Ezra Nawi, 1952-2021

David Shulman

14 gennaio 2021Touching Photographs

Ezra Nawi. Ebreo di Baghdadi, nato in Israele, parlava correttamente l’arabo. Un uomo come tanti, ma diverso da tutti gli altri

Una di quelle giornate. I coloni hanno bloccato il sentiero che gli alunni prendono per andare a scuola; arrivano soldati e poliziotti, indifferenti. Ci apriamo la strada. La situazione di stallo va avanti per ore; non siamo disposti a desistere. Alla fine qualcuno dice: “È una situazione ormai senza speranza e sta peggiorando.” Ezra dice: “No. È come l’acqua che gocciola su una roccia. Dire la verità è così. Ci vuole tempo, ma alla fine la roccia cede.

Febbraio 2007. Un’altra giornata di demolizioni di case a Umm al-Khair [villaggio palestinese situato nel Governatorato di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndtr.] Ezra si distende a terra davanti ai bulldozer. Lo arrestano e lo ammanettano, e lui dice ai soldati: “Da ciò proverrà solo odio. Una volta anch’io ero un soldato, ma non ho mai distrutto la casa di nessuno. Non lasciate nulla alle vostre spalle se non odio.” Quanto ferocemente detestava l’odio.

Ezra, sempre imprevedibile. Di solito gli veniva in mente un’idea folle alla fine di una lunga giornata sulle colline, proprio mentre stavamo per tornare a casa. Poi, prima che ce ne rendessimo conto, ce ne andavamo con lui attraverso i vicoli della città di Hebron con una jeep di soldati alle nostre spalle. Guidava come James Bond, e devo ammettere che in un certo senso era divertente, a patto di scordare la parte che non lo era. La maggior parte di noi ha ricordi come questo. Una volta è successo sulle colline; una jeep dell’esercito ci si è avvicinata, il che non significa niente di buono, ed Ezra è partito con la sua macchina traballante sopra le rocce e le spine su sentieri appena visibili destinati a capre particolarmente abili. Dopo una ventina di minuti di inseguimento, siamo riusciti a infilarci nella boscaglia, realizzando così ciò che più mi auguravo.

Nel corso dei diciotto anni in cui l’ho conosciuto di solito era in stato di arresto, o sul punto di essere arrestato, o appena rilasciato dal carcere. Inconsapevolmente incarnava il principio gandhiano, o meglio la sua negazione: il modo migliore per sostenere un sistema ingiusto, diceva Gandhi, è obbedire alle sue leggi.

2

Giornate di lavoro, ripulire una grotta a Jinbah, la casa seppellita di una famiglia. Negli anni ’90, e di nuovo nel 2000, l‘esercito ha ricoperto la maggior parte delle grotte in una serie di azioni devastanti. Stiamo procedendo lentamente verso il basso, secchio dopo secchio. Ezra ci osserva divertito. Perde la pazienza. “Lascia che ti mostri come si usa una pala”, dice. Lui sa. Pochi minuti dopo viene alla luce il primo gradino di pietra, l’ingresso della grotta. La rivelazione di un mondo perduto. Quante case sepolte quest’uomo ha liberato dalla terra?

O liberare la strada per Bi’r al-‘Id, pietra dopo pietra. Ci vogliono un’ora o due per rendere percorribile un metro quadrato, forse un po’ di più. Un lavoro pesante, non meno inutile di quello che Sisifo è costretto a compiere ogni giorno. I soldati verranno sicuramente a disfarlo e dovremo ricominciare tutto da capo. È una forma molto particolare di felicità.

Ed Ezra si presenta immancabilmente con falafel freschi nella pita [crocchette a base di ceci col pane arabo, ndtr.] ancora caldi per tutti, [provenienti] dalla sua bancarella preferita nella città di Yatta, nell’Area A [sotto controllo e amministrazione palestinese, ndtr.]. È anche un bravo cuoco. Specialità di Baghdadi, la sera quando ci incontriamo nel suo appartamento per fare i nostri progetti.

Margaret Olin [studiosa e docente di studi delle religioni alla Yale University, New Haven, ndtr.]: “Per favore, aspetta un minuto nel furgone mentre prendo uno spuntino per noi.” Un’ora più tardi, dopo che Ezra ha chiacchierato con tutti quanti attorno alla bancarella, riappare con i falafel. E no, non ero arrabbiata. Conoscere Esdra è stato un onore e una benedizione. E un divertimento. (Margaret Olin) Yatta, 2015.

Ezra viene a sapere che i coloni hanno rapito un pastore e lo trattengono in una delle colonie vicine alla Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndtr.], molto a sud. Egli accompagna me e un altro David sino ad un determinato punto nel mezzo del deserto e dice: “Andate da quella parte. Troverete un altro palestinese su un asino. Seguitelo. Trovate il pastore. ” Poi se ne va, con molte altre cose urgenti da fare.

È mezzogiorno, fa caldo come al solito d’estate in un deserto. Ci dirigiamo verso le colline, saliamo, scendiamo, saliamo. E poi, proprio come previsto, vediamo un uomo su un asino bianco. “Vi stavo aspettando”, dice. “Seguitemi.” Non so se sapete quanto velocemente può correre un asino. In pochi minuti siamo di nuovo soli con il sole, la sabbia e le pietre. Un paio d’ore dopo riemergiamo, senza il pastore rapito, sulla strada principale nord-sud. Nessun segno nemmeno di Ezra.

