Axios, [sito web americano fondato nel 2016 da Jim VandeHei, Mike Allen e Roy Schwartz, per un pubblico sinistra moderata, N.d.T.] questo era il senso della risposta ufficiale israeliana alla decisione USA di aprire un’indagine sull’assassinio della giornalista palestinese. “I nostri soldati non saranno sottoposti a indagini da parte dell’FBI o di qualsiasi altro Paese o organismo stranieri,” ha detto il primo ministro israeliano uscente Yair Lapid, aggiungendo: “Noi non abbandoneremo i nostri soldati nelle mani di indagini straniere.”

Sebbene quella di Lapid sia la tipica reazione israeliana, è piuttosto interessante, se non scioccante, vederla usata nel contesto di un’indagine americana. Storicamente tale linguaggio era riservato alle indagini del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite e da giudici di diritto internazionale, come Richard Falk, Richard Goldstone e Michael Lynk. Ripetutamente tali indagini erano condotte o bloccate senza la cooperazione israeliana e sottoposte a intensa pressione americana.

Nel 2003, la portata dell’intransigenza israeliana e il cieco sostegno USA a Israele arrivarono fino al punto di far pressione sul governo belga perché riscrivesse le proprie leggi nazionali affinché archiviasse una causa per crimini di guerra contro Ariel Sharon, ex primo ministro israeliano.

Inoltre, nonostante i continui sforzi di molte organizzazioni per i diritti umani con sede negli USA perché venisse aperta un’indagine sull’omicidio di un’attivista americana, Rachel Corrie, gli USA rifiutarono persino di esaminare il caso, basandosi invece sui tribunali israeliani che scagionarono il soldato israeliano che nel 2003 era passato con un bulldozer sul corpo della ventitreenne Corrie che gli stava semplicemente chiedendo di non demolire una casa palestinese a Gaza.

Peggio ancora, nel 2020 il governo USA è arrivato al punto di sanzionare la procuratrice della Corte Penale Internazionale (ICC) Fatou Bensouda e altri funzionari senior della procura che erano impegnati nelle indagini su sospetti crimini di guerra USA e israeliani in Afghanistan e Palestina.

Tenendo presente tutto ciò ci si devono quindi porre domande sul tempismo e sui motivi delle inchieste degli USA.

Axios ha rivelato che la decisione di indagare sull’uccisione di Abu Akleh era “stata presa prima delle elezioni in Israele del primo novembre, ma il Dipartimento di Giustizia ha informato ufficialmente il governo israeliano tre giorni dopo le elezioni.” Infatti la notizia è stata rivelata ai media solo il 14 novembre, dopo le elezioni, sia in Israele che negli USA, rispettivamente il primo e il 7 novembre.

Funzionari a Washington erano desiderosi di sottolineare il fatto che la decisione non era politica, e che non era neppure legata a evitare di irritare la filoisraeliana lobby a Washington nei giorni precedenti le elezioni USA, né a influenzare i risultati di quelle israeliane. Se così fosse, allora perché gli USA hanno aspettato fino al 14 novembre per far trapelare la notizia? Il ritardo fa pensare a gravi retroscena politici e a una massiccia pressione israeliana per dissuadere gli USA dal renderla pubblica, rendendo quindi impossibile fare marcia indietro sulla decisione.

Sapendo che molto probabilmente non avrà luogo un’indagine seria, la decisione USA deve essere stata pensata in anticipo per essere meramente politica. Forse simbolica e in definitiva irrilevante, la decisione USA senza precedenti e calcolata si basa su solidi ragionamenti:

Primo, durante la sua vice-presidenza durante l’amministrazione Obama (2009-2017) il presidente USA Joe Biden ha avuto un’esperienza difficile nella gestione degli intrallazzi politici dell’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ora che Netanyahu è destinato a ritornare al timone della politica israeliana, l’amministrazione Biden ha un bisogno urgente di far leva politica su Tel Aviv, nella speranza di controllare le tendenze estremiste del leader israeliano e del suo governo.

