‘Un poliziotto, un prete e un palestinese’: i ‘cilestinesi’ sono un modello di unità per i palestinesi

Ramzy Baroud

9 marzo, 2020 – Middle East Monitor

Ho sentito per la prima volta il termine ‘cilestinesi’ solo nel febbraio scorso a una conferenza a Istanbul, durante un intervento di Anuar Majluf, il direttore della Federazione Palestinese del Cile.

Quando Majluf si è riferito alla comunità palestinese in Cile, ben radicata e che conta dai 450.000 al mezzo milione di persone, usando quella parola poco familiare e strana, io ho sorriso. E anche altri hanno sorriso.

È abbastanza raro che a una conferenza sulla Palestina, ovunque, si crei un’atmosfera così piena di ottimismo come quella evocata dal leader cileno-palestinese, perché oggi, quando si parla di Palestina, i discorsi sono saturi di un profondo senso di fallimento politico, divisioni e tradimenti.

Io dico ‘cileno-palestinese’ solo per comodità, perché in seguito mi sono reso conto che il termine ‘cilestinese’ non è stato coniato a vanvera o per scherzo.

Lina Meruane, una docente cilena di origini italo-palestinesi, ha detto a Bahira Amin della rivista online ‘Scene Arabia’, che il termine ‘cilestinese’ è diverso da ‘cileno-palestinese’ nel senso che è una demarcazione di un’identità unica.

Non è un’identità doppia e unita con un trattino, ma la fusione di due identità inscindibili e che non hanno problemi a stare bene insieme” ha detto Meruane. La Amin ne parla come di un ‘terzo spazio’ che si è creato nella diaspora nel corso di 150 anni.

Potrebbe sorprendere chi non abbia familiarità con l’esperienza palestinese in Cile scoprire il vecchio adagio: “In ogni villaggio in Cile troverai tre persone: un poliziotto, un prete e un palestinese.” In effetti, il detto descrive un legame storico fra la Palestina e un Paese situato sull’estrema costa sud-occidentale del Sud America.

L’immensa distanza, oltre 13.000 chilometri, fra Gerusalemme e Santiago può spiegare, in parte, la ragione per cui il Cile e la sua ampia popolazione ‘cilestinese’ non occupano la posizione che si meriterebbero nell’immaginario collettivo dei palestinesi nel resto del mondo.

Ma ci sono anche altre ragioni, la principale è che vari leader palestinesi che si sono susseguiti non sono riusciti ad apprezzare appieno l’immenso potenziale delle comunità palestinesi della diaspora, specialmente di quella in Cile. La loro storia non è solo fatta di lotta e perseveranza, ma anche di grandi successi e contributi vitali alla loro società e alla causa palestinese.

A cominciare dalla fine degli anni ’70, i leader palestinesi si sono adoperati per coinvolgere politicamente Washington e altre capitali occidentali, arrivando a condividere la sensazione diffusa che, senza l’approvazione politica degli USA, i palestinesi sarebbero sempre rimasti marginali e irrilevanti.

I calcoli dei palestinesi si sono rivelati disastrosi. Dopo decenni al servizio di aspettative e diktat di Washington, la leadership palestinese è rimasta a mani vuote dopo che è stato finalmente svelato “l’accordo del secolo” dell’amministrazione Trump.

Le decisioni politiche hanno anche ripercussioni culturali. Per almeno tre decenni, i palestinesi si sono riorientati politicamente e culturalmente, disconoscendo i loro alleati storici in tutto l’emisfero meridionale. E, ancor peggio, il nuovo modo di pensare ha allargato lo iato fra palestinesi in Palestina e i loro fratelli, come le comunità palestinesi in Sud America, intensamente legate alla loro identità, lingua, musica e amore per la madrepatria ancestrale.

Quello che è così unico dei palestinesi, in Cile e di altre comunità palestinesi in Sud America, è che le loro radici risalgono a decenni prima della distruzione della Palestina e della fondazione sulle sue rovine di Israele nel 1948.

Israele afferma spesso che le sue vittime palestinesi mancavano di un’identità nazionale nel senso moderno del termine. Alcuni studiosi, talvolta benintenzionati, concordano, sostenendo che una moderna identità palestinese si espresse solo dopo la Nakba, la ‘catastrofica’ distruzione della Palestine storica.

