“Dai da mangiare a un beduino”: video razzista israeliano suscita indignazione

Redazione di Palestine Chronicle

13 luglio 2020 – Palestine Chronicle

Riprese video diventate virali sulle reti sociali mostrano il conduttore di un popolare spettacolo televisivo israeliano per bambini che viaggia con la sua famiglia nel deserto del Naqab (Negev) e che dà da mangiare a due bambini palestinesi come se si tratti di animali da zoo.

Il video mostra Roy Oz (noto anche come Roy Boy) che apre il finestrino della sua macchina mentre tiene in mano un biscotto. Poi lui agita il biscotto davanti a due bambini palestinesi di una comunità beduina mentre chiede a suo figlio: “Ariel, vuoi dar da mangiare a un beduino?”

“Diamo da mangiare a un beduino. Non volete dare da mangiare a un beduino?” dice ripetutamente Oz ai suoi figli sui sedili posteriori.

Il video ha provocato un’immediata indignazione tra gli attivisti per i diritti umani, con molte critiche nei confronti del razzismo istituzionalizzato in Israele.

In un post su Facebook Oz ha affermato che il video era stato realizzato cinque anni fa durante un viaggio di famiglia. Non è chiaro come le immagini vergognose siano filtrate sulle reti sociali.

Atia al-Asem, capo del consiglio regionale dei villaggi palestinesi nel Naqab, ha manifestato indignazione riguardo al video, affermando che i beduini sono trattati dagli israeliani come se fossero “scimmie”

Il deputato arabo del parlamento israeliano (la Knesset) Ahmad Tibi ha descritto il comportamento di Oz come “il peggior comportamento umano, di una brutalità razzista e ignobile.”

Il giornalista e redattore palestinese di Palestine Chronicle Ramzy Baroud ha affermato: “Le migliaia di palestinesi che stanno ancora vivendo nel deserto del Naqab sono state sottoposte a una costante campagna israeliana di disumanizzazione, razzismo e pulizia etnica.”

“Il razzismo e la pulizia etnica delle comunità beduine palestinesi vanno di pari passo,” ha aggiunto Baroud. “Il video di Oz non può essere visto separatamente dai progetti del governo israeliano di rinchiudere i palestinesi nel Naqab in comunità isolate e povere per far posto allo sviluppo di zone residenziali per soli ebrei.”

“Perché questo sinistro scenario avesse successo i beduini palestinesi dovevano essere disumanizzati dal sistema politico e mediatico israeliano. Il video di Oz è una semplice manifestazione di questa indignante situazione.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Lo Stato d’Israele contro gli ebrei

Cypel S., L’État d’Israël contre les juifs, La Découverte, Paris, 2020.

Recensione di Amedeo Rossi

16 aprile 2020

Sylvain Cypel è un giornalista ed intellettuale francese, a lungo inviato di Le Monde negli USA ed autore nel 2006 di un altro importante libro sul conflitto israelo-palestinese: “Les emmurés : la société israélienne dans l’impasse” [I murati vivi: la società israeliana nel vicolo cieco], non tradotto in italiano. Attualmente collabora con il sito Orient XXI di Alain Gresh.

Avendo vissuto a lungo durante la giovinezza in Israele e con un padre sionista, l’autore conosce bene la società e la politica di quel Paese. Non a caso il libro inizia con un ricordo familiare: nel 1990 l’ottantenne genitore gli disse: “Vedi, alla fine abbiamo vinto”, riferendosi al sionismo. “Mi ricordo”, scrive Cypel, “di essere rimasto zitto. E di aver tristemente pensato che quella storia non era finita e che dentro di lui mio padre lo sapesse.”

È proprio di questa riflessione iniziale che parla il libro. Chi segue assiduamente le vicende israelo-palestinesi vi troverà spesso cose già note. Molti degli articoli citati si trovano sul sito di Zeitun. Tuttavia, sia per la qualità letteraria che per la profondità di analisi il lettore non rimane deluso. Ogni capitolo è introdotto da un titolo ricavato da una citazione significativa da articoli o interviste che ne sintetizza molto efficacemente il contenuto: dal molto esplicito “Orinare nella piscina dall’alto del trampolino”, per evocare la sfacciataggine di Israele nel violare leggi e regole internazionali, a “Non capiscono che questo Paese appartiene all’uomo bianco”, riguardo al razzismo che domina la politica e l’opinione pubblica israeliane, fino a “Sono stremato da Israele, questo Paese lontano ed estraneo”, in cui l’autore descrive il sentimento di molti ebrei della diaspora nei confronti dello “Stato ebraico”.

Da questi esempi si intuisce che gli argomenti toccati nelle 323 pagine del libro sono molto vari e concorrono ad una descrizione desolante della situazione, sia in Israele che all’estero, ma con qualche spiraglio di speranza.

Cypel denuncia l’incapacità dell’opinione pubblica e ancor più della politica israeliane di invertire la deriva nazionalista e etnocratica del Paese. Ne fanno le spese non solo i palestinesi e gli immigrati africani, stigmatizzati da ministri e politici di ogni colore con epiteti che farebbero impallidire Salvini, ma anche gli stessi ebrei israeliani. Non a caso uno dei capitoli si intitola “Siamo allo Stato dello Shin Bet”, il servizio di intelligence interno. Sono colpiti i dissidenti israeliani, come Ong e giornalisti, le voci che si oppongono alle politiche nei confronti dei palestinesi e delle minoranze in generale, e quelli all’estero, come i sostenitori a vario titolo del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele). Quest’ultimo viene indicato nel libro come una reale ed efficace minaccia allo strapotere internazionale della Destra, termine che include quasi tutto il quadro politico israeliano. Varie leggi proibiscono l’ingresso e cercano di impedire il finanziamento di queste voci dissidenti, mentre Israele promuove anche i gruppi più esplicitamente violenti e razzisti, tanto che Cypel parla di un “Ku Klux Klan” ebraico. A proposito di un episodio di censura a danno di B’Tselem da parte della ministra della Cultura Miri Regev, l’autore cita la presa di posizione critica persino dell’ex-capo dello Shin Bet Ami Ayalon: “La tirannia progressiva è un processo nel quale uno vive in democrazia e, un giorno, constata che non è più una democrazia.”

Ciò non intacca minimamente l’incondizionato sostegno degli USA di Trump come quello, anche se meno esplicito, dell’UE. Questa corsa verso l’estrema destra è dimostrata anche dagli ottimi rapporti tra il governo israeliano e gli esponenti più in vista del cosiddetto “sovranismo”: oltre a Trump, il libro cita altri presidenti delle ormai molte “democrazie autoritarie” in tutto il mondo. Ancora peggio avviene in Europa, dove i migliori amici di Netanyahu sono anche esplicitamente antisemiti: Orban in Ungheria e il governo polacco, persino Alternative für Deutchland, partito tedesco con tendenze esplicitamente nazistoidi, oltre a Salvini e all’estrema destra francese, hanno ottimi rapporti con i governanti israeliani. Questi personaggi sono stati accolti al Museo dell’Olocausto per mondarsi dall’accusa di antisemitismo e poter continuare a sostenere posizioni xenofobe e razziste. Non è solo l’islamofobia a cementare questa alleanza. È il comune richiamo al suprematismo etnico-religioso che fa di Israele un modello per questi movimenti di estrema destra, ed al contempo lo “Stato ebraico” ne rappresenta la legittimazione: se può disumanizzare palestinesi e immigrati e può opprimerli impunemente, violando le norme internazionali che dovrebbero impedirlo, perché non potremmo fare altrettanto in Europa e altrove contro immigrati, musulmani, nativi? Riguardo alle giustificazioni di questa imbarazzante alleanza, Cypel cita quanto affermato da una deputata del Likud: “Forse sono antisemiti, ma stanno dalla nostra parte.” “Ovviamente”, aggiunge l’autore, costei è “una militante attiva della campagna per rendere reato l’antisionismo come la forma contemporanea dell’antisemitismo.”

A queste posizioni si adeguano le comunità ebraiche europee, in particolare in Francia, Paese in cui risiede la comunità della diaspora ebraica più numerosa dopo quella statunitense. Il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF) “formalmente rappresenta l’ebraismo francese; de facto, è in primo luogo il gruppo lobbysta di uno Stato estero e si vive come tale,” afferma il libro. Cypel attribuisce questo fenomeno alla mediocrità della vita culturale ebraica in Francia ed alla tendenza a rinchiudersi in quartieri ghetto, sfuggendo alla convivenza con le altre componenti della popolazione. Inoltre la tendenza al conformismo deriva anche dalla paura di venire isolati dal resto della comunità: “Le persone preferiscono non esprimere il proprio disaccordo, per timore di essere accusate di tradimento.” L’autore cita vari episodi di censura, persino il tentativo fallito da parte dell’ambasciata israeliana a Parigi e del CRIF di impedire la messa in onda su una rete nazionale di un documentario (peraltro senza neppure averlo visto) sui giovani gazawi mutilati dai cecchini israeliani. La motivazione? “Avrebbe potuto alimentare l’antisemitismo,” ha sostenuto l’ambasciata. Purtroppo lo stesso atteggiamento caratterizza le istituzioni della comunità ebraica italiana, o di quella britannica, come dimostrato dalla campagna di diffamazione contro Corbyn. Quindi sembra trattarsi di una posizione che riguarda buona parte dell’ebraismo europeo.

L’unico spiraglio di speranza all’interno del mondo ebraico viene invece dagli USA. Non solo, sostiene Cypel, non vi si è perso il tradizionale progressismo moderato, ma anzi l’occupazione e gli stretti legami tra Trump (legato a suprematisti, razzisti e fanatici religiosi) e Netanyahu hanno allontanato molti ebrei, soprattutto tra i giovani, dal sostegno incondizionato a Israele. Nei campus, afferma l’autore, circa metà dei militanti del BDS sono ebrei. Molti intellettuali ebrei si sono dichiarati contrari alla legge sullo “Stato-Nazione”, e, dopo l’approvazione di una norma che vieta l’ingresso in Israele ai sostenitori del BDS, più di 100 personalità importanti, tra cui alcuni esplicitamente filosionisti, hanno firmato una petizione di denuncia. Questo allontanamento si manifesta anche in un sostanziale disinteresse nei confronti dello “Stato ebraico”, oppure nella dissidenza religiosa da parte degli ebrei riformati, in maggioranza negli USA, secondo i quali il ruolo del popolo ebraico è quello di migliorare il mondo e l’umanità. Un obiettivo ben lontano da quello della supremazia etnico-religiosa rivendicata da ortodossi ed ultraortodossi in Israele.

