Editoriale. Antisemitismo. L’estrema destra sbiancata attraverso il suo sostegno a Israele

Alain Gresh e Sarra Grira

19 dicembre 2023 – Orient XXI

La scena sarebbe stata impensabile nemmeno troppo tempo fa: deputati e sostenitori dell’estrema destra, alcuni compagni di strada del Gruppo Unione Difesa [sindacato studentesco di estrema destra, ndt.] (GUD) , che sfilano accanto a gruppi estremisti ebrei come la Lega di Difesa Ebraica (LDJ) e il Bétar [movimento giovanile del partito revisionista sionista fondato da Vladimir Jabotinsky, ndt.], durante la “marcia contro l’antisemitismo” del 12 novembre a Parigi. Nello stesso momento una parte della sinistra, che ha accettato di far da garante a questa manifestazione, veniva fischiata.

In poche settimane le autorità francesi, spalleggiate da diverse forze politiche e dai media, hanno rimosso l’ultimo ostacolo alla “normalizzazione” dell’estrema destra nello spazio politico, tollerando, anzi felicitandosi, della partecipazione del Rassemblement National (RN) [partito francese di estrema destra sovranista di Marine Le Pen, nato dal Front National, ndt.] e di Reconquète [partito francese di estrema destra fondato dal giornalista Eric Zemmour, ndt.] alla marcia del 12 novembre contro l’antisemitismo. L’odio per gli ebrei quindi non è più collegato agli eredi del Front National – partito co-fondato da un vecchio combattente delle SS – che continuano ad affermare che Jean-Marie Le Pen non è antisemita.

Questo antisemitismo non avrebbe alcun legame nemmeno con Reconquête, il cui dirigente Eric Zemmour continua a ripetere, nonostante le sue condanne, che il maresciallo Pétain avrebbe “salvato gli ebrei francesi”. Ormai questo razzismo si manifesterebbe soprattutto attraverso “la diserzione della France Insoumise [movimento politico di sinistra radicale, lanciato da Melanchon, ndt.]”, secondo Dov Alfon, direttore di Liberation, per il quale “la partecipazione del Rassemblement National alla marcia civica” sarebbe semplicemente “imbarazzante” (sic). E per non interrompere un così virtuoso cammino, alcuni partecipanti a questa marcia hanno sventolato, contrariamente a quanto affermato da molti media, delle bandiere israeliane, avallando così la confusione – troppo frequente, troppo sistematica, troppo pericolosa – tra Israele e gli ebrei. Un gesto in linea con l’intenzione già manifestata dal Presidente Emmanuel Macron nel luglio 2017, in occasione della commemorazione del rastrellamento del Velodromo d’Inverno [la più grande retata di ebrei in Francia durante la seconda guerra mondiale, ndt.] al fianco di Benjamin Netanyahu, di fare di Israele il depositario della lotta contro l’antisemitismo nel mondo.

Ebrei? No, israeliani

L’esempio è venuto dall’alto. Il governo di Emmanuel Macron, quello stesso che affermava che Philippe Pétain fu “un grande soldato”, desiderava commemorare la nascita di Charles Maurras, difensore dell’antisemitismo di Stato. Quanto al Ministro dell’Interno Gérald Darmanin, ha scritto un libro per spiegare che Napoleone Bonaparte “si interessò a dirimere le difficoltà relative alla presenza di decine di migliaia di ebrei in Francia. Alcuni di loro praticavano l’usura e davano origine a disordini e lamentele.”

Per il Rassemblement National il processo di ‘sbiancamento’ è iniziato nel 2011: Marine Le Pen affermava allora il sostegno del suo partito ad Israele, mentre Louis Aliot, suo compagno e numero due di quello che ancora si chiamava Front National, si recò a Tel Aviv e nelle colonie per cercare di sedurre l’elettorato francese. Di che far dimenticare i conti del padre e rassicurare le autorità israeliane che, dopo parecchi anni, non nascondono i loro legami con questi sionisti antisemiti, di cui il populista ungherese Victor Orban è uno dei capofila. Recentemente Israele ha avviato un dialogo con il partito Alleanza per l’Unità dei Romeni, che glorifica Ion Antonescu, il leader del Paese durante la seconda guerra mondiale. Collaborò coi nazisti e fu responsabile della morte di 400.000 ebrei. Dall’Austria alla Polonia, Netanyahu non conta più i suoi alleati di estrema destra, neofascisti, spesso negazionisti o nostalgici del III Reich.

La classe dirigente israeliana in realtà non fa che perpetuare così una tradizione che risale ai tempi dei padri fondatori del sionismo: trovare negli antisemiti europei degli alleati per la loro impresa, e che si protrae sulla scia della “convergenza coloniale”. L’universitario israeliano Benjamin Beit-Hallahmi scriveva, a proposito dell’alleanza tra il suo Paese e il Sudafrica dell’apartheid negli anni 1960-1980, il cui partito al potere dal 1948 aveva avuto simpatie per la Germania nazista:

“Si possono detestare gli ebrei e amare gli israeliani perché, in parte, gli israeliani non sono ebrei. Gli israeliani sono dei coloni e dei combattenti, come gli afrikaners [bianchi di origine olandese e ugonotta insediati dell’Africa meridionale, ndt.].”

Così, trovare degli accordi con l’antisemitismo europeo è da tempo la scelta dei dirigenti israeliani, che non si interessano alla lotta contro questo razzismo se non per mettere a tacere le critiche al loro governo, sulla scia di Netanyahu che definisce “antisemita” ogni velleità della Corte Penale Internazionale (CPI) o dell’ONU di indagare sui crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano. Il giornalista Amir Tibon di Haaretz racconta quanto questa alleanza sia “una priorità delle forze religiose di destra in Israele, che propongono ai nazionalisti europei uno scambio: Israele vi fornirà un timbro di approvazione (alcuni lo hanno cinicamente definito un “certificato kasher”) e in cambio voi sosterrete le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.” Troviamo la stessa strategia nei confronti degli Stati Uniti, quando Netanyahu chiude un occhio sulle frequentazioni antisemite di Donald Trump, sull’ideologia dei fondamentalisti cristiani, la lobby filoisraeliana più potente a Washington che lo sostiene, o quando riceve il padrone di X (ex Twitter) Elon Musk a Gerusalemme alcuni giorni dopo aver approvato un tweet antisemita di quest’ultimo. Se il miliardario americano alla fine si è scusato, la sua piattaforma ha visto crescere del 60% i tweet antisemiti dopo che lui ne ha assunto il controllo.

La Palestina come catalizzatore

È proprio intorno alla “convergenza coloniale” che si articola il “nuovo antisemitismo” contro cui marciano, fianco a fianco, i partiti cosiddetti repubblicani e quelli di estrema destra. I loro due bersagli? Da una parte la sinistra anti-colonialista, quella che rifiuta la gerarchia dei razzismi, che non ne denuncia uno (l’antisemitismo) per negare l’esistenza dell’altro (l’islamofobia), e i musulmani nel loro insieme, che ancora ieri venivano chiamati “gli arabi”, i più anziani dei quali marciavano già 40 anni fa contro il razzismo di Stato. Questa sinistra che ha rifiutato di sbiancare il RN viene demonizzata, definita antisemita per la minima critica contro Israele, mentre il Ministro dell’Interno in nome della lotta contro l’antisemitismo, prima di essere richiamato all’ordine dai tribunali, vieta ripetutamente ai sostenitori delle vittime palestinesi di manifestare o di radunarsi.

Il fatto è che gli israeliani come i dirigenti di estrema destra europei percepiscono i musulmani come il nemico principale. Il genocidio in corso a Gaza serve da catalizzatore di questa strategia. Intorno alla difesa di Israele si ritrovano l’estrema destra e i sostenitori di questo Stato, entrambi ricorrendo all’immaginario dello “scontro delle civiltà” in atto dall’11 settembre 2001. Alle dichiarazioni bellicose e escatologiche di Netanyahu, che parla di lotta del “popolo della luce” contro “il popolo delle tenebre” fanno eco le affermazioni di Gilles-William Goldnadel su Le Figaro che evocano “la battaglia finale” tra “l’essere occidentale, la sua cultura pacifica e democratica” e “l’oriente”. Tra la realtà coloniale nella Palestina occupata e quella fantasmatica di un “imbarbarimento” delle periferie (ovviamente musulmane) di cui i “bianchi” sarebbero le prime vittime, non c’è che un passo, che una parte sempre più ampia della classe politica supera allegramente. Parallelismi evidenziati dal giornalista Daniel Schneidermann in un tweet del 30 novembre:

“Civilizzati contro barbari: a volte ho l’impressione che mi si raccontino storie analoghe quando mi si parla di Gaza e quando mi si parla di Crépol [dove venne assassinato in una rissa il giovane Thomas. Molti responsabili e editorialisti hanno strumentalizzato l’incidente facendone un caso di “razzismo anti-bianco”, ndt.]

E così il senatore Stephane Ravier, membro di Reconquète, può dichiarare al senato l’11 ottobre, durante una seduta di interpellanze al governo:

“Questi Fratelli Musulmani che vivono in mezzo a noi a causa della folle politica di immigrazione che tutti voi avete sostenuto qui, miei cari colleghi, per debolezza o per convinzione, bisogna trattarli come in Israele: con una risposta radicale e spietata.”

Così, ecco il nemico interno, ieri ebreo, oggi musulmano. Anch’esso asservito alla retorica elettoralista dell’estrema destra, il governo francese ha deciso di fare della lotta contro l’immigrazione “la sua grande causa” e cerca disperatamente di ottenere il sostegno dei repubblicani [partito della destra storica, ndt.] che nulla separa, su questa questione come su molte altre, dal Rassemblement National.

Oggi c’è una volontà di accordo”, ha dichiarato a questo proposito la presidente dell’Assemblea Nazionale Yael Braun-Pivet. Dopo il suo arrivo alla presidenza Macron ha trasformato, o piuttosto proseguito la trasformazione, del secolarismo del 1905 in secolarismo punitivo contro i musulmani. Ha agitato lo spettro del separatismo facendo di tutto perché i musulmani francesi non si sentano a casa sul nostro territorio. Se gli atti antisemiti sono stati giustamente denunciati, nessuna parola pubblica si è alzata contro l’ondata di affermazioni apertamente arabofobe e islamofobe, addirittura incitazioni all’assassinio e alla violenza, sui canali televisivi e sulle reti social, anche nei confronti di giornalisti musulmani.

Questi due pesi e due msure, l’immobilismo della Francia e dell’Unione Europea di fronte al genocidio in corso a Gaza e lo scatenarsi di violenza islamofoba istituzionale avranno una sola conseguenza: scavare un fossato sempre più largo non solo tra i Paesi del nord e del sud – in particolare tra la Francia e il Maghreb – rendendo concreto il discorso dello “scontro di civiltà”, ma anche all’interno stesso delle nostre società. La stigmatizzazione permanente di una parte dei nostri concittadini e degli immigrati, oltre al bavaglio imposto ad ogni voce critica riguardo a Tel Aviv, avrà un solo effetto: nutrire una collera che si trasformerà in odio e si abbatterà ciecamente nelle strade delle nostre città.

Alain Gresh

Specializzato in Medio Oriente, autore di diversi lavori, tra cui ‘De quoi la Palestine est-elle le nom?’ [la Palestina di che cosa è il nome?]

Sarra Grira

Giornalista, caporedattrice di Orient XXI.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




La donazione di reni solo ad ebrei emula il nazismo

Rogel Alpher

18 luglio 2023 Haaretz

Arnon Segal è un fascista messianico, come dimostra il suo essere il numero 20 nella lista del sionismo religioso alla Knesset e il suo attivismo a favore della costruzione del Terzo Tempio (e prima è, meglio è).

“Sono coinvolto quotidianamente con il Monte del Tempio”, ha osservato in un’intervista la scorsa settimana sulla sua decisione di donare un rene a uno sconosciuto. Ha anche annunciato che “l’unica condizione è che il rene vada a un ebreo”.

Questa dichiarazione è come un americano bianco che annunci di rifiutarsi di donare un rene a una persona nera o ispanica o non cristiana, un tedesco che doni esclusivamente ad ariani, un afrikaaner che rifiuti di donare a uno zulu, un indù in India che non lasci che il suo rene vada a un musulmano. Casi evidenti di discriminazione razziale basati su un nazionalismo estremista.

Segal non è diverso da tutti loro. Ha espresso molto chiaramente che l’unico requisito è l’ebraicità del destinatario, foss’anche un gay ebreo che disprezza la religione: “Siamo tutti fratelli, e i disaccordi sono all’interno della famiglia… il nostro impegno è di essere un solo popolo”. Il trapianto ha lo scopo di rafforzare la razza.

