Palestinesi d’Israele. Un duro colpo al mito della “coesistenza”

GRÉGORY MAUZÉ

29 luglio 2021 – Orient XXI

Un partito arabo, il Raam, ha contribuito alla formazione del governo israeliano che in buona misura continua le pratiche di apartheid e la colonizzazione. Le mobilitazioni della primavera scorsa in solidarietà con Gerusalemme est e Gaza hanno tuttavia ricordato la solidità dei rapporti che uniscono tutte le componenti del popolo palestinese.

Il ruolo cruciale giocato dai palestinesi di Israele nella recente crisi ha fatto vacillare molte certezze. Cittadini di serie B, con le loro mobilitazioni hanno evidenziato la situazione di discriminazione materiale e simbolica che colpisce i discendenti degli autoctoni rimasti sulla propria terra quando venne creato Israele. La fiammata di violenza nelle città cosiddette “miste” ha fatto esplodere il mito di una coesistenza armoniosa tra comunità che in realtà non è mai stata pacifica per il gruppo dominato.

Soprattutto ha ricordato le somiglianze tra la loro condizione e quella del popolo palestinese nel suo complesso. Sheikh Jarrah, Al-Aqsa, Gaza: i riferimenti all’oppressione subita nei territori occupati erano sulle bocche di tutti. Questa dinamica di solidarietà, inedita dallo scoppio della Seconda Intifada, è culminata con il grande “sciopero per la dignità” del 18 maggio 2021 dei lavoratori palestinesi, molto partecipato da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndtr.]. Ha sanzionato l’incapacità israeliana di risolvere il problema palestinese all’interno delle proprie frontiere riconosciute. Fin dalla sua creazione quest’ultimo di fatto si è impegnato a reprimere l’affermazione nazionale dei suoi cittadini palestinesi, significativamente definiti “arabi israeliani” per cancellare l’origine colonialista dell’oppressione a cui si trovano di fronte.

Esatto contrario

Questo ritorno imprevisto della centralità della causa nazionale nella minoranza palestinese contrasta con una dinamica quasi simmetricamente opposta all’interno della sua classe politica.

All’inizio del 2021 la Lista Unita, coalizione che dal 2015 raggruppava in modo intermittente i partiti che rappresentano gli interessi della minoranza araba nel parlamento israeliano, è stata indebolita dall’uscita del partito islamista Raam. Infatti il suo leader, Mansour Abbas, ha manifestato in modo sempre più esplicito il suo desiderio di rompere con quello che cementava questa eterogenea alleanza: il legame tra la lotta per i diritti dei palestinesi nei territori occupati e di quelli di Israele. Questi ultimi, ritiene Mansour Abbas, dovrebbero ormai pensare soprattutto a difendere i propri interessi. Liberati dal peso morto che rappresenterebbe la causa palestinese, potrebbero allora prendere in considerazione una collaborazione promettente con una destra nazionalista che, per quanto colonialista e suprematista, è tuttavia stabilmente al potere. Ultima trasgressione, Mansour Abbas ha manifestato in modo evidente la sua complicità con Benjamin Netanyahu, proponendo il suo partito come perno del gioco politico israeliano.

Se questo approccio ha rappresentato un punto di rottura per i suoi ex-alleati, è stato accolto a braccia aperte dal mondo politico e mediatico israeliano. “Mano a mano che la causa palestinese svanisce nel mondo arabo, essa si attenua anche tra gli arabo-israeliani,” scriveva entusiasticamente nel 2020 il Times of Israel [quotidiano israeliano on line in lingua inglese, ndtr.]. Dopo gli accordi di normalizzazione avvenuti qualche mese prima tra Israele e varie monarchie del Golfo, sarebbero dunque i cittadini palestinesi di Israele a dimostrare a loro volta il proprio “pragmatismo”.

Nella posizione di persona decisiva in seguito alle elezioni del 23 marzo 2021, Abbas ha continuato a centrare le proprie esigenze sugli interessi della “sua comunità”, evitando ogni riferimento alla questione palestinese nel suo insieme. Salvo i suprematisti del Partito Sionista Religioso, la classe politica [ebreo-israeliana, ndtr.] ha allora salutato, secondo le parole di un ministro della coalizione di Benjamin Netanyahu, “la vera voce degli arabo-israeliani”. “Una rivoluzione politica,” ha persino intitolato Haaretz [quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndtr.], che ha esortato la popolazione ebraica ad accettare la mano tesa.