Nonostante la sua superiorità incontrastata, secondo Cypel la società israeliana è in preda all’inquietudine e al pessimismo rispetto al futuro, all’“impotenza della potenza”. L’ha espressa chiaramente lo storico Benny Morris sostenendo una tesi apparentemente paradossale: “Tra trenta o cinquant’anni [i palestinesi] ci avranno sconfitti.” È la vaga percezione di vivere una situazione segnata dalla mistificazione, che fa provare a molti israeliani un senso di precarietà e di timore per il futuro, che però al momento gioca a favore di una destra sempre più estrema.

Il libro si chiude con un omaggio a Tony Judt, il primo importante intellettuale ebreo americano a sostenere l’opzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi. Nell’ottobre 2003 definì Israele uno Stato anacronistico, nel suo nazionalismo etnico religioso ottocentesco, di fronte alla sfida della mondializzazione.

Cypel conclude con un auspicio che non si può che condividere: “Quello che si può augurare agli ebrei, che siano o meno israeliani, è che prendano coscienza di questa realtà e ne traggano le conseguenze, invece di continuare a nascondere la testa sotto la sabbia.” Questo libro contribuisce a questo svelamento, e c’è da augurarsi che venga pubblicato anche in Italia.

(Le citazioni tratte dal libro sono state tradotte in italiano dal recensore)




I cittadini palestinesi di Israele: il perfetto capro espiatorio del coronavirus

Lana Tatour

8 aprile 2020 Middle East Eye

Mentre Netanyahu prosegue con le invettive razziste contro i cittadini arabi, le forze di sicurezza israeliane stanno scatenando la violenza sulle comunità palestinesi

In un recente incontro sul Covid-19 con una delegazione di medici cittadini palestinesi di Israele, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Sfortunatamente nel settore arabo le disposizioni non vengono rispettate rigorosamente … Chiedo la cooperazione di tutti i cittadini arabi di Israele. Vi chiedo, per il vostro bene e per il bene del nostro futuro condiviso, per favore seguite gli ordini, [altrimenti] molte persone moriranno e queste morti potrebbero essere prevenute con il vostro aiuto.”

Chiaramente il controllo della diffusione del coronavirus dipende dall’impegno delle persone a realizzare l’autoisolamento, ma non è quello che intendeva Netanyahu. Piuttosto, nell’insinuare che le morti sarebbero una “vostra” responsabilità, stava reiterando le sue invettive razziste contro i cittadini palestinesi.

Dipinti come una minaccia

I cittadini palestinesi costituiscono il perfetto capro espiatorio a cui addossare la colpa per la diffusione del Covid-19 in Israele. I cittadini palestinesi di Israele vengono descritti come una minaccia per la salute e per la vita dei cittadini ebrei, prosecuzione del discorso di lunga data che li ritrae come una quinta colonna e cittadini illegittimi.

Con un discorso che ripropone il classico copione antisemita europeo dell’ “ebreo diffusore di malattie”, Netanyahu sta preparando il terreno per incolpare i palestinesi della diffusione del coronavirus nel caso fallissero i tentativi di contenimento. Sta facendo ciò che sa fare meglio: lanciare invettive contro i cittadini palestinesi onde evitare il controllo sulla propria gestione della crisi e spostare l’attenzione dalle accuse penali in sospeso nei suoi confronti.

Se esiste un settore in cui i palestinesi all’interno dei confini del ’48 [cittadini palestinesi israeliani, ndtr.] hanno una rappresentanza relativamente elevata, è il settore sanitario (anche se, all’interno di questo sistema, devono ancora affrontare discriminazioni e razzismo). Il 17% dei medici israeliani sono cittadini palestinesi. Ci sono anche molte infermiere, farmacisti, tecnici e operatori sanitari palestinesi in prima linea nella battaglia contro il coronavirus.

Mentre mettono a rischio la loro vita per proteggere tutte le vite, senza discriminazioni, le loro stesse comunità e famiglie affrontano l’abbandono da parte dello Stato israeliano.

A dimostrazione di quanto le vite ebraiche siano favorite rispetto a quelle palestinesi, benché i palestinesi rappresentino un quinto della popolazione è stato loro assegnato solo il 5% dei test per il Covid-19. Fino alla scorsa domenica, sono stati effettuati solo 6.479 test tra i palestinesi entro i confini del ’48, una cifra approssimativamente equivalente alla media dei test giornalieri per gli ebrei.

Misure preventive

Ad oggi circa 193 cittadini palestinesi in Israele sono risultati positivi, meno del 2 % dei malati. Queste cifre basse, tuttavia, sono tutt’altro che promettenti. Secondo le stime dell’esperta di salute pubblica Nihaya Daoud nelle comunità palestinesi ci sono probabilmente migliaia di malati e portatori. Senza un’adeguata somministrazione di test è probabile che i numeri aumentino rapidamente.

Mentre lo Stato ha promosso misure di prevenzione a favore della popolazione ebraica, non ha compiuto analoghi sforzi nei confronti della sua componente palestinese. Il materiale informativo non è stato tradotto in arabo per settimane e non sono stati fatti investimenti per rafforzare le infrastrutture sanitarie nelle città e nei villaggi palestinesi.

I cittadini palestinesi, come altre comunità autoctone e oggetto di razzismo, sono strutturalmente svantaggiati quando si tratta di salute e di accesso ai servizi sanitari. In concomitanza con una pandemia mortale, i risultati possono essere devastanti.

La distanza media delle località palestinesi dagli ospedali più vicini è quasi doppia rispetto a quella delle città ebraiche nelle stesse aree, e la qualità dei servizi medici nelle località palestinesi è scarsa. I cittadini palestinesi soffrono anche di alti tassi di patologie croniche come diabete, ipertensione e patologie cardiache, che pongono molti di loro tra le categorie ad alto rischio.

Per i beduini palestinesi del Naqab, la minaccia del coronavirus è ancora maggiore. Un 150.000 beduini vivono in circa 40 villaggi ritenuti illegali dallo Stato. Pertanto, a questi villaggi viene negato l’accesso all’acqua, ai servizi di raccolta dei rifiuti e ai servizi sanitari.

Nonostante i ripetuti appelli delle organizzazioni beduine della società civile, lo Stato ha rifiutato l’adozione di misure adeguate, come test e costruzione di strutture per l’autoisolamento o l’accesso a cliniche e ospedali. Ha continuato invece nel suo massiccio impegno di demolizione delle case beduine.

Logica sbagliata

Sono cresciute le critiche verso la negligenza israeliana nei confronti dei cittadini palestinesi, ulteriore testimonianza delle politiche discriminatorie di Israele.

La risposta di Israele alla pandemia da Covid-19 rivela il suo deliberato disprezzo per le vite dei palestinesi, basato su una gerarchia razziale tra ebrei e palestinesi. Sono importanti solo le vite ebraiche, mentre quelle palestinesi sono usa e getta.

In tempi di pandemia, questa logica è, ovviamente, sbagliata. Se la pandemia colpisce i palestinesi entro i confini del ’48 minaccia inevitabilmente anche i cittadini ebrei. Una conclusione logica sarebbe quella di dedicare sufficiente attenzione, budget, personale e attrezzature sanitarie alle aree palestinesi, poiché le nostre vite dipendono letteralmente l’una dall’altra – ma a quanto pare, il desiderio di vedere i palestinesi scomparire è più forte di qualsiasi calcolo razionale.

Inoltre una diffusione del coronavirus tra i cittadini palestinesi potrebbe offrire a Israele l’opportunità di rafforzare il proprio controllo ed isolarli ulteriormente, sia politicamente che fisicamente.

Abbiamo assistito ad un’evoluzione di questa dinamica nei giorni scorsi a Giaffa, dove la polizia israeliana ha provocato e attaccato violentemente gli abitanti palestinesi per presunta violazione delle direttive sul blocco. Quando i palestinesi hanno protestato, la polizia israeliana ha risposto con una violenza eccessiva, compreso l’uso delle granate stordenti.

Questo potrebbe essere solo l’inizio. Se la pandemia colpisse città e villaggi palestinesi, l’argomento della protezione della salute pubblica potrebbe essere usato come giustificazione per un’ulteriore militarizzazione contro i cittadini palestinesi.

Associando il coronavirus ai cittadini palestinesi, come ha iniziato a fare Netanyahu, è probabile che vengano loro imposte misure come coprifuoco, barriere, controlli a tappeto nei villaggi e un regime di permessi. Tali misure di emergenza potrebbero diventare la nuova normalità, rendendo la popolazione più controllata ed emarginata di Israele ancora più soggetta, punita e controllata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Lana Tatour è borsista con post-dottorato Ibrahim Abu-Lughod presso il Center for Palestine Studies della Columbia University.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




La pandemia di coronavirus sta portando ad un incremento del razzismo contro gli ebrei indiani in Israele

Saudamini Jain

20 marzo 2020 – +972

In Israele un ebreo indiano di 28 anni è finito in ospedale dopo essere stato aggredito da israeliani che lo hanno chiamato “corona”.

Sabato scorso Am Shalem Singson, ventottenne studente di una scuola religiosa, stava camminando verso il centro di Tiberiade con alcuni amici quando due uomini israeliani hanno arricciato il naso e li hanno chiamati “corona, corona”. Singson ha detto loro di non essere neanche cinese, ma indiano – lui e i suoi amici sono Bnei Menashe [lett. Figli di Menasseh, una delle tribù ebraiche citate nella Bibbia, ndtr.], una comunità di ebrei indiani [ma di aspetto mongoloide, ndtr.], alcune migliaia dei quali vivono in Israele. Ma gli uomini, furiosi per essere stati contestati, prima lo hanno spintonato, poi lo hanno ripetutamente colpito. Singson ha dovuto essere sottoposto ad un intervento chirurgico al torace e ai polmoni.

Singson, che è ancora ricoverato in ospedale, crede che la nuova pandemia di coronavirus sia diventata un catalizzatore perché i razzisti accentuino il proprio fanatismo. “Non vogliono vivere con noi, vogliono solo picchiare,” dice. “Approfittano (della situazione) utilizzando il coronavirus…e non solo io, molte persone lo subiscono.”

