Rifugiati: l’”accordo del secolo” di Trump è destinato al fallimento

Mustafa Abu SneinehChloé Benoist

19 giugno 2019 – Middle East Eye

La proposta segue lo stesso percorso di altri inutili negoziati del passato e minaccia lo status di milioni di palestinesi

In un conflitto centrato sulla relazione tra terra e popolo, la questione dei rifugiati palestinesi è stata il punto su cui sin dall’istituzione dello Stato di Israele si sono incagliati gli sforzi diplomatici – e sembra che il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump non faccia eccezione a questa regola.

Israeliani e palestinesi hanno sempre aspramente dissentito su chi sia un rifugiato, su quali diritti abbia e su quale dovrebbe essere il suo destino a lungo termine, visto che gli innumerevoli tentativi da parte della comunità internazionale di raggiungere un consenso sulla questione hanno sempre fallito.

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L’ultima proposta, questa volta da parte dell’amministrazione Trump, sembra non solo orientata al fallimento proprio come i negoziati precedenti, ma addirittura fondata sul tentativo di eliminare completamente il problema dei rifugiati.

A milioni in tutta la regione

Circa 750.000 palestinesi sono fuggiti o sono stati cacciati con la forza dalle loro case da gruppi paramilitari ebrei nel 1948 alla nascita dello Stato israeliano.

Secondo i dati delle Nazioni Unite all’epoca quel numero corrispondeva a più della metà della popolazione palestinese. A settant’anni da quel moderno esodo, quasi 5,5 milioni di quei palestinesi e dei loro discendenti sono registrati come rifugiati presso le Nazioni Unite.

Circa 2,2 milioni di rifugiati vivono in decine di campi profughi tra la Cisgiordania e Gaza occupate, mentre la maggioranza degli altri vive nei paesi confinanti di Giordania, Libano e Siria.

Il “diritto al ritorno” per i palestinesi sfollati a causa del conflitto è stato stabilito nella risoluzione 194 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1949 e ribadito dalla stessa istituzione in un’altra risoluzione nel 1974, che ha definito la sua attuazione “indispensabile per la soluzione della questione palestinese”.

È sostenuto da altre risoluzioni e convenzioni internazionali, che affermano in modo più generale il diritto delle popolazioni al ritorno nella propria patria.

La lotta per il diritto al ritorno

Ma il diritto al ritorno è stato a lungo considerato da Israele come una minaccia demografica alla sua auto-identificazione come Stato ebraico. Secondo i dati della Banca Mondiale la popolazione di Israele nel 2017 era di 8,7 milioni, di cui circa il 20% cittadini palestinesi di Israele.

Di conseguenza, la posizione di Israele nei negoziati è improntata al rifiuto di accettare la potenziale prospettiva di milioni di palestinesi che ritornano alle proprie case.

Gli accordi di Oslo del 1993 istituirono l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) come organismo governativo ad interim, con l’obiettivo dichiarato di creare uno Stato palestinese indipendente entro la fine del secolo.

L’accordo prevedeva il raggiungimento di una soluzione permanente del conflitto entro cinque anni, dopo di che un accordo su questioni di “status finale” – come gli insediamenti israeliani, il destino di Gerusalemme e dei rifugiati – sarebbe stato presumibilmente concluso durante una seconda fase dei negoziati.

Ma quando nel 1999 si arrivò alla scadenza dei cinque anni, tutti i tentativi di raggiungere un accordo permanente erano falliti.

Tra il 2000 e il 2001, quando l’allora presidente americano Bill Clinton cercò di raggiungere un nuovo accordo durante i vertici di Camp David e Taba, la posizione israeliana oscillò.

A Camp David, il famoso ritiro presidenziale nel Maryland, l’allora capo dello staff israeliano, Gilead Sher, scrisse che i negoziatori israeliani avevano chiaro come qualsiasi accordo che consentisse ai rifugiati di ritornare avrebbe previsto nientemeno che 100.000 persone.

Fu anche discussa l’istituzione di un fondo internazionale tra i 10 e i 20 miliardi di dollari per aiutare i rimanenti rifugiati a reinsediarsi permanentemente nei Paesi di accoglienza – lo scenario preferito da Israele.

Ma quando le parti si incontrarono di nuovo sei mesi più tardi nella località egiziana di Taba, gli israeliani cercarono di far abbandonare del tutto l’ipotesi.

In una riunione di gabinetto in vista del vertice di Taba, il governo israeliano affermò che una delle sue posizioni imprescindibili nei colloqui era che “Israele non permetterà mai ai rifugiati palestinesi il diritto di tornare nello Stato di Israele”.

I negoziatori discussero dei risarcimenti ai rifugiati palestinesi, ma di nuovo non fu possibile raggiungere alcun accordo. I negoziatori palestinesi discutevano la restituzione e il risarcimento in base a valutazioni legate alle proprietà [perse dai profughi e che si trovavano nel territorio diventato israeliano, ndtr.], mentre gli israeliani discutevano del risarcimento solo nei termini di una somma fissa.

I summit di Camp David e Taba si svolsero in tempi molto vicini alle elezioni statunitensi e israeliane, ciò che condannò i colloqui a non raggiungere mai una conclusione positiva.

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Nel 2004, Tzipi Livni, all’epoca ministro israeliano per l’Integrazione degli Immigrati e politicamente di centro, aveva convinto il presidente degli Stati Uniti George W. Bush a far proprio il totale rifiuto di Israele del diritto al ritorno – una posizione intransigente, che in seguito il Segretario di Stato americano Condoleeza Rice disse come l’avesse colpita in quanto ” strenua difesa della purezza etnica dello Stato israeliano”.

Israeliani e palestinesi hanno continuato a dissentire sulla questione dei rifugiati nei successivi importanti colloqui di pace avviati dal 2013 al 2014 dal Segretario di Stato americano John Kerry.

Netanyahu ha respinto il diritto al ritorno dei palestinesi e ha posto come requisito per la pace il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, ma il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha rifiutato, sostenendo che questo avrebbe compromesso le rivendicazioni dei profughi palestinesi di tornare alle loro case.

L’ UNRWA nel mirino

Adesso, il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, insieme alla sua decisione di porre fine ai finanziamenti statunitensi per l’UNRWA, l’UN Relief and Works Agency (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro) che sostiene i milioni di profughi palestinesi, sembra essere un tentativo di rimuovere completamente il problema dal tavolo dei negoziati.

Creato dalle Nazioni Unite nel dicembre 1949 come organizzazione temporanea, da allora l’UNRWA ha fornito istruzione, assistenza sanitaria, infrastrutture e servizi di soccorso di emergenza ai palestinesi sfollati, oltre a dare lavoro a migliaia di persone nei territori occupati.

Operando in Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Gaza, l’UNRWA vede il suo mandato rinnovato ogni tre anni ed è finanziato quasi interamente da contributi volontari degli Stati membri delle Nazioni Unite, tra cui gli Stati Uniti, che sono stati per decenni il maggior donatore.

