Beita, un’icona della resistenza popolare palestinese

Majed Azzam

7 luglio 2021 – Monitor de Oriente

La cittadina di Beita è diventata un’icona della resistenza popolare nella Palestina occupata. Sembra avere canalizzato lo spirito di rivolta di Gerusalemme durante il giorno e le dure attività di Gaza durante la notte, in armonia con gli avvenimenti avvenuti recentemente in Palestina. Di fatto si tratta di rafforzare l’unità del popolo palestinese, ovunque sia, dietro all’opzione di ogni forma di resistenza, soprattutto a livello popolare.

Situata a sud di Nablus, Beita difende le sue proprietà e terre nella zona vicina al monte Sabih, parte delle quali sono state occupate da coloni per fondarvi un avamposto illegale che hanno chiamato Evyatar, in onore di un colono assassinato durante un’operazione della resistenza in quel luogo qualche tempo fa. Include decine di ettari nella montagna, ma c’è un piano malvagio per controllarne altre centinaia e fondare una grande colonia che isoli Beita e i villaggi vicini dal loro contesto palestinese, che diventi una grande rete di colonie in profondità all’interno di città, villaggi e borgate palestinesi in Cisgiordania.

I coloni hanno approfittato dell’attenzione dei palestinesi e del resto del mondo concentrata sulle rivolte di Gerusalemme alla Bab Al-Amoud [Porta di Damasco], a Sheikh Jarrah [quartiere arabo della città] e nella moschea di Al Aqsa, seguite dalla “battaglia della Spada di Gerusalemme” [nome dato da Hamas all’ultimo scontro militare tra Israele e Gaza, ndtr.], per edificare la colonia sul monte Sabih. L’esercito di occupazione israeliano ha asfaltato strade e collegato infrastrutture per l’avamposto, che è illegale persino per la legge coloniale israeliana, e il governo ha ordinato di fatto di ritirarsi. Tuttavia l’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu ha lasciato questa questione spinosa e la sua realizzazione a Naftali Bennett, ex capo del consiglio delle colonie, per mettere in difficoltà il suo successore di estrema destra.

La gente di Beita si è sollevata per difendere la propria terra, il proprio futuro e il proprio destino, adottando la scelta della resistenza popolare pacifica a ogni ora, ispirata all’atmosfera e alle rivolte dei territori occupati degli ultimi mesi. La popolazione e le sue attività rappresentavano Gerusalemme durante il giorno e Gaza durante la notte. Durante il giorno le persone hanno messo in atto diverse attività e azioni, come assembramenti, manifestazioni, sit in, seminari, discorsi e festival, e hanno celebrato le preghiere del venerdì sul monte Sabih. Tutto questo è stato accompagnato da canti popolari e canzoni nazionaliste tradizionali, tra cui una specifica della città. Di notte Beita e i suoi dintorni si sono trasformati in Gaza, con metodi di resistenza popolare più energici, per creare confusione. Ciò ha incluso l’utilizzo di altoparlanti, luci intermittenti, laser e fuochi artificiali perché i coloni e le unità dell’esercito di occupazione inviate per difenderli non potessero dormire.

In questo modo Beita è sembrata rappresentare un’attualizzazione creativa del modello Bil’in-Nil’in [due villaggi palestinesi noti per la loro resistenza all’occupazione, ndtr.] visto in Cisgiordania da anni, in cui le manifestazioni e le attività settimanali per proteggere le loro terre e proprietà dai coloni hanno ottenuto notevoli risultati. Anche Beita è diventata una questione internazionale, come Sheikh Jarrah e Silwan [altro quartiere palestinese di Gerusalemme, ndtr.], mentre aumentano le pressioni politiche e diplomatiche affinché il governo israeliano smantelli la colonia ed eviti che si trasformi in una rivolta generalizzata in tutta la Palestina.

Da Beita ci sono molte lezioni da apprendere, soprattutto la ormai leggendaria fermezza del popolo palestinese e la sua insistenza nel difendere le sue terre e proprietà contro l’occupazione militare e i suoi coloni, utilizzando qualunque mezzo a disposizione. Ce ne sono molti, e il più importante è il popolo palestinese stesso, che rifiuta di arrendersi o di accettare i “fatti sul terreno”, che i coloni israeliani pretendono di imporre con la forza. Vediamo così che la resistenza popolare sta diventando una forma di vita per i palestinesi. Il modello di Beita e la sua creatività hanno fatto sì che si esiga prudenza nei punti di frizione con le autorità dell’occupazione e i coloni israeliani, soprattutto nei villaggi e città in cui si sono determinati grandi furti di terre e proprietà.

In stridente contrasto con questo, i dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese sono assenti, impotenti e incapaci di appoggiare il popolo. L’ANP ha abbandonato in pratica Beita, lasciandola al suo destino, come ha fatto con le rivolte a Gerusalemme e con la “battaglia della Spada di Gerusalemme” a Gaza.

La risposta del popolo di Beita ha alzato il costo politico, securitario ed economico dell’avamposto per Israele. Ora spetta a organizzazioni e istituzioni politiche palestinesi adottare un approccio serio alla resistenza popolare come parte essenziale di un programma politico. Esso deve essere sviluppato da un gruppo dirigente nazionale eletto e unificato, come risultato della ridefinizione delle questioni palestinesi, della ricostruzione delle istituzioni nazionali in modo democratico, di una dirigenza che cerchi di mobilitare il popolo e di investire le sue enormi capacità in una lotta integrale, decisa ed estesa contro l’occupazione israeliana, dentro e fuori dalle frontiere della Palestina storica.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Opporsi alla frammentazione per valorizzare l’unità: la nuova rivolta palestinese

Yara Hawari 

29 giugno 2021 – Al Shabaka

La rivolta palestinese in corso nella Palestina colonizzata contro il regime colonialista israeliano non è cominciata a Sheikh Jarrah, il quartiere palestinese di Gerusalemme dove gli abitanti rischiano un’imminente pulizia etnica. Senz’altro la minaccia di sfratto delle otto famiglie ha catalizzato questa mobilitazione popolare di massa, ma, in ultima analisi, questa rivolta è un capitolo della lotta condivisa dai palestinesi contro il colonialismo sionista durata oltre 70 anni.

Questi decenni sono stati caratterizzati da continui sfratti, furti di terre, incarcerazioni, oppressione economica e la brutalizzazione dei corpi dei palestinesi. I palestinesi sono anche stati sottoposti a un processo intenzionale di frammentazione non solo geografico, in ghetti, bantustan e campi profughi, ma anche sociale e politico. Infatti l’unità che abbiamo visto negli ultimi due mesi, durante i quali i palestinesi in tutta la Palestina colonizzata, ma non solo, si sono mobilitati in una lotta a sostegno di Sheikh Jarrah, ha sfidato questa frammentazione, sorprendendo allo stesso modo il regime israeliano e la leadership politica palestinese. Una mobilitazione popolare di queste dimensioni non si era vista in decenni, neppure durante l’amministrazione Trump, sotto la cui egida ci sono stati il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, gli accordi di normalizzazione fra Israele e vari Stati arabi e un’ulteriore accelerazione delle pratiche colonialiste del sionismo.

Oltre alla mobilitazione nelle piazze, i palestinesi hanno usato forme creative di resistenza contro il loro assoggettamento. Queste includono la rivitalizzazione delle campagne della società civile per salvare dalla distruzione e dalla pulizia etnica i quartieri palestinesi di Gerusalemme, danni inferti all’economia del regime israeliano e il continuo coinvolgimento di un mondo globalizzato con chiari messaggi che invocano libertà e giustizia per i palestinesi. 