Secondo, il fallimento della cosiddetta ‘Ondata rossa’ Repubblicana nel marginalizzare i Democratici quale forza politica e legislativa nel Congresso USA ha ulteriormente imbaldanzito l’amministrazione Biden, che ha poi finito con rendere pubblica la notizia dell’investigazione, se vogliamo credere che la decisione fosse veramente stata presa in anticipo.

Terzo, la forte presenza di candidati palestinesi e filopalestinesi nelle elezioni di metà mandato statunitensi, sia a livello nazionale che statale, ha ulteriormente rafforzato il programma progressista del partito Democratico. Persino una decisione simbolica di investigare l’omicidio di un cittadino americano rappresenta uno spartiacque per le relazioni fra l’establishment del partito Democratico e il suo elettorato più progressista dei movimenti di base. Infatti la congressista palestinese Rashida Tlaib, rieletta, ha subito reagito alla notizia dell’inchiesta descrivendola come “il primo passo verso una vera presa di responsabilità”.

Anche se l’investigazione americana sull’uccisione di Abu Akleh difficilmente darà come risultato una vera giustizia, è un momento molto importante nelle relazioni USA-Israele e USA-palestinesi. Significa semplicemente che, nonostante il consolidato e cieco sostegno USA a Israele, ci sono margini nella politica americana che possono ancora essere utilizzati, se non per ribaltare il sostegno USA a Israele, almeno per indebolire l’apparente ‘legame indissolubile’ fra i due Paesi.

– Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle.  È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé, è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out” [La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce]. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il governo degli Stati Uniti fa retromarcia riguardo alla richiesta di indagine sulla morte di un palestinese di 7 anni

Philip Weiss

7 ottobre 2022 – Mondoweiss

Ancora una volta il Dipartimento di Stato americano crede ad Israele quando esso spiega e giustifica la morte di un bambino palestinese durante un raid israeliano nei territori occupati.

La scorsa settimana un bambino palestinese di sette anni di nome Rayan Suleiman è morto in un villaggio della Cisgiordania occupata poco dopo l’incursione nella sua casa di soldati israeliani alla ricerca di chi aveva lanciato delle pietre. Fonti palestinesi hanno rivelato che il bambino è morto di paura. Il cugino di Rayan, Mohammed, ha riferito a Yumna Patel [giornalista freelance palestinese, ndr.] che i soldati hanno bussato violentemente alla porta e la famiglia ha cercato di impedire loro di portare via i due fratelli di Rayan, che era terrorizzato ed è crollato al suolo.

Quel giorno, il 29 settembre, Rashida Tlaib [statunitense di origine palestinese e deputata della Camera dei Rappresentanti statunitense, ndt.] ha chiesto la cessazione degli aiuti militari statunitensi a causa della morte di Rayan, ed pareva che il portavoce del Dipartimento di Stato Vedant Patel stesse chiedendo un’indagine, affermando che “siamo a favore di un’inchiesta approfondita e immediata sulle circostanze della morte del bambino, e credo che anche le stesse IDF [forze di difesa israeliane, ndt.] abbiano annunciato che indagheranno sull’accaduto”.

Così quel giorno l’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndt.] e la popolare rubrica di Barak Ravid su Axios [quotidiano statunitense online, ndt.] hanno riferito che gli Stati Uniti avevano chiesto un’indagine sull’omicidio.

Il governo israeliano è rimasto sicuramente irritato dai titoli internazionali secondo cui “gli USA chiedono un’indagine a Israele”. Possiamo esserne certi, perché il governo centrista israeliano ha ripetutamente espresso rabbia per le molto blande richieste americane rivolte ad effettuare un’indagine dopo che il maggio scorso Israele ha ucciso la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh, concludendo che l’omicidio sarebbe stata una disgrazia.