L’unità palestinese manifestata durante le rivolte di maggio e aprile non ha impedito a Mansour Abbas e al suo partito, che si sono dissociati per quanto possibile dalle mobilitazioni, anche da quelle pacifiche, di essere conseguenti con la loro logica. La polvere dei bombardamenti a Gaza si era appena depositata quando essi hanno contribuito in modo decisivo alla conclusione di un accordo di governo destinato ad allontanare Netanyahu dal potere. Come previsto, nessuna citazione della questione palestinese da parte sua, ma un piano sostanzioso di investimenti nelle località arabe, il riconoscimento di una manciata di villaggi beduini nel Negev e una sospensione temporanea della distruzione di edifici costruiti senza permesso. In modo altrettanto prevedibile, questa collaborazione arabo-sionista è stata considerata dai commentatori politici un segno dell’apertura della società israeliana e della vitalità della sua democrazia.

Persistenza dell’apartheid

Tra i palestinesi le reazioni sono state nettamente meno entusiastiche. La debole speranza di vita di questo governo, che va dalla sinistra sionista all’estrema destra annessionista, fa sorgere dubbi sul conseguimento effettivo di misure a favore degli arabi, tanto più che esso è in un primo tempo diretto dall’araldo della corrente messianica suprematista ebraica, Naftali Bennett. Cosa ancora più importante, molti hanno criticato l’assenza di risposte alle cause profonde delle diseguaglianze razziali in Israele. Rimangono in vigore norme discriminatorie strutturali come legge sullo Stato-Nazione del 2018, che relega le minoranze non ebraiche in una condizione di secondo piano, o della legge sulla Nakba del 2011, che impedisce di commemorare la grande espulsione dei palestinesi durante la creazione dello Stato di Israele.

Allo stesso modo gli islamisti e la sinistra sionista hanno appoggiato con una relativa facilità il prolungamento del divieto per i palestinesi dei territori occupati di ottenere la cittadinanza israeliana grazie ai ricongiungimenti familiari.

Se l’obiettivo perseguito è l’uguaglianza, non è possibile isolare la questione degli arabi israeliani da quella palestinese nel suo complesso, dal momento che l’oppressione delle diverse componenti del popolo palestinese risponde, in misura variabile, alla stessa filosofia di apartheid,” sostiene Naim Moussa, del centro Mossawa, che promuove l’uguaglianza dei cittadini arabi [di Israele, ndtr.].

Di fatto la rivolta di piazza dei palestinesi dal Giordano al Mediterraneo conferma la constatazione ormai largamente condivisa dalle organizzazioni dei diritti umani: l’esistenza di un regime di supremazia razziale su tutto il territorio controllato da Israele. Il confinamento del 18% dei palestinesi di Israele sul 3% delle terre, l’impossibilità di ottenere un permesso edilizio o l’ebraizzazione a marce forzate da parte di coloni fanatici dei quartieri arabi riecheggiano così clamorosamente la situazione di Gerusalemme est e in Cisgiordania. Allo stesso modo la repressione spietata di queste manifestazioni, a volte con l’appoggio di ausiliari estremisti venuti dalle colonie, e l’ondata di arresti massicci che ne è seguita (più di 2.000 dall’inizio del maggio 2021) evocano i metodi contro-insurrezionali praticati nei territori occupati.

In questo contesto molti temono una risistemazione di facciata che lasci intatte le strutture istituzionali di dominazione. “Quei pochi miglioramenti ottenuti dal Raam non sono molto diversi da quelli ottenuti in modo puntuale grazie al nostro lavoro parlamentare, con la differenza che all’epoca non avevamo da pagare il prezzo del sostegno a un governo che perpetua l’occupazione, le colonie e la discriminazione razziale,” osserva Raja Zaatry, del partito comunista israeliano (Hadash), principale componente della Lista Unita.

Inoltre la tanto celebrata rivoluzione nei rapporti tra ebrei e arabi non lo è affatto. “La storia è piena di cosiddetti dirigenti palestinesi che hanno effettivamente venduto la causa del loro popolo per ottenere un vantaggio personale”, rivela il giornalista e militante Rami Younis, originario di Lod-Lydda, che ricorda la partecipazione di partiti-satellite arabi ai primi governi laburisti o la cooptazione di notabili locali sotto il regime dell’amministrazione militare [israeliana] dal 1948 al 1966.