Lo scorso agosto si è saputo che Trump intendeva cambiare la politica degli Stati Uniti nei confronti dei rifugiati palestinesi in modo che i discendenti degli sfollati del 1948 e della guerra arabo-israeliana del 1967 non venissero calcolati.

Ciò ridurrebbe il numero a circa 500.000, ossia a circa un decimo del numero attualmente riconosciuto e supportato dall’UNRWA.

Ciò ha anche portato Washington ad allinearsi ad Israele, che sostiene che ereditare lo status di rifugiato, dalla prima generazione di palestinesi sfollati ai loro discendenti, vale solo per i palestinesi e di per sé “perpetua il conflitto”.

Accogliendo con favore la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che gli Stati Uniti “hanno fatto qualcosa di molto importante bloccando i finanziamenti per l’agenzia di perpetuazione dei rifugiati nota come UNRWA”.

“Sta finalmente iniziando a risolvere il problema. I fondi devono essere presi e utilizzati per aiutare veramente a reinserire i rifugiati, il cui numero reale è una frazione del numero indicato dall’UNRWA “, ha detto. “Questo è un cambiamento molto positivo e importante, e lo sosteniamo.”

Netanyahu ha anche sottolineato le differenze tra le definizioni di rifugiato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’UNRWA, e ha chiesto all’UNHCR di assumere gradualmente il mandato dell’UNRWA.

La definizione dell’UNHCR esclude dallo status di rifugiato chiunque abbia successivamente acquisito la cittadinanza di un altro Paese, mentre l’UNRWA conta come rifugiati anche quanti abbiano un’altra cittadinanza e i discendenti della prima generazione sfollata dalla propria terra.

L’UNRWA ha ripetutamente smentito le accuse di trattamento speciale per i rifugiati palestinesi e ha addossato direttamente la responsabilità della continua crisi dei rifugiati all’inconcludente processo di pace.

Perché Trump perseguita i rifugiati?

Nel frattempo, l’interruzione dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha proiettato ulteriore incertezza e scompiglio nel futuro di milioni di palestinesi in tutta la regione.

Trump ha sostenuto che gli Stati Uniti hanno elargito grandi contributi finanziari ai palestinesi senza ottenerne abbastanza “apprezzamento o rispetto” – sottintendendo che i tagli agli aiuti siano un mezzo per esercitare pressioni sui leader palestinesi nei negoziati del piano di pace detto “accordo del secolo”.

Nonostante le risoluzioni e le convenzioni internazionali che hanno posto la questione dei rifugiati, per lo più i passati colloqui di pace non hanno affrontato in modo concreto il destino dei palestinesi in esilio.

Alcuni vedono quindi lo smantellamento dell’UNRWA da parte di Trump e le sue pressioni per rimuovere la maggioranza dei palestinesi dalla lista dei rifugiati come parte di un piano per portare a termine un accordo in cui uno dei principali punti controversi nella precedente serie di colloqui sia semplicemente rimosso dalla discussione.

Tuttavia, alcuni osservatori hanno sottolineato che la lunga storia statunitense di finanziamento dei palestinesi è perfettamente in linea con il suo sostegno a Israele.

Sostengono che l’esternalizzazione degli aiuti umanitari, ad organizzazioni internazionali e a potenze mondiali, ha permesso a Israele di sganciarsi dalla sua stessa responsabilità come potere occupante di provvedere alle popolazioni civili sotto il suo controllo, come definito dal diritto internazionale.

Queste preoccupazioni sembrano essere condivise da alcuni dirigenti israeliani. A settembre, è stato riferito che i responsabili della sicurezza israeliana hanno sollecitato il loro governo a trovare una fonte alternativa per gli aiuti a Gaza nel timore che la fine dei finanziamenti dell’UNRWA potesse portare a un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria nell’enclave e ad un’eventuale guerra.

Il precipitoso calo degli aiuti, quindi, potrebbe ritorcerglisi contro – poiché i profughi palestinesi, la maggior parte dei quali continua a resistere con fermezza nella speranza di tornare in patria, potrebbero avere ora ancora meno da perdere.

(traduzione di Luciana Galliano)




Intervista al Coordinatore della Grande Marcia per il diritto al Ritorno

Patrizia Cecconi

23 febbraio 2019, Pressenza

Il 22 febbraio si è svolto a Milano un incontro pubblico con l’avvocato Salah Abdel Ati, residente a Gaza, che ha portato la sua testimonianza sulla Grande Marcia del Ritorno e sulla situazione nella Striscia.

Alla fine dell’incontro Patrizia Cecconi ha fatto alcune domande all’avvocato S. A. Ati che riteniamo interessante proporre anche nel nostro sito. L’articolo integrale con la cronaca della serata milanese è stato pubblicata su Pressenza.

D. Lei è un giovane avvocato ma ha già molti anni di esperienza nelle lotte per i diritti umani in Palestina. Vuole raccontarci un po’ della sua vita a Gaza?

R. Veramente non sono tanto giovane, ho 44 anni e due dei miei quattro figli sono già all’università. Il ragazzo studia ingegneria e la ragazza è al primo anno di farmacia. Noi vogliamo che i nostri figli studino e tutte le famiglie a Gaza vogliono questo. Non tutti però possono date le condizioni economiche, ma la percentuale di iscritti all’Università, maschi e femmine, è molto alta. 

D. Lei fa parte delle famiglie arrivate a Gaza in seguito alla cacciata dovuta alla Nakba o è originario della Striscia? 

R. Sono uno di quel 75% di gazawi che vive in un campo profughi in quanto la mia famiglia è arrivata a Gaza dopo essere stata cacciata dalla Palestina storica. Da allora viviamo nel campo profughi di Jabaliya, al nord della Striscia.

D. Jabaliya è il luogo da cui partì la prima intifada, cioè la rivolta delle pietre, come venne chiamata, dopo l’uccisione di alcuni palestinesi investiti da un camion dell’esercito israeliano nel dicembre del 1987, è così? 

R. Sì, la rivolta partì da Jabaliya. La situazione era già carica e quella fu l’occasione che fece esplodere la rabbia palestinese. Inoltre, il giorno dopo l’investimento, gli israeliani spararono, uccidendolo, a un bambino che aveva lanciato delle pietre e da Jabaliya la rivolta si allargò e si espanse in tutti i territori occupati. Io ero un ragazzino e, come tutti gli altri ragazzini, partecipai alla rivolta. La mia gamba destra porta ancora i segni lasciati da Israele. 

D. Durante e dopo la prima intifada si occupò di politica in modo sistematico o rimase nelle fila della rivolta spontanea?

R. Mi occupai di politica. Entrai nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e venni eletto rappresentante degli studenti. Sono rimasto nel Fronte popolare fino ad alcuni anni fa. 

D. Il PFLP ha sempre rappresentato l’anima laica e di sinistra della Palestina, è vero?

R. Sì, il PFLP è stato il primo partito ad avere delle donne tra i suoi massimi dirigenti, però ora non faccio più parte dell’organizzazione politica, ma continuo a svolgere le attività in cui ho sempre creduto e per le quali ho lavorato anche nel Fronte Popolare.