Quindi due giorni fa il Dipartimento di Stato ha fatto marcia indietro sull’appello. Patel Vedant [ha detto]:

Voglio fare un piccolo passo indietro e chiarire le mie dichiarazioni nel corso del briefing telefonico della scorsa settimana perché penso che lei [Said Arikat di Al Quds] e alcuni altri mi abbiate frainteso. Non abbiamo chiesto che venga eseguita un’indagine. Ciò che abbiamo detto è che abbiamo accolto con favore la comunicazione delle IDF che un’indagine era già in corso. Ho appreso dall’ultimo rapporto che il bambino è tragicamente morto di attacco cardiaco, il che ovviamente non rende la cosa – non la rende meno straziante. Ma le dichiarazioni delle IDF in merito hanno chiarito che un’indagine iniziale non ha mostrato alcun collegamento e che questa questione continua a essere oggetto di analisi. Quindi vi rimando a loro, ma volevo chiarire le mie dichiarazioni.

I giornalisti sono rimasti alquanto increduli, e hanno chiesto a Patel che differenza ci sia tra accogliere favorevolmente [la notizia su] un’indagine e il sostenerla. O che differenza faccia che il bambino sia a quanto pare morto di attacco cardiaco.

Ieri gli israeliani sono puntualmente giunti alla conclusione che il raid israeliano in casa di Rayan Suleiman non ha nulla a che fare con la morte del bambino.

Giovedì le IDF hanno pubblicato le conclusioni della loro indagine sulla morte di un bambino palestinese di 7 anni durante un raid dell’esercito, secondo cui non è stato trovato alcun collegamento con le azioni dei soldati… L’indagine ha rilevato che un ufficiale ha interrogato il padre di Suleiman sulla porta di casa in presenza di due dei suoi figli.

Gli Stati Uniti hanno chiaramente concertato le loro valutazioni su decesso in base alle risultanze israeliane.

Confrontiamo questo caso con [quello di] Mahsa Amini, la donna iraniana morta il mese scorso mentre si trovava sotto la custodia della polizia morale dopo essere stata arrestata con l’accusa di essere vestita in modo indecente. Gli iraniani hanno dichiarato (penosamente) che il caso sarebbe stato un tragico incidente e che Amini sarebbe morta per un infarto. Tuttavia gli Stati Uniti si sono adoperati per imporre sanzioni finanziarie come misura contro i poliziotti iraniani coinvolti.

In questo caso gli Stati Uniti hanno accettato la versione israeliana secondo cui si sarebbe trattato di un tragico incidente e non chiederanno un’indagine, per non parlare di un’inchiesta su se stessi, nonostante il fatto che noi [stunitensi] forniamo a Israele miliardi in aiuti militari che stanno finanziando gravi violazioni dei diritti umani.

Israele quest’anno ha ucciso a colpi di arma da fuoco 23 minori palestinesi nella Cisgiordania occupata nell’impunità totale, e ad agosto ha ucciso 17 minori a Gaza, il tutto in attacchi deliberati condotti per lo più con armi statunitensi.

I sedici minori uccisi a Gaza nell’attacco di questa estate

Il Dipartimento di Stato ovviamente non vuole fare nulla perché Israele risponda delle sue azioni. Proprio come è successo per l’omicidio di Shireen Abu Akleh. “Riteniamo che a palestinesi e israeliani spettino in egual misura sicurezza, prosperità e libertà”, ha detto l’altro giorno ripetendo la solita formula il suo portavoce Patel, e Said Arikat di Al Quds [quotidiano palestinese di Gerusalemme, ndt.] ha accusato il governo di ipocrisia.

Insomma, con tutto il dovuto rispetto, quando afferma questo e quello, come abbiamo visto la scorsa settimana gli israeliani dare la caccia ad un bambino di 7 anni che poi si accascia al suolo morto – beh, con tutto il dovuto rispetto, queste dichiarazioni suonano vuote, come d’altronde per tutto il resto – i palestinesi non tengono gli israeliani in condizioni di detenzione amministrativa. Non distruggono le loro case; non li fanno saltare in aria; non li eliminano e così via. Non c’è equità. Non c’è affatto equità. Quindi questa è la domanda che le pongo: gli Stati Uniti prenderanno posizione sulla detenzione amministrativa? Penso che se questo succedesse altrove probabilmente lo fareste. Insomma, questa è una domanda che nel corso degli anni ho probabilmente sollevato tante, tante volte in questa stanza.