La Ministra della Diplomazia Pubblica [Ministero per la gestione dell’immagine nazionale attraverso canali ufficiali di Stato e non, ndt.] Galit Distal-Atbaryan ha spiegato su Twitter: Segal vede tutti gli ebrei come “fratelli e sorelle di sangue… l’immortale famiglia ebraica”. Ogni ebreo è percepito come parte di un corpo più grande chiamato “famiglia”: il popolo ebraico, la nazione ebraica. La connessione tra gli individui di questa “famiglia” è organica. È “nel sangue”. Il sangue che scorre nel corpo di ogni ebreo lo collega eternamente ad un corpo nazionale più ampio, “l’immortale popolo ebraico”. Così disse il Signore. Anche il Terzo Reich propugnò un’ideologia che vedeva ogni individuo della Volksgemeinschaft (la comunità di razza tedesca) come una cellula di un corpo nazionale più ampio.

“Puoi chiamarlo razzismo o fascismo”, ha scritto Distal-Atbaryan. “Noi lo chiamiamo amore.” Il razzismo è amore. Il fascismo è amore. E sulla base di questo neolinguaggio orwelliano, arriva la morale della favola: anche se dice che la “sinistra laica” e il “blocco dei credenti” sono “due universi paralleli che parlano lingue aliene”, secondo lei i fascisti devono pur sempre vedere quelli di sinistra come “amati fratelli… senza limiti nel tempo…”

“Sangue e terra”, cantavano i suprematisti bianchi che marciarono a Charlottesville, in Virginia [nel 2021, una contromanifestante fu uccisa e 19 feriti, ndt.]. Anche questo è uno slogan originariamente nazista, che si basa sull’idea di una connessione mistica tra la patria tedesca e i tedeschi “razzialmente puri”.

Come loro Segal, Distal-Atbaryan e l’intero movimento fascista ebraico in Israele credono in una connessione mistica, divina ed eterna tra tutti gli ebrei e tra gli ebrei e la terra di Eretz Israel [il Grande Israele, ndtr.]

Negli anni ’70 la giunta dittatoriale in Argentina appese un cartello circolare sull’obelisco bianco al centro del viale principale di Buenos Aires che diceva “El Silencio es Salud” (“Il silenzio è salute”). I regimi totalitari, come George Orwell ha capito e prefigurato così chiaramente, capovolgono la logica. Il silenzio è salute? La censura è ovviamente tossica e distruttiva. Il razzismo è amore?

Questo “amore” tra “fratelli e sorelle di sangue” nella “immortale famiglia ebraica” non deriva in alcun modo da valori condivisi. Anzi. Segal è pronto a donare un rene a qualcuno i cui valori sono all’opposto dei suoi, purché il sangue di quella persona sia ebreo. La stessa connessione mistica, divina, organica si trova nel sangue che scorre nelle vene di ogni ebreo, e contiene un legame eterno, e totalmente fascista, con il suolo di Eretz Israel.

La lezione che la fazione del “razzismo è amore” trae dall’Olocausto (di cui ogni fibra dell’esperienza israeliana è satura) è quella di emulare i tedeschi. Forse se i fascisti ebrei in Israele dimenticassero l’Olocausto sarebbero persone migliori, più morali.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un altro eminente sionista ammette che il progetto è fallito

Philip Weiss

9 gennaio 2023 – Mondoweiss

Hillel Halkin si è trasferito in Israele dagli Stati Uniti 50 anni fa come sionista convinto. Ora lo scrittore confessa che il progetto è fallito perché non poteva far fronte alle richieste palestinesi, e che è stato ingenuo.

Abbiamo seguito con attenzione indizi sul fatto che la comunità ebraica si stia rivoltando contro Israele in seguito allo shock per il nuovo governo fascista, e questa è un altra testimonianza.

Hillel Halkin, un sionista convinto di 83 anni trasferitosi dagli Stati Uniti in Israele nel 1970, scrive su Jewish Review of Books che Israele è condannato. “Siamo sull’orlo di un baratro e stiamo precipitando.” E nulla salverà Israele dall’abissodella politica messianica di destra.

I leader israeliani hanno evitato la questione centrale dei diritti dei palestinesi, spiega Halkin, scrittore e traduttore. Quindi il problema è cresciuto e Israele è diventato sempre più di destra. E non solo di destra, ma di un estremismo religioso. Quando l’intero scopo del sionismo era quello di svezzare il popolo ebraico dalla religione e produrre una democrazia laica.

Così Jeremy Pressman [docente in Scienze Politiche presso l’Università del Connecticut ed esperto della questione israelo-palestinese, ndt.] si prende gioco su Twitter della rivelazione di Halkin: “‘Non avrei mai pensato che i leopardi mi avrebbero divorato la faccia’, singhiozza la donna che ha votato per il Leopards Eating People’s Faces Party [partito dei leopardi divoratori di facce umane]”. Molto arguto. Ma io faccio i complimenti ad Halkin. Ci sono molti sionisti che sono stati attratti dall’ideologia per un senso di idealismo/liberazione ebraica/chiusura mentale; e sebbene quasi tutti per decenni non si siano curati delle notizie dalla Palestina, almeno Halkin ammette umilmente di aver sbagliato.

Halkin inizia il suo racconto descrivendo un amico israeliano che dopo l’elezione di Begin nel 1977 percepì dei segnali di pericolo e iniziò a votare per i partiti palestinesi prima di trasferirsi in Portogallo 10 anni fa: “un antisionista dichiarato le cui terribili previsioni per il futuro di Israele ci hanno portato ad accese discussioni”. Quell’amico ha recentemente scritto ad Halkin per dirgli: te l’avevo detto. Halkin ha risposto:

Hai vinto. Da anni ormai Israele mi sembra un sonnambulo che cammina verso un baratro. In quel baratro ora stiamo precipitando.

Halkin nutre la speranza che Israele possa riprendersi, ma afferma che il nuovo governo radicale fa presagire “un caos politico”. E quando “i consolatori” dicono: “Questa è solo un’elezione, tra due anni tornerà il blocco centrista”, dice che è un pio desiderio. , ci saranno altre elezioni. E i mascalzoni probabilmente le vinceranno con margini maggiori di quelli con cui hanno vinto queste.

I dati demografici mostrano che Israele sta solo peggiorando. Ci sono sempre più giovani elettori ultraortodossi. “La politica israeliana è ora talmente consolidata intorno a linee identitarie di gruppo che i blocchi elettorali sono estremamente stabili… le correnti che spingono Israele costantemente verso destra persisteranno”.

La confisca senza fine della terra palestinese e l’espansione degli insediamenti coloniali spinge l’opinione pubblica israeliana sempre più a destra. Più questo conflitto diventa senza speranza, più guadagna la destra e i suoi alleati religiosi e perde il centro-sinistra”.

Il razzismo domina la cultura politica israeliana:

Secondo un sondaggio dello scorso anno un quarto di tutti gli israeliani non religiosi di età compresa tra i diciotto e i ventiquattro anni e la metà di tutti i credenti pensano che i cittadini arabi di Israele debbano essere privati del diritto di voto!

Questa è la popolazione votante nel futuro di Israele – ed è un futuro in cui è esclusa qualsiasi alleanza tra il centrosinistra e i partiti arabi di Israele che possa bilanciare il blocco religioso di destra. Lo stato di cronica esacerbazione delle relazioni arabo-ebraiche lo garantisce, dal momento che nessun partito ebraico può permettersi di essere visto come “amante degli arabi”…

La soluzione dei due Stati è fallita nel 2009, ma su questo tutti mentono. “Sebbene le sue virtù continuino a essere decantate da tutti, tale soluzione è irrealizzabile, resa tale dall’attuale presenza di centinaia di migliaia di coloni israeliani in Giudea e Samaria”. Tutti i principali partiti in Israele hanno adottato la politica di “gestione del conflitto”. Come se ciò fosse realizzabile, tanto meno auspicabile.

E ora Israele “va verso un disastro… un Israele bi-nazionale che inevitabilmente imploderebbe dall’interno o un Israele moralmente ripugnante ostracizzato dal mondo e abbandonato da molti dei suoi stessi cittadini”. Sì, ben un milione di laici vivono già all’estero. Altri se ne andranno.

Halkin dice che Israele sparirà entro 30 anni, se annetterà la terra – qualcosa che il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich vuole fare “con l’aiuto di Dio”. Sia i palestinesi che gli israeliani sono diventati più religiosi e il conflitto distrugge ogni speranza. “La costante deriva verso la religione nella vita israeliana degli ultimi decenni, così opposta alla tendenza nei paesi occidentali, è direttamente correlata all’impasse israelo-palestinese”.

Halkin spiega che il sionismo doveva essere antimessianico:

Il sionismo aspirava a svezzare il popolo ebraico dalla convinzione che Dio fosse dalla sua parte e che a lui si potesse affidare per essere salvato dalle situazioni difficili, che avrebbe dovuto fare affidamento su Dio piuttosto che su se stesso perché ciò era stato stabilito da Dio. Fu proprio per questo che la maggior parte dei rabbini d’Europa, dove sorse il sionismo, e specialmente dell’Europa orientale, dove trovò le sue radici più profonde, lo combatterono con le unghie e con i denti. La maggior parte dell’ultra-ortodossia è rimasta aspramente antisionista fino alla dichiarazione dello Stato di Israele…

E ora, con il traino di Benjamin Netanyahu, queste sono le forze che ci trascinano nell’abisso. [Gli antisionisti] hanno dato la colpa al sionismo, e io l’ho data all’ebraismo, delle cui fantasie e delusioni il sionismo ha cercato di curarci solo per esserne esso stesso infettato. Il sionismo voleva renderci un popolo normale. Ha fallito e si è snaturato nel processo.

Halkin ha la bontà di ammettere che altri lo avevano già previsto molto tempo fa.

Non ho mai creduto agli avvertimenti, lanciati da molti nel corso degli anni, che l’espansione delle colonie avrebbe portato Israele al punto di non ritorno. Credevo che alla fine, prima o poi, per quanto tempo ci fosse voluto, l’unica soluzione praticabile, l’unica soluzione ancora da provare, sarebbe stata colta [la soluzione dei due Stati]…

Sono stato (come spesso mi è stato detto) ingenuo. Siamo oltre il dirupo e stiamo precipitando, e nessuno sa quanto il baratro sia profondo.

Halkin ha 83 anni e devo credere che sia un esponente rappresentativo dei sionisti laici che cominciano ad avere terribili dubbi su una filosofia che hanno abbracciato. Il governo Netanyahu-Ben-Gvir-Smotrich offre loro l’opportunità di distaccarsene.

Non analizzerò qui l’argomentazione di Halkin (le sue giustificazioni per la Giudea e la Samaria, il suo biasimare i palestinesi, la sua incapacità nell’attribuire da subito ai palestinesi una comprensione del sionismo). Penso che abbiamo bisogno che più ebrei sionisti divengano ex sionisti e decolonizzino la mente ebraica e l’establishment statunitense, per aprire la strada alla democrazia. Quindi plaudo al coraggio e onestà di Halkin e al suo cambiamento.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La legge israeliana pensata per escludere gli arabi da certe comunità adesso è usata contro gli ebrei

Meirav Arlosoroff

7 gennaio 2023 – Haaretz

Potrebbe sembrare che il nuovo governo stia espandendo il numero di comitati di ammissione in piccole comunità per escludere gli arabi. In realtà si vuole evitare che altri ebrei competano con i locali per terreni a basso costo

Nell’ultimo rapporto biennale pubblicato due mesi fa dall’Ufficio Centrale di Statistica in Israele solo cinque autorità locali si collocano nel Gruppo 10, più alto dal punto di vista socio-economico. Omer, un consiglio comunale con una popolazione di 8.000 abitanti situato appena a nord di Be’er Sheva, è uno di questi cinque posti privilegiati. 

Pini Badash è stato sindaco di Omer per 32 anni ed è certamente un amministratore esperto e di successo. La scorsa settimana, in un’intervista a Makor Rishon [giornale di destra e vicino al movimento dei coloni, N.d.T.], ha detto: “Adesso c’è una nuova area destinata all’edilizia residenziale a Omer e ho deciso di destinarne una parte al personale di carriera dell’esercito che opera nella zona e un’altra parte ad abitanti che vivono già a Omer. Sono stati immessi sul mercato libero sei lotti [per una casa], ma se un beduino ne comprasse uno, io bloccherò la vendita.” 