3

Ezra, Nissim, Maria, Eileen, io. Andiamo a Beit ‘Ummar [città palestinese situata undici chilometri a nord-ovest di Hebron, ndtr.] per portare una copia del mio libro, Freedom and Despair [Libertà e Disperazione], alla famiglia di Isa Sleby, a cui il libro è dedicato. Isa era un amico di Ezra come quasi tutti gli altri a Beit ‘Ummar, ma ancora di più, perché Isa era senza paura, un uomo di pace e di azione. Isa è morto nel 2012.

Ci troviamo con suo figlio ‘Ala, sua madre e un nuovo nipote che Isa non ha mai conosciuto. Non ci sono foto di Ezra quel giorno, non pensavamo che saremmo stati lì, lui aveva a che fare con i soliti casi giudiziari e le condanne con la condizionale che lo minacciavano. Ma ecco che lo vedo con il bambino in braccio. Come un padre o un nonno orgoglioso, come sarebbe stato Isa. La tenerezza che era sempre in lui veniva fuori quando stava vicino ad un bambino. E se un bambino aveva delle ferite o ematomi o dei tagli leggeri, mi chiamava per pulire e fasciare la ferita, e il bambino incrociava le braccia e rifiutava di lasciarsi toccare. Poi Ezra lo convinceva dolcemente, molto lentamente ad aprire le braccia.

Stiamo guidando veloci lungo l’autostrada principale, la strada 60, deserto disabitato su entrambi i lati. È mattina presto. In lontananza, una palla rotola sulla strada. Ezra ferma la macchina; il bambino recupera la palla. Tutto qua. Ma lo so: quella tenerezza era al centro della [sua] durezza, come quando i coloni attaccavano e lui ci gridava: “Non abbiate paura e non scappate”.

Solo con gli ufficiali dell’esercito, o talvolta con la polizia, era diverso. Li disprezzava davvero ed era lieto di farglielo sapere. Per Ezra, ogni ufficiale era inconsapevolmente o (più probabilmente) consapevolmente complice dei crimini.

Uno di loro lo ha citato in giudizio perché Ezra lo ha definito un criminale di guerra. Un altro gli ha fatto causa perché quando l’ufficiale gli ha detto che stava per andare in pensione, Ezra ha citato il proverbio arabo: “Un cane va e un altro cane arriva”. Questo è stato chiamato, tra di noi, il caso del cane. Ce ne sono molti altri. A volte cercavo di convincerlo a mordersi la lingua e smetterla di maledirli, perché ciò quasi sempre comportava altri guai. Di solito fallivo.

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Umm al-Khair, una mattina di primavera, siamo in giro con i pastori, sulla loro terra. Ma i coloni di Carmiel non li vogliono lì, quindi chiamano l’esercito. L’ufficiale ci dice che ci troviamo su “terre demaniali” e dobbiamo andarcene. Gli dico: “Davvero? E se sto percorrendo la via Emeq Refaim a Gerusalemme, che è anche presumibilmente territorio di Stato, devo andarmene se un colono dice che non mi vuole lì? “L’ufficiale resta freddo. Ezra mi prende da parte e dice: “Parla a quei soldati, spiega loro cosa stanno facendo. Conosci le parole, sei un professore, dai loro una lezione.” Capisco che sta temporeggiando e comunque va avanti e si ferma nelle vicinanze, sulle colline. È un altro modo di usare la parola magica “No”, una parola che potrebbe aver inventato Ezra. La parola che usi per sfidare soldati, polizia, sgherri della sicurezza e personaggi simili.

Così inizio con un’introduzione di cinque minuti sulla legge ottomana riguardo alla proprietà terriera, seguita da un’arringa, non eccessivamente dura, sul crimine che i soldati stanno per commettere. Li guardo dritto in faccia, cercando i loro occhi. Sembrano annoiati, tutti tranne uno. Forse qualcosa lo ha toccato. Forse ha improvvisamente visto i palestinesi come esseri umani. O forse si è incuriosito per questi marziani piombati una mattina di Shabbat [sabato in ebraico, nella religione ebraica la festa del riposo, ndtr.] per stare insieme ai pastori. Nel frattempo, grazie a Ezra e al mio ostruzionismo, le capre hanno avuto qualche minuto in più per pascolare.

Quanto segue è di Jyotirmaya Sharma, docente di pensiero politico all’Università di Hyderabad [nell’India meridionale, ndtr.] ed esperto del Mahatma Gandhi. Una giornata di lavoro a Samu’a [città palestinese 12 chilometri a sud di Hebron, ndtr.] che si è conclusa con una violenta carica delle forze speciali Yassam [unità militari israeliane adibite alla sicurezza, specie in caso di manifestazioni o rivolte, ndtr.]: tutti noi stavamo cercando di superare il posto di blocco che le forze di sicurezza israeliane avevano piazzato su quel tratto polveroso a sud di Hebron. Raccoglievo fango e pietre con le mani. Dovevano essere passati solo 10 minuti quando Ezra è venuto da me e mi ha detto: “Hai fatto abbastanza. Hai mostrato la tua solidarietà a noi e alla nostra causa. Ora devi solo stare a guardare. I soldati sono già qui. Potrebbero esserci degli arresti. Sei nostro ospite. Non vogliamo che tu trascorra la notte in una prigione di Gerusalemme o, peggio ancora, in una prigione di Hebron sud.