Ci sono state rilevanti informazioni di attacchi razzisti contro asiatici in tutto il mondo da parte di persone che li incolpano dell’epidemia e della diffusione del coronavirus. Il presidente USA Donald Trump, che continua a chiamarlo “cinesevirus”, è stato accusato di danneggiare gli asiatici incoraggiando l’individuazione razzista di un capro espiatorio mentre si accentuano la rabbia e il timore per la diffusione del virus.

I “Bnei Manashe” hanno dovuto affrontare il peso di questo tipo di razzismo – in prevalenza, essi pensano, perché la grande maggioranza degli israeliani non sa molto di loro. I “Bnei Menashe”, cinquemila persone in Israele, sono emigrati da due Stati del nord est indiano – Manipur e Mizoram, sui confini con il Myanmar —e credono di essere i discendenti di una “tribù perduta” di Israele di 2.700 anni fa. In base alla legge israeliana del ritorno non hanno i requisiti per emigrare, ma sono riusciti ad arrivare poco alla volta in piccoli gruppi di qualche centinaio di persone tramite “Shavei Israel”, una Ong israeliana che lavora per individuare comunità ebraiche “perdute” in tutto il mondo e portarle in Israele. Signson è immigrato con sua madre, sua nonna e suo fratello da Manipur nel 2017.

I Bnei Menashe hanno manifestato il proprio sdegno e la propria amarezza per il razzismo rivolto contro di loro, e nelle ultime settimane denunciano numerosi esempi in cui membri della comunità sono stati chiamati “coronavirus” da altri israeliani.

È veramente triste vedere molti israeliani infettati non dal coronavirus ma dal virus del razzismo,” dice il ventiquattrenne Shlomo Thangminlien Lhungdim, amico di Singson. Pochi giorni fa, mentre viaggiava in pullman con alcuni amici “Bnei Menashe”, gli altri passeggeri lo hanno guardato in modo strano e molti si sono coperti il naso. “Persino l’autista si è messo intenzionalmente a tossire appena ci ha visti,” dice. “La gente tende a correre via da noi. Ci guardano come diversi alle stazioni degli autobus, nei supermercati…siamo discriminati ovunque. La vita è orribile. Perché? Solo perché abbiamo un aspetto diverso?”

Isaac Thangjom, un responsabile di progetto della Federazione Ebraica del New Mexico, emigrato in Israele nel 1997, dice che a Ramle o nei dintorni, dove vive, la sua famiglia non ha dovuto subire nessuno di tali episodi. Ma questi esempi sono frequenti in città più piccole come Tiberiade, Kiryat Arba in Cisgiordania e San Giovanni d’Acri, dove vive anche la maggior parte dei “Bnei Menashe”, afferma. Ha anche sentito di molti episodi di razzismo legati al coronavirus. C’è stata una donna che ha preso un pullman da Kiryat Arba per Gerusalemme ed ha detto che si è sentita a disagio perché, mentre viaggiava su un autobus urbano, la gente la teneva a distanza.”

I “Bnei Menashe” hanno sempre dovuto affrontare il razzismo in Israele. Nonostante i loro vestiti da ebrei ortodossi, sono spesso confusi con i lavoratori thailandesi e i filippini. Ma la pandemia del coronavirus ha portato i pregiudizi a un livello più alto, dice Thangjom.

Le aggressioni come quella contro Singson in Israele si riscontrano anche in India. Gli indiani del nordest sono sottoposti a discriminazioni ed aggressioni in altre parti del Paese, dove sono una minoranza razziale. Pare che molti siano stati chiamati “corona”, “coronavirus” e “cinesi”, anche in grandi città come Delhi e Mumbai. In un video diventato virale la scorsa settimana, studenti indiani del nordest hanno fatto appello ai loro connazionali indiani perché smettano di prenderli di mira.

Nella colonia israeliana di Kiryat Arba la ventenne Dimi Lhungdim, in licenza dal servizio militare, si è infuriata dopo aver visto un video di “Shevet Achim Va’achayot” (una tribù di fratelli e sorelle), la canzone ufficiale dei festeggiamenti per il Giorno dell’Indipendenza di Israele del 2019. Alla luce dell’aggressione contro Singson, per Lhungdim il messaggio di fratellanza della canzone suona vuoto.

Pensavo: perché state cantando questa canzone e dite che siamo fratelli e sorelle?” dice Lhungdim. “Ogni volta che tornava quella frase pensavo: ‘Non sapete quello che state dicendo.’ Sostengono: ‘ questa è la nostra casa in Israele, questo è il nostro cuore.’ Quello che hanno fatto ad Am Shalem non è quello che stanno cantando nella canzone. Ero furiosa.”

Saudamini Jain è una scrittrice che abita a Nuova Delhi. Ha scritto articoli da tutta l’India, dalla Cisgiordania e da New York.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’importanza della deputata velata alla Knesset

Suhail Kewan

5 marzo 2020 Middle East Monitor

Dobbiamo occuparci del fatto che quattro donne arabe sono state elette nel nuovo parlamento israeliano, una delle quali è la prima deputata araba che indossa l’hijab [velo che copre capelli, fronte, orecchie e nuca, ndtr.], Iman Al-Khatib. Spesso si sono viste donne velate in posizioni di responsabilità e normalmente hanno forti personalità, cosa indispensabile perché le donne in generale, velate o no, incontrano grandi ostacoli sulla via dell’auto-affermazione. Le sfide iniziano nelle loro stesse comunità, molte delle quali ancora dubitano delle loro capacità di leadership, come anche nei consigli comunali. È ancora più difficile del normale per le donne che indossano il velo in un ambiente caratterizzato da razzismo e odio verso gli arabi e i musulmani in generale.

Vedere Al-Khatib alla Knesset riporta alla mente Ilhan Omar, la deputata democratica al Congresso USA, nei confronti della quale il grande amico di Netanyahu, il presidente Donald Trump, ha esplicitato il suo odio. Come noto, Trump l’ha invitata a tornare al suo Paese d’origine, la Somalia, a causa del suo attivismo antirazzista. È stata anche accusata dai sionisti americani di essere “antisemita” per via delle sue dure critiche delle politiche israeliane.

Tuttavia, per quanto riguarda gli immigrati in qualunque luogo, Iman Al-Khatib non è una di loro. Proviene da Yafa An-Naseriyye; è nativa del Paese. Ha un master in Scienze Sociali ed è madre di tre bambini. Ovviamente non è la prima deputata araba; tale onore spetta a Husnia Jabara, membro del partito di estrema sinistra [sionista, ndtr.] Meretz, seguita da Haneen Zoabi, la prima donna deputata di un partito arabo, l’“Assemblea Nazionale Democratica” [noto anche come Balad, si batte per l’uguaglianza di tutti i cittadini israeliani, ndtr.]. Le altre sono Aida Touma-Suleiman del Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza [alleanza tra il partito Comunista e altri gruppi di sinistra, ndtr.]; per alcuni mesi Niven Abu Rahmoun della Lista Unita [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.]; e poi Heba Yazbek di Balad. Oltre a Sonia Saleh di Ta’al (Movimento Arabo per il Rinnovamento [partito di Ahmad Tibi, uno dei leader della “Lista Unita”, ndtr.] ), che è stata eletta alle ultime elezioni.

La presenza nella Knesset di quattro donne elette con la Lista Unita segnala la consapevolezza dei partiti della necessità di una forte presenza di donne politicamente attive nel parlamento. C’è anche una crescente consapevolezza dei diritti, dello status e della forza delle donne. Una così forte rappresentanza araba nella Knesset è notevole e l’hijab ha il suo peso in proposito, sollevando, come sta facendo, il problema sia per gli arabi che per gli ebrei di che cosa debba essere la Knesset nei prossimi anni.

I candidati arabi saranno in grado di raggiungere il numero di deputati equivalente al potere di un partito politico. Questo è importante per due motivi: nei prossimi vent’anni gli arabi diventeranno decisivi e partner nelle questioni cruciali nella Knesset e i partiti sionisti incrementeranno le misure ostili contro di loro per fermarne la crescente influenza. Ciò significa rafforzare le già draconiane leggi discriminatorie che Netanyahu ha avviato, prima fra tutte la legge dello Stato-Nazione e la norma per ridurre il numero massimo di deputati arabi al 10% del totale. Questo verrà attuato per preservare il carattere ebraico dello Stato o per impedire il diritto al voto a chi non ha fatto il servizio militare [cioé i palestinesi di Israele, ndtr.] o in altri impieghi statali.

Nulla di nuovo: analoghi suggerimenti sono già stati fatti. Ci sono chiari segnali che verranno approvate leggi che delegittimano i partiti che non accettano l’esclusiva ebraicità dello Stato e li metteranno fuori legge. Questi sforzi nei prossimi anni diventeranno aggressivi man mano che crescerà l’influenza degli arabi nella composizione della Knesset; ciò riguarderà la Lista Unita con le sue quattro deputate e chiunque vi si aggiungerà in seguito. Forse che i partiti sionisti permetteranno che 30 deputati arabi siedano in parlamento per i prossimi vent’anni, a prescindere che le donne indossino o no il velo e che siano comuniste, musulmane o nazionaliste? In verità questo è ciò che Netanyahu ha cercato di evitare approvando la legge sullo Stato-Nazione e cancellando l’arabo come lingua ufficiale in Israele, anche se il 20% della popolazione parla arabo. Ci sono già disegni di legge per impedire ai partiti che non riconoscono l’ebraicità dello Stato di partecipare alle elezioni, eliminando così la possibilità di una presenza araba significativa e quindi influente nella Knesset. Qualunque presenza rimanente sarà una mera formalità finalizzata a dare di Israele l’immagine di uno Stato ebreo e democratico.

L’aumento da 9 a 15 deputati dei rappresentanti arabi alla Knesset nell’ultimo anno ha messo in luce il potere dei cittadini arabi palestinesi di Israele, e anche la sostanza dell’imminente conflitto nell’arena parlamentare, che ci pone di fronte a due possibilità. La prima è la perpetuazione dell’approccio razzista e di apartheid, che sarà intensificato con l’approvazione di leggi maggiormente razziste. La seconda è la creazione di un ampio fronte pacifista arabo ed ebreo che impedisca un ulteriore deterioramento della situazione.