Patel ha semplicemente risposto che gli Stati Uniti “auspicano il pieno rispetto dei diritti umani in Israele, in Cisgiordania e a Gaza”.

Post scriptum: in seguito alla morte di Rayyan, oggi la Federazione americana di Ramallah, Palestina [ong americana che si occupa di questioni relative alla Palestina, ndt.],ha reso pubblica una richiesta per un’indagine del governo degli Stati Uniti su come vengono utilizzati gli aiuti statunitensi:

La tragica morte di Rayyan dimostra le devastanti conseguenze del contesto iper- militarizzato in cui vivono i bambini palestinesi e le ripercussioni della presenza dei soldati israeliani nelle comunità palestinesi…

L’amministrazione Biden e i membri del Congresso devono garantire che gli aiuti a Israele aderiscano alla legge statunitense in vigore, che stabilisce che i Paesi che ricevono aiuti statunitensi debbano soddisfare gli standard sui diritti umani o altrimenti affrontare sanzioni o essere ritenuti non idonei a ricevere aiuti…

Inoltre, la Federazione chiede ai nostri membri del Congresso di intraprendere un’azione immediata per difendere la vita dei minori e delle famiglie palestinesi e perché venga approvata la HR2590: The Defending Human Rights of Palestine Children and Families Living Under Israeli Occupation Act [Legge per la difesa dei diritti umani dei minori e delle famiglie palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana], [proposta di legge] presentata dalla deputata Betty McCollum, che cerca di garantire che i fondi dei contribuenti statunitensi non vengano utilizzati dal governo israeliano per la detenzione militare di minori palestinesi, la demolizione di case e proprietà palestinesi o per annettere ulteriori territori palestinesi in violazione del diritto internazionale.

È ormai tempo che Israele sia ritenuto responsabile dei suoi crimini contro i palestinesi, compresi i minori…

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘In fin di vita’: la famiglia del prigioniero in sciopero della fame chiede il suo rilascio immediato

Yumna Patel

3 gennaio 2022 – Mondoweiss

Il prigioniero palestinese Hisham Abu Hawash è entrato lunedì nel suo 140esimo giorno di sciopero della fame e, secondo la sua famiglia, è in condizioni talmente critiche che potrebbe morire in qualsiasi momento”.

Aggiornamento: Hisham Abu Hawash ha concluso il suo sciopero della fame martedì 4 gennaio dopo 141 giorni di sciopero, a seguito di un accordo con Israele per il suo rilascio dalla detenzione amministrativa il 26 febbraio.

Lunedì 3 gennaio il prigioniero palestinese Hisham Abu Hawash, 41 anni, è entrato nel suo 140esimo giorno di sciopero della fame e, secondo la sua famiglia, è in condizioni così critiche che potrebbe “morire in qualsiasi momento”.

Abu Hawash è stato arrestato dalle forze israeliane nell’ottobre 2020 nel cuore della notte nella sua casa di famiglia nella città di Dura, a sud di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata.

Poco dopo il suo arresto Israele lo ha posto in detenzione amministrativa, una pratica utilizzata da Israele che consente la detenzione dei palestinesi a tempo indefinito senza accuse o processo, sulla base di “prove segrete” contro di loro. Abu Hawash aveva precedentemente trascorso nelle prigioni israeliane due distinti periodi di detenzione amministrativa.

Il 15 agosto 2021, dopo quasi 10 mesi di detenzione amministrativa, la Corte Suprema israeliana doveva esaminare un appello sulla detenzione di Abu Hawash. Ma l’udienza è stata annullata in quanto la procura militare israeliana si è opposta alla presentazione dell’appello davanti alla corte affermando che a causa di “prove segrete” fornite da funzionari dell’intelligence israeliana Abu Hawash non avrebbe potuto appellarsi alla sua detenzione fino a quando non avesse scontato due anni di carcere in detenzione amministrativa.