Bi’r al-‘Id, dopo una giornata passata a pulire i pozzi che l’esercito e i coloni hanno chiuso con pietre e terra. Ezra emerge dalle profondità di un pozzo dove ha lavorato pieno di fango addosso. Pochi giorni fa è stato rilasciato dopo un mese di prigione per aver tentato di impedire ai soldati di demolire quella casa a Umm al-Khair.

Gli chiedo come è andata in prigione. “Akhla … fantastico”, dice; “fortemente raccomandabile.” Questa è la vena gandhiana in lui. Sembra sereno.

“Vedo che ti senti ottimista”, dico.

“Sì. Guardati intorno. Due anni fa non conoscevamo nemmeno il nome di questo posto. Queste persone erano state cacciate dalla loro terra, le case e le terrazze erano state distrutte, i pozzi chiusi. Ora li abbiamo riportati indietro e siamo stati al loro fianco, e li abbiamo aiutati a resistere ai coloni e ai soldati e a non avere paura. Sono qui per restare. Sono a casa. Puoi addestrare le persone in modo che diventino capaci di resistere. Anche poche persone così fanno un’enorme differenza. Alla fine vinceremo. Quindi, ovviamente, sono ottimista. Devi essere anche ottimista, altrimenti perché dovresti stare qui? ” [da Freedom and Despair (2019) di David Shulman]

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Gennaio 2016. Spie della destra vengono infiltrate a Ta’ayush dagli estremisti di Ad Kan [gruppo sionista israeliano noto per l’attività di infiltrazione specie di organizzazioni israeliane di sinistra, ndtr.] Un’operazione sotto copertura organizza una trappola per Ezra, e lui ci cade dentro. Viene arrestato, interrogato per diverse settimane, rilasciato. Sembra che la polizia non riesca a trovare nulla di sufficiente per un’accusa. Alla fine escogitano una ridicola accusa di essere entrato in contatto con le forze di sicurezza palestinesi – ironia della sorte, un crimine sancito dagli accordi di pace di Oslo, l’anatema della destra israeliana. I nostri avvocati dicono che non c’è alcuna possibilità che questa accusa possa restare in piedi in tribunale.

Ma poco dopo il suo rilascio, e probabilmente a causa dei gravi maltrattamenti [subiti], Ezra viene colpito da un ictus. Si riprende, riacquista gran parte della sua motilità, ma chi di noi lo conosce può accorgersi che è cambiato.

Ciònonostante viene con noi a Hebron sud e percorre, a passo più lento, il terreno accidentato della Valle del Giordano; ci sono molti momenti in cui riappare la vecchia scintilla.

11 maggio 2019, Wadi Swaid: Stiamo protestando davanti a un nuovo “avamposto illegale”, uno delle decine. I coloni hanno fatto il loro pranzo di shabbat. I soldati sono arrivati al momento giusto. Vogliono che ce ne andiamo ma non hanno un ordine firmato. Il pomeriggio si trascina. Nel bel mezzo della situazione di stallo, Ezra si presenta con i suoi bastoni da passeggio. Apre una sedia e si siede a pochi metri dalla tenda dei coloni. Si rivolge a loro come sempre con durezza:

“Shabbat shalom [Che sia un sabato di pace, in ebraico, ndtr.], siamo venuti per unirvi a voi per il terzo pasto dello Shabbat, lo seuda shlishit. Ma non noto alcun segno di ospitalità. Quando il nostro padre Abramo aveva ospiti, uccideva una pecora e la cucinava per loro. Questo è ciò che dice la Bibbia. Non sto chiedendo una pecora, ma almeno qualcosina sarebbe gentile.” Sospira. “Le generazioni stanno peggiorando.”

Nell’estate del 2020 Ezra ha un altro ictus e i medici scoprono un tumore al cervello. In autunno segue una serie ulteriore di lievi ictus. Le sue giornate sul campo con i suoi amici sono finite. Alla fine i suoi nemici l’hanno avuta vinta su quest’uomo che ha abbattuto il meschino presupposto su cui poggia l’Occupazione.

Ezra Nawi è morto il 9 gennaio [2021], all’età di 69 anni. Era preparato. Mi ha chiamato due volte per salutarmi. Come al solito ha anche scherzato un po’: “Probabilmente ci rivedremo. Tu sei indiano no, credi nella reincarnazione.” Ho cercato di dirgli che lo amavo e che io, e tutti gli altri, gli eravamo infinitamente grati per quello che ci aveva dato e insegnato. L’ultima volta che l’ho visto, qualche giorno fa, è riuscito ad alzarsi e a camminare, lentamente, da solo. Ci siamo seduti alla luce del sole invernale sulla veranda con le foglie verdi e lui ha detto: “Ho fatto qualcosa di buono nella mia vita”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli avvenimenti dal 29 luglio, quando la Marina israeliana ha assalito la “al-Awada” della Freedom Flottilla, l’ha dirottata e ha deviato verso Israele la sua rotta verso Gaza