Questo è ciò che suggerisce la Lista Unita attraverso il suo capo Ayman Odeh, ma nelle attuali circostanze è un sogno lontano. È chiaro che l’estrema destra è più forte ed è in totale sintonia con il generale spostamento a destra e l’ostilità verso l’islam e gli arabi, come dimostra Trump. I razzisti non accetteranno gli arabi come partner eguali e faranno tutto ciò che è in loro potere per fermare questa avanzata araba nella roccaforte del processo decisionale israeliano. La presenza di una deputata che indossa il velo nel parlamento israeliano è solo una parte del conflitto diffuso in molti ambiti riguardo al carattere, alla forma e al destino di questo Paese, del suo popolo e di coloro che ci vivono.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Le elezioni di Israele al tempo del coronavirus danno Netanyahu in ottima salute

Lily Galili da Tel Aviv

3 marzo 2020 – Middle East Eye

La composizione del prossimo governo israeliano e le prospettive di altre elezioni sono poco chiare. Ma una cosa è certa: il primo ministro ha messo a segno un colpaccio

Le elezioni di lunedì, ai tempi del coronavirus, in cui migliaia di israeliani in quarantena hanno votato in seggi speciali anti-contagio, non sono state solo il terzo turno di votazioni. Sono state un referendum sul primo ministro Benjamin Netanyahu, accusato di corruzione e truffa, e sullo stato di diritto e sulla democrazia.

Netanyahu, che sarà processato il 17 marzo, ha vinto.

I risultati non sono ancora definitivi, ma, in base al 90% dei voti scrutinati, il Likud supera “Blu e Bianco” con 36 seggi a 32.

La sua alleanza di destra ultra-ortodossa ottiene 59 [al 99% dei voti scrutinati il blocco guidato da Likud scende a 58 e Blu Bianco sale a 33 ndt] dei 120 seggi al parlamento israeliano, la Knesset. Nel contempo il blocco di centro-sinistra è ridotto a 54 seggi, con il partito Laburista- Meretz che ha ottenuto solo sei deputati.

La sinistra sionista, per come la conoscevamo, è scomparsa. Abbandonata dagli ebrei israeliani, ora si deve alleare con i cittadini palestinesi di Israele per sopravvivere.

Benché l’Israele democratica e liberale abbia perso, in un certo modo gli israeliani hanno vinto. Con la più alta affluenza alle urne in 20 anni (circa il 72%) questa volta gli israeliani hanno mandato un chiaro messaggio e forse hanno persino evitato la cosa che più temevano: una quarta tornata elettorale.

Più che votare per un candidato, gli israeliani hanno votato per se stessi. I circa 250.000 elettori – ebrei e arabi – che avevano scelto di starsene a casa durante le elezioni di settembre questa volta sono andati alle urne. La maggior parte dei nuovi voti sono andati al Likud di Netanyahu, anche se un numero considerevole [di voti] è andato alla coalizione “Lista Unita” dei partiti palestinesi.

Stando così le cose, sembra probabile che questi nuovi elettori abbiano evitato di essere di nuovo chiamati al voto. Hanno anche garantito il fatto che la “Lista Unita” sia il terzo maggiore partito, passando da 13 a 14 seggi. [15 a fine scrutinio ndt]

Ma soprattutto hanno incoronato Bibi.

Sotto attacco

Se non importano la corruzione e la totale mancanza di limiti e di moralità del leader, allora questa scelta ha senso.

Se non importa che l’annessione delle colonie nella Cisgiordania occupata sia immorale e cambi la vita sia degli israeliani che dei palestinesi, allora Netanyahu è certamente la scelta giusta.

Se non importa il razzismo che si diffonde più rapidamente del coronavirus, questa scelta è pienamente giustificata. Mentre le acque si stanno calmando, gli strateghi concordano: la frase che Netanyahu ha ripetuto in continuazione – “Gantz non può governare senza Tibi”, in riferimento ad Ahmad Tibi, il leader della “Lista Unita” – si è dimostrata estremamente efficace.

Tibi è stato usato da Netanyahu non solo come slogan, ma come simbolo della minaccia collettiva che il primo ministro accusa ogni arabo di rappresentare per lo Stato ebraico.

Benny Gantz, il principale sfidante di Netanyahu e capo del partito “Blu e Bianco”, ha scelto di essere messo in un angolo, impegnandosi a formare un governo solo di ebrei e definendo la “Lista Unita” un partner illegittimo.

Così facendo ha reso ancor più sfumato il confine tra il suo partito e il Likud e non ha fornito nessuna ragione per votarlo.

Netanyahu, giustamente definito il miglior personaggio nelle campagne elettorali della storia politica di Israele, ha condotto da solo la campagna elettorale più sporca, vergognosa e di livello più basso di sempre. Ha vinto.

Ciò dice molto di lui e ancor di più di quello che Israele è diventato.

Il processo democratico è servito come strumento per creare un Israele ancora meno democratico, più razzista e rancoroso. Ora è un Paese in cui gli arabi sono partner illegittimi, chi si oppone agli obblighi religiosi (come gli immigrati dai Paesi dell’ex-Unione Sovietica) è antisemita e chi è di sinistra e crede nella soluzione dei due Stati con i palestinesi è etichettato come nemico dello Stato.

Ogni istituzione democratica è sotto attacco.

Un percorso verso l’immunità?

Una delle prime questioni poste ai parlamentari del Likud durante la notte è stata se la vittoria di Netanyahu porterà al licenziamento di Avichai Mandelbit, il procuratore generale che lo ha messo sotto accusa. Questa domanda rimane senza risposta, benché alcuni analisti di destra siano ansiosi di dichiarare che a Netanyahu è stata concessa dal popolo l’immunità morale.

Martedì mattina il deputato del Likud Miki Zohar, ardente difensore di Netanyahu, ha annunciato alla radio che i risultati dicono forte e chiaro che il primo ministro non affronterà un processo. Queste dichiarazioni non hanno alcun valore giuridico, ma sono realmente pericolose.

Il sistema giudiziario israeliano consente a un primo ministro accusato di corruzione e truffa di rimanere in carica fino alla condanna definitiva, ma la questione se sia legale sceglierlo per formare un governo rimane irrisolta.

Si tratta semplicemente di una situazione senza precedenti nella storia del Paese, potenzialmente esplosiva per la società israeliana.

Per il blocco di destra e ultra-ortodosso di Netanyahu, e per i suoi elettori, le elezioni di ieri sono state un referendum su questo problema ed ogni interferenza giuridica potrebbe persino portare a una risposta violenta.

Nonostante l’evidente vittoria di Netanyahu, il futuro rimane complesso. I 59 [ 58 ndt] seggi del suo solido blocco non sono sufficienti per formare un governo. A Netanyahu ne sono necessari altri, e in fretta.

Da ieri Israele si muove su due strade: quella politica, nel tentativo di formare un governo funzionante, e quella dei problemi giudiziari di Netanyahu. In due settimane, con l’inizio del processo, i due percorsi si incroceranno.

Netanyahu è impaziente di formare il suo governo prima del 17 marzo in modo da arrivare in tribunale come primo ministro e non solo come politico incaricato di formare un governo. Questo obiettivo sarà difficile da raggiungere. Molti fattori potrebbero interferire in questo processo. Quello più immediato è il voto dei soldati che sarà conteggiato e preso in considerazione solo mercoledì sera. Vale 5-6 seggi e può fare una grande differenza. Nel voto di settembre la maggioranza dei soldati aveva scelto “Blu e Bianco”.

L’altro fattore ignoto è di nuovo Avigdor Lieberman, capo del partito “Yisrael Beitenu” [Israele casa nostra, partito di estrema destra laica votato soprattutto da ebrei dell’ex-Unione Sovietica, ndtr.]. Come dice il proverbio, non è finita finché non canta la grassona, e con i suoi sei seggi Lieberman è meno grasso che a settembre, quando ne aveva ottenuti otto, ma molto dipende ancora da lui.

Se sceglie di unirsi alla coalizione di destra perde la faccia, ma garantisce la creazione di un solido governo di destra. Per farlo deve superare il suo disprezzo per Netanyahu, le sue idee contrarie agli ortodossi e smentire tutte le sue promesse elettorali.

Lunedì notte, nella prima dichiarazione dopo gli exit-poll, è sembrato cauto. “Riguardo al blocco ortodosso-messianico scegliamo di attendere i risultati finali,” ha affermato nel suo quartier generale tutt’altro che in festa. “Siamo un partito di principi, non ci allontaneremo di un millimetro da quello che abbiamo promesso nella nostra campagna.”

Quello che hanno promesso è: niente Bibi, niente arabi, niente alleati ortodossi. Finché non importerà un elettorato israeliano del tutto nuovo, non potrà stringere nessuna alleanza senza infrangere le sue “promesse”.

Costruzione di una coalizione

Confuso? Proprio così. Una previsione contraddice l’altra.

In alcune interviste prima del voto, Netanyahu ha insinuato – ammiccando – che si aspetta disertori da altri partiti che gli consentano di formare una coalizione stabile di 61-62 seggi. Dopo gli exit poll, i collaboratori di Netanyahu hanno continuato a riproporre questo scenario.

Teoricamente ci sono tre possibili riserve di voti: deputati scontenti in fondo alla lista di “Blu e Bianco”, membri del partito di Lieberman e Orly Levy, che una volta era di Yisrael Beitenu e ora è alleata del partito Laburista e del Meretz. La sua storia politica la indica come l’anello più debole. Finora nessuno di questi scenari sembra particolarmente realizzabile.

L’altra possibilità è un governo di unità.

Parlamentari e ministri del Likud la ritengono possibile. Politicamente avrebbe senso. Non ci sono reali differenze ideologiche tra i due principali partiti, a parte il fatto che “Blu e Bianco” si è impegnato a non stare con Netanyahu finché è imputato di truffa e corruzione.

Meir Cohen, un parlamentare di “Blu e Bianco”, martedì durante un’intervista radiofonica ha insistito che non ci saranno disertori e che un’alleanza con Netanyahu è da escludere.

Dato che Netanyahu è riuscito a perfezionare il concetto “L’etat c’est moi” [Lo Stato sono io, frase attribuita a Luigi XIV di Francia ed assurta a simbolo dell’assolutismo monarchico, ndtr.] è difficile separare il suo destino da quello del futuro governo.