D. Per esempio?

R. Per esempio la formazione politica e sociale dei giovani, i tavoli di formazione e di dialogo con le donne. Lo studio dei diritti umani e le violazioni che Israele, ma anche le autorità che governano la Palestina, sebbene in forma e numero diversi, commettono. Tutti i programmi che svolgiamo nel sociale. Insomma tutto ciò che dovrebbe preparare alla vita in una società libera, quella per la quale lavoriamo e per la quale abbiamo iniziato l’esperienza della Grande Marcia del Ritorno.

D. Lei è coordinatore per gli aspetti legali della Grande Marcia del Ritorno. Ci può dire come e da chi è nata l’idea di questa marcia che finora ha visto circa 250 martiri e oltre 25.000 feriti? E chi realmente la porta avanti? Le faccio questa domanda perché i nostri media, a parte quelli “di nicchia” ne parlano come di un progetto imposto da Hamas alla popolazione gazawa. Un progetto crudele che manda a morire tanti innocenti. 

R. No, non è un progetto di Hamas. Io ho molti contatti con l’Occidente e so bene come vengono manipolate le notizie. Intanto diciamo che in questo modo la colpa delle uccisioni non si dà agli assassini ma si scarica su una parte della società gazawa, quella che ne rappresenta il governo di fatto. Hamas può essere accusato di restrizioni e di una visione reazionaria rispetto ai valori della sinistra laica, ma non può essere accusato degli omicidi israeliani. Israele uccide manifestanti inermi, si è accanita su due dei giornalisti più competenti e conosciuti anche all’estero, due reporter che mandavano foto inequivocabili alle agenzie internazionali. Non è un caso. I suoi cecchini colpiscono il personale sanitario mentre presta soccorso. Sparano sui bambini. Sono tutti crimini contro l’umanità e se il diritto internazionale non sanziona Israele per questi numerosi e continui crimini, Israele continuerà a commetterli e queste violazioni peseranno anche sulle vostre democrazie. Comunque la grande marcia non è un progetto di Hamas, ma il movimento di Hamas partecipa, al pari di membri di Fatah, del Fronte Populare, del Fronte Democratico, degli altri movimenti politici e delle organizzazioni della società civile che hanno aderito in grande numero alla marcia.

D. Le ripeto la domanda che le avevo fatto e alla quale già mi ha risposto, ma solo in parte. Abbiamo capito che non è nata da Hamas e che non è governata da Hamas, ma come è nata l’idea della Grande Marcia?

R. È nata alla fine del 2017 discutendo sulla situazione che ci vede schiacciati sotto l’assedio. Acqua quasi totalmente non potabile, elettricità somministrata a piacere di Israele tre, quattro ore a caso durante il giorno o la notte col chiaro intento di rendere più difficile possibile la vita dei gazawi. Campi continuamente distrutti o dalle ruspe o dagli aerei che spargono diserbanti. Bombardamenti israeliani a piacere. Disoccupazione altissima. Salari tagliati anche dall’Anp. Il grado di esasperazione dei giovani e degli adulti che si alterna a fenomeni di depressione per mancanza di futuro. Insomma una situazione insostenibile. Discutendo veniva fuori che in questi 70 anni in tutta la Palestina e, in particolare, in questi 12 anni di assedio a Gaza, nessuna lotta è mai riuscita vincente. 

La resistenza è un nostro legittimo diritto ma né la resistenza armata, né la non violenza hanno mai portato all’ottenimento dei diritti spettanti al nostro popolo. Allora abbiamo pensato, discutendo e anche litigando, che un vero movimento popolare, un movimento di massa, senza uso di violenza, avrebbe potuto aiutarci ad ottenere quel che ci è dovuto. Abbiamo pensato che un diritto riconosciutoci dall’ONU già nell’anno della Nakba rappresentava tutti i palestinesi, la Risoluzione 194, cioè il nostro diritto al ritorno nelle terre, nelle case da cui siamo le nostre famiglie sono state cacciate. Così abbiamo pensato, organizzandoci in comitati, a organizzare questa grande marcia, ricreando lungo il confine dell’assedio, gli accampamenti in cui le tende portavano il nome dei villaggi e delle città da cui siamo stati cacciati. Sarebbe stato un grande movimento e forse il mondo delle istituzioni ci avrebbe finalmente dato ascolto. La grande marcia non vuole divisioni tra fazioni politiche e questo è un altro nostro importante obiettivo. 

D. Ma non avete messo in conto che Israele avrebbe potuto fare una carneficina? 

R. Israele ci ammazza ogni giorno e il mondo sta in silenzio. I nostri giovani hanno ideato il fumo nero degli pneumatici per coprire la vista ai cecchini, ma il mondo non ferma Israele, anzi lo protegge e addirittura abbiamo letto sui vostri giornali che i nostri giovani sono violenti perché incendiano gli pneumatici! Il nostro popolo ama la vita, non vuole morire, ma la morte è messa in conto. Lei ha visto durante la proiezione dei filmati [presentati durante l’incontro di Milano] che abbiamo adottato la vostra canzone “Bella ciao”? Ebbene l’ultima strofa della vostra canzone è quella che ci porta a lottare a rischio della vita, morire per la libertà. 

D. Caro avvocato, è eroico e mi azzarderei a dire commovente quel che mi sta dicendo, ma il mondo delle istituzioni non sembra capirlo.

R. È per questo che sto facendo questo viaggio. Domani sarò a Bruxelles perché abbiamo bisogno di lobbies politiche che ci aiutino a imporre a Israele le giuste sanzioni secondo la normativa giuridica internazionale. Senza sanzioni che costringano Israele al rispetto dei diritti umani non ci saranno né giustizia né pace. 

D. Lei a Gaza dirige il centro Masarat, giusto? Qual è l’attività di questo centro?

R. Il Masarat – Palestinian Center for Policy Research & Strategic Studies  segue una filosofia di apertura in tutte le direzioni e l’obiettivo prioritario su cui stiamo lavorando da molti anni è quello di raggiungere la riconciliazione tra le due fazioni più importanti, i cui leader governano rispettivamente la Cisgiordania (Fatah) e la Striscia di Gaza (Hamas). Noi siamo convinti che senza unificazione tra tutte le forze politiche non ci sarà alcuna possibilità di battere l’occupazione. Sul fronte interno, dal punto di vista politico, lavoriamo per questo. Sul fronte esterno lavoriamo per ottenere il rispetto dei diritti umani da parte di Israele, ma se cogliamo violazioni dei diritti umani da parte delle autorità palestinesi non esitiamo a denunciarle e a chiedere che vengano ripristinati i diritti violati. Recentemente abbiamo denunciato come violazione dei diritti umani anche il taglio degli stipendi agli impiegati di Gaza da parte dell’ANP.