Badash ha continuato dicendo che “ci sono cittadini israeliani qui, nostri vicini, con carte di identità come le nostre che, alla resa dei conti e in un momento di crisi, sono il nemico. Io ero a una riunione sulla sicurezza con un militare che ha descritto così la situazione: ‘Immagina di costruire una casa, una casa magnifica, di installarci videocamere e una recinzione, così nessuno può entrarci. Ma cosa succede? Le termiti della casa hanno divorato te.’ Questa è la nostra situazione. C’è un esercito forte, ci sono i servizi segreti, ma alla fine siamo annientati dall’interno.” 

The Marker [quotidiano economico in ebraico pubblicato in Israele dal gruppo Haaretz, N.d.T.] ha chiesto a Badash se volesse scusarsi per aver paragonato i beduini alle termiti e di ritrattare la sua dichiarazione in cui dice che intende impedire ai cittadini beduini di comprare terreni a Omer. Badash ha rifiutato di commentare.

Badash ha un problema. Ai sensi della legislazione attuale è vietato negare a chiunque il diritto di acquistare una casa nella comunità che governa o persino di mostrare preferenze sulla vendita di una casa a una persona più che a un’altra, eccetto in casi in cui si applichi una di queste due condizioni. 

La prima condizione è che l’acquirente sia un “nativo.” In altre parole, è una preferenza che consente ai membri della seconda generazione di vivere vicino ai propri genitori, sebbene anche questa sia parziale. Questa eccezione si applica ad alcuni, ma non a tutti i lotti che sono sul mercato a Omer e certamente non impedisce ai beduini di acquistare case per sé. La seconda condizione si applica solo a piccole comunità fino a un massimo di 400 famiglie che vogliono mantenere la propria individualità tramite i comitati di ammissione. 

Queste due eccezioni sono più o meno simili e sono intese a garantire che solo io e quelli come me hanno il diritto di vivere in certe zone. In pratica mi danno il diritto di discriminare gli altri unicamente perché non mi assomigliano. 

Ci sono molti “altri” che non riusciranno a superare gli ostacoli dei comitati di ammissione: mizrahi [ebrei originari di Paesi arabi o musulmani che vivono in Israele, N.d.T.] in una comunità ashkenazita [ebrei di origine europea, N.d.T.], persone religiosamente osservanti in un ambiente laico, laici in un contesto osservante, comunità che accettano solo vegani e, ovviamente, arabi. Del resto i comitati di ammissione sono sorti come risposta alla sentenza dell’Alta Corte di Giustizia nel 1995 sul caso Kaadan, quando la causa relativa a una famiglia araba di Baka al-Garbiyeh che aveva cercato di comprare una casa nella vicina comunità di Katzir e si era vista opporre un rifiuto si rivolse alla Corte Suprema che giudicò illegale la discriminazione. In seguito si trovò un modo per aggirare quella sentenza tramite la legge dei Comitati di Ammissione del 2011: la concessione a piccole comunità del diritto di esaminare le persone che vogliano trasferirvisi. 

Non è un caso che gli accordi della coalizione firmati dal Likud con Sionismo Religioso e Otzma Yehudit [entrambi partiti di estrema destra, N.d.T.], lo scellerato trio Smotrich, Ben-Gvir e Netanyahu, riguardino i comitati di ammissione. I due accordi con i due partner di coalizione includono una clausola che autorizza le comunità fino a 1000 famiglie (due volte e mezza il limite precedente di 400) a creare tali comitati. Il diritto di selezionare i candidati e limitare l’ammissione delle famiglie sta quindi per essere applicato come minimo a decine di altre comunità, colonie incluse. 

E come se questo non fosse abbastanza, l’accordo di coalizione Likud-Sionismo Religioso contiene anche un’altra clausola speciale che permette di insediare un comitato di ammissione in una cittadina che conti fino a 2000 famiglie, in questo caso Kasif, la città progettata nel Negev per gli haredi [ebrei ortodossi ed ultra-ortodossi, N.d.T.]. La clausola è pensata per garantire che tutte le prime 2000 famiglie di Kasif siano ebree (e fra loro neppure una beduina), come parte del fine dichiarato che Kasif, che si intende far sorgere nel cuore della zona in cui vivono i beduini e che alla fine offrirà una soluzione abitativa per 25.000 famiglie, sia una città esclusivamente ebraica. 

Comunque concentrarsi sull’odio contro gli arabi e sul desiderio di impedire loro di comprare case in insediamenti ebraici, un obiettivo che Badash ammette apertamente, fa perdere di vista il punto principale. Gli arabi raramente acquistano case in comunità ebraiche. Badash ammette che anche a Omer non ci sono che poche famiglie beduine benestanti. (“Al momento ci sono 25 famiglie beduine che vivono qui: giudici, medici, ingegneri e due ‘collaboratori’ [membri delle forze di sicurezza palestinesi] stipendiati dallo stato.”) 

Gli arabi preferiscono stare vicini alle proprie comunità anche solo per poter mandare i figli alle scuole arabe. Inoltre giustamente non vogliono vivere dove non sono graditi. Al contrario quelli che vogliono abitare in queste comunità ebraiche sono altri ebrei, meno abbienti di quelli che ambiscono alla qualità di vita dei quartieri residenziali. Il vero motivo dei comitati di ammissione è quello di tenere a debita distanza questi ebrei. 

Preservare i privilegi economici

A causa dei seri danni che possono causare, al momento la legge autorizza i comitati di ammissione solo in zone rurali di aree periferiche. Inevitabilmente finiscono per creare comunità omogenee, in cui solo io e quelli come me possono vivere, offrendo di fatto un permesso per discriminare. Costituiscono un grave colpo alla possibilità di alleviare la crisi degli alloggi, rendendo impossibile rimpolpare tali comunità (la maggioranza bloccata a 400 famiglie) e continuare a crescere. Hanno anche un basso tasso di utilizzo, dato che fungono da licenza per alcuni di arricchirsi a spese dei terreni demaniali.

L’ultimo punto è il più importante. I comitati di ammissione, come i diritti della “seconda generazione” o di un “nativo,” sono strumenti per arricchirsi. In fin dei conti sono formati da privati cittadini incaricati di distribuire le terre nelle loro comunità e di decidere chi, e se, le comprerà. È la loro occasione per speculare sul prezzo dei terreni nella comunità e anche un segnale di via libera a corruzione e abusi. 

Inoltre questo è uno stratagemma inteso a garantire che l’assegnazione dei lotti nella comunità sia esente da gare pubbliche aperte a tutti: verrà invece fatta una scelta personale tra chi avrà diritto alle proprietà e chi no. In tal modo si raggiungeranno due obiettivi fondamentali. Il primo è che saranno i compari dei membri del comitato che acquisteranno i lotti nella comunità (in pratica è anche possibile fare in modo che l’assegnazione agli abitanti locali ecceda il tetto stabilito per legge). Il secondo, il loro prezzo sarà inferiore in assenza della concorrenza per l’acquisto dei lotti. Così i membri della famiglia potranno acquistare case nella comunità a prezzi convenienti. 

Analogamente questo spiega perché è importante per Otzma Yehudit e Sionismo Religioso estendere il fenomeno dei comitati di ammissione anche alle colonie. Non perché i palestinesi cercheranno di comprare terreni nelle colonie, non lo faranno, ma perché i figli dei coloni potranno comprare lotti a prezzi bassi. Quindi, sia i coloni che molte decine di comunità che contino fino a 1000 famiglie, che non avranno più il loro status precedente, condizioneranno il costo dei terreni per ottenere per i propri figli un prezzo conveniente. 

Nonostante le urla e lo strepito di Badash, 25 famiglie beduine benestanti e istruite che possono permettersi i costi delle case a Omer non distruggeranno il carattere agiato della prestigiosa comunità. Badash, e come lui le piccole comunità facoltose del Consiglio Regionale di Misgav, a nord, che si sono aggregate ai kibbutz della Galilea, e il forum di estrema destra che sostiene le colonie ebraiche al grido di “salviamo la Galilea”, vogliono proteggere i loro privilegi economici. Vogliono creare una situazione in cui solo loro e i loro colleghi e amici avranno l’opportunità di acquistare proprietà nelle loro comunità e se è necessario usare razzismo e odio contro gli arabi per raggiungere l’obiettivo – allora tutto è lecito.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Punito per aver detto la verità sull’estrema destra israeliana

Sheren Falah Saab

31 ottobre 2022 – Haaretz

Questo è ciò che è successo quando un presentatore televisivo ha osato dire la verità sulle posizioni politiche razziste di Smotrich e Ben-Gvir, sconvolgendo un ecosistema mediatico che per lo più intende ripetere i messaggi di Netanyahu e dei suoi alleati.

In questi giorni la verità disturba, soprattutto se detta nei mezzi di comunicazione israeliani. La tempesta sulle considerazioni di Arad Nir sabato nel notiziario di Channel 12 [Canale 12, rete televisiva privata israeliana, ndt.] “World Order” [Ordine internazionale] ne sono la dimostrazione assoluta. “In base ai sondaggi pubblicati questo fine settimana non c’è ancora una scelta definitiva tra il blocco leale al leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu, sotto processo per corruzione, frode e abuso d’ufficio, e la coalizione di partiti che gli si oppongono,” ha detto Nir. “E ciò persino dopo che Netanyahu ha legittimato l’estremista di destra Itamar Ben-Gvir e lo ha spinto ad allearsi con Bezalel Smotrich, che vuole che lo Stato di Israele venga governato in base alla legge della Torah, in un partito il cui nome provoca un certo disagio: Otzma Yehudit [Potere ebraico].” Nir non ha detto niente di nuovo. Al contrario, è fedele alla verità e accurato rispetto ai fatti.

Ma perché essere fedele ai fatti quando dai giornalisti di Channel 12 ci si aspetta che ripetano i messaggi del padrone, il capo dell’opposizione C e compagni? A Channel 12 sono abituati ad agire solo all’interno del quadro dei limiti prestabiliti per loro e come portavoce di Netanyahu. Nel caso di Nir è inquietante il fatto che Avi Weiss, il direttore generale di Channel 12 News, abbia richiamato e rimproverato Nir.

Cosa c’è di inquietante nelle affermazioni di Nir? Non ha fatto altro che mettere uno specchio davanti alla situazione politica di Israele ed è suffragato dai fatti, in quanto sono stati presentati in continuazione nelle discussioni politiche sui media negli ultimi due anni. Nir non ha normalizzato il razzismo e non ha glorificato il kahanismo [ideologia del defunto rabbino di estrema destra Meir Kahane, cui Ben-Gvir si ispira, ndt.]. Le sue parole sono la pura verità sulla politica israeliana e su come Netanyahu ha legittimato con le sue mani il capo di Otzma Yehudit, il deputato Itamar Ben-Gvir, e si è preso la briga di metterlo in contatto con il capo di Sionismo Religioso, Bezalel Smotrich. Ma pare che a Channel 12 temano la verità e i fatti e sia più facile agire all’interno del quadro delle “interpretazioni” funzionali solo alla narrazione del nostro padrone. Nir è stato l’unico che abbia osato sfidare le imbeccate messe sulla dei giornalisti di Channel 12, ed egli è stato redarguito e persino convocato per un chiarimento.

Di fatto è stato Channel 12, che sostiene di agire in un quadro di oggettività conservando un delicato equilibrio, che recentemente ha presentato un sondaggio che includeva la domanda: “Concordi con l’affermazione secondo cui il governo si appoggia su sostenitori del terrorismo?” [in riferimento al partito arabo-israeliano Ra’am, che faceva parte della coalizione di governo, ndt.]. Amit Segal, che ha presentato il sondaggio, si è preso la briga di spiegare: “Una maggioranza di personalità influenti lo pensa: il 47% è d’accordo, il 43% dissente.”

Segal non è stato rimproverato ed ha persino ricevuto il sostegno e la legittimazione per una domanda che molte persone pensano inciti e normalizzi il razzismo contro i cittadini arabi di Israele. Anche i partecipanti alla discussione sono rimasti in silenzio. Ciò era quello che ci si aspettava da Nir, che continuasse a stare zitto, annuisse e persino che dipingesse le azioni politiche di Netanyahu e della sua banda come liberalismo, democrazia e la volontà del popolo. Proprio ora, solo a un giorno da elezioni cruciali, è dovere di ogni giornalista rispettabile e dedito alla professione presentare la verità e i fatti, anche quando sono imbarazzanti per il direttore generale dell’impresa di notizie o per Segal.