Realisticamente 60-61 seggi sono sufficienti per governare, ma non per salvare Netanyahu dal primato del sistema giustiziario. A questo punto la sua mossa migliore sarebbe la legge francese sull’immunità concessa a chi governa che rimanda il processo fino al giorno dopo la fine del mandato.

Ha bisogno di una maggioranza più ampia per far approvare quella legge. Se non ci riesce, insisterà per essere primo ministro e al contempo essere processato.

Suona come una quarta tornata elettorale? Probabilmente no, benché non si veda ancora un’altra soluzione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Razzisti israeliani uniti contro il razzismo

Ali Abunimah

13 febbraio 2020 – The Electronic Intifada

Una nuova associazione chiamata “Israelis Against Racism” [Israeliani contro il Razzismo] afferma di voler debellare le discriminazioni, ma il fondatore del gruppo è sottoposto a sanzioni USA per traffico di armi e alcuni membri hanno precedenti di fanatismo contro non-ebrei e persone di colore.

In gennaio l’organizzazione ha tenuto un seminario a Netanya, città israeliana sulla costa. In quell’occasione la vice-sindaca [di Netanya] Shiri Hagoel-Saidon ha dichiarato che “il razzismo è diventato la piaga del XXI secolo, profondamente radicato in noi come società, e colpisce ogni strato della popolazione.” Non avrebbe potuto avere più ragione: uno dei luoghi in cui il razzismo e la violenza razzista sono più profondamente inseriti è la stessa “Israelis Against Racism”.

L’associazione ha potenti sostenitori, alcuni coinvolti in gravissimi crimini di guerra ed altri con scioccanti precedenti di fanatismo.

Eppure ciò non impedisce a “Israelis Against Racism” di tenere un pranzo di gala all’inizio di questo mese con il presidente israeliano Reuven Rivlin nella sua residenza ufficiale.

Condannato per traffico di armi

Il fondatore dell’organizzazione, Israel Ziv, è un generale sottoposto a sanzioni dagli USA perché secondo il dipartimento del Tesoro di Washington ha venduto armi a entrambi i contendenti nella sanguinosa guerra civile del Sud Sudan.

Secondo le autorità statunitensi Ziv ha utilizzato un’azienda agricola “come copertura per la vendita di circa 150 milioni di dollari di armi al governo, compresi fucili, lanciagranate e razzi con lanciamento a spalla.”

Avrebbe anche “progettato di organizzare attacchi di mercenari contro campi petroliferi e infrastrutture del Sud Sudan, nel tentativo di creare problemi che solo la sua impresa e quelle ad essa legate avrebbero potuto risolvere.” In conseguenza del fatto di essere stato inserito dalle autorità statunitensi nella lista nera come trafficante d’armi, Ziv ha subito il congelamento dei suoi conti bancari in Israele.

Ha presentato ricorso a un tribunale distrettuale e poi alla Corte Suprema, ma inutilmente,” ha informato il giornale di Tel Aviv Haaretz lo scorso mese. “Ora sta facendo appello contro l’inserimento nella lista nera da parte delle autorità USA.”

Ziv ha sempre negato strenuamente di essere un trafficante d’armi. Fa anche di tutto per intimidire quanti raccontano delle sue attività.

Nel 2017 Ziv ha denunciato il giornalista David Sheen per averlo citato in un articolo pubblicato da The Electronic Intifada in cui venivano elencati i principali razzisti israeliani.

Ziv e Sheen sono arrivati ad un accordo dopo che Ziv non è riuscito a dimostrare alcuna inesattezza concreta nell’articolo.

Nota agenzia di pubbliche relazioni

La reputazione di Ziv ha subito un colpo particolarmente duro quando i media israeliani hanno rivelato come stesse cercando di escogitare un piano per migliorare l’immagine di Salva Kiir, presidente del Sud Sudan, dopo che l’ONU aveva scoperto che il governo di Kiir promuoveva lo stupro sistematico di donne e minori da parte dei suoi soldati.

Può essere che Ziv ora speri di migliorare la sua stessa immagine per niente impeccabile guidando un’organizzazione con il nobile obiettivo di porre fine al razzismo?

Potrebbe essere la copertura perfetta, soprattutto in quanto inizialmente si è concentrato sugli etiopi di Israele, una comunità africana che soffre una parte del peggiore razzismo del Paese.

Questa impressione è certamente rafforzata dal fatto che “Israelis Against Racism” è stata costituita con l’aiuto di Parsi-Zadok Kucik Triwaks, un’agenzia di pubbliche relazioni che ha tra i suoi clienti il ministero della Difesa israeliano.

Questa agenzia si pubblicizza come il “partner esclusivo” della nota azienda di Washington “Hill and Knowlton”, che ora si chiama “Hill+Knowlton Strategies”.

Hill e Knowlton una volta era definita parte della “lobby della tortura”, per la quantità di denaro che aveva guadagnato rappresentando violatori dei diritti umani in tutto il mondo.

L’agenzia è forse meglio – o peggio – ricordata per aver orchestrato false testimonianze al Congresso sui soldati iracheni che toglievano bambini kuwaitiani dalle incubatrici per conquistare l’appoggio dell’opinione pubblica al coinvolgimento USA nella guerra del Golfo del 1991.

Ma, se Ziv spera che un’organizzazione “antirazzista” ripulirà la sua immagine, ha scelto come sostenitori alcuni bizzarri personaggi.

Sostenuta da criminali di guerra

Secondo un documento di “Israelis Against Racism” visionato da The Electronic Intifada, l’associazione ha ottenuto il sostegno di alcuni membri di alto profilo dell’esercito israeliano implicati in crimini di guerra.

Il documento elenca “membri del forum in attività” di “Israeli Against Racism”, tra cui il generale Amir Eshel, ex- capo dell’aviazione israeliana.

Eshel è stato recentemente denunciato in Olanda, insieme all’ex-capo dell’esercito Benny Gantz, per aver ordinato un bombardamento a Gaza che uccise sei membri della famiglia del cittadino palestinese-olandese Ismail Ziada.

I membri della famiglia Ziada furono tra i più di 2.200 palestinesi uccisi – in grande maggioranza civili – durante l’attacco del 2014 contro Gaza guidato da Gantz ed Eshel.

I due generali sono sfuggiti alle loro responsabilità in quanto lo scorso mese i giudici olandesi hanno concesso l’immunità ai crimini di guerra israeliani commessi in veste “ufficiale”.

Un altro membro del forum è Doron Almog, che nel 2005 sfuggì all’arresto da parte della polizia britannica in seguito ad imputazioni per crimini di guerra rifiutandosi di sbarcare da un volo El Al [compagnia aerea israeliana, ndtr.] che era appena atterrato all’aeroporto di Heathrow da Tel Aviv.

Ad essi si è unito Amos Gilad, una presenza fissa dell’establishment militare israeliano che ha promosso alcune delle politiche più repressive contro i palestinesi che protestavano contro l’occupazione militare israeliana.

C’è anche il colonnello Lior Lotan, che ha proposto di rapire palestinesi da usare come merce di scambio nelle trattative per il rilascio di soldati israeliani. La presa di ostaggi, come proposta da Lotan, è un crimine di guerra. Tra i sostenitori citati nel sito web di “Israelis Against Racism” ci sono sindaci di molte città israeliane e presidenti di importanti imprese, comprese l’Israeli Discount Bank e l’Israeli Electric Corporation. Ad essi si è unito Eliezer Shkedi, che ha comandato l’aeronautica israeliana dal 2004 al 2008, un periodo che include l’attacco israeliano contro il Libano del 2006 durante il quale le forze israeliane hanno lanciato un milione di bombe a grappolo.

Gli attacchi indiscriminati di Israele contro il Libano uccisero 900 civili.

Possono i razzisti lottare contro il razzismo?

Forse tutto ciò non sarebbe così vergognoso se “Israelis Against Racism” stesse realmente per mettere in pratica politiche concrete per lottare contro le discriminazioni.

Ma la sua principale iniziativa è invitare le persone a firmare un impegno personale a non essere razziste, come se ciò servisse a cambiare pratiche istituzionali profondamente radicate che perpetuano gravissime diseguaglianze. L’ “Associazione degli ebrei etiopi” ha accolto l’iniziativa in modo tutt’altro che entusiastico, evidenziando che la lotta contro le discriminazioni deve “iniziare dal razzismo istituzionalizzato che si trova nei corridoi del governo, tra i parlamentari e nelle politiche.

Dato che la maggior parte di loro fa parte delle stesse istituzioni che guidano le politiche razziste nei confronti della comunità etiope,” ha aggiunto l’associazione, “è naturale che l’elenco di persone che partecipano a questa iniziativa sollevi dei sospetti.”

Questo punto è sottolineato dai trascorsi dei “membri del forum” di “Israelis Against Racism”, compreso l’ex leader dell’opposizione Isaac Herzog e l’ex-capo della polizia Roni Alsheikh.

Herzog, che ora guida l’Agenzia Ebraica di Israele, ha definito i matrimoni misti tra ebrei e non-ebrei una “piaga” che ha promesso di eliminare.

Alsheikh, nel contempo, ha affermato che è “naturale” per la polizia essere più sospettosa nei confronti degli etiopi. Un altro membro del forum è il giornalista etiope-israeliano Danny Adino Abebe. Una volta ha sostenuto senza alcuna prova che circa 1.000 donne ebree etiopi-israeliane erano state rapite e trattenute contro la loro volontà da richiedenti asilo africani non ebrei. Questa affermazione senza fondamento avrebbe indubbiamente alimentato le fiamme del già crescente razzismo contro gli africani maschi.

La cerimonia di lancio di “Israelis Against Racism” presso la casa del presidente ha coinvolto numerose figure di alto profilo che sono salite sul podio ed hanno firmato pubblicamente l’impegno. Tra questi l’ex vice-ministro dell’Educazione Avi Wortzman, membro del partito ultra anti-palestinese “Casa Ebraica”. Nel 2013 Wortzman e i suoi colleghi di partito appoggiarono il noto razzista Shmuel Eliyahu nel tentativo coronato da successo di essere nominato uno dei due rabbini-capi di Israele.