Quel giorno Abu Hawash ha annunciato che avrebbe iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione arbitraria.

Ora, a più di quattro mesi dall’inizio del suo sciopero, la sua famiglia sostiene che Abu Hawash si trova in condizioni critiche ed è in fin di vita.

“Potrebbe morire da un momento all’altro”, ha detto a Mondoweiss il fratello di Abu Hawash, Emad, dal soggiorno della casa di famiglia a Dura.

Non è più in grado di muoversi e riesce a malapena a parlare. La sua vista è offuscata, i suoi muscoli hanno iniziato ad atrofizzarsi e il potassio e gli enzimi epatici sono a livelli criticamente bassi”, riferisce Emad.

“Hisham era già affetto da problemi renali, che sono congeniti nella nostra famiglia, e ora i medici sono preoccupati che i suoi reni e altri organi possano cedere da un momento all’altro”, aggiunge.

Il ministero della Salute palestinese ha organizzato una delegazione che nel fine settimana ha visitato Abu Hawash presso lo Shamir Medical Center (Assaf Harofeh) a sud di Tel Aviv, dove è detenuto. Secondo una dichiarazione del ministero, “Abu Hawash soffre di offuscamento visivo, incapacità di parlare, grave atrofia muscolare e incapacità di muoversi, mentre la sua capacità di percepire ciò che accade intorno a lui è ridotta.“.

Secondo Emad, Hisham, che è padre di cinque figli di età inferiore ai 13 anni, ha rifiutato ogni tipo di vitamine e sostentamento, ad eccezione di una miscela di acqua per mantenerlo in vita. La famiglia di Hisham riferisce che verso le 3 di questa mattina è entrato in coma.

Hisham ha perso metà del suo peso. Un tempo pesava 85 kg e ora ne pesa meno di 40″, dice Emad, sottolineando che nelle immagini che vede di suo fratello sdraiato nel letto d’ospedale gli risulta “irriconoscibilie“.

Crescenti pressioni

Durante il fine settimana la mobilitazione è cresciuta, poiché le organizzazioni internazionali e i parlamentari statunitensi si sono uniti ai cittadini e ai leader palestinesi nella richiesta a Israele di rilasciare immediatamente Abu Hawash.

Manifestazioni si sono svolte nelle città della Cisgiordania, con folle a Ramallah, Betlemme, Hebron e Nablus che hanno chiesto il rilascio di Abu Hawash. Proteste simili sono state segnalate a Gaza, così come in paesi e città palestinesi in Israele.

In base alle informazioni, domenica la polizia israeliana ha picchiato i manifestanti durante una veglia per Abu Hawash a Umm al-Fahm, nel nord di Israele.

Lunedì notte dei manifestanti con le bandiere palestinesi si sono radunati davanti agli uffici dello Shin Bet, l’agenzia di intelligence interna di Israele, per chiedere il rilascio di Abu Hawash.

Secondo la famiglia di Abu Hawash e i resoconti degli organi di informazione palestinesi, le forze di polizia israeliane hanno fatto irruzione nella sua stanza d’ospedale e hanno allontanato con la forza dall’ospedale sua moglie Aisha, i suoi avvocati e i giornalisti.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha rilasciato una dichiarazione in cui esprime preoccupazione per le condizioni di Abu Hawash, i potenziali effetti “irreversibili” del suo sciopero della fame e la “possibile perdita di una vita”.

I leader palestinesi, incluso il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh, hanno affermato di ritenere Israele “pienamente responsabile” della vita di Abu Hawash. Il movimento della Jihad islamica a Gaza ha minacciato ritorsioni se Israele non avesse rilasciato immediatamente Abu Hawash.

Appelli per il rilascio di Abu Hawash sono stati diffusi attraverso l’utilizzo dell’hashtag #FreeHishamAbuHawwash sulle piattaforme sociali della rete. Lunedì in Palestina imperversava su Twitter la versione araba dell’hashtag, insieme al tag #FreeThemAll.