Nir ha cercato di rompere il muro del silenzio in base al quale Channel 12 opera ed ha osato dire un’altra verità che la maggior parte della gente sceglie di ignorare riguardo a Otzma Yehudit. Nei suoi commenti sul partito Nir è stato moderato e non ha menzionato il fatto che Ben-Gvir è l’uomo che disse di Yitzhak Rabin, dopo aver strappato lo stemma dalla macchina dell’allora primo ministro: “Siamo arrivati alla sua auto, arriveremo anche a lui.” Nir non ha neppure citato le dichiarazioni di Ben–Gvir sulla cosiddetta “Legge delle Espulsioni” e i treni per trasferire parlamentari come il capo di Hadash [partito arabo-israeliano laico di sinistra, ndt.], Ayman Odeh. Non ha neppure citato, e forse è il caso di ricordarlo al direttore generale dell’impresa, quello che ha detto Smotrich lo scorso anno dal podio della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.], rivolto ai parlamentari arabi con una dichiarazione che rappresenta assolutamente razzismo, odio e incitamento alla violenza: “Siete qui per sbaglio, perché (il fondatore e primo capo del governo di Israele David) Ben Gurion non finì il lavoro e non vi espulse nel 1948.”

Il richiamo a Nir evidenzia il meccanismo in base al quale opera Channel 12, il controllo repressivo del modo di pensare che blocca ogni possibilità di pensiero critico. L’idea del trasferimento e di una seconda Nakba [Catastrofe, cioè l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi nella guerra del 1947-49, ndt.] non è comparsa dal nulla, sono cose che sono state dette da Smotrich e Ben-Gvir con la legittimazione di Netanyahu, sotto processo per reati penali. Questo non è solo un rimprovero, ma la riduzione al silenzio di un giornalista che non vuole ignorare la politica di razzismo etnico di Ben-Gvir e Smotrich nè partecipare alla censura che priva i cittadini della possibilità di giudicare la realtà senza una propaganda dettata dall’alto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dall’Ungheria a Israele, il razzismo non si limita all’estrema destra

Zvi Bar’el

28 luglio 2022 – Haaretz

“Noi [ungheresi] non siamo una razza mista e non vogliamo diventare una razza mista”, ha detto lo scorso fine settimana il primo ministro ungherese Viktor Orban durante un discorso in un’università rumena di una provincia della Transilvania con una numerosa popolazione di etnia ungherese. “La migrazione ha diviso in due l’Europa, o potrei dire che ha diviso in due l’Occidente. Metà è un mondo in cui convivono popoli europei e non europei. Questi Paesi non sono più nazioni: sono soltanto un miscuglio di popoli”, ha affermato il leader che governa il suo Paese da dodici anni e che per un anno ha frequentato l’Università di Oxford.

Per un breve momento è sembrato che non fosse Orban a esporre la sua teoria sulla razza con una semplicità tanto agghiacciante, e che si trattasse piuttosto di un plagio dai politici israeliani, per cui il razzismo è un credo. E questo vale non solo per i partiti della “nazione pura” o del “salvare la razza”. Bezalel Smotrich [leader del Partito Sionista Religioso, ndt.] e Itamar Ben-Gvir [leader del partito israeliano di estrema destra Otzma Yehudit, Potere Ebraico, ndt.] non hanno il monopolio sul marchio del razzismo, ma il loro razzismo diretto ed esplicito, di cui sono così orgogliosi, fornisce un paravento di nobiltà liberale a tutti gli altri. Quando Benny Gantz [vice primo ministro dell’attuale governo israeliano dimissionario, ndt.) e Yair Lapid [attuale primo ministro di Israele, ndt.] parlano degli “estremisti” con i quali rifiuterebbero di sedere in una futura coalizione di governo, insinuano che, rispetto a Sionismo Religioso e a Otzma Yehudit, i membri di Yesh Atid [partito liberale di centro fondato da Yair Lapid, ndt.], Kahol Lavan [Blu e Bianco, partito di centro di Benny Gantz, ndt.], New Hope [Nuova Speranza, partito di destra formato da ex-membri del Likud, ndt.] e naturalmente Yamina [alleanza di partiti dell’estrema destra dei coloni, ndt.] insieme ad altri partiti “legittimi” sono esenti dalla macchia del razzismo. Ma il confronto è distorto e fallace. Il razzismo non è relativo. Un “po’ di razzismo” è razzismo.

Dopotutto, la stessa incontaminata coalizione di cui sono membri ha votato con entusiasmo la legge discriminatoria dello Stato-nazione. I suoi ministri danno la caccia ai richiedenti asilo e non si sono opposti alle decisioni del ministro dell’Interno, Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra Yamina nota per le sue posizioni oltranziste, ndt.].

È Shaked, non Smotrich o Ben-Gvir, ad aver riportato in vita il termine “Pale of Settlement” [Zona di residenza, regione occidentale della Russia imperiale istituita dal 1791 al 1917 in cui era consentito risiedere agli ebrei, ndt.] quando ha stabilito che i richiedenti asilo provenienti dall’Ucraina potranno lavorare solo in un numero limitato di posti di lavoro in 17 città israeliane. Questo regolamento si applicherà a tutti gli altri richiedenti asilo a partire da ottobre. Secondo le condizioni poste, coloro che violano la regola osando assumere lavoratori stranieri per lavori che non siano dei peggiori dovranno affrontare pesanti sanzioni. E qual è la fase successiva? Forse segnalare le aziende che impiegano lavoratori stranieri in violazione della legge? o ripristinare la struttura di detenzione di Holot? [centro di reclusione nel Negev in cui nel 2015 furono rinchiusi 1.178 richiedenti asilo eritrei, ndt.]

La tranquillità con cui è stata accolta questa contorta “procedura” – presentata da Shaked per ingannare l’Alta Corte di Giustizia – dimostra fino a che punto sia diffusa la metastasi del razzismo. Nessun membro della Knesset ha avuto paura di essere infettato dallo smotrichismo. Dopotutto, è stata Shaked – una dei nostri – a concepire e dare alla luce il mostro. E non è sola.

La legge sulla cittadinanza presentata da Shaked e dal parlamentare Simcha Rothman (di Sionismo Religioso), che impedisce il ricongiungimento di 1.680 famiglie palestinesi e israeliane, è stata sostenuta da 45 parlamentari – più di sette volte il numero dei seggi conquistati da Yamina nelle ultime elezioni.

Per inciso, agli occhi del suo partner ideologico, Shaked non è degna di una medaglia per razzismo. In un’intervista al sito religioso sionista Srugim circa tre settimane fa, Rothman ha chiarito che “chiunque abbia votato per un partito guidato da qualcuno che ha fatto affari con Mansour Abbas [leader di un partito arabo islamista entrato nella coalizione di governo con Shaked e altri esponenti di estrema destra, ndt.] e che in una fase successiva farà affari con la Lista Araba Unita [il partito di Abbas, ndt.] è già nel blocco di sinistra. Non credo che nessuna persona di destra che si rispetti voterà per Ayelet Shaked”. Sionismo Religioso sa come rintracciare quei finti razzisti e lanciare avvertimenti contro di loro. Dopotutto, il razzismo è una risorsa elettorale e la destra dal cuore tenero o i liberali di centro sinistra non possono essere autorizzati a rubare il marchio.

Quando nel 1993 Viktor Orban fu eletto presidente del suo partito, Fidesz era un classico partito liberale collocato a destra del centro. Nel giro di pochi anni, sotto la sua guida, è diventato un partito di destra radicale e razzista che si oppone ai diritti LGBTQ e al “trend dei no-gender”, così come ai lavoratori e residenti stranieri. Questo processo non è avvenuto nell’ombra e non sono necessarie approfondite ricerche per scoprirlo. Tutto è accaduto alla luce del sole.

Le impressionanti vittorie politiche di Orban hanno dimostrato che il razzismo è una potente leva politica. In Israele il processo è stato ancora più rapido. I partiti di sinistra devono avvicinarsi al centro per sopravvivere. I partiti di centro devono indossare un velo di destra e i partiti di destra sono già in competizione con i partiti della “nazione pura” per conquistare il trofeo del razzismo. Estremisti? Non tra di noi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Discriminazione da record contro gli arabi in una città israeliana

Editoriale

20 luglio 2022 – Haaretz

La scorsa settimana l’amministrazione comunale di Afula [cittadina in Galilea, ndt.] ha cercato di battere un nuovo record in fatto di razzismo con la proposta di vietare alle scuole guida di lavorare in città, esclusa la zona industriale, durante lo Shabbat e nei giorni festivi. Sia chiaro: questa non è una città che improvvisamente si è stancata di avere per strada allievi di autoscuole. Quello che dà fastidio ai membri del consiglio comunale di Afula non sono le auto, ma le persone che le usano durante lo Shabbat, cioè gli abitanti delle cittadine arabe dei dintorni, come Nein, Mukeibla, Shibli, Umm al-Ghanam e Na’ura, che fanno pratica per prepararsi a sostenere l’esame di guida nella città. Questa spregevole proposta mira a impedire l’ingresso ad Afula di studenti e istruttori di scuola guida arabi.

Non hanno neanche cercato di farlo di nascosto. I consiglieri comunali saranno anche razzisti, ma non sono degli ipocriti. “Chiunque entri in questa città deve sapere che è una città ebraica,” ha dichiarato Itai Cohen, il consigliere comunale che ha presentato la proposta senza un briciolo di vergogna. Il comune di Afula ha una lunga storia di gesti razzisti. E, cosa ancora più orrenda, i suoi membri se ne vantano pure. “È come nel 2015 quando abbiamo lottato per affermare la nostra verità contro la vendita di terre agli arabi,” ha detto Cohen, che aveva guidato quella protesta. Poi nel 2019 c’è stato il tentativo di chiudere il parco municipale a chiunque non fosse un residente di Afula per bloccare tutti i visitatori arabi. E non dimentichiamoci del giuramento fatto dai consiglieri comunali quello stesso anno di fare in modo che Afula rimanga ebraica.

Il sindaco Avi Elkabetz aveva a suo tempo guidato la battaglia per tener fuori gli arabi dal parco municipale. Durante la campagna elettorale aveva anche promesso di preservare il carattere ebraico di Afula e aveva persino messo in guardia contro “l’occupazione del parco.” Costanti sono stati i tentativi di escludere gli arabi dalla città e la battaglia delle scuole guida va vista come un altro fronte della guerra per preservare la purezza ebraica di Afula.

Sia l’Association for Civil Rights in Israel [la più antica associazione in difesa dei diritti umani in Israele, ndt.] che Adalah, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, hanno inviato lettere a Elkabetz chiedendogli di ritirare questa proposta dall’ordine del giorno, sostenendo che la città non ha alcuna autorità legale di affiggere cartelli per impedire l’ingresso in città di studenti delle autoscuole durante lo Shabbat e i giorni festivi, men che meno quando la decisione è guidata da motivi inaccettabili. La proposta discriminatoria viola le libertà di movimento e di impiego e il diritto al lavoro degli insegnanti arabi durante lo Shabbat.

Afula non è la prima a uscirsene con una proposta simile. Nel 2003 la cittadina di Carmiel [cittadina israeliana, anch’essa in Galilea, ndt.] aveva tentato la stessa manovra razzista, ma il tribunale aveva chiarito che non l’avrebbe autorizzata. Ieri il consiglio comunale ha deciso all’unanimità di nominare un comitato per mappare le strade che vorrebbe chiudere e accertarsi che il processo sia legale. Si spera che il comitato chiarisca al comune che la proposta è razzista e va accantonata.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il rifiuto di accogliere rifugiati ucraini da parte di Israele dimostra il suo essere tenebra tra le nazioni

[rovesciamento ironico della profezia di Isaia secondo cui Israele avrebbe dovuto essere luce tra le nazioni, ndt]

Gideon Levy

5 marzo 2022 – Haaretz

Quando i profughi di guerra vengono fermati all’aeroporto di Israele e espulsi o viene loro richiesto di versare ingenti somme che non possiedono per assaporare la libertà e la sicurezza, è chiaro che c’è qualcosa di distorto nella bussola morale di Israele.

Il Paese che ha fatto il massimo nel prendersi cura dei suoi cittadini e degli ebrei in Ucraina è anche il Paese che ha chiuso le sue porte – e in una certa misura il suo cuore – a tutte le altre vittime.

Il Paese il cui ethos si basa su un’accusa feroce verso il mondo che ha taciuto, distolto lo sguardo e chiuso i suoi cancelli sta facendo esattamente la stessa cosa in questo momento della verità.

Il Paese che ha così abilmente sfruttato il senso di colpa del mondo per raggiungere i suoi obiettivi politici potrebbe fare i conti con una nuova immagine di sé nel mondo, un mondo che potrebbe non dimenticare il suo silenzio e le sue esitazioni e un giorno regolare i conti con esso.

E infine, il Paese che l’ha fatta franca con la sua occupazione senza fine potrebbe trovarsi di fronte a un mondo nuovo che forse, ma solo forse, non approverà e non tacerà più.