Non importava che Eliyahu avesse sollecitato Israele a massacrare oltre un milione di palestinesi come metodo per schiacciare la resistenza al suo dominio militare.

Ha anche giustificato lo stupro da parte dei soldati e ha chiesto che gli ebrei non vendano o affittino case agli arabi.

È evidente, anche se per niente sorprendente, che “Israelis Against Racism” ignori totalmente i palestinesi.

I palestinesi sono di gran lunga le vittime più duramente colpite dal razzismo di Stato israeliano, sia come cittadini di seconda classe, sia come sottoposti a una brutale occupazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sia come rifugiati a cui è negato il diritto al ritorno solo perché non sono ebrei.

Ma questo è il tipo di razzismo che tende ad unire Israele.

Forse un nome più adatto per la nuova organizzazione di Israel Ziv, che evidenzierebbe la sua assurdità e il suo cinismo, dovrebbe essere “Israeli Racist Against Racism” [Razzisti Israeliani contro il Razzismo].

Ali Abunimah è direttore esecutivo di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele. Il “centrismo” della lista Bianco Blu:”la cultura araba è la giungla”

 Jonathan Ofir

17 febbraio 2020 – Mondoweiss

E’ ciò che pensa e ha affermato senza esitazioni in una intervista il deputato Yoaz Hendel, un alto dirigente del partito, presunto centrista, guidato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz che il 2 marzo potrebbe superare il Likud di Netanyahu e vincere le elezioni israeliane

 Nena News – “Penso che la cultura araba intorno a noi sia la giungla.” Questo è ciò che sostiene Yoaz Hendel in un’intervista rilasciata venerdì al giornalista di Haaretz Ravit Hecht. Hendel è tra i primi dieci leader del partito Blu-Bianco di Benny Gantz, che ha 33 seggi nel parlamento israeliano. Il partito dovrebbe fungere da opposizione di centro al Likud di Netanyahu, e secondo molti sondaggi potrebbe superare il Likud di un paio di seggi alle prossime elezioni di marzo.

L’intervista è sconvolgente. Hendel commenta generalmente in modo derisorio la cultura araba:“C’è gente venuta qui da Paesi di ogni tipo: alcuni arrivano con la mentalità da concerto a Vienna, altri con la mentalità da darbuka”, ha dichiarato a Hecht, facendo riferimento a un tipo di tamburo molto popolare in Medio Oriente.

Non è la prima volta che Hendel fa propaganda razzista. Nel 2017, la sua rubrica settimanale su Yediot Aharonot ha descritto un immaginario di vendetta in cui i Palestinesi avevano il ruolo dei nazisti. In una “manifestazione per la democrazia” orientalista, organizzata dal partito Blu-Bianco l’anno scorso, Hendel ha boicottato l’evento perché, all’ultimo momento, era stato annunciato un intervento di Ayman Odeh, leader della Lista unita dei partiti palestinesi in Israele.

Hendel è passato al partito Blu-Bianco dal Likud, come membro della fazione Telem, insieme a Moshe Ya’alon, che è il numero tre nella lista Blu-Bianca. Anche Ya’alon è un ex membro del Likud, è stato Ministro della Difesa e ha anche lui precedenti di razzismo anti-palestinese, avendo paragonato la “minaccia palestinese” a un “cancro”, contro il quale applica la “chemioterapia” (era il 2002, e lui era Capo di Stato Maggiore dell’esercito). Hendel era il Responsabile della Comunicazione e dell’Hasbara (‘diplomazia pubblica’) di Netanyahu nel 2011-2012.

La dichiarazione secondo cui “la cultura araba intorno a noi è la giungla” non nasce dal nulla. L’idea di Israele come “villa in mezzo alla giungla” viene, infatti, attribuita al leader “di sinistra” Ehud Barak, che la pronunciò in un discorso ufficiale nel 1996. Barak si è anche congratulato con Trump per il suo monito razzista secondo cui “Mohammed” potrebbe diventare Primo Ministro, e reputa che “loro (i palestinesi, e soprattutto Arafat) sono il prodotto di una cultura in cui mentire… non crea dissenso… Per loro dire bugie non è un problema, come invece è nella cultura giudaico-cristiana”.

Ecco qualche altro passo dell’intervista:

Hecht: “Lei ha detto in passato che Israele è una villa nella giungla. Oggi, qui, ribadisce che il nostro vantaggio sui palestinesi è la moralità. Pensa che la cultura araba sia la giungla?”

Hendel: “Sì, certo, penso che la cultura araba che ci circonda sia la giungla. C‘è una palese violazione di ogni singolo diritto umano che noi, nel mondo occidentale, riconosciamo. Lì questi diritti devono ancora vedere la luce del sole. Loro non hanno raggiunto lo stadio evolutivo in cui si hanno dei diritti umani. Non esistono i diritti delle donne, né i diritti LGBT, né quelli delle minoranze, e non c’è educazione. Molti Stati arabi sono dittature mancate, il che spiega perché i trattati di pace che sigliamo qui sono limitati alla leadership. Non esiste la pace tra popoli perché non esiste educazione alla pace e alla tolleranza.”

Hecht contesta Hendel:

Hecht: “Anche in Israele l’odio verso gli arabi è la norma.”

Hendel: “C’è il razzismo e bisogna occuparsene, ma ogni volta che vedo, in ‘A Star is Born’ o a ‘Masterchef’, che gli israeliani votano per un concorrente arabo, o quando giro per gli ospedali per via di mia moglie (è una ginecologa, ndr), ho l’impressione che, finalmente, la vita qui sia priva di razzismo.”

Questa è un’osservazione veramente terribile e paradossale. Hendel cerca di applicare la classica Hasbara quando fa riferimento agli “arabi israeliani” come prova della presunta fiorente democrazia. Ma l’osservazione sugli ospedali! Hendel forse non ha seguito la questione della dilagante e sistematica segregazione razziale delle madri nei reparti maternità israeliani? Non ricorda le parole del parlamentare di estrema destra Bezalel Smotrich, che ha twittato “Subito dopo il parto, mia moglie voleva riposare e non fare una festa come fanno le donne arabe”, e che “È naturale che mia moglie non voglia stendersi vicino a qualcuno che ha appena partorito un bambino che, tra 20 anni, potrebbe voler uccidere il suo”?

Hecht contesta di nuovo le espressioni razziste di Hendel: “Potrai anche votare per un concorrente arabo a ‘Masterchef’, ma dichiari senza esitazione che ‘La mia cultura è superiore e non voglio assomigliare a un arabo’. Anche questa è una forma di razzismo.”

Hendel: “Per come la vedo io, non ho nulla di razzista (sic). Da un punto di vista cognitivo, prima di tutto mi prendo cura della mia gente, delle mie tradizioni e della mia storia. E questo è quanto. Non provo odio verso nessuno e ho legami personali con palestinesi, perché vivo vicino a Gush Etzion (blocco di insediamenti coloniali, ndr).”

Queste espressioni del “colonialista illuminato” che dice “alcuni dei miei amici sono palestinesi” hanno indotto il presidente di B’tselem Hagai El-Ad a paragonare Hendel al Primo Ministro dell’Apartheid sudafricana Hendrik Verwoerd, che dichiarò: “La nostra politica è quella che viene chiamata…‘apartheid’, e io temo che venga spesso fraintesa. Potrebbe essere più semplicemente, e forse meglio, descritta come una politica di buon vicinato.”

Anche Ahmed Tibi, parlamentare della Lista unita araba, è stato particolarmente drastico nel criticare il razzismo di Hendel, sottolineando come gli accenni alla musica araba colpiscano anche gli ebrei arabi: “Un razzista bianco contro arabi e Mizrahim allo stesso modo. Hendel non è Tarzan: Hendel è la giungla. Io amo [il cantante libanese] Fairuz e la darbuka nelle canzoni di Umm Kulthum [compianta cantante egiziana], e quasi sicuramente Hendel ascolta Wagner ogni volta che lo stivale dell’occupazione calpesta i palestinesi privi di diritti umani a causa di quella cultura occidentale che incoraggia gli insediamenti, l‘espropriazione e l’annessione. Detesto la sua visione del mondo e quella di alcuni amici suoi che credono nella supremazia ebraica.”

Il leader della Lista unita araba Ayman Odeh ha detto che “la teoria di Hendel sulla supremazia europea” è stata smentita dall’ “ignoranza e dalla mancanza di cultura che ha dimostrato nella sua intervista a Haaretz”.

Il palese razzismo di Hendel è troppo anche per molti membri del partito Blu-Bianco. Ofer Shelah (anche lui tra i primi 10 leader del Blu-Bianco, più in alto di Hendel), ha dichiarato che “le affermazioni di Yoaz Hendel sono esternazioni infelici che sarebbe stato meglio evitare, e che non rispecchiano lo spirito del partito Blu-Bianco”. La parlamentare Orna Barbivai (posizionata appena dopo Hendel) è stata più leggera nella sua critica: “Penso che tutti nasciamo uguali e non siamo qui per giudicare”. Definendo “superflui” i commenti di Hendel, ha detto “Io sono favorevole alle darbukas. Ma dedurre da questo che Hendel è un razzista sarebbe esagerato”.

Il fatto che Hendel abbia, in un certo senso, equiparato i Mizrahim ad una presunta degenerazione araba l’ha portato ad essere criticato anche dall’estrema destra. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ritwittato una dichiarazione del Likud secondo cui Hendel dovrebbe vergognarsi di se stesso. Dimenticatevi tutte le dichiarazioni razziste di Netanyahu sugli arabi, adesso ci sono facili consensi da raccogliere contro il suo rivale.

 Perfino il Ministro dell’Educazione Rafi Peretz, del partito di estrema destra Yamina, ha detto di essere “orgoglioso di far parte della cultura delle dabukas”. Il parlamentare di Shas (partito ultraortodosso Mizrahi) Ya’akov Margi ha condannato la “boria” di Hendel e ha detto che gli ebrei Mizrahi vengono da una grande tradizione che include ‘Maimonide, scienza e medicina’. I sionisti cercano, per lo più, di barcamenarsi per non inimicarsi i Mizrahim. Quando però il razzismo è così plateale e disgustoso come nel caso di Hendel, si scivola.

H/t Ronit Lentin, Edith Breslauer

Jonathan Ofir è un musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger/giornalista. Vive in Danimarca.