dott.ssa Swee Ang, medico di bordo della C

4 agosto 2018

Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza diretta della dottoressa Swee Ang, medico di bordo dell’imbarcazione al-Awad che fa parte della Freedom Flottilla che negli scorsi giorni ha cercato di arrivare a Gaza con un carico di medicinali e per protestare contro l’assedio a cui la Striscia è sottoposta da Israele ed Egitto. Ci pare molto importante dare voce alla sua testimonianza in quanto l’arrembaggio in acque internazionali e la deportazione degli attivisti è stata del tutto ignorata dai media mainstream . Essa dimostra quale sia il comportamento dello Stato di Israele in violazione delle più basilari norme del codice della navigazione e persino del rispetto dovuto a persone ingiustamente imprigionate per aver manifestato solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Era previsto che l’ultima parte del viaggio della “al-Awada” (“La barca del ritorno”) raggiungesse Gaza il 29 luglio 2019. Eravamo pronti a raggiungere Gaza quella sera. C’erano 22 persone a bordo, compreso l’equipaggio, con 15.000 dollari di antibiotici e bende per Gaza. Alle 12,31 abbiamo ricevuto una chiamata persa da un numero che cominciava con +81…In quel momento Mikkal stava al timone dell’imbarcazione. Il telefono ha suonato di nuovo, con il messaggio che stavamo entrando in acque israeliane. Mikkel ha risposto che eravamo in acque internazionali e secondo le leggi del mare avevamo diritto a un passaggio pacifico. L’accusa di aver oltrepassato (le acque territoriali) è stata ripetuta in continuazione mentre Mikkel ripeteva il messaggio che stavamo navigando in acque internazionali. Tutto ciò è continuato per circa mezz’ora, mentre al-Awda era a 42 miglia nautiche dalla costa di Gaza.

Prima dell’inizio di quest’ultimo tragitto abbiamo passato 2 giorni a imparare azioni non violente e ci siamo preparati in anticipo all’arrembaggio israeliano contro la nostra imbarcazione. Le persone più fragili, soprattutto i malati, dovevano sedersi a poppa sul ponte superiore con le mani sul tavolo di coperta. La leader di questo gruppo era Gerd, una grande atleta norvegese di 75 anni, e aveva nel gruppo l’aiuto di Lucia, un’infermiera spagnola.

La gente che doveva organizzare una barriera non violenta per gli israeliani saliti sul ponte e si fossero impadroniti dell’imbarcazione ha formato tre file – due di 3 e una terza di 2 persone, che bloccassero la porta della sala di comando per proteggerla il più a lungo possibile. C’erano staffette tra la sala di comando e la poppa del ponte di coperta. Il capo dell’imbarcazione, Zohar, ed io eravamo ai due estremi del corridoio dei gabinetti, dove scrutavamo l’orizzonte e informavamo tutti di ogni avvistamento di navi da guerra. Ho scherzato con Zohar e gli ho detto: “Siamo la brigata dei gabinetti”, ma credo che Zohar non l’abbia trovato molto divertente. È stata probabilmente una battuta di cattivo gusto, date le circostanze. Io avrei potuto essere utile anche come staffetta e avrei avuto l’accesso ad ogni parte del ponte in qualità di medico di bordo.

Presto abbiamo visto almeno tre grandi navi da guerra israeliane all’orizzonte con 5 o più barche veloci (Zodiac) che sfrecciavano verso di noi. Mentre gli Zodiac si avvicinavano ho visto che avevano a bordo soldati con mitragliatrici e che sulle barche c’erano grandi mitragliatori montati in posizione e puntati contro di noi. Dal mio punto di osservazione il primo soldato israeliano è salito a bordo a livello della cabina, si è arrampicato sulla scaletta dell’imbarcazione verso il ponte superiore. Il suo volto era coperto con un passamontagna bianco e dietro di lui ce n’erano molti altri, tutti mascherati. Erano armati di mitra e con piccole videocamere sul petto.

Immediatamente si sono impadroniti della sala di comando superando la prima fila e torcendo le braccia dei partecipanti, sollevando Sara e scagliandola lontano. Joergen, il capitano, era troppo grosso per essere malmenato, per cui l’hanno colpito con una pistola elettrica prima di toglierlo di mezzo. Hanno attaccato la seconda fila prendendosela con Emelia, infermiera spagnola, l’hanno tolta di mezzo rompendo così la fila. Poi si sono avvicinati alla porta della sala di comando ed hanno colpito con la pistola elettrica Charlie, il primo ufficiale, e Mike Treen, che stavano ostruendo l’ingresso della sala di comando. Anche Charlie è stato colpito. Mike non li lasciava passare nemmeno dopo essere stato colpito agli arti inferiori con il dissuasore elettrico, per cui è stato colpito con la pistola elettrica al collo e al volto. In seguito ho visto Mike sanguinare dalla guancia sinistra. Quando l’ho visitato era semi-cosciente.

Hanno fatto irruzione nella sala di comando rompendo la serratura, hanno forzato il motore per spegnerlo e hanno tolto prima la bandiera palestinese e poi quella norvegese e l’ hanno calpestata.

Poi hanno portato via tutta la gente dalla parte anteriore della imbarcazione attorno alla sala di comando e l’hanno spostata con la forza e l’intimidazione, sbattendola a poppa. Tutti sono stati obbligati a sedersi sul pavimento in fondo, tranne Gerd, Lucy e la gente più debole che era seduta attorno alla tavola sui sedili di legno. I soldati israeliani allora hanno formato una fila, isolando le persone nella parte posteriore impedendo loro di tornare a prua.