È commovente vedere i diplomatici israeliani fare di tutto per liberare dall’inferno tutti i possessori di un passaporto israeliano, compresi quelli che quasi mai hanno messo piede in Israele, anche se per settimane sono stati pressantemente sollecitati a uscire [dall’Ucraina, ndtr.] anche se non se ne curavano un accidente. In un Paese i cui cittadini cercano un secondo passaporto per motivi di sicurezza il passaporto israeliano si è improvvisamente rivelato una polizza assicurativa.

La preoccupazione per gli ebrei a cui non è mai venuto in mente di trasferirsi qui potrebbe semplicemente infervorare gli appassionati dell’Yiddishkeit [“ebraismo” nel senso di stile di vita ebraico, ndtr.]. Ma quando i profughi di guerra vengono fermati all’aeroporto israeliano ed espulsi o viene loro chiesto di versare ingenti somme che non possiedono per assaporare la libertà e la sicurezza, è chiaro che qualcosa nella bussola morale di Israele è distorto, persino patologico.

Prendersi cura dei propri poveri va bene, ma prendersi cura solo di loro è mostruoso. La preoccupazione per il tuo stesso popolo è comprensibile, ma la preoccupazione solo per loro è una perversione.

C’è davvero differenza tra un bambino ucraino che fugge per salvarsi la vita e che non ha una bisnonna ebrea e un bambino ucraino che ce l’ha? Qual è la differenza? La differenza si chiama razzismo. Questo rovistare nel sangue, anche in tempo di guerra, si chiama “selezione”.

Mentre l’Unione Europea si sveglia lentamente, rivelandosi molto più unita e ideologica di quanto pensassimo, emerge la brutta faccia del Paese dei profughi e dell’Olocausto. Decenni di discriminazioni all’aeroporto Ben-Gurion, compreso il respingimento di rifugiati da tutto il mondo, hanno lasciato il segno; anche i decenni di espropriazioni e occupazione rimasti impuniti da parte della comunità internazionale stanno dando i loro frutti.

In quest’ora di oscurità calata sul mondo Israele si sta ergendo come la terra delle tenebre tra le nazioni. Nessuno si sarebbe aspettato che costituisse una luce tra le nazioni. Perché mai una luce? Ma almeno avremmo potuto aspettarci che fosse come tutte le altre.

Quanto sarebbe stato bello se Israele avesse agito come l’oscura Polonia o l’oscura Ungheria, per non parlare della Svezia o della Germania, che ora rappresentano la vera luce tra le nazioni, e avesse aperto le nostre porte come le loro.

Israele ha un dovere verso i rifugiati non solo a causa del suo passato, ma ha anche un obbligo nei confronti dei rifugiati ucraini principalmente a causa della grande comunità di lavoratori ucraini in Israele. Un Paese che vieta ai devoti custodi dei suoi anziani e a coloro che svolgono le pulizie delle sue case di invitare i propri parenti per salvare le loro vite è chiaramente un paese immorale. La marea di squallide scuse sulla condotta dell’Ucraina durante l’Olocausto non fa che peggiorare il quadro, punendo i nipoti dei nipoti per i peccati dei loro padri e delle loro madri.

A Galina, una donna delle pulizie che vive in questo paese da anni, è vietato portare i suoi figli nella sua nuova casa solo perché non sono ebrei. Questo sta realmente accadendo e, a quanto pare, è persino accettato dalla maggior parte degli israeliani.

No, non è paura della Russia. La paura della Russia è solo la scusa. Non è nemmeno il governo, l’attuale o un altro. Questa crisi ha finalmente dimostrato che non c’è differenza morale tra l’attuale governo e il suo nefasto predecessore.

Sono entrambi ugualmente ottusi e insensibili. Naftali Bennett è uguale a Benjamin Netanyahu, Miri Regev [parlamentare israeliana, già componente del governo Netanyahu, ndtr.] è uguale a Ayelet Shaked [attuale ministra dell’interno del governo Bennet, ndtr.] e anche Merav Michaeli [attuale ministra dei trasporti, ndtr.] è allo stesso livello.

È qualcosa sepolto nel profondo del DNA nazionale, tra anni di lavaggio del cervello sulla necessità di essere forti, solo forti, in mezzo a frottole sul popolo eletto e le uniche vittime nella storia alle quali è permesso di fare qualsiasi cosa. E questa immagine è accompagnata dall’ allevare una xenofobia in dimensioni che sarebbero illegali in qualsiasi altro Paese. Ora tutto questo viene alla luce con un effetto particolarmente orrendo.

Forse è il peccato originale di un paese che è stato fondato sull’espulsione di centinaia di migliaia di profughi, forse è la religione sionista che sostiene la supremazia ebraica in ogni sua sfaccettatura. Qualunque siano le ragioni nulla di tutto ciò giustifica la richiesta di un versamento di un solo shekel [valuta ufficiale israeliana, ndtr.] da un rifugiato di guerra all’aeroporto Ben-Gurion.

Ed oscurità era sulla faccia dell’abisso. [Genesi 1.1, Bibbia ebraica, ndt]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Nel mio programma di dottorato a Gerusalemme ero l’unica araba in giro. A parte gli addetti alle pulizie’

Hilo Glazer

31 dicembre 2021 – Haaretz

Nihaya Daoud è abituata a far alzare le sopracciglia. Questa è stata la reazione quando è andata all’estero per un post-dottorato di due anni senza portare i figli e quando è diventata la prima araba in Israele nominata docente di salute pubblica. E non ha paura di stuzzicare le piaghe della sua comunità

Una delle impressioni formative dell’infanzia di Nihaya Daoud, professoressa di salute pubblica all’Università Ben-Gurion, è l’aver capito il sentimento di delusione provato dai propri genitori: il padre aveva dovuto accantonare le speranze di studiare e lavorare tutta la vita nell’edilizia mentre la madre, un’eccellente studentessa, era finita a fare la casalinga.

Sono cresciuta con una mamma che avrebbe tanto voluto continuare le scuole e un papà che avrebbe desiderato una buona istruzione, ma nessuno dei due ci è riuscito,” racconta Daoud, 55 anni. “Così hanno investito tutto in noi, i figli. Da adolescente mi hanno spedita a tutti i gruppi possibili di approfondimento del doposcuola: arte, natura, matematica. Il messaggio era: sii eccezionale.”

Daoud ha preso sul serio il messaggio, determinata a metterlo in pratica. Così circa 10 anni fa, quando le hanno offerto un post-dottorato all’Università di Toronto, non ci ha pensato su due volte. Aveva dei bambini, il più piccolo frequentava la terza elementare, e la sua famiglia rimase piuttosto spiazzata al pensiero che lasciasse la casa per due anni.

Dopo tutto ci sono dei gap generazionali quando si parla dell’idea di quello che una donna deve essere e di cosa le sia permesso fare per realizzarsi,” spiega Daoud. “Per mia madre è stato difficile accettare che andassi da sola. È lei che ha seminato queste ambizioni in me, ma ciò nonostante pensava che fosse un po’ troppo.”

Quelle della famiglia di Daoud non sono state le uniche sopracciglia a sollevarsi. “Ricordo uno dei miei colleghi ebrei chiedere al mio compagno: ‘Come puoi lasciarla andare da sola?’” dice. Ma Daoud, un’epidemiologa sociale la cui ricerca si concentra sulle ineguaglianze nelle politiche sanitarie e sulla salute delle donne, ha ignorato il chiacchiericcio. Uno dei suoi articoli più citati, scritto durante il suo periodo all’estero, riguarda il legame fra il livello economico basso e la violenza da parte di un partner intimo fra le donne indigene in Canada. Anche mentre scriveva articoli per pubblicazioni prestigiose, il soggiorno all’estero ha permesso a Daoud di vedere con occhi diversi il posto dove era cresciuta.

C’è solidarietà nella società di immigrati in Canada, ci si aiuta l’un l’altro. Qui non è più così. La gente è alienata dalla vita della propria comunità: ‘Io vivo per me stesso, fine’.”

È sempre stato così?

No. La società araba in cui sono cresciuta era molto più ugualitaria. I nostri vicini ci portavano la farina e noi gli davamo l’uva. C’era un sostegno reciproco. Oggi alla gente non interessano i vicini, nessuno si guarda intorno. Alcuni hanno una Mercedes, altri non hanno niente da mangiare. La società araba è passata attraverso processi di individualizzazione più estremi che negli Stati Uniti e Canada. Oggi le disparità economiche sono spaventose.”

L’ingresso recente e storico di un partito arabo (United Arab List – UAL- la Lista Unita Araba o Ra’am) nella coalizione di governo in Israele è stato venduto al pubblico arabo anche come una mossa per contribuire a massimizzare i successi materiali.

Certamente. Il pensiero di Mansour Abbas (leader della UAL) [partito islamista, ndtr.] è individualistico-capitalista e non nasce necessariamente dalla preoccupazione per la collettività. È una narrazione che favorisce gli strati più ricchi della società araba. Israele ovviamente è d’accordo. Il messaggio è: primeggiate e preoccupatevi solo di voi stessi, dimenticatevi della vostra nazionalità, identità. Potete diventare il primario di un reparto in un ospedale con un ottimo stipendio, costruire una casa come un castello, ma intorno a voi tutto è orrendo: la strada di accesso al paese non è asfaltata, non c’è illuminazione stradale, c’è immondizia sparsa ovunque, violenza dietro ogni angolo. Ma questo semplicemente non vi deve interessare. È incomprensibile. Le politiche della UAL magari producono qualcosa a breve termine, ma stanno lacerando la comunità araba dall’interno. Fra noi sono in corso cambiamenti pericolosi. E ironicamente la persona in prima linea in tutto ciò è lui stesso un medico, un dentista. Abbas avrebbe dovuto essere una persona istruita che lavora col cuore.”

La sua critica dell’alienazione dei membri di maggior successo della società araba si concentra sui medici.

Perché è il mio campo. Gli uomini arabi che sono tornati dopo aver studiato medicina all’estero non hanno applicato le loro conoscenze al miglioramento dei servizi medici offerti alla comunità araba. Quasi tutti hanno scelto specialità per far carriera, medicina interna, chirurgia, o sono andati ovunque il sistema israeliano li indirizzava. È abbastanza comune vedere una ‘posizione lavorativa’ araba cambiare ogni cinque anni. Ogni reparto ospedaliero ha la sua foglia di fico araba. In genere i medici arabi tendono a preferire cariche in ospedale piuttosto che la medicina di comunità. Secondo me dovrebbero cercare di esercitare una maggiore influenza nelle loro comunità.”

Daoud non indietreggia davanti all’esame delle piaghe infette della propria comunità, ma il suo sguardo è anche costantemente rivolto all’establishment israeliano che le ha ignorate. La sua ricerca, per esempio, si è concentrata sull’impatto di fenomeni socio-politici (demolizioni di case, poligamia, mancanza di stato civile) sulla morbilità e sull’accesso ai servizi sanitari fra gli arabi israeliani. Il suo lavoro differisce perciò dalle classiche ricerche in questo campo, come spiega: “Altri ricercatori di salute pubblica percepiscono le variabili di genere, livelli di istruzione o impiego come elementi che interferiscono negativamente sulla ricerca. Quindi le hanno neutralizzate e standardizzate. Io faccio l‘opposto. Io non metto al centro batteri e virus, ma i sistemi sociali e politici.”

Questa non è ricerca convenzionale,” sottolinea Daoud, aggiungendo che “non è facile far risuonare questa voce critica nella costellazione politica in Israele e in quanto appartenente a una minoranza. Non ha mai trovato un orecchio attento. Quando stavo lavorando al mio dottorato ci fu una discussione sull’uso nelle ipotesi di ricerca del termine ‘discriminazione,’ o se optare per ‘razzismo.’ Io insistevo con ‘razzismo.’ I miei tutor continuavano a dirmi: ‘Dobbiamo insegnarti come sopravvivere nel mondo accademico israeliano.’”

Stile di vita femminista

Daoud è stata la prima araba in Israele a ottenere un dottorato in salute pubblica e dopo è diventata la prima docente universitaria in questo campo della sua comunità. Oltre a essere una ricercatrice molto prolifica che ricopre molte posizioni pubbliche e cariche in vari organismi nazionali, trova anche tempo per l’attivismo politico. All’interno della sua comunità Daoud è considerata un’autorità su problemi sanitari, sociali e di genere e di tanto in tanto anche i politici arabi le chiedono un’opinione. Nell’ultima elezione ha ricevuto offerte di candidarsi da due partiti, racconta, ma le ha rifiutate con decisione.