Come all’epoca, questa collaborazione tra élite senza dubbio non si rifletterà sui rapporti intercomunitari nella società. L’inclusione di Raam è innanzitutto il risultato di un’aritmetica parlamentare che lo ha reso indispensabile. È quindi poco suscettibile di cancellare anni di incitamento all’odio contro la minoranza araba da parte di quegli stessi che oggi incensano l’atteggiamento di Abbas. Del resto, con quattro seggi, il suo partito è certo il primo della sua comunità se si contano separatamente i sei ottenuti dalla Lista Unita, ma nel contesto di un tasso record d’astensione delle località arabe (55,4% contro il 33,6% nel 2020), in grande misura provocato dalla divisione della rappresentanza politica palestinese. Perché l’iniziativa di Abbas ha soprattutto segnato una battuta d’arresto del processo di affermazione di una forza parlamentare palestinese autonoma. Il successo clamoroso della Lista nel 2020 l’aveva in effetti portata a 15 seggi e ridotto i voti arabi per i partiti sionisti al 12%, il livello più basso da sempre, fornendole un’attenzione inedita. Al contrario, la sua scissione nel 2021 consente di opporre con poco sforzo gli “arabi buoni”, che aspirano a partecipare nel posto che gli compete al sogno israeliano, senza rimettere in discussione le disuguaglianze strutturali e il razzismo, agli “arabi sleali”, che reclamano diritti in quanto minoranza nazionale.

Scetticismo riguardo alle elezioni

Peraltro non è detto che la sequenza imposta dalla piazza palestinese favorisca la Lista Unita. Lo scoppio delle rivolte d’aprile e maggio fuori da qualunque quadro centralizzato costituisce di fatto una sconfessione generale per la classe politica palestinese, che fa eco al divorzio tra l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e le mobilitazioni nate spontaneamente in Cisgiordania. A questo riguardo è significativo che le città “miste” nelle quali si sono prodotte siano anche quelle in cui la popolazione araba ha maggiormente disertato le urne il 23 marzo 2021.

Queste mobilitazioni spontanee testimoniano pertanto un profondo scetticismo quanto all’efficacia della partecipazione palestinese al gioco politico israeliano. “I palestinesi si sono fortemente mobilitati nel 2020 per porre la Lista Unita in terza posizione e con il suo risultato migliore unicamente per essere poi rifiutati dal sistema,” spiega Amjad Iraqi sul sito +972 Magazine, in riferimento al dialogo abortito avviato nel 2020 per affrettare la caduta di Netanyahu tra il capo dell’opposizione Benny Gantz e Ayman Odeh, dirigente di Hadash. L’ambizione di quest’ultimo di far progredire una collaborazione ebreo-palestinese basata sull’inclusione della questione palestinese in senso lato e l’impegno a combattere le disuguaglianze nel loro complesso si è scontrata con la persistente ostilità della maggioranza dell’opinione pubblica ebraica.

Mansour Abbas ha fatto lo stesso errore di Ayman Odeh. Questi ultimi 3 anni sono stati un esame per i nostri rappresentanti politici, e purtroppo hanno fallito due volte,” sostiene Rawan Bisharat, militante originaria di Giaffa ed ex-codirettrice dell’associazione per il dialogo ebraico-arabo Sadaka-Reut. “Il fossato tra la nuova generazione che è scesa in piazza e quella precedente che si è dimostrata incapace di comprendere l’escalation a cui abbiamo assistito è oggi evidente. La Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] non è più il luogo adeguato per far avanzare i nostri diritti e dovremmo prendere in considerazione in modo diverso il nostro contributo per il futuro.

La partecipazione alle elezioni rimane una leva per difendere i diritti del popolo palestinese nel suo complesso, tanto più se ci mobilitiamo in modo consistente,” confida Naim Moussa. Continuare su questa strada richiederà però di tener conto dei cambiamenti della società araba in Israele nella sua diversità. La persistenza a lungo termine delle disuguaglianze tra i più precari li rende da parte loro sensibili alle proposte, per quanto aleatorie, che consistono nel migliorare nell’immediato la loro vita quotidiana, finché non si porrà fine al regime discriminatorio che colpisce il popolo palestinese nel suo complesso.

GRÉGORY MAUZÉ

Politologo e giornalista.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)