(Traduzione di Elena Bellini)
Nena news




Rabbini israeliani di accademia militare ripresi in un video mentre lodano Hitler

Jonathan Ofir

30 aprile 2019, Mondoweiss

Ieri il Canale 13 israeliano ha trasmesso delle registrazioni video di rabbini che insegnano nell’ accademia militare Bnei David, sostenuta dallo Stato, che si trova nella colonia di Eli in Cisgiordania. I rabbini elogiano l’ideologia nazista razzista di Hitler come “corretta al 100%”, criticandola solo per il fatto di non essere stata applicata alle persone giuste – cioè, gli ebrei dovrebbero essere la razza superiore e i non ebrei gli “untermenschen” [i subumani, in base alla teoria nazista, ndtr.].

Le affermazioni lasciano senza parole. L’intera trasmissione sottotitolata può essere vista in un video realizzato dal giornalista David Sheen.

Questi insegnanti mandano i giovani nell’esercito e sostengono queste idee da anni. Hanno stretti legami con parlamentari, in particolare con il rabbino Rafi Peretz, ora a capo dell’ “Unione dei partiti di destra”, la nota coalizione con il partito kahanista “Potere Ebraico”, che è attualmente il principale candidato a diventare ministro dell’Educazione. L’accademia è legata anche a una yeshiva [università di studi ebraici, ndtr.], frequentata da molti studenti dopo il servizio militare.

Dovrebbe tornare la schiavitù

Si inizia con il rabbino Eliezer Kashtiel che deplora il fatto che la schiavitù sia stata abolita:

L’abolizione della schiavitù legale ha creato dei problemi. Nessuno è responsabile per quel bene di proprietà. Con l’aiuto di dio essa ritornerà. I goyim (non ebrei) vorranno essere nostri schiavi. Essere schiavo degli ebrei è la cosa migliore. Devono essere schiavi, vogliono essere schiavi. Invece di vagabondare per le strade, fare follie e farsi del male l’un l’altro, adesso sono schiavi, adesso la loro vita incomincia a diventare ordinata.”

In questo contesto per ‘goyim’ bisogna intendere i palestinesi.

Afferma che è a causa del fatto che loro hanno “problemi genetici” e sostiene che vogliono essere sotto occupazione:

Ci sono persone con problemi genetici intorno a noi. Chiedete a qualunque arabo medio dove vuole stare. Vuole stare sotto occupazione. Perché? Perché hanno problemi genetici, non sanno come governare un Paese, non sanno fare niente – guardate in che condizioni si trovano.”

Sì, siamo razzisti

Certamente si tratta di razzismo”, continua Kashtiel.

Forse non sappiamo che vi sono razze differenti? E’ forse un segreto? E’ falso? Che cosa ci si può fare? E’ la verità. Sì, siamo razzisti, crediamo nel razzismo.”

Kashtiel suggerisce che, poiché gli ebrei sono una razza superiore, possono “aiutare” quelle inferiori:

Giusto, ci sono delle razze nel mondo, le nazioni hanno caratteristiche genetiche, quindi noi (gli ebrei) dobbiamo pensare a come aiutarli. Le differenze razziali sono reali e questa è proprio la ragione per offrire aiuto.”

Uno studente chiede al rabbino: “Chi vi dà il diritto di decidere chi è chi?”

Kashtiel: “Posso vedere che le mie capacità sono molto più grandi delle sue.”

L’Olocausto sono l’umanitarismo e il pluralismo

Un altro rabbino, Giora Radler, afferma che l’Olocausto non è ciò che si pensa, non riguarda l’uccisione degli ebrei. Sono l’ umanitarismo e il pluralismo ad ucciderci realmente:

L’Olocausto in realtà non riguarda l’uccisione degli ebrei – quello non è l’Olocausto. Tutte queste giustificazioni che sostengono che si basava sull’ideologia o che è stato un sistema, sono ridicole. Il fatto che avesse una base ideologica, in un certo senso lo rende più morale che non se si trattasse di gente che ha ucciso altra gente senza motivo. L’ umanitarismo, tutta la cultura secolare sul fatto di avere fede nell’umanità, questo è l’Olocausto. L’Olocausto in realtà è essere pluralisti, credere nella ‘fede nell’umanità’. Questo è ciò che si definisce un Olocausto. Il Signore (sia benedetto il suo nome) grida da anni che l’esilio (ebraico) è finito, ma il popolo non lo ascolta, e quella è la sua malattia, una malattia che deve essere curata con l’Olocausto.”

In altre parole, l’Olocausto è avvenuto per dare una lezione agli ebrei – abbandonate il pluralismo, isolatevi nello Stato ebraico e dimenticate la “malattia” della diaspora.

Queste considerazioni sono state fatte durante una lezione intitolata “Riguardo all’Olocausto”.

La logica nazista era giusta

Radler: “La logica dei nazisti era giusta per loro stessi. Hitler dice che un certo gruppo nella società è il seme di tutte le disgrazie per tutta l’umanità, che a causa di ciò tutto il genere umano cadrà nell’abisso, che essi danneggiano l’umanità e perciò devono essere sterminati.”

Radler chiede a uno studente: “Questa ideologia ti sembra illogica? Pessima?”

Lo studente risponde: “Non sembra essere etica”.

Radler: “Mosè era cattivo come Hitler?”

Studente: “No.”

Radler: “Perché no? C’è una sola cosa al mondo che è veramente diabolica, ed è essere ipocrita. C’è differenza per te se ti uccidono con un coltello come hanno fatto ad Agag (il re amalechita che il profeta Samuele ‘ha tagliato a pezzi’) o se ti uccidono in una camera a gas?”

Hitler aveva ragione, “nel giusto al 100%”

Radler continua a parlare di Hitler ed ora aggiunge che la malattia non sono solo il pluralismo e l’ umanitarismo, ma anche il femminismo, e che Hitler aveva assolutamente ragione:

Cominciamo con la domanda se Hitler aveva ragione o no.”

Studente: “No.”

Radler: “(Hitler) è la persona più giusta. Ha senz’altro ragione in ogni parola che dice. La sua ideologia è giusta. C’è un mondo maschio che combatte, che ha a che fare con l’onore e la fratellanza dei soldati. E c’è il mondo debole, etico e femminile (che parla di) ‘porgere l’altra guancia’. ‘E noi (i nazisti) crediamo che gli ebrei portino avanti questa eredità, cercando, nei nostri termini, di guastare l’umanità intera, ed è per questo che sono i veri nemici.’ Ora, lui (Hitler) è al 100% nel giusto, a parte il fatto che stava dalla parte sbagliata.”

Quindi qui Radler sta emulando Hitler, citando le ragioni dei nazisti con approvazione. Secondo Radler l’unico errore dei nazisti è che non sapevano quale fosse la vera razza superiore, e chi fossero realmente gli ‘untermenschen’. I nazisti non potevano avere ragione, perché solo gli ebrei potevano essere superiori. Ma se ora gli ebrei applicassero questa teoria e ideologia della razza ai giorni nostri – cioè essenzialmente riguardo ai palestinesi, allora sarebbero davvero “al 100% nel giusto” – forse addirittura al 101%, perché avrebbero ancor più ragione di Hitler. 

Risposte

Sono parole grosse. Un vero giudeo-nazismo.

I rabbini sono stati contattati per una risposta e hanno cercato di insabbiare tutto come se si trattasse di un malinteso.

Il rabbino Kashtiel ha detto di essere “dispiaciuto e addolorato che una lezione sui diritti umani sia stata intesa all’opposto di ciò che era, un’interpretazione moderno-socialista di schiavitù.”

Il rabbino Radler ha detto che le sue parole sono state “citate fuori dal contesto” e che la lezione sull’Olocausto “cerca di spiegare la logica patologica di Hitler e le ragioni e motivazioni dell’Olocausto.”

Il parlamentare israelo-palestinese Ahmad Tibi ha risposto alla trasmissione: “In Germania sarebbe risultata più autentica.”

Ovviamente anche i politici sionisti israeliani si sono allarmati. Il parlamentare di centro Yair Lapid ha scritto su Twitter:

Questo non è ebraismo. Questi non sono valori. Persone che parlano in questo modo non sono degne di educare i giovani.”

Lapid ha chiesto di sospendere i finanziamenti dello Stato alla yeshiva “finché non verrano espulsi i rabbini razzisti”. Ma qui sorge un problema, perché l’ideologia di Lapid sostiene “il massimo di ebrei sul massimo di terra con il massimo di sicurezza e il minimo di palestinesi” e, benché Lapid ora specifichi che “sono state persone laiche a creare Israele”, in realtà la sua religione è il sionismo ultra-nazionalista e lui è solo la faccia leggermente più presentabile di quel giudeo-nazismo che vediamo provenire da Bnei David.

La leader del partito di sinistra [sionista, ndtr.] Meretz Tamar Zandberg:

L’accademia di Eli avrebbe dovuto essere chiusa da tempo e chiunque permetta che lo sciovinismo, l’omofobia e tutte le altre espressioni di odio che provengono da là portino avanti la follia, non si dovrebbe sorprendere delle orribili espressioni che sono uscite oggi di là.”

Zandberg ha detto di aver fatto richiesta al ministero dell’Educazione di smettere di finanziare l’accademia.

Ma la yeshiva e l’accademia di Eli sono ora strettamente legate al governo. È stato il rabbino capo della yeshiva, Eli Sadan, a fare campagna perché Rafi Peretz diventasse capo dell’ “Unione dei partiti di destra”, ora principale candidato per il ministero dell’Educazione. A Peretz è stato permesso di parlare agli studenti prima delle elezioni, anche quando questo è stato impedito a Naftali Bennett (che finora è stato ministro dell’Educazione) e al primo ministro Netanyahu.

In altri termini, esiste un’intera realtà politica che è ancor più radicale sia di Netanyahu che persino di Bennett, che era considerato di estrema destra, uno che davvero parla di potere ebraico, con uno spirito apertamente fascista, letteralmente nazista. E questa ideologia è in procinto di ottenere un posto centrale nel governo israeliano. 

Non un lapsus

Come sottolinea anche il servizio di Canale 13, ciò che abbiamo ascoltato non è un lapsus:

Queste affermazioni sono state ripetute per anni a Bnei David. Non si tratta di un lapsus, ma di un programma politico.”