Gerusalemme: un catalizzatore dell’unità

Per decenni gli abitanti di Sheikh Jarrah, come quelli di moltissime comunità, hanno rischiato l’espulsione e la pulizia etnica. Infatti a Sheikh Jarrah i palestinesi sono impegnati da tempo in battaglie legali contro il regime di Israele nel tentativo di bloccare gli sfratti che servono all’obiettivo finale di Israele di ‘giudaizzare’ completamente Gerusalemme

Verso al fine di aprile 2021, il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha respinto i ricorsi di abitanti di Sheikh Jarrah contro quello che i giudici definiscono lo “sfratto” di otto famiglie, ordinando loro di sgombrare le case entro il 2 maggio 2021. Per opporsi a questo ordine e per salvare il quartiere dalla pulizia etnica, le famiglie si sono affidate alla campagna del movimento di base “Salvate Sheikh Jarrah”. La campagna, che ha di recente guadagnato in popolarità grazie ai social, ha attratto una massiccia partecipazione locale e anche l’attenzione internazionale, non ultimo perché riassume in sé l’esperienza palestinese della spoliazione. Ha quindi dato slancio ad altre campagne per “salvare” dalla pulizia etnica e dalla colonizzazione altre zone in Palestina, come Silwan [altro quartiere di Gerusalemme est, ndtr.], Beita [nei pressi di Nablus, ndtr.] e Lifta [periferia est di Gerusalemme, ndtr.].

Durante gli ultimi due mesi i palestinesi della Palestina colonizzata, inclusi gli abitanti di Haifa, Giaffa e Lydda [Lod in ebraico, ndtr.] con cittadinanza israeliana, hanno protestato per sostenere la lotta condivisa di Sheikh Jarrah. Queste rivolte e dimostrazioni hanno attirato una repressione violenta da parte del regime israeliano, una reazione che non è né senza precedenti né inaspettata. Infatti durante le proteste della Seconda Intifada le forze del regime israeliano avevano ucciso 13 cittadini palestinesi nel corso della repressione più micidiale dalla Giornata della Terra del 1976. In tutta questa continua rivolta, la violenza delle forze del regime è stata accompagnata da quella dei coloni israeliani armati che hanno attaccato e linciato cittadini palestinesi, effettuato incursioni e distrutto case, veicoli e attività economiche dei palestinesi. 

Tuttavia sono stati i vari giorni di proteste presso il complesso della moschea di al-Aqsa a dominare i media internazionali, specialmente perché nel 2017 questo era stato il luogo di manifestazioni di massa vittoriose contro le barriere elettroniche collocate all’ingresso del complesso. Anche queste ultime proteste a metà maggio hanno dovuto affrontare una repressione violenta da parte delle forze di sicurezza israeliane che hanno fatto irruzione nel complesso, ferendo centinaia di fedeli palestinesi con proiettili di ferro ricoperti di gomma, lacrimogeni e granate stordenti.

Dopo l’assalto e i costanti tentativi di pulizia etnica del regime israeliano nella Gerusalemme palestinese, il governo di Hamas a Gaza ha contrattaccato lanciando razzi. Israele ha risposto con più di dieci giorni di pesanti bombardamenti contro Gaza, con un totale di 248 vittime, inclusi 66 minori. Nonostante le affermazioni del regime israeliano che sostiene di aver preso di mira solo le infrastrutture militari di Hamas, sono stati distrutti vitali infrastrutture civili, interi edifici residenziali e persino la torre che ospitava i media. Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha dichiarato che questi bombardamenti su Gaza potrebbero essere classificati come crimini di guerra. 

Danneggiare l’economia del regime israeliano

Mentre Gaza era sotto attacco nel resto della Palestina colonizzata continuava la mobilitazione dei movimenti di base. Il 18 maggio i palestinesi hanno indetto uno sciopero generale, probabilmente una delle più grandi manifestazioni di unità da anni. Hanno subito aderito l’High Follow-up Committee for Arab Citizens of Israel [Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele, organismo extraparlamentare che rappresenta i cittadini arabi di Israele a livello nazionale, ndtr.] e successivamente l’Autorità Palestinese (ANP) in Cisgiordania. Ma sono stati i movimenti di base ad assumere il controllo della comunicazione, attraverso varie dichiarazioni in arabo e inglese, invitando a un’ampia partecipazione e sollecitando il sostegno internazionale: “Chiediamo il vostro appoggio per continuare questo momento di resistenza popolare senza precedenti, partito da Gerusalemme ed esteso in tutto il mondo,” si leggeva in una dichiarazione. 

Lo sciopero è stato organizzato in risposta agli attacchi contro Gaza e alla rivolta per le strade di Gerusalemme. Ha raccolto una vasta partecipazione ed è stato particolarmente importante per i palestinesi con cittadinanza israeliana che ancora una volta hanno ribadito il loro legame e la condivisione della lotta con i palestinesi di Gaza e Gerusalemme. Comunque è stata anche una tattica per danneggiare in modo efficace l’economia israeliana. I palestinesi con cittadinanza israeliana, il 20% della popolazione di Israele, costituiscono una larga fetta della forza lavoro; per esempio, il 24% degli infermieri e il 50% dei farmacisti sono palestinesi. 

Anche il settore dell’edilizia israeliana è composto per la maggior parte da palestinesi, prevalentemente provenienti dalla Cisgiordania, ma anche da cittadini palestinesi di Israele. Il giorno dello sciopero hanno partecipato quasi tutti i lavoratori manuali, causando una completa sospensione delle industrie per l’intera giornata. Anche i sindacati si sono uniti in previsione dello sciopero esortando i sindacati internazionali a mostrare solidarietà con loro e a intervenire contro l’oppressione israeliana. Questo tipo di sostegno si è visto, alcuni giorni prima dello sciopero, fra i portuali di Livorno che hanno rifiutato di caricare sulle navi armi ed esplosivi israeliani, dichiarando: “Il porto di Livorno non sarà complice nel massacro del popolo palestinese.” 

Le proteste sono continuate nei giorni successivi allo sciopero, anche se su scala minore e con meno attenzione da parte dei media. Ciononostante lo sciopero ha acceso una scintilla e l’attenzione sull’oppressione economica è diventata un tema della mobilitazione. Varie settimane dopo, e sulla base del successo dello sciopero, è stata annunciata una campagna per promuovere il potere d’acquisto dei palestinesi. Denominato “Settimana dell’economia palestinese”, l’evento sottolineava che, nonostante la morsa economica con cui il regime israeliano soffoca i palestinesi, essi hanno un potere di acquisto collettivo. Tutto ciò ricorda molto la Prima Intifada, quando misure popolari, come il movimento cooperativo e la richiesta di boicottare i prodotti israeliani, sfidarono l’assoggettamento economico e la dipendenza dal regime israeliano. 

Il progetto colonialista sionista ha intenzionalmente soggiogato l’economia palestinese distrutta dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e dalla successiva occupazione di terra palestinese. Mentre il regime sionista conquistava la maggior parte dei settori produttivi e agricoli, escludeva i palestinesi da quasi tutte le aree della nuova economia. Dopo la guerra del 1967, che ha portato questi territori sotto occupazione militare israeliana, questa situazione si è estesa alla Cisgiordania e a Gaza.

 Agli inizi degli anni ’90 una serie di accordi di “pace” durante gli Accordi di Oslo hanno portato ai palestinesi un ulteriore assoggettamento economico, passando di fatto il controllo diretto ed indiretto della loro economia al regime israeliano. Gli accordi hanno anche accentuato la loro frammentazione sociale in Cisgiordania e a Gaza. Mentre alcuni sostenevano che i protocolli economici avrebbero portato prosperità a tutti, in realtà, hanno alimentato il clientelismo capitalista palestinese, espandendo il divario economico e le divisioni fra classi sociali. 