Chi è ancora fermo a questa distorsione storica deve familiarizzarsi con storici palestinesi come Nur Mashala e il suo libro imprescindibile ‘Palestine: A Four Thousand Year History’.

I ‘cilestinesi’ offrono un autentico esempio vivente della vera forza dell’identità collettiva palestinese che esisteva prima che Israele fosse violentemente imposto sulla mappa della Palestina.

Il ‘Deportivo Palestino’, una famosa squadra di calcio che gioca nella prima divisione cilena, fu fondato non ufficialmente nel 1916 e ufficialmente quattro anni dopo. Ho saputo dalla delegazione ‘cilestinese’ a Istanbul che i fondatori della comunità palestinese in quel Paese che il ‘Palestino’ fu costituito per far sì che i loro figli non lo dimenticassero mai e che continuassero a gridare il nome della Palestina per molti anni a venire.

La società calcistica, nota come ‘la seconda squadra nazionale di football’ della Palestina celebra cent’anni dalla sua fondazione, una celebrazione che probabilmente avverrà fra cori di: ‘Gaza resiste; Palestina esiste’.

La Cisterna, lo stadio del Palestino a Santiago, uno svettante edificio adorno di bandiere palestinesi, non è solo una testimonianza della tenacia dell’identità palestinese, ma anche della generosità della cultura della Palestina, dato che lo stadio è uno dei centri comunitari più grandi della città che riunisce persone di tutte le estrazioni in una costante celebrazione di tutto ciò che abbiamo in comune.

Per evitare ogni semplificazione della comprensione dell’esperienza palestinese in Cile, e in tutto il Sud America, dobbiamo accettare che, come ogni altra società, i palestinesi hanno anche là le loro divisioni, che sono spesso dominate da reddito, classe e politica.

Queste divisioni hanno raggiunto il loro apice durante il colpo di stato, sostenuto dagli USA, del dittatore cileno Augusto Pinochet nel 1973. Ma la spaccatura non durò a lungo e i ‘cilestinesi’ si sono di nuovo uniti dopo il massacro di Sabra e Shatila nel Libano meridionale nel 1982 [durante la prima guerra di Israele contro il Libano, l’esercito israeliano consentì alle milizie cristiane di entrare nei campi profughi palestinesi a Beirut e massacrarne la popolazione, ndtr.], orchestrato da Israele.

Da allora la comunità palestinese in Cile ha imparato ad accettare le differenze politiche al suo interno, concordando che il loro rapporto con la Palestina deve essere il loro fattore comune unificante. Da anni, i ‘cilestinesi’ lavorano insieme, mano nella mano, con altre comunità palestinesi in Sud America per accentuare la necessità di unità, prendendo le distanze dal disaccordo e dalla politica settaria che hanno gettato nel caos l’identità politica palestinese nella Palestina stessa.

Lentamente, i palestinesi del Sud America si stanno unendo per occupare il centro della scena nel più ampio contesto palestinese, non solo come parte integrante dell’identità collettiva palestinese, ma anche come modello che deve essere completamente capito e persino emulato.

Non passa giorno senza che io controlli la mia app sportiva per seguire i progressi del ‘Deportivo Palestino’. So che molti palestinesi in altre parti del mondo fanno lo stesso perché, nonostante distanza, lingua e fuso orario, in fondo resteremo sempre un solo popolo.

Ramzy Baroud

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.




Settant’anni e una brutta storia

Vercelli C., Israele 70 anni. Nascita di una Nazione, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, 12,90 €.

Amedeo Rossi

Questo libro merita una recensione solo per una ragione: è una chiara dimostrazione del perché non sia possibile instaurare un dibattito serio neppure con i filo-israeliani di “sinistra” (Vercelli, autore di vari libri su Israele, è un collaboratore de “Il Manifesto”).

Il sottotitolo fa riferimento, in modo involontariamente ironico, ad un famoso film americano del 1915, “The born of a Nation”, un capolavoro del cinema ma anche un’esaltazione del razzismo. Non è certo la nota predominante del libro, che in quarta di copertina viene definito “una ricostruzione puntuale e obiettiva”, ma neppure questa è la descrizione corretta di questo lavoro.