La deputata statunitense Rashida Tlaib si è unita agli appelli per il rilascio di Abu Hawash e ha condiviso su Twitter un video virale dei figli di Abu Hawash in lacrime mentre visitano per la prima volta il padre in ospedale.

“Hisham Abu Hawash – sposato, padre di 5 figli, detenuto senza prove, processo o persino un’udienza in tribunale (in violazione della legge internazionale) dall’ottobre 2020. In sciopero della fame per oltre 140 giorni. Solo il governo di Israele è responsabile di questa situazione e della sua salute e sicurezza”, ha scritto Tlaib.

Siamo con Hisham fino alla fine’

Nonostante le crescenti richieste di rilascio di Abu Hawash sulle piattaforme sociali e nelle piazze palestinesi, Emad Abu Hawash dice a Mondoweiss che la comunità internazionale non ha fatto il proprio dovere al fine di difendere suo fratello.

Emad, che collabora con il Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) [organizzazione indipendente con sede a Gaza, ndtr.], riferisce di aver inviato decine di lettere urgenti a organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International per attirare l’attenzione sul caso di suo fratello, ma senza alcun risultato.

“Ho inviato lettere giorno dopo giorno a diverse organizzazioni internazionali, ma ho ricevuto poche o nessuna risposta”, dice Emad.

Nelle sue lettere, che ha fornito a Mondoweiss, Emad ha scritto, tra l’altro, del fatto che la tortura dei prigionieri e la detenzione amministrativa possono costituire crimini di guerra ai sensi dello Statuto di Roma [trattato internazionale istitutivo della Corte penale Internazionale, ndtr.] e costituire violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra [che protegge da atti di violenza e dallarbitrio i civili che si trovano in mano nemica o in territorio occupato, ndtr].

Nelle lettere indirizzate sia a Human Rights Watch che ad Amnesty Emad ha scritto: “Chiedo rispettosamente il vostro intervento per costringere l’occupazione israeliana ad attuare le regole minime standard per il trattamento dei prigionieri e a rilasciare Hisham Abu Hawash data la mancanza di accuse e l’assenza delle garanzie richieste per un libero processo”.

“La comunità internazionale non può trovare scuse sostenendo di non essere consapevole di ciò che sta accadendo”, afferma Emad, che è stato anch’egli recluso in una prigione israeliana in condizioni di detenzione amministrativa.

Sono anni che le organizzazioni palestinesi per i diritti umani denunciano al mondo il crimine della detenzione amministrativa. Il mondo ne è a conoscenza, ma ha scelto di non agire”.

Secondo l’organizzazione per i diritti dei detenuti palestinesi Addameer attualmente 500 prigionieri palestinesi sono imprigionati da Israele in regime di detenzione amministrativa.

Il mese scorso Israele ha rilasciato il prigioniero palestinese Kayed Fasfous dopo 131 giorni di sciopero della fame attuato in protesta contro la sua detenzione amministrativa. Nel novembre 2021 il prigioniero palestinese Miqdad Qawasmeh ha concluso il suo sciopero della fame di 113 giorni dopo che Israele ha accettato di porre fine alla sua detenzione amministrativa a febbraio del 2022.

“Qualsiasi cosa succeda siamo con Hisham”, dice Emad. “Sta lottando per la libertà e noi saremo con lui fino alla fine”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele sta perdendo la battaglia della percezione negli USA mentre cresce la simpatia verso i palestinesi

Anchal Vohra

1 giugno 2021 – Al Jazeera

Le opinioni dei parlamentari e dell’opinione pubblica USA stavano cambiando già prima degli 11 giorni di bombardamento su Gaza

Il mese scorso, mentre Israele portava avanti la campagna di bombardamenti durata undici giorni contro la Striscia di Gaza assediata e Hamas, il gruppo palestinese che la controlla, rispondeva lanciando razzi, dall’altra parte del mondo qualcosa di importante stava cambiando.