Daoud è sposata con Anwar, preside di una scuola a Gerusalemme Est. La coppia vive nella comunità ebraico-araba di Neve Shalom, situata fra Gerusalemme e Tel Aviv, e ha tre figli ormai grandi. È cresciuta a Tira, una città del “Triangolo” (una concentrazione di località arabe nel centro del Paese, vicino alla Linea Verde, [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. ndtr.]), dove è nata anche sua madre. Nihaya è la seconda femmina di sette figli (“Sei di noi sono andati all’università”). Lei crede che l’enorme pressione e l’incoraggiamento ricevuti dai genitori non siano necessariamente unici e limitati alla sua famiglia e abbiano anche un contesto storico.

Il bisogno di dimostrare ciò che si vale con un’istruzione superiore è un ethos adottato da molti ‘migranti interni’ dopo la Nakba,” dice riferendosi alla guerra del 1947-49, la “catastrofe” quando oltre 700.000 arabi palestinesi fuggirono o furono espulsi dalle loro case. “Persero casa, terra e fonti di sostentamento, quindi gli studi diventarono parte della loro lotta per la sopravvivenza. Per chi è restato nelle proprie comunità e sulle proprie terre l’aspirazione a conseguire un’istruzione non è stata cosi forte, mentre i migranti interni hanno sviluppato una resilienza nel seguire questa strada.”

Daoud ricorda che la biblioteca nella casa dei genitori era sempre ricca e varia e includeva testi di politica. Normalmente andava con il padre alle riunioni del partito comunista, la sorella ha studiato medicina in Bulgaria con il sostegno del partito. Lei ha preferito rimanere in Israele e iscriversi a un corso di laurea in infermieristica all’Università Ebraica di Gerusalemme e da allora ha sempre fatto parte del mondo accademico.

Durante il mio dottorato in salute pubblica presso l’Hadassah (Centro Medico a Gerusalemme) ero l’unica araba del corso e praticamente l’unica araba in giro, a parte gli addetti alle pulizie,” racconta. “Nessuno mi ha fatto concessioni. Al contrario ho dovuto lavorare più duro per farmi strada.”

E per spiegarsi cita il caso di “quando ho contattato la Commissione di Helsinki (che supervisiona la ricerca medica e la sperimentazione sugli esseri umani) presso una notissima istituzione accademica di cui non farò il nome e chiesto di parlare al direttore. La segretaria l’ha chiamato al telefono dicendo: ‘C’è una tizia araba che vuole parlare con lei.’”

Durante la sua permanenza a Toronto, agli inizi del 2010, dove ha studiato per il post-dottorato, Anwar e i figli andavano a trovarla durante le vacanze mentre lei tornava in Israele appena poteva. Per la maggior parte del periodo i lavori di casa furono svolti dal marito. “Capitava anche che arrivassi alle otto di sera, lui non aveva cucinato e non ci fosse niente da mangiare.”

Il femminismo di Daoud non si limitava alla sua casa. Ha fatto la volontaria per la hotline per donne picchiate nella comunità arabo-israeliana ed è stata intensamente coinvolta in organizzazioni della società civile come Women and their Bodies [Donne e i loro corpi], un’ong ebraica e araba. Il suo ultimo progetto, che ha fondato con altre quattro professoresse, si prefigge di incoraggiare studentesse arabe a impegnarsi in carriere accademiche ad alto livello in tutti i campi. Comunque un tentativo di stabilire un comitato per l’avanzamento delle donne arabe è finito in modo frustrante: “Erano coinvolte nell’iniziativa donne provenienti da un’ampia gamma di campi: legge, educazione, sanità e così via. Avrebbe dovuto funzionare secondo il modello della rete delle Donne di Israele [una organizzazione lobbystica]. È stata una grande delusione. Donne di partiti arabi che si considerano vere femministe l’hanno semplicemente silurata a causa di conflitti interni per ottenere fondi.”

Ha provato una delusione simile all’inizio della sua carriera. Allora era la funzionaria del Ministro della Salute incaricata di creare programmi didattici per il sistema scolastico.

I programmi erano destinati al pubblico ebraico e quando ho chiesto che fosse implementato nella comunità araba mi dissero che non c’erano i soldi,” ricorda Daoud. “Ho capito allora che non era il posto giusto per me e ho deciso di cambiare direzione e concentrarmi sulla ricerca.”

La sua prima ricerca significativa si è occupata di come i meccanismi di discriminazione ed esclusione causino problemi di salute fra le donne beduine.

Abbiamo esaminato l’accesso ai servizi sanitari facendo un paragone fra donne di comunità riconosciute dallo Stato e donne di località non riconosciute. Naturalmente la situazione nelle comunità non riconosciute era molto più grave. Abbiamo visto chiaramente che il basso livello sociale fra le donne aveva implicazioni per la loro salute mentale e fisica. Una conseguenza di questo è la frequenza di depressione postnatale fra le beduine. La discriminazione è così profonda e radicata che si può fare molto poco a proposito. Mi sono sentita persa, non avendo nulla da offrire a queste donne.”

E poi si è chiesta: “Che senso ha?”

No, non mi sono mai limitata alle pubblicazioni accademiche, ma ho incontrato le persone rilevanti per parlare dell’argomento. Il tema della poligamia, per esempio, è emerso in un comitato insediato dal Ministero della Giustizia. Purtroppo non sono state invitate abbastanza arabe per comparire in commissione e le sue conclusioni sono state limitate. Lo Stato legalizza la poligamia per far star zitti i beduini su altri temi. In pratica lo Stato ha detto loro: ‘Tenete sotto controllo le vostre donne, ma non parlateci delle terre.’ Lo dico nel modo più diretto. E sfortunatamente l’oppressione delle donne nella società beduina ha conseguenze distruttive per la società nel suo complesso.” (Mentre la poligamia è praticamente illegale in Israele, sembra che in certi contesti le autorità chiudano un occhio).

Come?

Se l’uomo si occupa a malapena della sua ex moglie o della prima moglie, se lei è stata privata della possibilità di studiare, se non ha fonti di reddito, allora in realtà non ha status. E quindi anche la sua autorità sui figli viene meno. Che investimento nei propri figli ci si può aspettare da una donna così? E come ci si può sorprendere di quello che sta succedendo oggi?”

Sta alludendo alla cosiddetta “perdita di governance nel Negev”?

Certamente, questa è una delle spiegazioni. Quando le donne non hanno quasi controllo sulle proprie vite, il loro influsso sui figli è limitato.”

Alcuni anni fa, Daoud ha condotto con la partecipazione di 1.401 donne uno studio che analizzava le dimensioni della violenza domestica in Israele. “Abbiamo visto che la percentuale di denunce di violenza che riguardavano donne arabe era più del doppio che fra le ebree,” dice. Il database da lei creato le è servito come piattaforma per un ulteriore studio, centrato sull’uso dei servizi sanitari da parte delle donne.

I risultati hanno mostrato che le donne arabe che subiscono violenza consultano un ginecologo tre volte più spesso delle donne ebree picchiate. Le donne arabe si servono anche del servizio di stanze di emergenza con frequenza maggiore. La nostra interpretazione è che le donne arabe cercano l’aiuto del sistema sanitario solo quando subiscono gravi violenze fisiche. La decisione di vedere un ginecologo si spiega con la riluttanza a consultare il medico di famiglia e il timore che non risponderebbe adeguatamente. Inoltre il ginecologo consultato molto probabilmente sarà una donna che non vive necessariamente nello stesso paese e con ogni probabilità non sarà parente della paziente.”

Questa osservazione allude a uno dei maggiori ostacoli che si trovano davanti le donne arabe che sono cittadine israeliane nella loro ricerca del migliore servizio sanitario. L’ostacolo, fa notare la docente, parte dalla struttura familiare della medicina di comunità nella società araba, in particolare nelle zone rurali. Quindi molte donne vengono indirizzate a un medico di famiglia che è anche un parente.

Questo è un problema critico per le donne che sono vittime di violenza,” spiega Daoud. “Queste donne non hanno il coraggio di andare da un medico che è un parente oppure se quel dottore nota segni di violenza probabilmente non ci farà molta attenzione.”

Suppongo che ciò faccia sorgere difficoltà anche con problemi di salute meno seri.

Giusto. Dopo tutto non tutte le visite da un medico di famiglia riguardano un raffreddore. Talvolta c’è bisogno di un’impegnativa per un esame al seno o si devono rivelare dettagli intimi. Non è piacevole per una donna se il dottore che la esamina è suo cugino o il cugino di suo marito. Inoltre lei non può scegliere un dottore senza il consenso del compagno. Farsi visitare da un dottore di un’altra hamula (famiglia estesa) richiede una spiegazione: cosa è successo? Perché proprio lui? Perché non vai dal nostro parente? Questo ostacolo è un problema all’interno della comunità araba, ma è collegato a un vizio di tutto il sistema: più un medico ha successo nell’attrarre molti pazienti, più guadagna e la platea più facile da raggiungere per reclutare pazienti è la famiglia.”

Questo è un fenomeno problematico in sé: l’abuso della struttura familiare nella società araba per reclutare medici per scopi di marketing: le health maintenance organizations – HMO [enti privati di previdenza medica, ndtr.] approcciano i medici di famiglia arabi e li pagano enormi somme di denaro per portare i loro parenti nell’HMO. O, alternativamente, offrono loro un posto fisso a condizione che le loro famiglie aderiscano al HMO. Quali sono le conseguenze?

Serie. È una forma di corruzione. Così il sistema sanitario calpesta i diritti delle clienti assicurate. Quando i medici sono assunti non per la qualità dei loro servizi o per la loro eccellenza, ma solo per i benefici economici che possono fornire, si abbandona l’obbligo fondamentale di fornire alla comunità il servizio migliore da parte di tali professionisti. Alcuni di questi dottori sono assunti per lavori a contratto, non in medicina. Io vedo medici di famiglia che sono diventati piuttosto ricchi in questo modo, fanno soldi a spese dei pazienti. Comunque le stesse cose succedono anche nella società haredi [ebrei ortodossi e ultraortodossi, ndtr.]. Il fatto che il sistema permetta che il fenomeno esista, che addirittura lo incoraggi fra i gruppi più deboli della popolazione, è molto grave. Non deve succedere. Il Ministero della Salute deve intervenire.”.

La ricerca più recente di Daoud tratta della separazione tra le madri ebree e quelle arabe nei reparti di maternità degli ospedali. Il fenomeno in sé non è nuovo: è apparso sulle prime pagine dei giornali cinque anni fa in seguito a un’affermazione sull’argomento di Bezalel Smotrich (all’epoca parlamentare di Habayit Hayehudi, [“Casa Ebraica” partito di estrema destra dei coloni, ndtr.]): “È semplicemente naturale che mia moglie non voglia stare vicino a una che ha appena dato alla luce  un bambino che potrebbe assassinare nostro figlio fra 20 anni.” Daoud non cerca di quantificare il fenomeno, ma di svelarne l’origine. Il suo studio è consistito di interviste approfondite con direttori di ospedali, ostetriche, infermiere e neomamme, che hanno consentito a Daoud di rintracciare tre meccanismi di quello che lei chiama separazione razziale e cura iniqua nei reparti di maternità.

Il primo livello è la separazione che esiste in Israele in ogni ambito della vita e ci sono donne che vogliono imporre la separazione all’interno degli ospedali. Il secondo meccanismo è la commercializzazione dei servizi di maternità in Israele. Gli ospedali ricevono grandi somme di denaro dallo Stato per ogni parto e perciò lo staff capitola davanti alle richieste delle donne: ‘Vi daremo quello che volete purché veniate da noi.’ Il terzo meccanismo è ‘l’adattamento culturale.’ Il personale dell’ospedale ha trovato la giustificazione per la segregazione sostenendo che è per il bene delle donne.

Uno dei direttori ci ha detto chiaramente: ‘Quando Svetlana lascia la sala travaglio, perché dovrei metterla in un reparto con Fatma? Per lei sarà molto meglio una stanza con qualcuno come lei. Una mamma russa al massimo avrà un visitatore, un’araba sarà inondata da visitatori di tutta l’hamula.’ Proprio cosi, queste precise parole.”

Dopo lo shock vale la pena chiedere: E cosa ci sarebbe di così tremendo? Se una donna incontra solo gente come lei per tutta la sua vita, perché deve cercare di coabitare in una situazione così intima come il parto?

Una domanda legittima. Noi sappiamo che questa separazione è all’origine di discriminazione e razzismo in tutti gli ambiti della vita: alloggi, istruzione, welfare, trasporti. E noi vediamo come la separazione fra comunità arabe ed ebraiche causi un razzismo sistemico. Quindi non si deve prendere quel modello e clonarlo nel sistema sanitario. Gli ospedali dovrebbero essere strutture aperte a tutti.”