D. Questo tipo di denunce non può acuire le distanze tra Fatah e Hamas?

R. No, perché noi non denunciamo per conto dell’una o dell’altra fazione politica, ma in nome del rispetto del popolo palestinese che è un dovere rispettare, quale che sia l’orientamento politico dei singoli cittadini. Noi abbiamo un programma con obiettivi precisi e strategie precise. Critichiamo i comportamenti che ledono il popolo palestinese e sono quelli che acuiscono le intolleranze politiche. Il nostro obiettivo finale è la fine dell’occupazione perché è da questa lunghissima occupazione che genera la corruzione, l’esasperazione e sfiducia.

Abbiamo un numero altissimo di diritti riconosciuti sulla carta ma mai applicati. Domani a Bruxelles, dove speriamo di poter avere presto una sede, e nei giorni successivi a Ginevra (Commissione dei diritti umani) andrò con questo compito, quello di segnare un passo concreto verso la fine dell’occupazione.

D. E se l’obiettivo interno per cui lavorate da anni non si realizzerà?

R. Se si realizzerà avremo una chance, non la certezza, ma una chance di abbattere l’occupazione. Se invece non si realizzerà resteremo in una situazione continuamente precaria, Israele seguiterà a mangiarsi la Cisgiordania e seguiterà lo stillicidio di vite palestinesi sia lì che a Gaza. Ma a Gaza potrebbe anche prendere forma la sempre minacciata nuova guerra di aggressione, e allora non sarà solo Gaza a pagarne le conseguenze. Noi vogliamo l’unificazione, ma sappiamo che in realtà non abbiamo delle leadership democratiche. In Palestina abbiamo delle figure di grande intelligenza, ma non si riesce a uscire dalla logica del personalismo, mentre avremmo bisogno di una struttura democratica. Noi lavoriamo per questo ed è per questo che operiamo in tutte le direzioni che poi è il significato che ha il nome dell’associazione che presiedo, “Masarat”, cioè “in ogni direzione”.

D. Vorrei farle un’ultima domanda. Vedo che ormai è notte fonda e domattina presto dovrà partire, ma può dirmi cosa pensa dei Paesi arabi rispetto alla situazione di Gaza e della Cisgiordania?

R. Sarò necessariamente sintetico. I Paesi arabi sono l’essenza della conflittualità poliedrica. Prendiamo ad esempio il Qatar. Il Qatar ha interessi sia in Cisgiordania che nella Striscia, offre finanziamenti, ricostruisce interi quartieri distrutti dai bombardamenti ma, al tempo stesso, collabora con Israele. Questa è una situazione che in modo più o meno evidente ritroviamo in quasi tutti i Paesi arabi. Non abbiamo altri alleati credibili che noi stessi, per questo il nostro obiettivo è l’unità dei palestinesi e quindi la riconciliazione. 

D. Bene, la ringrazio e le auguro buona fortuna a Bruxelles e a Ginevra.

R. Vorrei chiudere affidandole un messaggio per il popolo italiano. Al popolo italiano vorrei dire: potete sostenerci boicottando Israele affinché capisca che la società civile non sostiene i suoi crimini, e potete sostenerci chiedendo alle vostre istituzioni di esprimersi a favore della nostra causa, cioè a favore della giustizia.

 




C’è un complotto per spopolare i campi di rifugiati palestinesi in Libano?

Ramzy Baroud

19 dicembre 2018, Foreing Policy Journal

Ai rifugiati palestinesi in Libano vengono negati i diritti umani fondamentali e molti avrebbero perso le speranze di tornare nella terra d’origine come via di scampo

Ogni tanto su Facebook spunta fuori un inquietante video composto dall’audio di una preghiera registrata e dalla foto di un tal ‘Hajj Jamal Ghalaini’. La voce è quella di un presunto sceicco religioso, che prega per il benessere dell’uomo nella foto perché salvi la gioventù palestinese nei campi di rifugiati in Libano, agevolando la loro partenza per l’Europa.

Il video sarebbe solo l’ennesimo strano post sui social media, se non fosse per il fatto che Ghalaini è una persona reale, il cui nome ricorre nella continua tragedia dei rifugiati palestinesi in Libano. Molti hanno attribuito il successo della propria “fuga” dal Libano citando questa persona che, gentilmente, dicono, ha reso il loro viaggio verso l’Europa molto più economico di qualunque altro trafficante di esseri umani.

Sappiamo poco di Ghalaini, salvo che sembra operare impunemente, senza gravi conseguenze legali da parte delle autorità libanesi o dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che si suppone abbia la responsabilità dei rifugiati palestinesi in Libano.

Sta succedendo qualcosa di strano.

Subito dopo che l’amministrazione USA di Donald Trump ha iniziato a promuovere il proprio “accordo del secolo”, i rifugiati palestinesi – un problema fondamentale della lotta nazionale palestinese che è stato messo da parte anni fa – sono tornati al centro dell’attenzione.

Benché il progetto di Trump debba essere ancora pienamente reso noto, le prime indicazioni suggeriscono che esso porti a escludere totalmente Gerusalemme da qualunque futuro accordo tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e la stessa affermazione di Trump che “Gerusalemme è fuori dalle trattative”, sono sufficienti a confermare questa supposizione.

Un’altra componente dell’”accordo” di Trump è risolvere la questione dei rifugiati senza il loro rimpatrio e senza rispettare le leggi internazionali, soprattutto la risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che chiede il diritto al ritorno per i profughi palestinesi che nel 1948 furono cacciati dalle proprie case nella Palestina storica, e per i loro discendenti.

Molte notizie di stampa hanno menzionato un elaborato piano americano per declassare lo status dei rifugiati, per mettere in discussione i dati ONU che indicano il loro attuale numero e per bloccare i finanziamenti indispensabili all’UNRWA, l’organizzazione dell’ONU responsabile dei servizi ai rifugiati.

Il Libano è stato una piattaforma importantissima per la continua campagna che riguarda i rifugiati palestinesi, soprattutto perché la popolazione di profughi in quel Paese è significativa in termini di numeri e la loro difficile situazione ha urgente bisogno di aiuto.

Sembra esserci un programma operativo, che coinvolge molte parti in causa, per privare la popolazione palestinese del Libano dello status di rifugiati ed eludere così il loro “diritto al ritorno”. A qualcuno questa potrebbe sembrare una pia illusione, dato che il “diritto al ritorno” è “inalienabile”, quindi non negoziabile.

Eppure, ovviamente, senza rifugiati che chiedano collettivamente questo diritto, il problema da richiesta urgente e tangibile potrebbe trasformarsi in aspirazione sentimentale, impossibile da raggiungere. È per questo che lo spopolamento dei campi di rifugiati libanesi, che sta avvenendo a una velocità allarmante, dovrebbe preoccupare i palestinesi più di ogni altro problema del momento.

Ho parlato con Samaa Abu Sharar, attivista palestinese in Libano e direttrice della Majed Abu Sharar Media Foundation [Fondazione per i Media Majed Abu Sharar, centro di formazione per giornalisti rivolto ai rifugiati palestinesi in Libano, ndtr.]. Mi ha raccontato che negli ultimi anni la natura delle conversazioni tra i rifugiati è cambiata. In passato “praticamente tutti, dai giovani agli anziani, parlavano del loro desiderio di tornare un giorno in Palestina; ora la maggioranza, soprattutto tra i giovani, esprime solo un desiderio: andarsene in qualunque altro Paese li voglia accogliere.”