Per la prima volta dopo molto tempo è parso che Israele stesse perdendo terreno, almeno negli Stati Uniti, nella battaglia della percezione mentre i parlamentari mettevano in discussione le politiche filo-israeliane del loro governo.

Qui non si tratta di entrambe le parti,” ha detto in un suo intervento la parlamentare USA Alexandria Ocasio-Cortez, “si tratta di uno squilibrio di potere,” a favore di Israele, causato principalmente dal sostegno militare e diplomatico americano.

Il presidente ha detto che Israele ha il diritto di difendersi. Ma i palestinesi non hanno forse il diritto di sopravvivere?”.

La sua collega Rashida Tlaib ha fatto un appello commuovente nel suo discorso al Congresso raccontando la storia di una madre palestinese indifesa.

Mi ha detto: ‘Stasera metto a dormire i bambini nella nostra camera da letto così quando moriremo, moriremo insieme. E nessuno vivrà per piangere la scomparsa degli altri’, ha detto Tlaib in lacrime. “Queste parole mi hanno sconvolta ancora di più, perché le politiche e i finanziamenti del mio Paese negano a questa madre il diritto di vedere vivere i figli, i suoi figli, senza paura.”

Dei circa 250 palestinesi uccisi dagli attacchi aerei israeliani, 66 sono minori. Il New York Times ha pubblicato i loro volti in prima pagina e, nel corso degli scontri, varie pubblicazioni e canali televisivi americani hanno dato uno spazio più ampio alle voci di giovani palestinesi.

Black Lives Matter e ‘il punteggio simpatia’

Lo spostamento della percezione americana forse è stato reso netto dopo le politiche molto ostili dell’amministrazione Trump verso le richieste palestinesi.

Un recente sondaggio ha rilevato che, anche se negli USA il giudizio su Israele è ancora positivo, la simpatia a favore dei palestinesi è salita negli ultimi due anni, un periodo durante il quale gli americani hanno lottato contro la discriminazione razzista nel proprio Paese.

L’ultimo aggiornamento annuale della Gallup circa le opinioni degli americani sul conflitto israelo-palestinese, basato su sondaggi fatti prima dello scoppio delle recenti violenze, ha rilevato che i giovani e i democratici progressisti sono sempre di più a favore dei palestinesi riguardo all’irrisolvibile conflitto.

Il sondaggio aggiunge che quest’anno è migliorata persino l’opinione dei repubblicani sull’Autorità Nazionale Palestinese.

Stando al sondaggio della Gallup il 33% dei democratici progressisti simpatizza più per gli israeliani, mentre il 48% simpatizza più per i palestinesi, “con una differenza netta (di simpatia) del 15% in meno a favore di Israele”.

Due anni fa, prima che emergesse il movimento Black Lives Matter (BLM) [‘Le vite dei neri contano, movimento di protesta contro la violenza della polizia nei confronti delle minoranze, ndtr.] a favore della giustizia razziale, i democratici progressisti simpatizzavano in parti uguali per gli israeliani e i palestinesi.

Le opinioni dei democratici moderati e conservatori rispecchiano all’incirca quelle dei democratici progressisti: nel 2021 il 48% simpatizza per gli israeliani e il 32% per i palestinesi, totalizzando più 16% a favore di Israele,” aggiunge il sondaggio.

Il rapporto conclude che sul lungo termine la simpatia per Israele è scesa in entrambi i gruppi dei democratici; la relazione riporta che:

Le opinioni dei democratici ora sono a una svolta, dato che le loro simpatie per i palestinesi sono più o meno uguali a quelle per Israele, mentre i democratici progressisti sono passati dall’altra parte e ora solidarizzano di più con i palestinesi,” sostiene

Si indebolisce il sostegno per Israele’

Dana al-Kurd, autrice di Polarized and Demobilized: Legacies of Authoritarianism in Palestine [Polarizzati e smobilitati: retaggi dell’autoritarismo in Palestina] e ricercatrice presso l’Institute for Graduate Studies a Doha, dice che il cambiamento nella percezione è dovuto più al consistente ed efficace attivismo digitale dei palestinesi che alla stampa americana.