Non è che la conclusione che la segregazione conduca a un trattamento medico non ottimale sia un po’ esagerata?

Non credo che medici e infermieri agiscano in base a un razzismo consapevole o vogliano dare alle donne arabe trattamenti al di sotto della media. Ma noi sappiamo che il sistema sanitario è oberato e affamato di risorse, e così il personale deve stabilire delle priorità. La preoccupazione è che per il solo fatto che tu (in quanto professionista medico) stia mettendo un gruppo di donne appartenenti alla maggioranza della popolazione in una stanza e un gruppo di donne appartenenti alla minoranza in un’altra stanza, visiterai per prima la prima stanza. Quando il sistema soffre di mancanza di personale entrano in gioco gli istinti primari ed è lì che sta il pericolo.”

Cecità culturale’

All’inizio del mese Daoud ha ricevuto il premio Sami Michael Prize for Equality and Social Justice [Premio Sami Michael per l’Eguaglianza e la Giustizia Sociale], assegnato dall’Heksherim Institute for Israeli and Jewish Literature [Istituto Heksherim per la Letteratura Israeliana ed Ebraica] (che prende il nome da un famoso autore israeliano). Buona parte del suo discorso alla cerimonia l’ha dedicata alla pandemia da coronavirus e alle sue gravi conseguenze per i gruppi più deboli della popolazione. Daoud è un membro del gruppo di esperti per la crisi da COVID, un’iniziativa di volontari ebrei e arabi supportato dal New Israel Fund che si sta occupando, fra altri problemi, della diseguaglianza nell’assistenza medica che si è intensificata in conseguenza dello scoppio della pandemia. In questo quadro Daoud ha condotto uno studio che ha anticipato di sei mesi una ricerca simile del Ministero della Salute sul legame fra zone “rosse” (cioè quelle con alte percentuali di COVID) e lo status socio-economico.

La gestione della crisi da coronavirus nella società araba ha fallito,” asserisce. “Un personaggio che non viene dal campo [della sanità pubblica] è stato nominato direttore del progetto per la comunità araba. Questo mi ha fatto davvero infuriare. Ci sono moltissimi esperti e fra tutti si nomina lui? Abbiamo tutti visto le conseguenze. Le località arabe sono state in rosso quasi tutto il tempo. In generale i ministri tendono a nominare arabi con cui è comodo lavorare perché hanno legami con il governo. Questa è la mentalità di un regime militare.”

La nomina del Prof. Salman Zarka come commissario generale per il coronavirus ha portato un cambiamento in meglio nei rapporti con la società araba?

Non ho visto alcun cambiamento di questo tipo. Il commissario si occupa della società in generale.”

Ha importanza che un medico druso [corrente dell’Islam sciita una minoranza arabo-israeliana che il sionismo è riuscito a cooptare, ndtr.] sia l’autorità professionale suprema per la gestione della crisi?

Proviene dall’esercito (Zarka è un colonnello della riserva), dai Medical Corps (Corpi sanitari militari). Come tale si è formato per essere un arabo in quell’ambiente.”

Daoud ha cercato di esercitare un’influenza dall’interno. Mentre il Prof. Hezi Levi prestava servizio come direttore generale del Ministero della Sanità, lei ha lavorato per stabilire una commissione specializzata sotto i suoi auspici per affrontare la crisi da coronavirus nella società araba. In effetti una commissione è stata avviata, ma Daoud si è dimessa dopo un solo incontro.

Hanno nominato figure politiche in un modo inappropriato e inadatto,” spiega. “Quando ho visto che il direttore generale [del ministero] non si è presentato al primo meeting, ho capito che era un corpo senza denti, naso, bocca o occhi in quanto non ci erano stati presentati neppure dei dati trasparenti. Hanno nominato una commissione per poter dire che avevano nominato una commissione. Ho ringraziato e me ne sono andata.”

Sembra un po’ delusa per non essere stata chiamata a ricoprire una carica più importante.

Veramente no. Come ho detto ho avuto la possibilità di farne parte, sono stata invitata alle riunioni. In questo caso non è una questione di ego. Sto cercando di segnalare un problema molto più sistematico. È inaccettabile che non ci siano arabi nei centri decisionali del sistema sanitario eccetto i medici che hanno fatto il servizio militare nei Medical Corps. Non è ragionevole che la persona che ora supervisiona un budget ministeriale di centinaia di milioni di shekel destinati a migliorare la sanità nella società araba sia un ebreo. È illogico che le discussioni sulle disuguaglianze nella salute non siano guidate da un arabo. Ma dove siamo?”

Continua facendo notare che “si è creata una situazione assurda e inspiegabile. Nel sistema sanitario c’è moltissimo personale arabo, inclusi medici in posizioni apicali, ma gli arabi costituiscono meno dell’1% dello staff nella sede principale del Ministero della Sanità. Gli apparati che prendono le decisioni, impostano le politiche e incanalano i fondi sono quasi del tutto senza arabi.”

Eppure Daoud conclude: “Non sto dicendo che va tutto male. Il sistema sanitario in Israele è uno dei migliori in Occidente. Anche il Ministero della Salute ha ammesso le disparità esistenti al suo interno, il che è una situazione molto migliore che nel passato. Semplicemente non sta facendo abbastanza per ridurle.”

In questo contesto la professoressa ha elaborato un piano sistematico che richiede la messa in atto di un’unità ministeriale che si occupi di minoranze e il ritorno della categoria “nazionalità” nei documenti medici.

Negli anni ’80 le organizzazioni della società civile hanno lottato per farla cancellare, un errore da parte loro,” spiega. “La classificazione per nazionalità e altre categorie sociali possono servire come strumenti per implementare delle politiche. Se sai che esiste un certo fenomeno fra gli arabi e ci sono altri dati chiari sugli haredim, si possono adattare risposte specifiche per quelle comunità. Ciò sarebbe meglio della situazione odierna in cui il sistema soffre di cecità culturale.”

Daoud asserisce che riconoscere questo problema è già una mezza soluzione: “Il sistema sanitario deve essere coragggioso e riconoscere le diseguaglianze che esistono al suo interno. Una volta affrontate, vedremo la serenità arrivare nel sistema. Gran parte della violenza contro i team medici deriva dagli atteggiamenti razzisti dei pazienti contro i professionisti dell’assistenza medica che li cura, dagli atteggiamenti dei professionisti verso i pazienti o dagli atteggiamenti dei pazienti verso altri pazienti. Il sistema deve riconoscerlo. La sparatoria all’ingresso di Soroka (avvenuta recentemente nel Centro Medico di Be’er Sheva) non è stato un evento casuale. Il sistema sanitario è un microcosmo di tutti i mali della società. Le disparità in istruzione, impiego, alloggio e trasporti si esprimono in modo tangibile nei nostri corpi e poi noi le curiamo in un sistema sanitario malato.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Recensione Dear Palestine

Guerra arabo-israeliana (1947-1950)

Saccheggi, razzismo, espulsioni…La conquista della Palestina raccontata dai combattenti

Sono state scritte parecchie storie della prima guerra arabo-israeliana (1948-1950), ma questa è senza dubbio la prima in cui uno storico fa parlare, attraverso le loro lettere, i combattenti dei due campi. Questa corrispondenza mostra le divisioni interarabe e getta un’ombra sul comportamento dei soldati israeliani, sulla loro brutalità e sul loro razzismo, non solo nei confronti degli arabi ma anche degli ebrei marocchini e iracheni andati a combattere per Israele.

 

Sylvain Cypel

14 ottobre 2021 – Orient XXI

 

Shay Hazkani, Dear Palestine. A Social History of the 1948 War [Cara Palestina. Una storia sociale della Guerra del 1948], Stanford University Press, 2021.

 

Cara Palestina, l’opera di Shay Hazkani, storico israeliano dell’università del Maryland, costituisce uno dei primi studi di storia sociale della guerra che, tra il 1947 e il 1949, oppose da una parte le milizie armate dell’yishuv (la comunità ebraica nella Palestina mandataria britannica), poi l’esercito dello Stato di Israele dopo la sua creazione, il 15 maggio 1948, e dall’altra le milizie palestinesi e soprattutto i gruppi armati arruolati nei Paesi vicini, poi gli eserciti arabi (fondamentalmente quello egiziano e quello giordano).

In questo libro il lettore imparerà poco dello svolgimento degli avvenimenti di quella guerra, ma molto di ciò che spesso i racconti cronologici e fattuali delle guerre nascondono, cioè il contesto socioculturale nel quale sono immersi i suoi protagonisti. Per svelarlo l’autore privilegia due fonti principali: da una parte la formazione delle truppe e delle argomentazioni (compresa la propaganda) degli stati maggiori di ognuno dei campi, dall’altra lo sguardo dei combattenti su quella guerra e ciò che esso dice della sua realtà. Hazkani lo fa in parte basandosi sui discorsi dei responsabili militari, ma soprattutto – ed è la principale originalità del libro – sulle lettere dei soldati alle famiglie, come sono state conservate in vari archivi militari dopo che erano state lette dalla censura. Queste spesso sono più ricche da parte israeliana, ma l’autore riesce nonostante tutto a fare uno studio relativamente equilibrato tra i due campi.

Volontari dall’estero

Egli assegna uno spazio importante alle reclute a cui i capi militari hanno fatto appello fuori dal Paese. Da una parte i “Volontari dall’estero” (il cui acronimo in ebraico era Mahal), giovani ebrei che si arruolarono in Europa, negli Stati Uniti e anche in Marocco per aiutare militarmente il nascente, poi costituito, Stato di Israele. Si vedrà che questo gruppo offre uno sguardo sulla guerra spesso diverso da quello dei “sabra”, i giovani nati ed educati nell’yishuv. Dall’altra diverse milizie di volontari arabi arruolati in Siria, Transgiordania, Iraq e Libano per sostenere i palestinesi. Egli privilegia in particolare quella più attiva, l’Esercito di Liberazione Arabo (ALA, in arabo l’Armata Araba di Salvezza), comandata da Fawzi Al-Kaoudji. Anche qui lo sguardo sulla guerra e sul suo contesto da parte di queste reclute è spesso inaspettato.

Lo studio delle lettere come l’analisi dei discorsi dei responsabili militari fa emergere un fatto. Al di là del rapporto di forze militare, l’unità e la chiarezza di obiettivi erano dal lato israeliano, la disunione e la confusione da quello palestinese, a parte l’idea principale del rifiuto di una partizione della Palestina, giudicata sia ingiusta che profondamente iniqua (gli ebrei, all’epoca il 31% della popolazione, si vedevano assegnare il 54% del territorio palestinese). Indipendentemente dai dissensi interni, tutte le forze sioniste intendevano costruire uno Stato da cui sarebbe stato escluso il maggior numero possibile dei suoi abitanti palestinesi (il piano di partizione prevedeva che lo “Stato Ebraico” includesse…il 45% di palestinesi!). Hazkani mostra quanto la direzione politica e militare dello Stato ebraico fosse determinata, ancor prima di dichiararlo, a “ripulirlo” il più possibile sul piano etnico ed anche quanto questa aspirazione fosse condivisa dalla gran parte delle truppe.

Divisioni tra arabi e palestinesi

E [l’autore] mostra con parecchi esempi quanto la divisione e la diffidenza regnassero nel campo dei palestinesi e dei loro alleati. Come scrisse dal febbraio 1948 Hanna Badr Salim, l’editore ad Haifa del giornale Al-Difa (La Difesa), “abbiamo dichiarato guerra al sionismo, ma, impegnati a combatterci tra di noi, non eravamo preparati.” I responsabili dell’ALA diffidavano delle forze palestinesi guidate da Abdel Kader Al-Husseini. Così un alto ufficiale dell’ALA raccomandò di nominare alla testa dei reggimenti ufficiali egiziani, siriani o iracheni, ma non palestinesi, di cui non si fidava. Da parte sua Husseini preferiva limitare la mobilitazione a piccoli gruppi composti solo da reclute palestinesi sicure. Di fatto l’atteggiamento delle forze arabe straniere nei confronti dei palestinesi era spesso pesantemente critico. Delle lettere di soldati arabi evocano le brutalità commesse da queste truppe contro persone che si supponeva fossero andate a liberare.

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Ma la diffidenza era essenzialmente di ordine politico. Da parte palestinese la preoccupazione principale era evidentemente di non perdere la Palestina. Da parte di chi interveniva dall’esterno, con forze più preparate, le preoccupazioni erano molto diverse e ambigue.