La Settimana dell’Economia Palestinese ha incoraggiato varie attività nella Palestina colonizzata, da Haifa a Ramallah e altrove, promuovendo la produzione e i prodotti palestinesi locali al posto di quelli israeliani che hanno monopolizzato il mercato con la loro abbondanza e la competitività dei prezzi. La Settimana ha così proposto, in alternativa alla dominazione coloniale capitalista, una concetto più olistico, dato che la liberazione economica è un aspetto chiave nel quadro di una più ampia lotta di liberazione nazionale.

Comprendere l’unità nell’Intifada dell’Unità

Il 21 maggio, dopo il “cessate il fuoco” fra Israele e Hamas, è venuta meno l’attenzione dei media internazionale per la rivolta e da allora le inevitabili discussioni sulla ricostruzione di Gaza dominano i notiziari. Nonostante le enormi distruzioni e le vittime a Gaza, molti palestinesi considerano il risultato una vittoria di Hamas. 

È comunque importante sottolineare che la rivolta, cominciata prima del bombardamento di Gaza, va oltre Hamas e la sua narrazione della vittoria. Come mi ha fatto notare un collega palestinese di Gaza: “Questa volta, a Gaza, è sembrato diverso. Questa volta ci è sembrato di non essere soli”. Infatti, data la mobilitazione di massa in tutta la Palestina colonizzata e la ripresa dei legami con i movimenti di base, seppure in presenza di una frammentazione forzata, questa nuova rivolta è stata soprannominata: “Intifada dell’Unità.”

Nel periodo dello sciopero è stato pubblicato online un documento, intitolato “Manifesto della dignità e speranza dell’Intifada dell’Unità”, che respinge questa frammentazione forzata:

Noi siamo un unico popolo e un’unica società in tutta la Palestina. Le bande sioniste hanno cacciato con la forza la maggior parte del nostro popolo, rubato le nostre case e demolito i nostri villaggi. Il sionismo era determinato a creare una divisione tra chi restava in Palestina, a isolarci in frammenti geografici e trasformarci in società differenziate e disperse, affinché ogni gruppo vivesse in una grande prigione separata. Ecco come il sionismo ci controlla, disperde la nostra volontà politica e ci impedisce una lotta unitaria contro il sistema razzista colonialista in Palestina.”

Il manifesto dettaglia i vari frammenti geografici del popolo palestinese: la “prigione Oslo” (Cisgiordania), la “prigione della cittadinanza” (terre occupate nel 19481), il brutale assedio di Gaza, il sistema di ‘giudaizzazione’ a Gerusalemme e quelli che vivono un esilio permanente. L’imposizione sulla Palestina di questa geografia colonizzata, caratterizzata da muri di cemento, checkpoint, comunità chiuse di coloni e recinzioni di filo spinato ha costretto i palestinesi a vivere in frammenti separati e isolati l’uno dall’altro. 

 Come fa notare il manifesto, ciò non è successo inevitabilmente o per caso. Al contrario, questa politica intenzionale di ‘divide et impera’ è stata implementata dal regime sionista per minare la lotta anticolonialista di una Palestina unita. Ma i palestinesi non sono rimasti passivi. Nel corso degli anni molti movimenti di base hanno cercato di interrompere la frammentazione, inclusi i vari movimenti giovanili di protesta, come la richiesta del 2011 di unità politica fra la Cisgiordania e Gaza, le dimostrazioni contro Prawer [progetto per deportare i beduini del sud di Israele in campi chiusi, ndtr.] nel 2013 contro la politica israeliana di pulizia etnica dei beduini nel Naqab e la campagna per togliere le sanzioni contro Gaza imposte dall’ANP. 

Più recentemente gruppi di donne palestinesi hanno fondato Tal’at, un movimento femminista radicale che mira, fra altre cose, a trascendere questa divisione geografica affermando che la liberazione della Palestina è una lotta femminista. Quest’ultima componente dell’unità palestinese è una conseguenza di questi continui sforzi per rivitalizzare una lotta palestinese condivisa.

Eppure, internazionalmente, molti non sono riusciti a capirlo. Anzi, la violenza che si stava consumando nei territori del 1948 è stata spesso erroneamente definita come violenza comunitaria, quasi una guerra civile fra ebrei e arabi, una definizione che separa nettamente i cittadini palestinesi in Israele dai palestinesi a Gaza e Gerusalemme. Questa valutazione non descrive la realità dell’apartheid, in cui gli ebrei israeliani e i cittadini palestinesi in Israele vivono vite totalmente separate e ineguali. 

Infatti, questa è l’eredità di una tendenza vecchia di decenni di fare riferimento ai palestinesi con cittadinanza israeliana come “arabi israeliani” tentando di separarli dalla loro identità palestinese. Nei casi migliori la loro situazione è descritta nell’informazione mainstream come il caso non eccezionale di un gruppo minoritario che subisce la discriminazione della maggioranza ebrea, invece di sopravvissuti autoctoni della pulizia etnica del 1948 che continuano a resistere all’annientamento da parte dei coloni. L’incapacità di riconoscere le recenti proteste nei territori del 1948 come una parte specifica di una rivolta di palestinesi uniti è particolarmente notevole se si prende in considerazione l’aspetto estetico: la maggior parte delle dimostrazioni era caratterizzata da una marea di bandiere palestinesi e gli slogan di protesta chiaramente palestinesi.

Anche Gaza è stata lentamente separata dalla lotta palestinese nelle descrizioni mainstream, discussa come un problema completamente separato da quello del resto della Palestina colonizzata. I continui bombardamenti del regime israeliano sono quasi sempre spiegati come una guerra fra Israele e Hamas, un’interpretazione distorta che deliberatamente ignora il fatto che anzi Gaza è il fulcro della lotta palestinese, come sostiene Tareq Baconi [politologo e membro della direzione di Al Shabaka, ndtr.].

Unità contro tutte le aspettative

Se le dimensioni della mobilitazione e la portata della partecipazione popolare a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane sono state imponenti, il costo di questa rivolta è stato e continua ad essere alto. Oltre alla brutalità a Gaza, i palestinesi altrove nella Palestina colonizzata sono stati vittime di violenza efferata e arresti. Nelle ultime settimane, in seguito a operazioni di “legge e ordine” condotte dal regime israeliano i cittadini palestinesi di Israele, quasi tutti giovani operai, sono stati arrestati. Il regime israeliano usa questi arresti di massa come forma di punizione collettiva per intimidire e terrorizzare le comunità.  

In Cisgiordania l’ANP collabora ancora con il regime israeliano nel coordinamento per la sicurezza e ha arrestato vari attivisti coinvolti nelle proteste. Tali arresti, specialmente di coloro che criticano l’’ANP, non sono cosa nuova e seguono uno schema di repressione politica sia in Cisgiordania che a Gaza. Infatti il 24 giugno 2021 le forze di sicurezza dell’’ANP hanno arrestato e picchiato a morte Nizar Banat, un attivista molto conosciuto e critico del regime. Da allora in Cisgiordania sono scoppiate dimostrazioni per chiedere la fine del governo di Mahmoud Abbas, presidente dell’’ANP. Le proteste sono state accolte con violenza bruta e repressione, ma questo comportamento non sorprende. L’’ANP è tristemente nota per i suoi abusi di potere tramite questo tipo di violente intimidazioni.

Durante la rivolta in Cisgiordania, dominata da Fatah, l’’ANP è stata totalmente messa da parte in particolare di fronte alla narrazione della vittoria di Hamas. Ma oltre alla crescente irrilevanza dell’’ANP e la lotta per legittimità e potere fra i due partiti palestinesi dominanti, questa rivolta rivela qualcosa d’altro. Mostra che i movimenti di base e una leadership decentralizzata possono svilupparsi organicamente e al di fuori di istituzioni politiche corrotte. Ha anche fatto vedere che i palestinesi desiderano fortemente una mobilitazione unificata.