Secondo al-Kurd: “la differenza è dovuta all’ingresso di un maggior numero di persone di colore nel Congresso e nelle istituzioni di potere”.

È stato inoltre determinante il Black Lives Matter, che ha veramente cambiato il dibattito e modificato il modo in cui le persone percepiscono i temi relativi a razzismo e apartheid. I palestinesi sono stati di gran sostegno al movimento Black Lives Matter e hanno messo in contatto attivisti e organizzatori. Quindi è questo che ha spostato la percezione sulla questione palestinese.”

Sentiamo voci ebree in favore della pace e assistiamo all’emergere di una discussione veramente progressista fra gli ebrei americani,” aggiunge. “E ciò ha eroso il supporto a Israele.”

Anwar Mhajne, una ricercatrice presso lo Stonehill College in Massachusetts e politologa specializzata in relazioni internazionali, riconosce che sembra esserci un leggero cambiamento negli atteggiamenti della stampa americana a proposito del conflitto e lo attribuisce a un più vasto cambiamento nelle politiche statunitensi.

I molti membri democratici della Camera dei Rappresentanti che si sono espressi contro l’appoggio militare degli Stati Uniti a favore di Israele e invocato la protezione dei diritti dei palestinesi evidenziano anche una crescente visibilità delle voci palestinesi e il riconoscimento delle sofferenze dei palestinesi vittime dell’occupazione,” ha detto Mhajne.

Questi sono cambiamenti importanti di cui gli attivisti sul posto e all’estero sono consapevoli e che cercano di sfruttare per promuovere la loro causa.”

Favorire il ripensamento del problema’

Altri manifestano la speranza che il cambiamento delle opinioni negli USA possa incoraggiare l’amministrazione Biden non solo a prestare attenzione al conflitto, ma anche a giocare il ruolo che gli USA hanno tradizionalmente promesso, quello di un mediatore onesto.

Tamara al-Rifai, portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) afferma che secondo lei il tema dell’insoluto conflitto, inclusa l’emergenza dei rifugiati palestinesi, ha ricevuto un’attenzione che mancava da molto tempo.

Dei due milioni di abitanti di Gaza, 1,4 sono rifugiati, fa notare al-Rifai, aggiungendo che è il momento di portare il dibattito verso una soluzione duratura. C’è un’atmosfera che favorisce un ripensamento del dramma dei rifugiati palestinesi e la necessità di imporre pari diritti e la fine delle discriminazioni nei territori della Palestina occupata,” dice ad Al Jazeera.

Giovedì il commissario generale dell’UNRWA ha informato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed ha ripetuto che solo un onesto percorso politico può portare una pace duratura, non certo un fragile cessate il foco ,” afferma al-Rifai.

Quest’anno gli USA hanno ripreso il loro consistente sostegno all’UNRWA che noi sinceramente apprezziamo, non solo come donatori ma anche come partner e Stato membro delle Nazioni Unite con peso e autorità sufficienti ad aiutare a spostare il dibattito verso la ricerca di una soluzione politica.”

Emily Wilder, una giornalista americana, è stata licenziata dal suo datore di lavoro,The Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.], pare per dei tweet che riflettevano una posizione a favore dei palestinesi.

Wilder ha respinto l’accusa e ha detto in una dichiarazione di essere stata “vittima di un’applicazione asimmetrica delle regole sull’obiettività e i social media”. Ha detto che AP le ha comunicato che era stata licenziata per aver violato la politica aziendale a proposito dei social media, ma senza specificare quali tweets abbiano violato tale policy.

Se il favore per Israele non è tramontato, in Occidente il sostegno a favore dei palestinesi sembra crescere sia per il maggiore ingresso di progressisti nel governo che per l’uso che i palestinesi in Palestina e in tutto il mondo fanno delle piattaforme digitali per raccontare le proprie storie.

Tuttavia c’è un rinnovato slancio nella comunità internazionale verso la soluzione dei due Stati che sembrava essere scomparsa durante l’era Trump.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)