È risaputo che i rifugiati palestinesi in Libano sono emarginati e angariati, soprattutto se confrontati con altre popolazioni di rifugiati in Medio Oriente. Vengono loro negati i più fondamentali diritti umani di cui godono gruppi libanesi o stranieri, o persino diritti garantiti ai rifugiati in base alle convenzioni internazionali. Ciò include il diritto al lavoro, in quanto viene loro negato l’accesso a 72 diverse professioni.

Lasciati senza speranza, con una vita di abbandono e di totale miseria in 12 campi di rifugiati e in altri “campi di raccolta” in tutto il Libano, i rifugiati palestinesi hanno resistito per molti anni, guidati dalla speranza di tornare un giorno alla loro terra natale, la Palestina.

Ma i rifugiati e il loro “diritto al ritorno” non sono più una priorità per la dirigenza palestinese. Di fatto è stato così per quasi due decenni.

La situazione è peggiorata. Con la guerra in Siria, altre decine di migliaia di rifugiati hanno inondato i campi, che mancano dei servizi più essenziali. Questa miseria si è ulteriormente accentuata quando l’UNRWA, su pesanti pressioni USA, è stata obbligata a cancellare o ridurre molti dei suoi servizi essenziali.

Un censimento dalla tempistica sospetta, il primo di questo genere, dall’Amministrazione Centrale di Statistica libanese, condotto lo scorso dicembre insieme all’Ufficio Centrale di Statistica palestinese, ha stabilito che il numero di rifugiati palestinesi in Libano è di soli 175.000.

La tempistica della sua realizzazione è interessante perché la ricerca è stata condotta nel momento in cui l’amministrazione USA si dava da fare per ridurre il numero di rifugiati palestinesi, in previsione di un accordo tra l’ANP e Israele.

Secondo le statistiche dell’UNRWA ci sono più di 450.000 rifugiati palestinesi registrati dall’ONU.

Non c’è dubbio che ci sia un’ondata di rifugiati palestinesi che vogliono andarsene dal Libano. Alcuni ci sono riusciti solo per trovarsi alle prese con un altro miserabile status di rifugiato in Europa. Com’era prevedibile, alcuni sono tornati.

Chiaramente c’è chi non vede l’ora di liberare il Libano dalla sua popolazione palestinese, da cui il disinteresse nei confronti di Ghalaini e di analoghe reti di trafficanti di uomini.

C’è più di una rete organizzata che contribuisce all’emigrazione di palestinesi a prezzi che recentemente sono scesi per essere accessibili a un più vasto numero di persone,” mi ha detto Abu Sharar. La conclusione che molti di questi giovani uomini e donne ora traggono è che “non c’è nessun futuro per loro in Libano.”

Non è questo il felice, trionfante finale che generazioni di rifugiati palestinesi in Libano hanno sperato e per cui hanno lottato durante gli anni.

Ignorare la miseria dei rifugiati palestinesi del Libano comporta un costo pesante. Procrastinare la loro problematica situazione fino ai “negoziati per lo status finale”, una chimera che non si è mai realizzata, sta ora portando a una duplice crisi: il peggioramento delle sofferenze di centinaia di migliaia di persone e la sistematica distruzione di uno dei principali pilastri del “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi.

SULL’AUTORE

Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Vi racconto la giornata dei martiri bambini. Reportage da Gaza est

Patrizia Cecconi

28 luglio 2018, Pressenza

Sono le 3 del pomeriggio. Il sole anche oggi brucia la pelle e fa stringere gli occhi. Qui a Malaqa a quest’ora siamo ancora pochissimi e nessuno è vicino alla rete. Si sentono tre, quattro, cinque colpi secchi. Vengono dalla parte israeliana. Ma non c’è ancora nessuno, che fanno i killer? Scaldano i fucili?

Roger, il ragazzo che mi accompagna, uno degli skater più bravi di Gaza e, quando può, anche studente di italiano, mi dice che oggi sarà una giornata molto rischiosa anche se ci saranno molti bambini perché il tema della Grande marcia oggi è l’omaggio ai martiri bambini che Israele ha ucciso in questi mesi. Tutti i venerdì mi dicono che è molto pericoloso e lo so. Staremo attenti. Come sempre del resto. Oggi non vorrei rilasciare interviste ma farne. Comincio proprio con Roger chiedendogli “Ma tu perché sei qui?” la sua risposta è precisa, formata da tre frasi “Per condividere con gli altri il mio desiderio di libertà” poi gira la testa verso il confine e aggiunge “la mia libertà è oltre la rete, dove c’è la nostra terra che abbiamo il diritto di recuperare”. Bene, in tre frasi ha citato la risoluzione Onu 194 e la necessità di rompere l’assedio, praticamente gli obiettivi per cui è nata la grande marcia del ritorno.

Intanto i cecchini seguitano a sparare. L’orecchio ormai è abituato e sa distinguere il rumore dei colpi sparati dalle jeep da quello dei fucili degli snipers. Forse veramente si stanno allenando al tirassegno perché non c’è motivo di sparare, le migliaia di persone arriveranno dopo.

A fine giornata si conteranno lungo tutto il confine due morti e circa 160 feriti. I martiri sono Ghazi Abu Mustafa, un uomo di 43 anni che camminava sulle stampelle, perché già ferito in precedenza da questi soldati, e che voleva avvicinarsi alla recinzione. Sua moglie, un’infermiera che partecipava alla marcia occupandosi dei feriti lo aveva dissuaso, ma deve essere stato un boccone molto ghiotto per il killer con la divisa dello Stato ebraico che lo ha mirato alla testa. Succedeva più a sud, al border di Khan Younis e la notizia è arrivata tramite gli altoparlanti proprio mentre a Malaqa un cecchino colpiva un ragazzo a pochi metri dalla rete e i soccorsi correvano verso di lui caricandolo in ambulanza. Poi, più tardi, arrivava la notizia del secondo martire, quasi un bambino, al border di Rafah, Madj Ramzi Al Sarri, quattordici anni. I cecchini hanno sparato alla testa anche a lui.

I cecchini israeliani possono farlo, nessuno li accuserà per questo. Insieme al bambino e all’uomo uccisi vengono scarnificati piano piano i principi base della moderna democrazia, ma il mondo sembra non accorgersene e seguita a tenere regolari rapporti con questo Stato di Israele, ormai per sua propria legge Stato Ebraico, quindi etnico-religioso, rendendo impunito ogni crimine che oltre a massacrare il popolo palestinese ferisce, portando gradualmente al suo annichilimento, il Diritto internazionale.