Come siamo arrivati a poppa siamo stati tutti perquisiti e ci è stato ordinato di consegnare i nostri telefonini o li avrebbero presi con la forza. Questa parte di ricerca e confisca è stata fatta sotto il comando di una soldatessa. Oltre ai telefonini sono stati portati via anche le medicine e i portafogli. Al momento (4 agosto 2018) a nessuno è stato restituito il telefonino.

Ho visitato Mike e Charlie. Charlie aveva ripreso conoscenza e i suoi polsi erano strettamente legati con lacci di plastica. Mike stava sanguinando da un lato del volto, e ancora non era del tutto cosciente. Le sue mani erano legate molto strette con i lacci, la circolazione nelle dita era interrotta e le sue dita e i palmi delle mani avevano iniziato a gonfiarsi. A questo punto tutte le persone sedute per terra hanno iniziato ad gridare chiedendo che i lacci venissero tagliati. È passata circa mezz’ora prima che gli venissero finalmente tolti.

In quel momento a Charlie, il primo ufficiale, è stata consegnata la bandiera norvegese. Era palesemente arrabbiato mentre diceva a tutti noi che la bandiera norvegese era stata calpestata. Charlie si è arrabbiato più per la bandiera norvegese calpestata che per il fatto di essere stato picchiato e colpito con la pistola elettrica.

I soldati hanno poi iniziato a chiedere del capitano dell’imbarcazione. I ragazzi si son messi a rispondere di essere ognuno il capitano. Alla fine gli israeliani hanno capito che il capitano era Herman e hanno preteso di portarlo nella sala di comando. Herman ha chiesto che qualcuno andasse con lui, e io mi sono offerta. Ma come ci siamo avvicinati alla sala di comando sono stata spinta via e Herman è stato obbligato ad entrare da solo. Divina, la nota cantante svedese, nel frattempo si è liberata dalla poppa ed è andata a prua per vedere attraverso la finestra della sala di comando. Ha iniziato a gridare e piangere: “Basta, basta, stanno picchiando Herman, gli stanno facendo del male.” Non potevamo vedere quello che vedeva Divina, ma sapevamo che era qualcosa di molto allarmante. In seguito, quando Divina ed io eravamo insieme nella stessa cella in prigione, mi ha detto che stavano scagliando Herman contro la parete della sala del timone e lo prendevano a pugni sul petto. Divina è stata portata via a forza e i soldati l’hanno riportata a poppa torcendole il collo.

Io sono stata spinta di nuovo a poppa. Dopo un po’ il motore dell’imbarcazione è partito. Più tardi Gerd mi ha raccontato di essere riuscita a sentire Herman raccontare in prigione al console norvegese che gli israeliani volevano che lui avviasse il motore, minacciando di ucciderlo se non l’avesse fatto. Ma loro non capivano che su quell’imbarcazione, una volta fermato, il motore può essere fatto ripartire solo manualmente nella sala macchine al livello inferiore. Arne, il macchinista, si è rifiutato di far ripartire il motore, per cui gli israeliani hanno portato giù Herman e lo hanno picchiato davanti ad Arne, dicendo chiaramente che avrebbero continuato a picchiarlo se Arne non avesse fatto partire il motore. Arne ha 70 anni e quando ha visto che il volto di Herman diventava livido, ha ceduto e ha fatto partire il motore manualmente. Gerd è scoppiata a piangere raccontando questa parte della vicenda. Gli israeliani hanno poi preso il controllo dell’imbarcazione e l’hanno diretta verso Ashdod.

Quando la barca si è mossa, i soldati israeliani hanno portato Herman all’ambulatorio medico. Ho visitato Herman ed ho visto che soffriva molto, in silenzio ma cosciente, con respirazione spontanea ma molto poco profonda. Il medico dell’esercito israeliano stava cercando di convincere Herman a prendere qualche medicina per il dolore. Herman non ne voleva sapere. Il medico israeliano mi ha spiegato che quello che gli stava offrendo non era una medicina dell’esercito, ma sua personale. Mi ha dato il farmaco in mano in modo che lo potessi controllare. Era una piccola bottiglietta di vetro marrone ed ho immaginato che fosse un qualche tipo di preparazione di morfina liquida, probabilmente equivalente a Oromorph o a Fentanyl. Ho detto a Herman di prenderlo e il dottore gli ha detto di prenderne 12 gocce, dopodiché Herman è stato portato fuori e sdraiato su un materasso a poppa. È stato vegliato dalla gente che lo circondava e si è addormentato. Dalla mia posizione ho visto che respirava meglio.

Una volta sistemato Herman, mi sono concentrata su Larry Commodore, leader nativo americano e ambientalista. È stato eletto due volte capo della sua tribù. Larry ha un’asma lieve e con la situazione di stress il mio timore era che potesse avere un brutto attacco e necessitasse di un’iniezione di adrenalina. Stavo per fargli fare degli esercizi di respirazione profonda. Ma Larry non stava per avere una crisi di asma, era impegnato a parlare con un israeliano con la faccia coperta da un panno nero. Quest’uomo era evidentemente il comandante.