Il punto di vista dell’autore viene chiarito in primo luogo dall’uso del lessico: i problemi con i palestinesi sono definiti “frizioni”, questi ultimi in genere indicati genericamente come “arabi” o “arabo musulmani”, la pulizia etnica del ’48 “fuga”, la Cisgiordania sarebbe “Giudea e Samaria”, le colonie israeliane sono definite “insediamenti”, “stanziamenti”, in un caso (Gilo) “quartiere”.

Vercelli assume, senza renderlo mai esplicito, esclusivamente il punto di vista sionista e israeliano, facendo eco a tutti i luoghi comuni ormai smentiti dalla storiografia. Dei nuovi storici israeliani in bibliografia compaiono solo Tom Segev e il libro di Benny Morris “Vittime”, di cui però non cita i passaggi che mettono in dubbio la lettura degli avvenimenti dal punto di vista israeliano.

Ecco alcuni degli esempi più evidenti a un lettore informato di questa posizione dell’autore.

Secondo Vercelli “l’ostilità delle popolazioni arabe” verso i sionisti era dovuta al fatto che queste ne vedevano la presenza “come una crescente intrusione che, in prospettiva, poteva portare all’espropriazione delle terre e alla limitazione delle possibilità di lavoro.” Inoltre sarebbe stato particolarmente ostile “il ceto medio urbano” che “dovette confrontarsi con la concorrenza ebraica in campo commerciale, artigianale e della piccola industria.” L’autore liquida così quello che fu un tipico processo colonialista di espulsione dei contadini e di creazione di un mercato della terra in un contesto di economia agraria tradizionale, che determinò un aumento vertiginoso dei prezzi, una crisi dell’agricoltura, l’inurbamento dei coltivatori espulsi dalle campagne, la creazione di un‘ economia e di un mercato paralleli che escludevano la popolazione nativa, come aveva preconizzato lo stesso Herzl, padre del sionismo. Tutto ciò grazie anche al favore del potere mandatario inglese, che nel libro invece non viene evidenziato.

Negli anni ’30 i flussi dell’immigrazione ebraica in Palestina sarebbero stati incentivati dalla chiusura delle frontiere USA, ma anche in questo caso viene ignorato l’intervento dei dirigenti sionisti che si attivarono per promuovere questa chiusura. In merito Enzo Sereni, dirigente sionista, affermò: “Non abbiamo nulla di cui vergognarci nel fatto che abbiamo usato la persecuzione degli ebrei in Germania per l’edificazione della Palestina.” Di questo non c’è traccia nella ricostruzione qui proposta.

Altrettanto avviene riguardo alle tattiche terroristiche messe in atto da tutte le milizie sioniste, a cui Vercelli dedica solo un accenno ed una foto dell’esplosione dell’hotel King David, ma la didascalia non dice che ci furono 97 morti e 58 feriti. Vengono totalmente ignorate le centinaia di vittime arabe di attacchi terroristici sionisti, oppure l’uccisione del mediatore Onu conte Bernadotte, e il fatto che alcuni primi ministri israeliani, come Begin, Shamir e Rabin, erano stati capi o militanti di gruppi che praticavano il terrorismo indiscriminato contro i civili.

Ancora più grave è la versione accolta nel libro riguardo alla guerra del ’48, da cui è nato lo Stato di Israele. Ad esempio la questione dell’espulsione dei palestinesi dalla loro terra viene così spiegata : i profughi sarebbero stati “popolazioni civili coinvolte nei combattimenti e fuggite dai loro luoghi di residenza.” Inoltre, secondo Vercelli, questo esodo sarebbe stato incentivato dalla “propaganda dei paesi arabi… che garantivano una vittoria certa sugli ebrei”. “Nondimeno,” concede l’autore, “da parte sionista l’interesse ad avere territori abitati in grande maggioranza da popolazione ebraica era nell’ordine delle cose.” Viene liquidato in questo modo il processo di pulizia etnica e con esso il lavoro degli studiosi palestinesi e dei nuovi storici israeliani, compreso il già citato Benny Morris. Certo, dal punto di vista sionista ciò era “nell’ordine delle cose” per la semplice ragione, non menzionata nel testo, che anche nei territori destinati dal piano di spartizione dell’ONU al futuro Stato di Israele la maggioranza della popolazione era araba. Vercelli cita solo la strage di Deir Yassin, troppo nota per essere ignorata, ma non le decine di massacri perpetrati dalle milizie sioniste e le centinaia di villaggi distrutti durante la guerra. Ma definisce la cacciata degli ebrei dai Paesi arabi “un brutale meccanismo di ritorsione” e “una massiccia espulsione.”