A Malaqa è andata meglio che a al sud. Si pensava a un morto ma era “solo” gravemente ferito. I colpi secchi hanno accompagnato l’intero pomeriggio, intervallati da quelli più gonfi e più sordi sparati dalle jeep e provocando diversi feriti, sia per proiettili vivi che per inspirazione di tear gaz. I copertoni bruciati, il cui fumo nero e tossico ha sollecitato l’attenzione ecologista di alcuni sionisti nostrani, hanno salvato anche oggi parecchie vite, ma le ambulanze hanno fatto comunque molti viaggi.
Le ambulanze! Sì, una delle cose impressionanti di questa Grande marcia è il numero delle ambulanze. Un numero altissimo perché è dato per scontato che ci saranno ogni volta centinaia di feriti. Lo sanno le organizzazioni internazionali e sovranazionali, lo sanno e ne conoscono l’essenza criminale ma sono impotenti. O conniventi.

A Malaqa i tear gaz, oggi, sono arrivati da terra e dal cielo ed hanno colpito anche il personale di un’ambulanza. La scena sembrava da film: l’ambulanza corre nel budello sterrato che dal confine porta alla strada principale, è il percorso normale. Ma si ferma e si buttano fuori, sdraiandosi a terra, gli operatori sanitari. Stanno male, hanno inspirato il gas tossico dei lacrimogeni israeliani. Arrivano le barelle di altre ambulanze che caricano i più gravi e partono al volo verso l’ospedale. Intanto in cielo si sono levati gli aquiloni. Alcuni hanno la fiammella in fondo alla coda. I ragazzi che ne manovrano il filo li lasceranno al vento quando saranno sulla rete dell’assedio. Da quel momento andranno liberi e porteranno il loro messaggio attraverso quella fiammella. Forse bruceranno qualche stoppia e gli agricoltori chiederanno il rimborso alle assicurazioni dichiarando danni esagerati. Ormai le compagnie assicuratrici hanno scoperto il gioco, ma a Netanyahu è più utile far credere che siano stati gli aquiloni a bruciare ettari di campi. Se così fosse Gaza avrebbe un’arma semplice e imbattibile e forse Israele sarebbe costretto, finalmente, a rispettare la legalità internazionale come mandano a dire proprio quegli aquiloni che vorrebbero tornare ad essere solo un gioco.

Ma qui di voci straniere che rinforzino il messaggio degli aquiloni non ce ne sono, solo oggi finalmente ho visto un altro internazionale, rispondeva ai giornalisti palestinesi. Stampa e Tv era in grande abbondanza oggi. Ma tutta informazione interna. Per l’estero è routine e quindi non ci sono inviati. Quelli che ne parlano – a parte pochissime eccezioni – le notizie le ricevono normalmente dall’IDF e non corrono rischi di carriera nel trasmetterle in quella versione.

Oggi non voglio rilasciare interviste ma farne e mi dirigo verso un gruppo di donne. In realtà sono stata catturata dall’attenzione che loro mi hanno rivolto e vogliono farmi delle domande. In fondo è normale, gli stranieri sono una rarità. Faremo delle interviste incrociate. Una delle donne porta il niqab ed ha una gruccia alla quale si appoggia per camminare. E’ stata ferita due settimane fa ma appena ha potuto è tornata alla Great march. Si chiama Samia, Samia Jaber e non ha problemi a darmi il suo nome intero. Suo marito è stato imprigionato dagli israeliani per 12 anni. Ha 7 figli e il più grande, 13 anni, partecipa regolarmente alla marcia. Tutte le donne del gruppo mi danno il loro nome e mi raccontano qualcosa della loro storia. Etaf, Ilaf, Tagreed, Nabila, Ridah, Nashreeem, tutte sono passate per l’ospedale in uno di questi 18 venerdì, ma tutte stanno qui. Sono “hard” le donne di Gaza! Tutte vogliono foto ricordo, le facciamo. Mi chiedono di portare la loro voce in Italia. Ecco, lo sto facendo, anche se la mia non è una voce molto alta. Mi dicono di mettere anche il loro nome, non hanno problemi ad essere pubblicate, vogliono solo che si sappia cosa significa vivere a Gaza e cosa significa chiedere la pace e avere come risposta l’esercito pronto a uccidere. Tra loro c’è una donna più avanti negli anni, una donna molto magra, con un viso ossuto e volitivo. Porta un cappello con la visiera parasole sopra l’ijiab e parla, parla ininterrottamente e non lascia quasi il tempo a Roger di tradurre. E’ Etaf e tutte la rispettano riconoscendola come “l’organizzatrice del caucciù”, un vero boss che coordina l’arrivo e la distribuzione dei copertoni che ormai possono essere chiamati salvavita dato che disorientano la mira dei cecchini. Chiedo loro quale futuro prevedono per la grande marcia. Le risposte sono comuni, “la grande marcia non si può fermare”, ok, ma questo non è il futuro. Mi rispondono ancora che non si fermeranno allora devo cambiare domanda, chiedo se sono affiliate a qualche fazione politica e ridono. Una di loro risponde che la politica che le interessa è il recupero della libertà dall’assedio. Le altre annuiscono. In un’altra intervista una giovane donna, quella che in realtà mi avvicina per intervistarmi ma, appunto, è una giornata di interviste incrociate, mi dice che lei è di Giaffa. Avrà al massimo 35 anni e quindi non è possibile sia nata a Giaffa, ormai israeliana fin dal 1948. Ma la marcia del ritorno è per il rispetto della Risoluzione 194, quella che appunto riconosce il diritto a tornare nelle case da cui sono stati cacciati i palestinesi nel “48, e la sua famiglia è stata cacciata da Giaffa. Quella è la sua origine. Mi presenta le sue amiche, due giornaliste e una docente universitaria. Il loro inglese non è migliore del mio ma ci si intende. Dove l’inglese arranca usano l’arabo e Roger traduce. Faccio anche a loro la stessa domanda che faccio a tutti: cosa vi aspettate dal futuro della grande marcia. Tutte e tutti mi sembra abbiano chiaro che con la grande marcia, sul breve periodo, non otterranno nulla. Eppure, e qui c’è un’altra prova della straordinarietà di questo popolo, eppure si fa. Si fa perché ci sono dei principi irrinunciabili. Si fa perché farla sedimenta il diritto a far riconoscere i propri diritti.

“Si fa perché i figli non abbiano da vergognarsi dei genitori” mi dice Tagreed. Si fa perché a Gaza non si può vivere così,” i nostri giovani vogliono scappare. Viviamo di sussidi. I nostri giovani hanno un livello di istruzione generalmente molto alto ma sono disoccupati perché l’economia di Gaza è morta.” Vogliamo la libertà, come aveva detto Etaf, “la boss del caucciù” con aria definitoria “o libertà o morte” e Ridah aveva aggiunto “raggiungeremo una delle due”.