Ho chiesto all’israeliano mascherato il suo nome e ha detto di chiamarsi Field Marshall Ro…Larry ha capito male, pensava che avesse detto di chiamarsi Field Marshall Rommel e si è messo a gridare come potesse, lui israeliano, prendere il nome di un nazista. Field Marshall lo ha smentito e si è presentato come Field Marshall (?) Ronan. Quando ho fatto lo spelling di Ronan mi ha rapidamente corretta dicendo che il suo nome era Ronen, e che lui, Field Marshall Ronen, era il comandante.

I soldati israeliani avevano tutti telecamere addosso e ci hanno filmato tutto il tempo. Ci è stata portata sul ponte una cassetta di panini e pere. Nessuno di noi ha toccato il loro cibo in quanto avevamo deciso di non accettare l’ipocrisia e la carità israeliane. Il nostro cuoco, Joergen, aveva già preparato dei deliziosi biscotti molto calorici e proteici con noci e cioccolato, avvolti in carta stagnola, da consumare se fossimo stati catturati, in quanto sapevamo che sarebbero stati un lungo giorno e una lunga notte. Joergen lo chiamava cibo per il viaggio.

Sfortunatamente, quando stavo per mangiarlo, gli israeliani me l’hanno tolto e l’hanno buttato via. Mi hanno solo detto: “È vietato”. Non ho mangiato niente per 24 ore, perché ho rifiutato il cibo dell’esercito israeliano e non avevo cibo mio.

Mentre navigavamo verso Israele abbiamo potuto vedere la costa di Gaza nella totale oscurità. C’erano 3 piattaforme di petrolio/gas in mare a nord di Gaza. Le luminose fiamme del petrolio che bruciava contrastavano con la totale oscurità in cui i proprietari del combustibile sono obbligati a vivere. Appena al largo di Gaza ci sono i più vasti giacimenti di gas naturale mai scoperti ma del gas naturale dei palestinesi si impadronisce da sempre Israele.

Mentre ci avvicinavamo a Israele, il capo della nostra imbarcazione, Zohar, ha suggerito che iniziassimo a salutarci. Eravamo probabilmente a 2-3 ore da Ashdod. Abbiamo ringraziato il capo della nostra imbarcazione, il nostro capitano, l’equipaggio, il nostro caro cuoco e ci siamo fatti coraggio l’un l’altro [dicendo] che avremmo continuato a fare il possibile per liberare Gaza e anche per portare giustizia in Palestina. Herman, il nostro capitano, che ora cercava di stare in piedi, ha fatto un discorso molto commovente e alcuni di noi sono scoppiati a piangere.

Sapevamo che ad Ashdod ci sarebbero stati i media israeliani e le telecamere. Non saremmo entrati ad Ashdod come disperati perché eravamo stati fatti prigionieri. Così siamo scesi dalla nave scandendo “Free, Free Palestine” lungo tutto il tragitto. Mike Treen, il sindacalista, si era ripreso dal pesante attacco con la pistola elettrica ed ha guidato gli slogan con la sua vociona, e avviandoci abbiamo riempito il cielo notturno di Israele con “Free, Free Palestine”. Lo abbiamo fatto lungo tutto il percorso dall’imbarcazione fin dentro Ashdod.

Siamo arrivati direttamente dentro la zona militare ristretta di Ashdod. Era un’area isolata con molte postazioni. Era stata preparata apposta per noi 22. Si partiva da una zona con il metal detector. Quando sono uscita dal metal detector non mi sono resa conto che si erano tenuti la mia cintura con i soldi. La postazione successiva era per la perquisizione corporale, ed è stato mentre raccoglievo le mie cose dopo essere stata perquisita che mi sono accorta di non avere più la cintura con i soldi. Sapevo di avere circa duecento euro e che stavano cercando di rubarmeli. Ho chiesto che mi venisse restituita e mi sono rifiutata di andarmene dalla postazione finché non l’avessero fatto. Per la prima volta stavo gridando. Sono stata contenta di averlo fatto perché qualcun altro era stato derubato dei soldi. Al giornalista di Al-Jazeera Abdul erano stati sottratti tutte le carte di credito e 1.800 dollari, oltre all’orologio, al telefono satellitare, al telefono personale e alla carta d’identità. Pensava che le sue cose fossero insieme al passaporto, ma quando è stato rilasciato per essere espulso si è reso amaramente conto che l’unica cosa che gli hanno restituito è stato il passaporto. Tutto il denaro e gli altri valori non sono mai stati trovati. Sono semplicemente svaniti.

Siamo passati da un controllo all’altro in questa zona militare ristretta, perquisiti varie volte, le nostre cose sono state portate via, finché tutto quello che ci è rimasto sono stati i vestiti che avevamo addosso con nient’altro che un bracciale con sopra un numero. Ci hanno tolto anche i lacci delle scarpe. A qualcuno di noi è stata data una ricevuta per le cose che gli erano state portate via, ma io non ho avuto nessuna ricevuta. Siamo stati fotografati varie volte e visitati da due dottori. A questo punto sono venuta a sapere che Larry era stato spinto giù dalla passerella, si era ferito a un piede ed era stato mandato in un ospedale israeliano per un controllo. Il suo sangue era sul pavimento.