Lo slancio della rivolta continua e la sensazione di unità cresce nonostante la diminuzione dell’attenzione dei media e a livello internazionale. Qualcosa è infatti cambiato: i palestinesi invocano una narrazione condivisa e lottano dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. Riconoscono così di trovarsi a fronteggiare un unico regime di oppressione anche se si manifesta in modi differenti nelle comunità palestinesi frammentate. Sostanzialmente, questa rivolta, come quelle che l’hanno preceduta, ha ribadito che nel popolo risiede il potere tramite il quale la liberazione palestinese deve essere ottenuta e lo sarà.

  1. Questo è spesso descritto dai politici internazionali come “Israele vero e proprio” e ritenuto differente dalla colonizzazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza.

Yara Hawari è analista senior di Al-Shabaka, la Rete Politica Palestinese. Ha conseguito un dottorato in Politiche del Medio Oriente presso l’università di Exeter, dove ha insegnato ed è tuttora ricercatrice onoraria. Oltre al suo lavoro accademico focalizzato su studi indigeni e storia orale, è anche un’assidua commentatrice politica per varie testate, tra cui The Guardian, Foreign Policy e Al Jazeera in inglese.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Diventa virale il cortometraggio su Sheikh Jarrah girato da un regista palestinese

Aziza Nofal

22 giugno 2021 – Al Monitor

Il giovane regista palestinese Omar Rammal continua a raccogliere commenti positivi per “The Place,” [Il Posto], il corto che ha prodotto e postato sui social durante i recenti eventi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme.

RAMALLAH, Cisgiordania — Il 15 maggio, quando il regista palestinese Omar Rammal, 23 anni, ha postato il corto “The Place,” [Il posto] sul suo canale YouTube, non si aspettava che diventasse virale. “Credevo che avrebbe ricevuto vari apprezzamenti, ma non così tanti,” ha detto Rammal ad Al-Monitor.

Il video apparso il 15 maggio sul suo account Instagram ha totalizzato più di 6 milioni di visualizzazioni e parecchi altri canali l’hanno condiviso. Rammal l’ha postato senza copyright in modo che fosse disponibile a chiunque volesse ripostarlo, per fare conoscere in tutto il mondo la realtà della Palestina, e di Sheikh Jarrah in particolare.

In “The Place”, che dura solo un minuto e mezzo, Rammal sintetizza l’espulsione di 28 famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, dove gruppi di coloni israeliani stanno tentando di espandersi.

Rammal ha deciso deliberatamente di postare il suo video proprio il giorno dell’anniversario della Nakba [la Catastrofe, la pulizia etnica operata dai sionisti nel ’47-’48, ndtr.] per dire che il furto delle case palestinesi continua da allora e che il quartiere di Sheikh Jarrah non sarà l’ultimo, perché ogni “posto” in Palestina è preso di mira in vista della continua occupazione.

Nel suo film si concentra sulla storia di una famiglia palestinese che parla della propria casa: c’è la mamma che dice che la sua cucina è “condita con amore”, la ragazzina che ama la sua cameretta e i suoi giocattoli, il ragazzo che rappresenta i giovani palestinesi e il padre che l’ha ereditata insieme a un albero nel giardino piantato dal nonno, la cosa che ama di più della casa.

Alle spalle di queste immagini “normali”, si vedono i coloni che stanno portando via i ricordi della famiglia a cui stanno rubando la casa.

Rammal ha voluto mettere i sottotitoli in inglese con un commento semplice alla fine che riassumesse il messaggio del film: “Il posto siamo noi … la nostra esistenza … i nostri ricordi e il nostro futuro.”

Quando a Rammal è venuta l’idea per “The Place,” ne ha parlato con il suo amico sceneggiatore Suleiman Tadros che l’ha aiutato a trasformarla in un copione. Il produttore Abdel Rahman Abu Jaafar e l’intera troupe, inclusi gli attori, sono tutti volontari che hanno contribuito, ognuno nel proprio ruolo, per sostenere la lotta palestinese.

Le riprese sono durate tre giorni, ma Rammal non ha pensato che il film fosse abbastanza potente fino a quando non hanno girato la scena della mamma, interpretata dall’attrice giordana Hind Hamed. “Riguardandola dopo le riprese mi sono venuti i brividi. È stato in quel momento che mi sono detto che avrebbe avuto un enorme impatto,” ha concluso Said.

Rammal crede che, oltre ad aver postato il film sui social in un momento in cui il mondo stava mostrando grande solidarietà alla causa palestinese e al quartiere di Sheikh Jarrah, il segreto del suo successo stia nel modo in cui ne ha trasmesso il messaggio umanitario.

Rammal osserva che il cinema palestinese e arabo, nonostante la carenza di risorse, se usato in modo intelligente e sensibile, può comunicare i temi palestinesi in tutto il mondo.

Lui paragona il successo di “The Place” a quello del suo primo film del 2019, “Hajez” (“Checkpoint”), che parla delle sofferenze quotidiane dei palestinesi ai checkpoint israeliani. Sebbene entrambi illustrino una realtà palestinese, il primo non era stato accolto molto bene a causa dell’esplicito messaggio politico.

Il successo di questo film pone Rammal davanti a una scelta: lui non vuole essere visto come un regista palestinese che fa solo vedere la lotta palestinese, dato che invece crede che si debba mostrare l’altro lato della vita dei palestinesi che non è diversa da quella di qualsiasi altra persona in qualunque altro posto. “È vero che la vita dei palestinesi è complicata dall’occupazione, ma noi viviamo la nostra quotidianità come chiunque altro.”

Lui sostiene che i registi palestinesi non dovrebbero solo presentare tematiche palestinesi o mostrare i palestinesi solo sotto una luce negativa o in modo superficiale, ma piuttosto dovrebbero concentrarsi nel rispecchiarne il lato umano e la vita quotidiana.

Rammal viene da Salfit, nella Cisgiordania settentrionale, e ha completato i suoi studi in cinematografia nella capitale giordana, Amman. Nel 2018 ha diretto: “Fatimah,” un breve documentario su una ragazza siriana sfollata in Giordania e ha partecipato a vari festival arabi e internazionali, come il film festival franco-arabo, l’Elia film festival di corti e il Winter Film Awards a New York.

“The Place” non ha solo trasmesso un messaggio palestinese in tutto il mondo. Ha anche dimostrato che il cinema palestinese può comunicare un’autentica storia palestinese usando in modo intelligente gli strumenti disponibili e i social per contrastare la narrazione israeliana che falsa l’immagine dei palestinesi.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Sheikh Jarrah: le forze israeliane feriscono più di 20 palestinesi nella Gerusalemme est occupata

A cura della redazione di MEE

22 giugno 2021 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno riferito di aver usato nel quartiere granate stordenti, spray al peperoncino e proiettili ricoperti di gomma

Lunedì sera nella Gerusalemme est occupata più di 20 palestinesi sono stati feriti nel corso di un raid delle forze israeliane nel quartiere di Sheikh Jarrah.

Gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah stanno affrontando delle espulsioni forzate finalizzate a consentire ai coloni israeliani la presa di possesso delle loro case.

L’area è diventata un fulcro di proteste e sit-in di solidarietà che raccolgono palestinesi e israeliani contrari all’occupazione e attivisti internazionali che sostengono gli abitanti di Sheikh Jarrah.

Lunedì la Mezzaluna Rossa Palestinese ha riferito che nella zona 21 persone avrebbero subito dei danni, 13 per aver inalato gas lacrimogeni, tre a causa dello spray al peperoncino e due per essere state colpite da proiettili di metallo ricoperti di gomma sparati dalle forze di polizia israeliane.

L’organizzazione ha aggiunto che due persone avrebbero riportato ferite a causa delle percosse, mentre un anziano sarebbe stato ricoverato in ospedale in seguito a un trauma cranico.

La Mezzaluna Rossa Palestinese ha affermato che i coloni di Sheikh Jarrah avrebbero lanciato pietre contro una delle loro ambulanze, mentre su un’altra le forze israeliane avrebbero spruzzato dell’acqua puzzolente.