Alcuni combattevano per raggiungere un accordo migliore con i sionisti, altri vedevano in questa lotta una prima tappa per il rovesciamento dei regimi alleati dei colonizzatori occidentali, altri ancora intendevano inviare i loro oppositori a combattere in Palestina per ridurre la loro influenza.” Tra il siriano Salah Bitar, fondatore del partito Ba’th nel 1947, un nazionalista arabo che intendeva fare della Palestina il trampolino di una “nuova civiltà araba”, e Nouri Saïd, uomo legato ai britannici in Iraq, che cercava di utilizzare la lotta filopalestinese per distogliere dalla mobilitazione popolare contro Londra (e dunque contro se stesso), la differenza di interessi era totale. Sul terreno delle operazioni, nota Hazkani, i capi dell’ALA erano “per la maggior parte più preoccupati di fare in modo che il fervore anticolonialista dei volontari arabi non si trasformasse in una lotta ulteriore contro i regimi arabi.

Quanto alla propaganda utilizzata dalle forze arabe, contrariamente alla tesi presentata dai vincitori israeliani, “i miei lavori” scrive Hazkani, “suggeriscono che nell’ALA l’antisemitismo era trascurabile.” Ne fa qualche esempio, ma li giudica poco presenti nelle lettere dei combattenti arabi. Analogamente “le lettere mostrano che molti di loro erano lungi dall’essere dei fanatici del jihadismo radicale.” Ma, evidenzia, più si profilava la sconfitta, più dalle lettere emergeva la dimensione di guerra santa contro gli ebrei. Tuttavia dalla loro lettura Hazkani conclude che termini come “sterminio” o “gettare gli ebrei a mare” vi sono assenti.

Allo stesso modo egli smentisce totalmente l’argomento così spesso avanzato da Israele dopo questa guerra secondo cui i dirigenti arabi avrebbero invitato i palestinesi a fuggire per lasciar loro campo libero. Al contrario il 24 aprile 1948, quando i palestinesi avevano subito poco prima delle sconfitte disperanti – in una settimana venne ucciso in combattimento Abdel Kader Al-Husseini, la lotta per la Galilea volse a favore delle forze ebraiche e ci fu il massacro di Deir Yassin –  Kaoudji pubblicò un ordine in cui definì “codardo” ogni palestinese che fuggiva da casa.

Un uso smodato della Bibbia

Da parte loro, nel campo della formazione, anche ideologica, delle truppe, le milizie ebraiche e poi l’esercito israeliano si mostrarono immensamente più preparate dei loro avversari. Copiando la logica dell’Armata rossa, il campo sionista instaurò il dualismo tra l’ufficiale e il commissario politico (il “politruk”). Fin dal 1946 un’opera dello scrittore sovietico Alexander Bek sulla difesa di Mosca nel 1941 venne tradotta e diffusa tra le forze israeliane per rafforzarvi lo “spirito di corpo” (‘l’esprit de corps’, in francese nel libro) e la determinazione a utilizzare tutti i mezzi per vincere. Nell’agosto 1948 Dov Berger, capo dell’hasbara (la propaganda israeliana), distribuì agli ufficiali dei “manuali educativi” nei quali le reclute ricevevano tutte una formazione politica identica. Si noterà che i responsabili militari, all’epoca quasi tutti usciti da contesti sionisti-socialisti, fecero un uso smodato della Bibbia per strutturare l’ostilità delle truppe nei confronti del mondo arabo circostante, già equiparato ad “Amelek e alle sette nazioni”, queste tribù descritte nella Bibbia come le più ostili agli ebrei. L’autore evidenzia che “la suggestione che la guerra del 1948 fosse comparabile alle guerre di sterminio che compaiono nella Bibbia non era affatto una visione marginale, essa veniva ripetuta nel BaMahaneh”, il giornale dell’esercito israeliano.

Perciò non c’è da stupirsi del successo riscosso dal “politruk” Aba Kovner tra le truppe. Egli era un eroe, scappato dal ghetto di Vilna, dove aveva tentato senza successo di organizzare contro i nazisti una rivolta come quella del ghetto di Varsavia. Membro dell’Hachomer Hatzaïr (La Giovane Guardia), la frangia filosovietica del sionismo, era riuscito a fuggire e a raggiungere le colonne dell’Armata rossa. Poeta di talento e cugino di Meïr Vilner, capo del partito comunista [israeliano, ndtr.], nel 1948 Kovner divenne responsabile dell’educazione della celebre brigata Givati. Citando i suoi Bollettini di combattimento, Hazkani mostra come attizzasse i sentimenti più crudeli, e anche i più razzisti, dei soldati, giustificando in anticipo i crimini peggiori. “Massacrate! Massacrate! Massacrate! Più uccidete dei cani assassini, più vi migliorerete. Più migliorerete il vostro amore per ciò che è bello e buono e per la libertà.” Gli alti gradi respingeranno i suoi costanti appelli al massacro degli arabi, compresi i civili. Ma le affermazioni di Kovner continuarono a essere riprodotte nel giornale dell’esercito israeliano. Non sarà che alla fine della guerra, evidenzia Hazkani, che lo stato maggiore esigerà “un’applicazione più rigida delle regole contro l’assassinio e la brutalità” da parte della truppa.

Né il socialismo né la morale

Contrariamente ad autori che l’hanno preceduto, Hazkani stima che gli abusi israeliani furono più sistematici di quanto finora si è creduto. Numerosi villaggi palestinesi vennero rasi al suolo dopo che era stata portata a termine la “pulizia” della loro popolazione. Avvennero massacri di civili. Egli cita una nota della censura militare israeliana del novembre 1948: “Le vittorie e le conquiste sono state accompagnate da saccheggi e assassinii, e molte lettere dei soldati mostrano un certo choc.” Ma la maggior parte dei sabra avvallava queste azioni in quella che l’Ufficio della Censura definisce una “intossicazione della vittoria”. Nel novembre 1948, dopo un’esplosione di violenze, preoccupato per il rischio di perdere il controllo sui soldati, lo stato maggiore ordinò che questi crimini e saccheggi cessassero. Il soldato David scrisse ai suoi genitori: “Non era il socialismo né la fraternità tra i popoli, né la morale: era rubare e scappare.” La soldatessa Rivka concorda: “Tutto è stato saccheggiato. Sono stati rubati come bottino cibo, denaro, gioielli. Certi soldati si sono fatti una piccola fortuna.

Nell’esercito qualche combattente si sentiva offeso. Tra loro i volontari stranieri occupano una parte importante. Le loro lettere descrivono stupore, e persino disgusto, di fronte al comportamento dei sabra, che percepiscono come mancanza di sensibilità nei confronti dei palestinesi. Un sondaggio ordinato dallo stato maggiore alla fine della guerra constatò che il 55% dei volontari ebrei stranieri aveva una visione molto negativa dei giovani israeliani, percepiti come arroganti e brutali.

I sabra sono orrendi,” scrive Martin, un ebreo americano, che aggiunge: “Qui viene istituito un Golem [creatura mitica che inizialmente difende gli ebrei ma poi impazzisce e colpisce tutti indiscriminatamente, ndtr.]. Gli ebrei israeliani hanno scambiato la loro religione per una pistola.” “Io non voglio più partecipare a questa gioco e voglio tornare appena possibile,” scrive Richard, un volontario sudafricano.

Cosciente delle reticenze espresse da una parte delle truppe, il dipartimento dell’educazione dell’esercito aveva distribuito loro un fascicolo intitolato Risposte alle domande frequentemente poste dai soldati. La prima era: “Perché non accettiamo il ritorno dei rifugiati arabi durante le tregue?” Risposta degli educatori militari: “Comprendiamo meglio di chiunque altro la sofferenza di questi rifugiati. Ma chi è responsabile della propria situazione non può esigere che noi risolviamo il suo problema.” Con un tale viatico, non c’è da stupirsi della lettera di uno di questi sabra che, nello stesso momento, scrive alla sua famiglia: “Abbiamo ancora bisogno di un periodo di battaglie per riuscire ad espellere gli arabi che rimangono. Allora potremo tornare a casa.

L’ultimo aspetto innovativo del libro è quello che Hazkari dedica agli “ebrei orientali” in questa guerra, in particolare agli ebrei marocchini, che ne furono all’epoca l’incarnazione, ma anche agli ebrei iracheni. I marocchini, se ne sa poco, costituirono il 10% degli ebrei che arrivarono in Palestina e poi in Israele nel 1948-49. Molto presto dovettero affrontare un razzismo spesso sconcertante da parte dei loro correligionari ashkenaziti (originari dell’Europa centrale), che allora costituivano il 95% dell’immigrazione. Nel luglio 1949 la censura notò che “gli immigrati del Nord Africa sono il gruppo più problematico. Molti vogliono tornare nei loro Paesi d’origine e avvertono i loro parenti di non emigrare.” Di fatto le lettere dei soldati marocchini mostrano un’amarezza spesso notevole.

Gli ebrei marocchini? “Selvaggi e ladri”

Yaïsh scrive che “gli ebrei polacchi pensano che i marocchini sono selvaggi e ladri”; la recluta Matitiahou si lamenta: “I giornali scrivono che i marocchini non sanno neppure usare la forchetta.” “Noi siamo ebrei e ci trattano come arabi,” scrive il soldato Nissim alla sua famiglia, riassumendo il sentimento corrente, anch’esso intriso di razzismo. Hazkani nota che “la visione di questi immigrati cambiava rapidamente” una volta arrivati in Israele. “Gli ebrei europei, che hanno terribilmente sofferto a causa del nazismo, si vedono come una razza superiore e considerano i sefarditi come inferiori” scrive Naïm. Yakoub aggiunge: “Siamo venuti in Israele credendo di trovare un paradiso. Vi abbiamo trovato degli ebrei con un cuore da tedeschi.” Di fatto Hazkani cita una lunga inchiesta di Haaretz, giornale delle élite israeliane, secondo cui gli ebrei venuti dal Nord Africa, affetti da “pigrizia cronica”, erano “appena al di sopra del livello degli arabi, dei neri e dei berberi.

Nelle lettere si trova un’adesione agli obiettivi della guerra anche nelle reclute ebree maghrebine. “Certi soldati marocchini ricavano una grande fierezza dal fatto di aver ucciso decine di arabi” e dall’averlo raccontato alle loro famiglie, notò persino con soddisfazione il capo di stato maggiore Ygael Yadin – che peraltro aveva definito gli ebrei orientali dei “primitivi”. Ma la preoccupazione dei dirigenti israeliani era tale, afferma Hazkani, che le autorità confiscarono i passaporti di questi immigrati recenti per evitare il loro ritorno. Quanto ai soldati originari dell’Iraq, lo stesso generale Yadin espresse pubblicamente la sua preoccupazione: essi “non manifestano nei confronti degli arabi il livello di animosità che ci si aspetta da loro.

Infine, se resta ancora un elemento importante da ricavare da questo libro molto ricco, è che l’enorme sconfitta del campo palestinese, successiva a quella della rivolta contro l’occupante britannico nel 1936-39, ebbe indubbiamente un impatto fondamentale sul bilancio politico dei palestinesi: quello di fidarsi in primo luogo di se stessi in futuro. Così Burhan Al-Din Al-Abbushi, poeta di una grande famiglia di Jenin, è palesemente severo con il nemico tradizionale, l’Inglese e il sionista.

Ma Hazkani mostra che “la sua critica più dura è riservata ai dirigenti palestinesi e arabi.” Antoine Francis Albina, un palestinese cristiano espulso da Gerusalemme, offre una critica radicale: “Non dobbiamo accusare nessuno salvo noi stessi.” Il più grande errore dei palestinesi secondo lui: essersi fidati dei regimi arabi. Quanto agli israeliani, “nel mondo successivo all’Olocausto, la maggior parte dei soldati di origine ashkenazita si convinse che il matrimonio tra ebraismo ed uso della forza era una necessità, e celebrarono l’emergere di un ‘ebraismo muscolare’.

Ci volle una quindicina d’anni ai palestinesi per cominciare a superare la “catastrofe” del 1948. Quanto agli israeliani, 70 anni dopo ashkenaziti e sefarditi insieme nella loro maggioranza festeggiano il trionfo di questo ebraismo muscolare. E i loro critici israeliani contemporanei ne sono più che mai sgomenti.

Sylvain Cypel

È stato membro del comitato di redazione di Le Monde [principale giornale francese, ndtr.] e in precedenza direttore della redazione del Courrier international [settimanale francese simile ad Internazionale, ndtr.]. È autore de Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse  [I murati vivi. La società israeliana a un punto morto] (La Découverte, 2006) e de L’État d’Israël contre les Juifs [Lo Stato di Israele contro gli ebrei] (La Découverte, 2020).

 

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)