Quando hanno finito con me avevo freddo e fame, vestita solo con una maglietta e pantaloni. Il mio cibo era stato portato via; l’acqua mi era stata portata via, tutte le mie cose, compresi gli occhiali per leggere, portate via. La mia vescica stava per esplodere ma non mi è stato permesso di andare al gabinetto. In questo stato sono stata portata fuori, dove c’erano due veicoli – cellulari dipinti di grigio. Per terra lì vicino c’era un grande mucchio di zaini e valigie. Ho trovato la mia e sono inorridita perché avevano aperto e perquisito il mio bagaglio e preso quasi tutto – tutti i vestiti, puliti e sporchi, la mia cinepresa, il mio secondo telefonino, i miei libri, la mia Bibbia, tutte le medicine che avevo portato per i partecipanti e per me, i cosmetici. La valigia era parzialmente rotta. Anche il mio zaino era completamente vuoto. Ho avuto indietro due bagagli vuoti tranne che per due grandi magliette da uomo sporche che evidentemente erano di qualcun altro. Mi hanno anche lasciato la maglietta della Freedom Flottilla. Ho immaginato che non avessero rubato la maglietta della Flottilla perché hanno pensato che nessun israeliano avrebbe voluto portare quella maglietta in Israele. Non se la sono presa con Zohar e Yonatan, che stavano orgogliosamente portando le loro. È stato uno shock perché non mi sarei mai aspettata che nell’esercito israeliano ci fossero anche dei ladri. Cos’è diventato il glorioso esercito israeliano della guerra dei Sei Giorni, che il mondo ha tanto ammirato?

Non mi era ancora stato consentito di andare in bagno, ma sono stata spinta nel cellulare, insieme a Lucia, l’infermiera spagnola, e poi dopo qualche tempo portata alla prigione di Givon. Durante il percorso mi sentivo tremare in modo incontrollabile.

La prima cosa che hanno fatto le guardie nella prigione di Givon è stata ordinarmi di andare al gabinetto per liberarmi la vescica. È interessante vedere che sapevano che avevo un disperato bisogno di andarci ma me l’avevano impedito per ore! Siamo state di nuovo controllate con il metal detector e perquisite, e dovevano essere circa le 5 o le 6 del mattino. Lucia ed io siamo poi state messe in una cella in cui stavano già dormendo Gerd, Divina, Sarah ed Emelia. C’erano tre letti a castello – tutti arrugginiti e polverosi.

Divina non aveva ricevuto la dose di medicine, a Lucia era stata rifiutata la sua, gliene era stata data un’altra israeliana che aveva rifiutato di prendere. Divina ed Emelia hanno iniziato subito uno sciopero della fame. I carcerieri erano molto ostili, in cose semplici come negarci la carta igienica e sbattendo in continuazione la porta di ferro della prigione, lasciando sempre accesa la luce della cella e obbligandoci a bere acqua rugginosa dal rubinetto, urlandoci e gridandoci continuamente, sfogando la loro rabbia su di noi.

Le guardie mi chiamavano “Cina” e mi trattavano con totale disprezzo. La mattina del 30 luglio 2018 il vice console britannico è venuto a visitarmi. Qualche persona gentile li aveva chiamati per sapere dove mi trovassi. È stata una benedizione perché dopo mi hanno chiamata “Inghilterra” e c’è stato un netto miglioramento nel modo in cui “Inghilterra” è stata trattata rispetto al modo in cui era stata trattata “Cina”. Mi è venuto in mente che “Palestina” sarebbe stata pestata, e probabilmente uccisa.

Alle 6,30 del mattino del 31 luglio 2018 abbiamo sentito Larry gridare che aveva bisogno di un medico dalla cella degli uomini attraverso il corridoio. Stava evidentemente molto male e piangeva. Noi donne abbiamo risposto chiedendo alle guardie di consentirmi di andare a vedere Larry in quanto potevo aiutarlo. Abbiamo gridato: “Abbiamo un dottore”, e usato i nostri cucchiai di metallo per colpire le sbarre di ferro della cella e richiamare la loro attenzione. Hanno mentito dicendo che il loro medico sarebbe arrivato entro un’ora. Non gli abbiamo creduto ad abbiamo ricominciato. Il dottore in realtà è arrivato alle 4 del pomeriggio, circa 10 ore più tardi e Larry è stato portato direttamente all’ospedale.

Nel frattempo, per punire le donne per aver sostenuto la richiesta di Larry, hanno ammanettato Sarah e messo Divina e me in un’altra cella per separarci dalle altre. Ci è stato detto che non ci sarebbe stato permesso di avere i 30 minuti d‘aria fresca e un bicchiere di acqua pulita nel cortile. Ho sentito Gerd dire “Grosso guaio”.

Improvvisamente Divina è stata portata fuori con me in cortile e le sono state date 4 sigarette, al che è scoppiata in lacrime. Divina aveva lavorato molte ore nella sala di comando manovrando l’imbarcazione. Aveva visto quello che era successo a Herman. La prigione aveva rifiutato di darle una delle sue medicine e le aveva dato solo metà della dose dell’altra. Era ancora in sciopero della fame per protestare contro il nostro sequestro in acque internazionali. Spezzava il cuore vedere Divina piangere. Uno dei guardiani che ha detto di chiamarsi Michael ha cominciato a dirci di come deve proteggere la sua famiglia contro quelli che vogliono cacciare gli israeliani. E di come i palestinesi non vogliano vivere in pace… e che non era colpa di Israele. Ma le cose sono improvvisamente cambiate con l’arrivo di un giudice israeliano; hanno trattato tutti con una certa decenza, benché lui avesse visto personalmente solo qualcuno di noi. Il suo compito era di dirci che il tribunale sarebbe stato convocato il giorno seguente, che ogni prigioniero avrebbe avuto un orario di comparizione, e avremmo dovuto avere un avvocato con noi al momento di comparire [in tribunale].