Secondo Haaretz la polizia israeliana ha riferito che un colono avrebbe subito una ferita alla schiena in seguito al lancio di una pietra.

Saleh Diab, un attivista palestinese, ha detto all’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa che a Sheikh Jarrah le forze di polizia israeliane, mentre sparavano granate stordenti e proiettili ricoperti di gomma, avrebbero arrestato due palestinesi e, nell’assalire le case delle famiglie al-Kurd e al-Qasem, alle prese con un’imminente un’espulsione, avrebbero aggredito gli abitanti con manganelli.

Arresti in Cisgiordania

Nel corso dei raid di lunedì sera e martedì mattina nella Cisgiordania occupata la polizia israeliana ha arrestato 35 palestinesi. Tali raid notturni in città e villaggi palestinesi vengono effettuati dalle forze israeliane e da unità sotto copertura quasi quotidianamente.

Secondo Wafa nel villaggio di Qarawat Bani Hassan, nel nord della Cisgiordania, sono stati arrestati 14 palestinesi, 12 dei quali appartenenti alla famiglia Marei.

Altri sette palestinesi sono stati arrestati a Jenin e due a Tulkarm, mentre nel quartiere di Silwan, a sud della moschea di al-Aqsa a Gerusalemme est, ne sono stati arrestati 10.

Gli arresti sono stati effettuati ​​lunedì quando i coloni israeliani hanno fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa, affiancati dalla polizia israeliana.

I coloni sono entrati nel sito dalla Porta Marocchina, a est della Moschea di Al-Aqsa, che conduce alla piazza del Muro Occidentale, dove gli israeliani recitano le preghiere.

Il Jerusalem Islamic Waqf, l’istituzione religiosa palestinese che amministra il sito, ha affermato che i coloni avrebbero svolto le preghiere ebraiche di fronte alla porta di al-Rahmeh e alla moschea della Cupola della Roccia, e avrebbero ascoltato un sermone sul Terzo Tempio ebraico [detto anche Tempio di Ezechiele, descritto e profetizzato nel Libro di Ezechiele, ndtr.].

Nonostante il divieto di pregare lì, i coloni entrano regolarmente nella moschea di Al-Aqsa, con l’obiettivo di rafforzare la presenza ebraica sul sito, tanto che alcuni chiedono la distruzione della moschea della Cupola della Roccia per costruire un tempio ebraico al suo posto.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Caro Presidente Biden, lei deve agire sulla situazione della Palestina

19 giugno 1921, Al Jazeera 

Oltre 680 personalità di livello mondiale nei loro settori [ndt: politici, ong, organizzazioni internazionali, organizzazioni culturali, accademici, premi Nobel ecc.] chiedono al presidente Biden di onorare i suoi impegni e proteggere i diritti umani dei palestinesi.

Caro Presidente Biden,

Noi, la sottoscritta global coalition of leaders” [ndt. https://nowisthetimecoalition.com/]

– dalla società civile agli affari, alle comunità artistiche e religiose, alla politica e ai premi Nobel – chiediamo alla leadership degli Stati Uniti di agire per contribuire a porre fine al dominio all’oppressione istituzionalizzati da parte di Israele del popolo palestinese e a proteggere i suoi diritti umani fondamentali. Una pace sostenibile e giusta – per entrambe i popoli – rimarrà irraggiungibile se la politica statunitense continuerà a sostenere uno status quo politico privo di giustizia e responsabilità.

La sua amministrazione si è impegnata in una politica estera “incentrata sulla difesa della democrazia e sulla tutela dei diritti umani”. Più di recente, lei ha affermato: “Credo che palestinesi e israeliani meritino ugualmente di vivere in modo sicuro e protetto e di godere in pari misura di libertà, prosperità e democrazia”. Per i palestinesi la differenza tra queste affermazioni e la realtà della loro vita quotidiana non potrebbe essere più ampia.

Anche dopo un cessate il fuoco formale, la violenza della polizia israeliana e dei coloni contro i palestinesi continua. L’espropriazione violenta dei palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata, comprese le famiglie che vivono nei quartieri di Gerusalemme est di Sheikh Jarrah e Silwan, e le azioni aggressive delle forze israeliane contro i manifestanti pacifici e i fedeli alla moschea di Al-Aqsa, sono le ultime dimostrazioni di un sistema di governo discriminatorio e ineguale [ndt. per i due popoli]. Queste politiche distruggono il tessuto sociale delle comunità [palestinesi] e minano qualsiasi progresso verso un futuro democratico, giusto e pacifico. La logica che le guida ha portato alla recente distruzione di case che ha reso sfollati 72.000 palestinesi a Gaza, i quali devono anche sopravvivere alla crisi umanitaria in corso causata da un blocco di 14 anni

Per ottenere un miglioramento della situazione, gli Stati Uniti devono affrontare le cause profonde della violenza che le precedenti amministrazioni hanno trascurato. La sua amministrazione deve esercitare una pressione diplomatica concertata per aiutare a porre fine al continuo aumento delle discriminazioni e all’oppressione sistematica e garantire che le autorità israeliane siano ritenute responsabili per le violazioni dei diritti dei palestinesi.

Solo un’applicazione coerente di una politica estera incentrata sui diritti può far capire ai leader israeliani che le violazioni del diritto internazionale non verranno più tollerate. Signor Presidente, ora è il momento di stabilire un nuovo standard della politica estera americana che assuma una funzione di guida per la giustizia e apra la strada a una pace duratura.

firmato,

[ndt. primi tre firmatari]

Mary Robinson, ex presidente dell’Irlanda ed ex alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

Jan Egeland, segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati ed ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari e coordinatore dei soccorsi di emergenza

Kumi Naidoo, Ambasciatore nel mondo per “Africans Rising for Justice, Peace and Dignity” ed ex direttore esecutivo generale di Greenpeace International

E 680 personalità da 75 Paesi di tutto il mondo

La lista completa dei firmatari si trova sul sito:

https://nowisthetimecoalition.com/

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Ex-procuratore generale scopre che un’associazione di coloni si è impossessata della casa della sua famiglia a Sheikh Jarrah

Nir Hasson

15 giugno 2021 – Haaretz

Michael Ben-Yair è rimasto piuttosto sorpreso quando ha scoperto che un’associazione no profit religiosa ha imposto ai palestinesi che vivono nella casa di sua nonna a Gerusalemme est un affitto di centinaia di migliaia di shekel con l’approvazione di un tribunale rabbinico. L’iter giudiziario per rivendicare la casa rivela il modus operandi dei coloni nella loro spinta per “ebraizzare” Sheikh Jarrah.

Un’associazione no profit dei coloni si è impossessata di un edificio nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est di proprietà della famiglia di Michael Ben-Yair, un ex- procuratore generale e giudice distrettuale in pensione. L’associazione ha gestito l’edificio per anni, riscuotendo l’affitto per un totale di centinaia di migliaia di shekel da abitanti palestinesi, senza che i legittimi eredi della prima proprietaria dell’immobile lo sapessero.

Due anni fa Ben-Yair ha scoperto che la casa di sua nonna era stata presa in consegna dall’organizzazione. Nessuno, dall’Amministratore Generale del ministero della Giustizia alla Divisione dell’Amministratore Giudiziario, dai tribunali rabbinici all’associazione di coloni, ha cercato di trovare i legittimi eredi. Da allora sta conducendo una battaglia giudiziaria per togliere l’edificio ai coloni e consentire ai palestinesi che vi risiedono di rimanervi. Nell’iter giudiziario Ben-Yair ha scoperto i metodi contorti e giuridicamente dubbi dei coloni per “ebraizzare” Sheikh Jarrah.