A questo proposito, pur dedicando alcune analisi interessanti alle caratteristiche della società ebreo-israeliana, il libro ignora i molti episodi di discriminazione di carattere tipicamente eurocentrico e colonialista cui furono sottoposti gli ebrei arabi, dal rapimento di bambini di famiglie yemenite all’ emarginazione territoriale nelle zone di confine. Nel 1949 comparve su Haaretz, giornale progressista, un articolo in cui si affermava che gli ebrei di lingua araba: “Sono appena meglio del livello di arabi, negri e berberi della regione.” Un’immagine molto diversa da quella di una società felicemente multietnica, dinamica, che presterebbe “particolare riguardo ai diritti civili.” Basti pensare al trattamento riservato in Israele ai lavoratori immigrati, ai richiedenti asilo, in generale ai non ebrei. Vercelli ignora anche la condizione di inferiorità giuridica a cui sono soggetti i cittadini arabo-israeliani, sottoposti all’amministrazione militare fino al 1966, espropriati delle terre e discriminati da più di 50 leggi e regolamenti, definiti sbrigativamente nel libro “diversi vincoli e numerose limitazioni” che avrebbero provocato “un misto di diffidenza ed estraneità”. Gli “attriti” con gli “arabo musulmani” (ma ci sono anche gli “arabo-cristiani”) avrebbero determinato in “alcuni arabi” il senso di appartenenza “a quell’identità palestinese” maturata nei campi profughi “come nei Territori a maggioranza palestinese, a est e a sud di Israele”.

Grazie alla guerra dei Sei Giorni e alla conseguente occupazione della Cisgiordania e di Gaza, da cui altre centinaia di migliaia di palestinesi secondo il libro sarebbero “fuggite”, “la nozione di spazio [degli ebrei israeliani]…si svincolò dalle dimensioni asfittiche legate a una piccola porzione di territorio quale era lo Stato del 1948.”

Il libro non accenna neppure al metodico, pianificato e progressivo processo di espropriazione ed oppressione imposto alle comunità locali dai vari governi israeliani, rispetto alla quale i palestinesi manifesterebbero una “crescente indisponibilità”, non dovuta a fatti concreti ed oggettivi ma al “senso di discriminazione”. Allo stesso modo il libro minimizza, parlando di qualche centinaio di vittime, le responsabilità (riconosciute persino da un’inchiesta parlamentare israeliana) dell’esercito e dell’allora ministro della Difesa Sharon nella strage di Sabra e Shatila durante la guerra contro il Libano; la Prima Intifada sarebbe scoppiata perché “[I giovani palestinesi] si sentivano vittime di un’ingiustizia,”; la Seconda dalla “disillusione” e dal “malessere della popolazione palestinese”, che portarono ad una radicalizzazione, attribuita al successo dei gruppi islamisti, senza spiegarne le cause. Sensazioni, opinioni, emozioni soggettive. Quanto infine al fatto che nel nuovo contesto mediorientale “Israele non può dare risposte di merito ai problemi degli altri paesi della regione, ma si confronta, inevitabilmente, con gli effetti prodotti dalla loro persistenza,” andrebbe chiesto conto all’autore degli sviluppi diplomatici che vedono Israele allineato sempre più esplicitamente con i peggiori regimi arabi.

 Si potrebbe proseguire, ma credo che quanto scritto finora dia sufficientemente conto del tenore di questo libro. Si tratta di un’opera celebrativa (come testimonia il notevole apparato iconografico) ed elogiativa che esalta l’impresa sionista con un approccio solo apparentemente neutrale, la cui lettura è utile più per analizzare l’ideologia dell’autore e dei suoi sodali filo-israeliani che per il suo valore storiografico.