Alla fine della giornata Divina era ormai molto intontita e malmessa, per cui l’ho convinta a smetterla con lo sciopero della fame; ha anche accettato di firmare un ordine di espulsione. Poco dopo, penso intorno alle 6 del pomeriggio, dato che non avevamo né orologi né telefonini, ci è stato detto che Lucia, Joergen, Herman, Arne, Abdul di Al Jazeera ed io saremmo stati espulsi entro 24 ore e saremmo stati immediatamente portati nella prigione per le espulsioni a Ramle, nei pressi dell’aeroporto Ben Gurion, per attendere lì. Sarebbe stata la stessa prigione di Ramle da cui sono stata espulsa nel 2014. Ho visto le stesse cinque vecchie e forti palme ancora in piedi alte e fiere. Sono le uniche sopravvissute del villaggio palestinese distrutto nel 1948.

Arrivati alla prigione di Ramle, Abdul ha scoperto con orrore che i suoi soldi, le sue carte di credito, il suo orologio, il suo telefono satellitare, il suo telefonino personale e la sua carta d’identità erano persi – era completamente rovinato. Abbiamo fatto una colletta e raccolto circa cento euro come contributo per pagare il costo del percorso in taxi dall’aeroporto a casa sua. Come può l’esercito israeliano essere così corrotto e spietato da derubare qualcuno di tutto?

Conclusione:

Noi, le sei donne a bordo della al-Awda, abbiamo imparato che loro hanno cercato di umiliarci completamente e di disumanizzarci in ogni modo possibile. Siamo anche rimaste scioccate dal comportamento dei soldati israeliani, da ladruncoli, e del trattamento delle prigioniere internazionali. Carcerieri maschi entravano continuamente nella cella delle donne senza avere la decenza di informarci perché ci mettessimo i vestiti.

Ad ogni passaggio hanno anche fatto in modo di ricordarci la nostra vulnerabilità. Sappiamo che avrebbero preferito ucciderci ma naturalmente la pubblicità derivante da ciò sarebbe stata negativa per l’immagine internazionale di Israele.

Se fossimo state palestinesi sarebbe stato molto peggio, con aggressioni fisiche e probabilmente perdita della vita. La situazione per le palestinesi è certo molto peggiore.

In merito alle acque internazionali, sembra che non esista niente di simile per la Marina israeliana. Possono assaltare e sequestrare imbarcazioni e persone in acque internazionali e farla franca. Hanno agito come se pensassero di essere proprietari del Mar Mediterraneo. Possono sequestrare qualunque barca e rapire qualunque passeggero, metterlo in prigione e criminalizzarlo.

Non possiamo accettarlo. Dobbiamo alzare la voce, protestare contro questa illegalità, oppressione e brutalità. Eravamo assolutamente disarmati. Il nostro unico crimine secondo loro è che siamo amici dei palestinesi e vogliamo portare loro assistenza medica. Abbiamo voluto sfidare il blocco militare per farlo. Non è un delitto. Durante la settimana che abbiamo navigato verso Gaza, a Gaza hanno ucciso 7 palestinesi e ne hanno feriti più di 90 con pallottole vere. Hanno ulteriormente ridotto il combustibile ed il cibo per Gaza. A Gaza due milioni di palestinesi vivono senza acqua potabile, con elettricità solo per 2-4 ore, in case distrutte dalle bombe israeliane, in una prigione bloccata da terra, cielo e mare da 12 anni. Dal 30 marzo gli ospedali di Gaza hanno curato più di 9.071 feriti, 4.348 colpiti dalle armi di un centinaio di cecchini israeliani mentre stavano organizzando manifestazioni pacifiche all’interno dei confini di Gaza, sul loro territorio. La maggior parte delle ferite da arma da fuoco erano agli arti inferiori e con strutture sanitarie prive di mezzi gli arti dovranno essere amputati. In questo periodo più di 165 palestinesi sono stati colpiti a morte dagli stessi cecchini, compresi medici e giornalisti, minori e donne. Il persistente blocco militare di Gaza ha privato gli ospedali di ogni approvvigionamento chirurgico e medico. Questo massiccio attacco contro la Freedom Flottilla disarmata che portava amici e qualche aiuto sanitario è un tentativo di distruggere ogni briciolo di speranza per Gaza. Mentre scrivo sono venuta a sapere che anche la nostra Flottilla sorella, “Freedom”, è stata rapita dalla Marina israeliana in acque internazionali.

Ma non ci fermeremo, dobbiamo continuare ad essere forti per portare speranza e giustizia ai palestinesi, essere pronti a pagarne il prezzo ed essere degni dei palestinesi. Finché vivrò esisterò per resistere. Non farlo sarebbe un delitto.

(traduzione di Amedeo Rossi)