Intanto i cecchini sparano, le ambulanze corrono, i gas si infittiscono. Ci avviciniamo un po’ al border, restando sempre a non meno di cento metri. I ragazzini sono tanti, onorano i loro coetanei caduti ma in realtà per loro è quasi un gioco. Roger scruta sempre il cielo e a un certo punto dice che dobbiamo allontanarci e tornare nella zona delle tende. Mi dice una cosa incomprensibile sia in arabo, e questo è abbastanza normale, che in inglese. Ho imparato, in questi tanti venerdì passati al border, a dare ascolto ai miei accompagnatori, tutti nel ruolo affettuoso di bodyguard. Ho fatto bene e l’unico danno riportato è stata qualche leggera inalazione di gas. Non riesco a capire cosa mi dice indicando il cielo, credo voglia mostrarmi un aquilone e invece ora lo vedo, è un puntino lontano, sembra un ragno, è un drone che si sta avvicinando. I droni possono portare la morte e comunque qui porteranno i gas lanciati dal cielo che si sommeranno a quelli delle jeep. Ora lo vedono anche gli altri. Tutti provano a capire dove si dirige per allontanarsi. Riesco a prendere qualche foto mentre lancia i gas. Torniamo alle tende.

Sotto il grande tendone delle conferenze i bambini hanno le foto dei loro coetanei uccisi appese ai palloncini che lasceranno volare. Non portano fiammelle, non sono pericolosi. Portano una condanna morale ma i soldati dell’IDF “rispettano gli ordini” e quindi non si sentono condannabili, non conoscono né scrupolo, né rimorso. Sono la perfetta rappresentazione di cui Hanna Arendt ha dato magistrale spiegazione ne “La banalità del male”. Comunque i palloncini volano con i loro ritratti appesi andando verso il cielo.

Sul palco si alternano bambini e adulti e infine un bambino di una decina d’anni considerato un enfant prodige per la sua voce canterà. Lo avevo conosciuto in un’altra occasione, si chiama Mohammad e canta una canzone ritmata e coinvolgente. Chiedo a Roger cosa significhino alcune strofe che sembrano coinvolgere più di altre. “Al Gazaw alh soet” mi scrive sul mio blocco. Mi dice che la traduzione non rende e mi aggiunge un’altra frase. Nell’insieme il significato sembra essere più o meno questo: “Alziamo le nostre voci, i gazawi non hanno paura, solleviamo le nostre voci, non abbiamo paura di Israele”. Già, questo è il clima che in tutti questi venerdì ho respirato lungo il border. A Rafah o a Khuza’a o ad Abu Safia o a Malaqa o ad Al Bureji il clima sostanzialmente è stato questo. Le parole iniziali di Roger alla mia domanda “perché stai qui” completano la canzone del bambino sul palco: “per condividere col popolo il mio sogno di libertà”.

Ancora due morti uccisi per pura crudeltà ancora tanti feriti, ma la marcia continua. Sotto una sola bandiera: quella palestinese. Perché, come canta il piccolo Mohammed, i gazawi non hanno paura.




Le tappe israeliane del Giro d’Italia saranno un giro di ingiustizie

Flavia Cappellini

Venerdì 4 maggio 2018, Middle East Eye

La più bella corsa al mondo nel più bel Paese del mondo.” Questa è una descrizione popolare del Giro d’Italia, un’epica avventura ciclistica che dura tre settimane attraverso 3.546 km.

Il ciclismo su strada è uno sport unico a livello mondiale, in quanto non ci sono barriere tra atleti e spettatori. Alessandro Baricco, un famoso scrittore italiano, una volta ha scritto: “Andare a vedere il ciclismo è qualcosa che, se ci pensi, non ci credi…Tutti nel paese sono fuori di casa, facendo un picnic con un thermos, una radio, giacche a vento e i programmi aperti per capire chi sia ogni ciclista. Una festa!”

Le prime tre tappe della corsa, quest’anno denominata dagli organizzatori il “Giro della Pace”, saranno in Israele. Per la prima volta, il Giro inizierà fuori dall’Europa, prima di attraversare l’Italia e finire a Roma, collegando lo Stato dove nacque il fascismo e che alla fine gli si oppose e lo Stato nato dopo l’Olocausto. Il Giro d’Italia, uno dei più famosi eventi sportivi italiani, è diventato parte dei festeggiamenti per il 70^ anniversario della fondazione di Israele, e gli organizzatori sperano di lanciare un messaggio di tolleranza. Una bellissima narrazione, ma è probabile che a molti non sfugga che c’è un elefante nella stanza.

Politica inevitabile

Oggi Israele e Palestina sono ancora al centro di tensioni internazionali, dal movimento internazionale per il boicottaggio di Israele alle accuse di antisemitismo. L’organizzazione di un grande evento sportivo nel mezzo di tutto ciò non può evitare la politica – soprattutto perché milioni di persone vedranno la corsa attraversare uno dei territori più accanitamente contesi al mondo.

RCS Sport, l’organizzatore del Giro d’Italia, ha battuto la rivale ASO (che organizza il Tour de France e la Vuelta de España) con uno storico primato, tenendo la grande inaugurazione della corsa al di fuori dei confini europei.

Scegliere Israele ha un senso dal punto di vista logistico. Il volo intercontinentale per portare centinaia di atleti, il personale delle squadre e gli sponsor dalla terza tappa in Israele alla quarta in Sicilia è solo di poche ore sul Mediterraneo. Per sfruttare questa opportunità, RCS Sport era verosimilmente ben cosciente della necessità di evitare polemiche.

Mauro Vegni, il direttore di corsa del Giro d’Italia, ha ribadito che “non mischiamo lo sport con la politica,” e che questo è il “Giro della Pace da Gerusalemme a Roma”. Ha spiegato che le tre tappe israeliane sono state tracciate in base alle raccomandazioni del ministero degli Esteri italiano. Rimangono all’interno dei confini riconosciuti dalle Nazioni Unite – di prima della guerra del 1967. Il Giro evita i territori occupati dove, al momento, lo Stato di Israele sta violando le leggi internazionali.

Questa cautela diplomatica è sufficiente a tener lontano il giro da ogni polemica? Forse vale la pena di prendere in considerazione, tappa per tappa, come questa cooperazione geopolitica si sia sviluppata tra sport e leggi internazionali, in nome della separazione tra sport e politica.

Prima tappa: Gerusalemme

La prima tappa della corsa sarà una gara a cronometro di 9.7 km a Gerusalemme. Secondo la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e le Nazioni Unite, non c’è un’unica sovranità su Gerusalemme; Gerusalemme ovest è amministrata da Israele, ma Gerusalemme est è riconosciuta come parte del territorio della Cisgiordania, illegalmente occupata dalle forze israeliane e rivendicata dai palestinesi come futura capitale di uno Stato autonomo.

Com’era prevedibile, la prima tappa del Giro si svolge rigorosamente nelle strade di Gerusalemme ovest, la zona internazionalmente riconosciuta come parte dello Stato di Israele. Quando il materiale promozionale ufficiale del Giro d’Italia, pubblicato in novembre, l’ha definita come “Gerusalemme ovest”, la reazione del governo israeliano è stata immediata. Con un comunicato congiunto il ministro israeliano della Cultura e dello Sport Miri Regev e il ministro del Turismo Yariv Levin [entrambi del partito di destra Likud, ndt.] hanno dichiarato: “Non ci sono Gerusalemme ovest e Gerusalemme est, ma una sola Gerusalemme, la capitale di Israele…Queste pubblicazioni sono una violazione degli accordi con il governo israeliano, e se non vengono cambiate, Israele non parteciperà all’evento.”