Ci avrebbero potuto trovare facilmente”

Alla fine del XIX secolo Nahalat Shimon era un piccolo quartiere nella parte occidentale di Sheikh Jarrah. Michael Ben-Yair, ex- procuratore generale durante i governi di Yitzhak Rabin e di Shimon Peres, vi è nato nel 1942. Nel 1948 gli abitanti fuggirono dopo che il quartiere fu conquistato dalla Legione Araba giordana. Come la maggior parte degli abitanti ebrei che scapparono da Gerusalemme est verso la parte occidentale della città, la famiglia venne indennizzata per la perdita della propria casa e ricevette un’altra abitazione e un negozio nel quartiere di Romema.

Negli anni ’90 le organizzazioni dei coloni iniziarono a fare pressione per sostituire gli abitanti arabi di Sheikh Jarrah con ebrei in base a una legge che consente agli ebrei di rivendicare le proprietà che possedevano nel 1948, benché fossero stati indennizzati per quello che avevano perso. Nahalat Shimon era stato diviso in una parte orientale chiamata Karm al-Jaouni, in cui la terra era di proprietà dei consigli delle comunità di ebrei askenaziti [originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.] e mizrahi [originari dei Paesi arabi e musulmani, ndtr.]. La terra nella parte occidentale, chiamata Umm Haroun, dove viveva la famiglia di Ben-Yair, era proprietà privata di famiglie ebree.

I terreni nella parte orientale vennero in seguito acquisiti da un’associazione no profit chiamata Nahalat Shimon, che è controllata da un’impresa straniera e gestita da un colono militante di nome Yitzhak Mamo. Nella parte occidentale Mamo e alcune associazioni di coloni avevano bisogno della collaborazione di famiglie ebree che avessero ereditato le proprietà. In qualche caso ricevettero questa cooperazione e acquistarono gli immobili, cacciando le famiglie palestinesi che vi abitavano. Nel caso della famiglia Ben-Yair utilizzarono un metodo diverso.

La casa e un negozio annesso sono elencati in un “documento fiduciario”, un tipo di testamento stilato dalla nonna di Ben-Yair, Sarah Jannah, figlia di Menashe Shvili. Nel 1927 dichiarò davanti a un tribunale rabbinico di Gerusalemme che la casa e il negozio sarebbero passati ai suoi eredi e poi agli eredi degli eredi. Aggiunse che se, dio ne guardi, nessun membro della famiglia fosse rimasto in vita dopo gli eredi originari, la proprietà sarebbe passata alla sinagoga georgiana del quartiere. Ciò era frequente in quei giorni nel caso di famiglie senza discendenti ancora in vita.

In base a quest’ultima frase, nel 2002 un’associazione no profit di destra chiamata Meyashvei Zion [Coloni di Sion], gestita da Mamo, fece ricorso a un tribunale rabbinico, chiedendo che Mamo e un’altra persona, di nome Oren Sheffer, venissero incaricati dal tribunale di determinare di chi fosse la proprietà. Il tribunale accolse la loro richiesta. Poco dopo i due informarono il tribunale che non avevano trovato eredi e il tribunale li nominò rapidamente amministratori fiduciari di quell’edificio senza nessun significativo tentativo da parte del tribunale di individuare gli eredi.

La decisione si basava sul presupposto che non si potesse trovare nessun erede, benché Sarah Jannah risultasse all’anagrafe, dato che morì nel 1955, dopo la fondazione dello Stato. Chiunque lo avesse voluto avrebbe potuto facilmente trovare i suoi eredi con una semplice ricerca presso il ministero dell’Interno. “I numeri dell’identità di tutta la famiglia sono consecutivi,” dice Ben-Yair. “Quello di mio fratello termina con 03, il mio con 04, il numero dei miei nonni finiva rispettivamente con 05 e 06.

Nel 2004 l’Amministrazione Generale e l’Amministratore Giudiziario, che avevano gestito la proprietà fin dal 1967, presentarono ricorso contro la nomina dei nuovi amministratori fiduciari, affermando che si sarebbe dovuto cercare di individuare membri in vita della famiglia, ma il tribunale rigettò questa richiesta. Un anno dopo il liquidatore consegnò l’edificio a Mamo e Sheffer, rimborsando persino all’ong 250.000 shekel (circa 63.000 euro) per gli affitti che lo Stato aveva riscosso dagli abitanti palestinesi fino a quel momento. Nei successivi nove anni l’associazione riscosse 600.000 shekel [circa 150.000 euro] di proventi ricavati dalla proprietà.

Nel 2011 un’altra associazione no profit, il consiglio della comunità georgiana, riuscì a impossessarsi della proprietà con l’appoggio di un tribunale rabbinico. Neppure questa organizzazione si mise alla ricerca dei veri eredi. Verbali delle udienze del tribunale rabbinico nel 2016 mostrano che il consiglio georgiano sapeva che la proprietà aveva eredi legittimi che non ne stavano beneficiando. Il consiglio sapeva persino i loro nomi. “Mi dissero che era di un certo professor Yair qualcosa… del prof. Michael Yair; stiamo cercando di trovarlo,” disse il fiduciario georgiano David Bandar in una delle udienze.

Mancanza della minima decenza”

Quando un decennio fa Sheikh Jarrah iniziò a diventare famoso in seguito all’espulsione di famiglie palestinesi dalle proprie case, Ben-Yair si unì alle manifestazioni organizzate da un movimento di solidarietà contro i coloni ebrei. Stilò persino un pamphlet in cui affermava che le famiglie ebree che avevano lasciato le proprie abitazioni lì avevano ricevuto indennizzi, rendendo illegale e immorale la loro richiesta di recuperare le loro vecchie case.

Due anni fa Ben-Yair ha scoperto che i coloni avevano iniziato a cacciare palestinesi da un negozio che pensava facesse parte della casa di sua nonna. Di conseguenza presentò un ricorso all’amministratore giudiziario, il procuratore Sigal Yacobi, che è anche il direttore generale ad interim del ministero di Giustizia. “All’epoca pensavo che la proprietà fosse ancora registrata a nome di mia nonna e avevo ipotizzato che fosse occupata da rifugiati palestinesi, che vi vivevano indisturbati. Dato che avevamo ricevuto un indennizzo nel 1948 non mi sono preoccupato di controllare l’attuale proprietà nell’ufficio del catasto,” dice.

Ben-Yair afferma che, quando ha incontrato la curatrice fallimentare, costei ha fatto un controllo ed ha scoperto che la proprietà era stata considerata senza proprietari.

Le ho detto che noi siamo gli eredi, quindi ha chiesto di vedere il documento fiduciario ed è rimasta sbalordita. Ha visto che si trattava di un bene fiduciario privato e non pubblico,” racconta. Durante l’incontro i membri della famiglia hanno appreso per la prima volta la volontà della nonna. Ben-Yair e sua sorella, Na’ama Bartal, in seguito hanno chiesto al tribunale di verificare il documento fiduciario. Il tribunale ha rigettato la richiesta, affermando che non sono in possesso della documentazione sufficiente a dimostrare il rapporto della loro famiglia con la loro nonna.

Ben-Yair ha presentato appello contro la decisione alla pretura di Tel Aviv, chiedendo che al ministero dell’Interno venga data indicazione di fornirgli i documenti che confermano che egli è il nipote di sua nonna. Ben-Yair ha vinto l’appello e il ministero dell’Interno è tenuto a fornirgli i documenti la prossima settimana.

Nel contempo gli avvocati Michael Sfard e Alon Sapir, con l’assistenza di Peace Now [Ong israeliana contraria all’occupazione, ndtr.], hanno presentato la richiesta al tribunale rabbinico di nominare fiduciari i membri della famiglia. “Michael Ben-Yair non si era nascosto e non era stato rapito da un Paese ostile; non ha cambiato il proprio nome né si è nascosto nella sua camera da letto. Non solo è una persona facilmente reperibile, è una figura pubblica che fa dichiarazioni pubbliche e tre anni fa ha persino pubblicato un libro su Sheikh Jarrah,” hanno scritto Sfard e Sapir nella loro richiesta al tribunale.