E Bnei David non è un’isola. Un’altra vicenda di un insegnante genocida delle forze di sicurezza riguarda il rabbino Dov Lior, della colonia di Kiryat Arba [colonia di fondamentalisti nazional religiosi nei pressi di Hebron, ndtr.], che ha promosso il libro Torat Hamelech (‘La Torah del re’) del 2009, che sostiene l’uccisione dei bambini non ebrei poiché “è chiaro che cresceranno per farci del male”. Lior ha insegnato alle forze di polizia in un progetto speciale per reclute religiose denominato “Credenti nella polizia”. Tra l’altro gli autori del libro provengono dalla ‘Od Yosef Chai Yesiva’ nella colonia di Yitzhar, una yeshiva che è stata finanziata dalla fondazione della famiglia di Jared Kushner ( genero e consigliere di Trump, ndtr.] fino al 2011. Interpretazioni dell’Olocausto come punizione divina per i peccatori sono state espresse dall’ex rabbino capo sefardita Ovadia Yosef, che credeva anche che lo scopo dei non ebrei fosse di servire gli ebrei e paragonava i non ebrei agli asini.

È possibile che la summenzionata divulgazione di opinioni sconvolgenti possa provocare un certo temporaneo e circoscritto turbamento, ma questa ideologia è profondamente radicata e oggi è parte integrante di una fondamentale situazione politica israeliana. E’ chiaro che i rabbini considerano questa attenzione come una seccatura da parte di progressisti senza raziocinio, ed è probabile che la considerino al pari di uno sfortunato ‘Azarya’ – il soldato che tre anni fa è stato filmato mentre uccideva a distanza ravvicinata un palestinese immobilizzato e ha dovuto trascorrere alcuni mesi in prigione. Il problema per i sostenitori di Azarya non era l’assassinio, ma il video. E così queste persone potrebbero trovare il modo per uscire da questo disastro mediatico, ma continueranno a credere nella giustezza della supremazia ebraica.

Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger/scrittore che vive in Danimarca

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Segni di esclusione razziale: razzializzare il colonialismo di insediamento israeliano

Andy Simons

2 aprile 2019 Middle East Monitor

Recensione del libro di Ronit Lentin

Data di pubblicazione : agosto 2018 Editore: Bloomsbury Academic , Paperback : 269 pagine

Nell’accusa politica distorta e ambigua di oggi alcuni principi rimangono immutati. Ronit Lentin, sociologa del Trinity College di Dublino, si è da tempo specializzata nei rapporti razziali e il suo libro scava nelle basi razziste di Israele. Di conseguenza il razzismo collettivo degli ebrei bianchi di Israele supera decisamente ogni confronto.

Un pregio dell’analisi è teoretico, in quanto utilizza gli scritti di Patrick Wolfe, David Theo Goldberg e Giorgio Agamben per vedere come modelli filosofici ed economici facciano leva sulla differenza razziale. Nel suo contesto universitario l’autrice deve mostrare gli esempi accademici nella condanna del sistema legale distorto dei sionisti. Si potrebbe essere tentati di andare a leggere i loro lavori.

Ma, a meno che uno non faccia parte di una università prestigiosa, non si soffermerà su tali libri ed ha il mio permesso di saltare questi passaggi. Perché spaccare il capello in quattro per esprimere una definizione esatta del “colonialismo di insediamento” quando il lettore di questo libro è già al corrente dell’ingiustizia? Fortunatamente in questo volume non ce n’è bisogno perché Lentin ha puntato i riflettori su molteplici luoghi oscuri.

Un altro filone che esplora è quello della storia politica, e in questo ha avuto da molto tempo colleghi quali lo studioso Ilan Pappé che lo scrive chiaramente, citando come lei estrae il razzismo dal profondo del cuore israeliano. La materia prima del razzismo si trova ovunque, da parte dei contabili finanziari come dei compilatori di precedenti giuridici. Per quanto riguarda il sistema giudiziario sionista, ci si chiede perché non crolli sulle sue stesse tremolanti colonne. Il primo “decreto per la protezione del popolo” di Hitler è stato permanentemente applicato al giusto tipo di persone, consentendo che la contraddizione discriminatoria procedesse indisturbata. Questa è una lezione che avrebbe dovuto essere appresa dall’Olocausto ebraico, ma la legittima potenza ebraica ha adottato la stessa fiaccola della superiorità ariana nazista.

Il libro insiste sul fatto che la razza, in politica, deve voler dire cura. In medicina, per esempio, gli ebrei arabi, essendo più scuri di pelle, sono stati maltrattati nel modo in cui un medico nazista infliggeva malattie agli ebrei del campo e come nell’esperimento Tuskegee sui maschi negri in Alabama [dal 1932 al 1972 afroamericani malati di sifilide non vennero curati con la penicillina per poter studiare l’evoluzione della malattia, ndtr.]. Uno dei dottori razzisti israeliani era parente dell’autrice. Riguardo alla cittadinanza, un altro esempio, la “Legge del Ritorno” dello Stato [di Israele] nel 1991 è stata modificata per consentire l’arrivo di un milione di ebrei russi e dei loro familiari non ebrei per incrementare la popolazione bianca di Israele. Vagliando la disciplina dell’“esercito più morale al mondo” [autodefinizione dell’esercito israeliano, ndtr.], è risultato che l’IDF [esercito israeliano] aveva organizzato stupri di massa durante la Nakba e che ci sono crescenti aggressioni sessuali persino nei confronti di donne ebree che oggi fanno il servizio militare per il governo militarista. E riguardo alla geografia, la modalità dello Stato sionista è semplicemente di accerchiare le comunità arabe sulla mappa, ai lati di ogni strada.

Come viene giustificato il razzismo? Già prima del Mandato Britannico [sulla Palestina] gli abitanti arabi erano visti come ‘inferiori’ e la colonizzazione della Palestina necessitava di essere illuminato dal progresso europeo e americano. E il giovane Israele mantenne semplicemente le “Norme di Difesa (Emergenza)” del governo del Mandato, che includevano la maggior parte delle principali perversioni dell’applicazione delle leggi degli ebrei israeliani riguardo agli autoctoni non ebrei, dai processi a civili nei tribunali militari alle efficienti demolizioni di case, alla censura.

I tribunali sionisti si aggrappano a qualunque giustificazione, compresi la stessa Dichiarazione Balfour [con cui nel 1917 il governo britannico si impegnò a favorire la creazione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndtr.], i decreti del Mandato britannico, la risoluzione 181 dell’ONU che riconosceva lo Stato di Israele e persino sentenze della Bibbia. La colonizzazione è considerata un’impresa quasi sacra, in quanto tiene fede alla cosiddetta missione e il modo di vita ebraici, imitando il patriottismo USA come una sorta di religione.

Oltre all’ingegnosa strutturazione delle leggi, c’è sempre l’azione immediata di polizia o esercito. Il caso dell’espulsione dei beduini di Umm al-Hiran del 2017 ha implicato l’intenzionale uso di armi da fuoco contro una comunità disarmata e che non stava protestando. Giornalisti e parlamentari della Knesset sono stati esclusi dalla scena. Due anni prima il villaggio di Al-Araqib era stato demolito e ai suoi abitanti erano stati addebitati dal governo i costi della demolizione! Ciò che rende questo modo di agire più di una semplice prosecuzione della ‘pulizia etnica’ è stata anche la revoca della loro cittadinanza. Questa è stata una punizione perché i beduini non se ne sono andati nel resto del Medio Oriente o non sono semplicemente morti. Non importa che siano stati rinchiusi là dal nuovo Stato militarizzato dopo il 1948.

Il capitolo sul genere deve soddisfare le esigenze della razza, e ci sono forse troppe questioni da presentare. Un aspetto imprevisto è il rapporto d’interesse dello Stato israeliano per il delitto d’onore palestinese, in quanto questo, ovviamente, ne ridurrebbe la comunità.  Ma ci sono troppe tentazioni per l’autrice, determinando una deviazione dal percorso relativo alla discriminazione razziale. La decolonizzazione della Palestina, da parte dei palestinesi o di questi ultimi insieme agli ebrei israeliani, è un indispensabile punto di discussione. Eppure il capitolo sulla teoria della liberazione si allontana dalla vera e propria questione del libro riguardo a ebrei contro i goy [non ebrei] arabi.

Qui buona parte del frutto marcio è raccolto da fonti libere in rete, molte delle quali sioniste. Non ero a conoscenza del fatto che “quasi tutti” i palestinesi cittadini di Israele che hanno espresso critiche su Facebook durante il massacro del 2014 a Gaza [operazione “Margine protettivo”, ndtr.] sono stati interrogati dai servizi di sicurezza dello Stato. E stranamente mi sono perso la dichiarazione di Netanyahu sulla manifestazione razzista-fascista del 2017 a Charlotteville, Virginia [una manifestante antirazzista venne investita e uccisa da un suprematista bianco, ndtr.]: “Riguardo a voi, ebrei americani che avete fronteggiato questi nazisti laggiù – nazisti che odiano voi democratici progressisti, insieme ai vostri amici negri, musulmani, immigrati e gente di sinistra – beh, ve la siete andata a cercare…Arrangiatevi.”

O forse la vostra disapprovazione diventerà permanente leggendo un sondaggio d’opinione Pew [istituto di ricerca Usa, ndtr.] del 2016 secondo cui il 48% degli ebrei israeliani e il 59% degli ortodossi vuole l’espulsione degli arabi. Lentin ci ricorda che il parlamentare prediletto dai coloni, Naftali Bennett, ha reso legittime risposte razziste agli esami. Un ministro dell’Educazione può fare cose del genere, un balsamo per il cosiddetto ‘trauma del colono’, e ottenere pure l’approvazione dell’opinione pubblica.

Quindi uno dei pregi di questo libro sono le molte prove raccolte su internet, incoraggiandovi a fare altrettanto. Utilizzando una serie di piattaforme pubbliche, Lentin lo ha fatto per voi: se siete un attivista antirazzista per i diritti dei palestinesi, questa è una guida per il consumatore che riempirà innumerevoli sacchetti della spesa di ingiustizie basate sulla discriminazione razziale. Se il carrello pieno di orrori di questo libro ha un difetto, è che ve ne si trovano troppi da prendere, ma i sionisti continuano semplicemente a costruire scaffali su cui impilarli.

(traduzione di Amedeo Rossi)