Poche ore dopo, gli organizzatori del Giro hanno tolto la parola “ovest” dal loro materiale pubblicitario, affermando: “RCS Sport vuole chiarire che la partenza del Giro d’Italia avrà luogo nella città di Gerusalemme. Presentando il tracciato della corsa, è stato utilizzato materiale tecnico che contiene le parole “Gerusalemme ovest”, attribuibile al fatto che la corsa si svilupperà logisticamente in quella zona della città. Si sottolinea che questa parola, priva di ogni valutazione politica, è stata immediatamente eliminata da ogni materiale legato al Giro d’Italia.”

Secondo gli organizzatori, ignorare lo status legale internazionale di Gerusalemme – sancito dalla CIG e da cinque risoluzioni ONU – è considerato privo di ogni significato politico, piegandosi alla narrazione israeliana che presenta la Città Santa come la capitale indivisibile di Israele.

Seconda tappa: da Haifa a Tel Aviv

La seconda tappa si corre il 5 maggio da Haifa, il centro mediterraneo della cultura arabo-israeliana, lungo la costa fino a Tel Aviv, l’attuale capitale di fatto di Israele. Israele è stato fondato 70 anni fa e il Giro d’Italia che arriva in città sarà parte dei festeggiamenti per il suo anniversario.

Al contrario ad Haifa gli eventi legati al 70^ anniversario della nascita del Paese sono noti con un altro nome: la Nakba. Ciò si traduce dall’arabo come la “catastrofe”, quando più di 700.000 arabi scapparono o vennero espulsi dalle loro case.

Ogni anno, in occasione dell’anniversario della nascita di Israele, la popolazione araba chiede il riconoscimento della risoluzione 194 dell’ONU, che afferma che i rifugiati che desiderino tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini devono poterlo fare il prima possibile, e che debbano essere pagati indennizzi per le proprietà di quelli che scelgano di non tornare. Haifa è la città simbolo di questo esodo.

Secondo l’Ong israeliana “Zochrot”, un gruppo che intende mantenere viva la memoria storica della Nakba tra la popolazione israeliana, la quantità di abitanti arabi espulsi o uccisi o che scapparono dalla città nel 1948 fece scendere la popolazione di origine palestinese da 75.000 a 3.500. Nel contempo la popolazione ebraica di Haifa salì a più del 90%.

I rifugiati della Nakba e i loro discendenti ora vivono soprattutto a Gaza, in Cisgiordania, in Giordania, in Libano e in Siria. Quest’anno, la popolazione di Gaza ha intrapreso la “Grande Marcia del Ritorno”, proteste simboliche per chiedere il riconoscimento del diritto dei rifugiati del 1948 a tornare nella loro patria. Il 5 maggio, mentre il gruppo di ciclisti del Giro d’Italia attraverserà le strade di Haifa, probabilmente migliaia di persone staranno ancora aspettando di lasciare Gaza per ottenere il diritto al ritorno, come stabilito dall’ONU.

Finora 45 civili sono morti in queste proteste, compresi due giornalisti. Tutti sono stati uccisi dalle forze israeliane lungo il confine tra Gaza e Israele, a meno di 70 km dal traguardo della seconda tapa del Giro. Inoltre tra le migliaia di feriti ci sono stati 30 atleti palestinesi, compreso il ciclista Alaa al-Dali, 21 anni, che ha perso una gamba dopo essere stato colpito dalle forze israeliane.

Terza tappa: da Beer-Sheva a Eilat

Infine, l’ultima tappa avrà luogo il 6 maggio nel deserto del Negev: 229 km dalla capitale della provincia, Beer-Sheva, alla città turistica di Heilat, sul Mar Rosso. A prima vista il deserto del Negev sembra una grande distesa di sole e sabbia, con lunghi tratti segnati sulle mappe come terra demaniale. Di fatto ci sono continui progetti di costruzione per sistemarvi la crescente popolazione di Israele – ma alcune di queste terre sono abitate dall’ultima popolazione nomade rimasta nel Negev, in villaggi che non sono stati subito riconosciuti dallo Stato. Con il tempo, alcuni insediamenti sono stati riconosciuti e altri distrutti. Ci sono ancora 35 villaggi non riconosciuti sotto minaccia di demolizione.

Il percorso del Giro passa nei pressi del più grande villaggio non riconosciuto, Wadi al-Naam, che ospita 13.000 persone ai margini della strada principale che attraversa il deserto. Mentre la corsa ciclistica passerà sulla strada asfaltata, gli abitanti di Wadi al-Naam avranno molte difficoltà a veder passare il gruppo, in quanto il loro villaggio non ha quasi nessuna infrastruttura e manca persino di una strada adeguata che lo colleghi al resto della regione.

Non solo non ci sono strade: il villaggio non è collegato al sistema idrico né alla rete elettrica, e nei pressi è stata fondata un’industria chimica, “Neot Hovav”. Non è quindi sorprendente che vi sia stato registrato uno dei tassi di mortalità infantile più alti di Israele. Human Rights Watch ha denunciato come incostituzionale l’assenza di servizi essenziali in questa zona, in quanto ogni cittadino dello Stato dovrebbe avere gli stessi diritti di proprietà, eguaglianza e dignità.

Dimostrazione di controllo

Quando una corsa ciclistica attraversa un Paese, in genere i suoi cittadini accolgono la competizione nelle strade senza barriere, senza protezioni e senza dover pagare un biglietto. Si può giocare una partita di pallone a porte chiuse, ma non si può controllare una corsa di 200 km lungo strade che per tre settimane attraversano case, popolazioni e infrastrutture locali.

Per riuscirvi, un’importante corsa necessita della cooperazione della popolazione locale. C’è bisogno di sicurezza e del controllo sul territorio. Ospitare un simile evento è, di per sé, sia una forma di promozione turistica che l’affermazione da parte dello Stato del pieno controllo sulla gente che vive sul territorio.

In queste circostanze, è legittimo perlomeno chiedersi se il governo israeliano stia cercando di utilizzare il Giro d’Italia per promuovere una nuova e più accesa narrazione nazionalistica, ad iniziare da Gerusalemme come capitale di Israele. La natura di questo sport pone una sfida nel garantire la sicurezza del territorio per una corsa sicura. Infatti nella presentazione del Giro d’Italia a Gerusalemme, il governo israeliano ha dichiarato che questo avvenimento sarebbe stato la più vasta operazione di sicurezza dalla nascita dello Stato di Israele. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, come sempre, sembra fiducioso.

Flavia Cappellini è una produttrice televisiva che si occupa di media, sport e ciclismo. In precedenza ha lavorato per la RAI e per l’inglese “Press TV” e ha conseguito un titolo di laurea specialistica in “Media dalla città” all’università di Londra.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)