Deve ancora essere emessa una sentenza sul loro ricorso, ma nel frattempo i giudici rabbinici hanno ordinato che ogni attività nell’affido fiduciario venga sospesa. Ben-Yair e sua sorella hanno affermato di sperare che presto riavranno la loro casa e che in seguito intendono citare in giudizio gli amministratori fiduciari di Meyashvei Zion e il consiglio georgiano per il denaro che hanno riscosso dai palestinesi nel corso degli anni.

Dato che il documento fiduciario vieta la vendita della casa, Ben-Yair spera di convincere la sua famiglia ad affittarla alla famiglia palestinese che vi abita per un canone simbolico e per un lungo periodo. “Non si tratta solo di una questione di ‘quello che è mio è mio e quello che è tuo è mio’. È una mancanza della minima decenza ed è inconcepibile in base a qualunque sistema giuridico che io riceva sia l’indennizzo che la proprietà per la quale l’ho ricevuto,” dice Ben-Yair. “Ciò riguarda anche l’espulsione dei palestinesi che diventerebbero rifugiati per la seconda volta mentre non hanno il diritto di cercare di rivendicare i propri beni di prima del 1948 [data della fondazione di Israele, ndtr.]. La giustizia richiede che non vengano espulsi e che venga garantita la loro custodia della casa.”

È una storia folle,” afferma l’avvocato Sfard, che rappresenta Ben-Yair. “La persona che si supponeva cercassero stava seduta proprio là nel suo ufficio al piano di sopra dell’Amministratore Giudiziario dello Stato nel ministero di Giustizia. Ciò dimostra solo la gravità dell’occultamento e del collegamento tra i soggetti dell’ebraizzazione e il tribunale rabbinico. Il tribunale deve verificare che gli amministratori fiduciari non stiano facendo niente per stravolgere le disposizioni della persona che ha lasciato l’eredità o ha stilato il documento fiduciario.”

La storia di Ben-Yair ci fornisce l’opportunità di vedere il sistema di spoliazione a Gerusalemme est,” dice Hagit Ofran di Peace Now. “Le autorità statali, L’Amministratore Giudiziario e il tribunale rabbinico stanno consentendo e persino promuovendo l’espulsione dei palestinesi e la sostituzione con coloni. Il governo non può più sostenere che Sheik Jarrah sia solo una questione immobiliare. È una questione politica che è responsabilità dello Stato, e lo Stato è responsabile anche di impedire l’ingiustizia.”

Ci deve essere stata un po’ di confusione”

L’amministrazione dei tribunali rabbinici afferma: “Nel 2011 parecchie persone si sono recate davanti al tribunale ed hanno sostenuto che non era stato trovato nessun erede. Di conseguenza il tribunale ha ordinato che, in linea con il documento dell’affido, la proprietà venisse utilizzata per scopi pubblici. Anche il consiglio georgiano è tra gli attuali affidatari. Il materiale nel documento mostra che il nome della donna che ha fatto il testamento, Sarah bat Menashe Hannah/Jannah/Shvili, è scritto in vario modo, il che può aver provocato un po’ di confusione.

È molto importante notare che quelli che affermano di essere gli eredi della deceduta al momento non hanno dimostrato di essere effettivamente i suoi discendenti e a questo proposito hanno avviato un procedimento giudiziario davanti ad altri tribunali. Ciononostante, e per precauzione, quando il ricorrente ha contattato per la prima volta Rachel Shakarji, la responsabile delle proprietà religiose destinate a fini benefici, lei ha scritto al tribunale e chiesto che venisse emanata un’ingiunzione temporanea che desse indicazioni ai riceventi dell’affido fiduciario di non prendere alcuna iniziativa che potesse modificare la condizione dell’affido da un punto di vista giuridico o economico.

È stata immediatamente consegnata dal tribunale un’ingiunzione e questa rimane in vigore, benché quelli che sostengono di essere gli eredi della persona che ha fatto testamento non abbiano dimostrato il proprio rapporto con lei benché siano passati sei mesi da quando è stata emessa l’ingiunzione temporanea. Considerando il tempo trascorso da quando è stato definito l’affido, l’ubicazione della proprietà e i rivolgimenti avvenuti là, è possibile che ci siano stati degli errori. Tuttavia, come notato, finora la rivendicazione del rapporto familiare tra i ricorrenti e chi ha fatto il documento fiduciario non è stato dimostrato.”

L’avvocato Shlomo Toussia-Cohen, che rappresenta il consiglio georgiano, si è rifiutato di fare commenti per questo articolo. Nella loro risposta al tribunale rabbinico i georgiani hanno affermato che Ben-Yair e sua sorella non hanno dimostrato il proprio rapporto di consanguineità con Sarah Jannah e che le dichiarazioni pubbliche di Ben-Yair sui diritti dei palestinesi indicano che egli cerca di agire contro i principi del documento fiduciario e di conseguenza non è legittimato a una parte di esso.

L’ufficio dell’Amministratore Giudiziario Statale ha risposto: “Questa è una proprietà fiduciaria che è stata gestita dall’ Amministratore Giudiziario e riguardo alla quale negli anni 2000 è stata presentata una richiesta di liberatoria da amministratori fiduciari incaricati. Alla luce del fatto che si tratta di un bene fiduciario per scopi privati, questo ufficio ha aperto un’indagine presso il tribunale che ha nominato gli amministratori fiduciari ed ha espresso la propria posizione secondo cui i parenti della defunta dovrebbero essere nominati fiduciari. Tuttavia questa posizione non è stata accettata dal tribunale e di conseguenza nel 2006 la proprietà è stata lasciata ai fiduciari. È superfluo dire che è dovere dei fiduciari nominati agire in base alle volontà del documento fiduciario come stabilito dalla defunta.”

Yitzhak Mamo e Meyashvei Zion hanno rifiutato di fare commenti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




A Silwan, Gerusalemme, i coloni israeliani conducono un’altra battaglia per appropriarsi delle case dei palestinesi

Yumma Patel

9 giugno 2021 – Mondoweiss

Per decenni il quartiere di Batn al-Hawa a Silwan è stato l’obiettivo di una campagna incessante da parte delle organizzazioni di coloni per espellere con la forza i residenti palestinesi del quartiere e sostituirli con coloni ebrei, una procedura che secondo la legge israeliana è del tutto legale.

Probabilmente avete ormai sentito parlare di Sheikh Jarrah e della lotta dei residenti palestinesi del quartiere per salvare le loro case dall’occupazione da parte dei coloni israeliani.

Nelle ultime settimane la lotta per salvare Sheikh Jarrah ha attirato l’attenzione internazionale e ha provocato proteste diffuse in tutta la Palestina e nel mondo intero. Ma a pochi chilometri di distanza un altro gruppo di famiglie palestinesi sta affrontando una battaglia quasi identica.

A cinque chilometri da Sheikh Jarrah, appena fuori dalla Città Vecchia, nella Gerusalemme Est occupata, si trova il villaggio di Silwan.

Silwan si trova nel cuore di Gerusalemme Est e ospita dai 60.000 ai 65.000 palestinesi. È anche una delle aree di Gerusalemme più pesantemente colpita dagli interventi di colonizzazione israeliana e dai tentativi da parte di Israele di ciò che le organizzazioni per i diritti umani definiscono “ebraicizzare” la città.

Appena a sud del complesso della moschea di Al-Aqsa si trova il quartiere Batn al-Hawa di Silwan. Per decenni Batn al-Hawa è stato l’obiettivo di una campagna incessante da parte delle organizzazioni di coloni per espellere con la forza gli abitanti palestinesi del quartiere e sostituirli con coloni ebrei, un processo che per le leggi israeliane è del tutto legale.

Probabilmente vi starete chiedendo come ciò sia possibile.

In breve, un’organizzazione di coloni di destra di nome Ateret Cohanim ha cercato di espellere con la forza circa 100 famiglie da Batn al-Hawa con il pretesto che in passato, più di 100 anni fa, quei terreni fossero di proprietà ebraica.

Dal 2002, attraverso una serie di marchingegni legali sanciti dai tribunali israeliani, Ateret Cohanim ha presentato degli ordini di sfratto contro le famiglie di Batn al-Hawa, con l’obiettivo di insediare al loro posto i coloni ebrei.

E mentre la legge israeliana consente il trasferimento di proprietà ad ebrei che ne rivendichino il possesso in epoca precedente alla costituzione di Israele, lo stesso diritto è negato ai palestinesi che sono stati espropriati dalle loro case durante la Nakba del 1948.

Ad oggi a Batn al-Hawa Ateret Cohanim ha già preso il controllo di sei edifici, comprendenti 27 unità abitative. Unità che un tempo appartenevano a famiglie palestinesi.

Nel solo quartiere di Batn al Hawa, Ateret Cohanim ha in corso procedimenti legali per espellere 81 famiglie palestinesi, per un totale di 436 persone. Dal 2015 14 famiglie del quartiere sono già state sgomberate con la forza.

E questo solo a Batn al-Hawa.

In molti altri quartieri di Silwan anche altre organizzazioni di coloni stanno cercando di espellere ancora più famiglie palestinesi, mentre il governo israeliano ha disposto decine di ordini di demolizione di case palestinesi per far posto a un parco turistico archeologico e una riserva naturale.

Allora, a cosa porta tutto ciò?

Ebbene, nel 2020 la magistratura di Gerusalemme ha ordinato lo sgombero a Batn al-Hawa di altre sette famiglie palestinesi. I casi di due di queste famiglie avrebbero dovuto essere esaminati in appello il 26 maggio, ma il tribunale israeliano ha rinviato la sua decisione.

Nonostante il rinvio le sette famiglie, che contano 108 persone, sono ancora sotto imminente minaccia di espulsione. E non sono le sole.

Secondo un sondaggio del 2020 dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, almeno 218 famiglie palestinesi di Gerusalemme est, per un totale di 970 persone e oltre 400 bambini, sono state colpite da ingiunzioni di sgombero.

La maggior parte di questi casi sono stati avviati da organizzazioni di coloni come Ateret Cohanim.

Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani hanno invitato Israele a cancellare i piani di sgombero a Silwan, affermando che tali espulsioni forzate sono violazioni flagranti del diritto umanitario internazionale che equivalgono a crimini di guerra.

Mentre la loro espulsione forzata incombe, i palestinesi di Sheikh Jarrah e Silwan chiedono al mondo di opporsi all’apartheid israeliano e invitano le persone a continuare a portare l’attenzione sul loro caso attraverso i social media usando gli hashtag #SaveSheikhJarrah e #SaveSilwan.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 24 – 31 maggio 2021

Nota relativa al recente scontro armato tra Palestinesi ed Israele (10-21 maggio)

Secondo OHCHR [Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani], durante il periodo delle ostilità, a Gaza sono stati uccisi 256 palestinesi, tra cui 66 minori e 40 donne; e, secondo il Ministero della Salute locale, quasi altri 2.000 sono stati feriti. In Israele sono state uccise 13 persone, tra cui due minori e sei donne. In Cisgiordania, sono stati uccisi 26 palestinesi e circa 6.900 sono stati feriti. Il bilancio delle vittime registrate in Cisgiordania include 11 persone uccise il 14 maggio, segnando il numero più alto di vittime palestinesi in un solo giorno da quando, nel 2005, l’OCHA ha iniziato a documentare le uccisioni.

I rapporti specifici, inerenti lo scontro armato, sono disponibili [in inglese] a questo indirizzo: https://www.ochaopt.org/crisis

Forze israeliane hanno sparato e ucciso tre palestinesi [seguono dettagli]. Ad oggi, il numero di vittime palestinesi registrate in Cisgiordania nel 2021 è 36 di cui sei minori.

Il 24 maggio, a Gerusalemme Est, un palestinese 17enne ha accoltellato due israeliani: un civile ed un soldato, ed è stato poi ucciso da un agente di polizia israeliano. Il giorno successivo, durante un’operazione nel Campo Profughi di Al Amari (Ramallah), forze israeliane sotto copertura hanno sparato ad un altro palestinese. Il 28 maggio, nel corso di una protesta contro la creazione di un nuovo insediamento avamposto israeliano vicino al villaggio di Beita (Nablus), le forze israeliane hanno sparato e ucciso un terzo palestinese.

Complessivamente, in Cisgiordania, forze israeliane hanno ferito 100 palestinesi [seguono dettagli]. Almeno 69 di loro sono rimasti feriti durante la suddetta manifestazione a Beita; altri 15 vicino al villaggio di Ni’lin (Ramallah), in una separata protesta contro l’espansione degli insediamenti; dieci sono stati feriti durante una protesta contro la chiusura dell’ingresso principale del villaggio di Al Mughayyir (Ramallah) ad opera delle forze israeliane e sei in altri episodi. Dei 100 feriti complessivi, 50 sono stati curati per aver inalato gas lacrimogeni, 18 sono stati colpiti da proiettili di gomma, 16 sono stati colpiti da proiettili di arma da fuoco e altri 16 sono stati aggrediti fisicamente o colpiti dai contenitori dei gas lacrimogeni.

A Gaza, il 24 e il 26 maggio, due palestinesi sono morti per le ferite riportate durante il recente conflitto.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 115 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 145 palestinesi. La maggior parte delle operazioni è stata svolta nel governatorato di Gerusalemme, soprattutto a Gerusalemme Est, dove da quando (a metà aprile) sono aumentati disordini e violenze, le forze israeliane hanno svolto 99 [delle 115] operazioni, arrestando 97 palestinesi, tra cui sei giornalisti.

A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno continuato a limitare l’accesso all’area di Al Ja’ouni di Sheikh Jarrah. Dal 3 maggio, l’accesso a tale area è consentito solo ad ambulanze, veicoli dell’ONU e, previ severi controlli di identificazione, ai palestinesi residenti. Queste restrizioni conseguono alle proteste contro un piano israeliano per sfrattare famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere (in seguito ad una causa intentata in tribunale da gruppi di coloni) ed agli scontri tra palestinesi e forze israeliane.

Il 31 maggio, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno confiscato cinque strutture nelle Comunità di Umm Zaitunah e Al Buweib in Hebron, sfollando nove persone, tra cui quattro minori e minando i mezzi di sussistenza di altre 17. Le strutture comprendevano tre abitazioni e due strutture di sostentamento. Questa confisca viene dopo una riduzione delle demolizioni durante il Ramadan ed il recente conflitto di maggio.

Persone note o ritenute coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi e danneggiato decine di alberi di proprietà palestinese [seguono dettagli]. In episodi accaduti nella città di Hebron e a Deir Jarir (Ramallah), coloni hanno spruzzato spray al peperoncino su tre palestinesi, tra cui un ragazzo e un anziano, mentre a Qaqiliya altri coloni hanno aggredito fisicamente un contadino che stava lavorando la propria terra. Un altro agricoltore è stato aggredito fisicamente vicino al villaggio di Ar Rihiya (Hebron), dove colture appartenenti a palestinesi sono state sradicate e almeno 100 ulivi sono stati dati alle fiamme. Inoltre, a Sinjil (Ramallah), sono stati danneggiati circa 70 alberi. Palestinesi hanno riferito che coloni, a Burin (Nablus), hanno rubato oltre 100 balle di fieno e a Kisan (Betlemme) si sono impossessati di una cisterna per la raccolta dell’acqua. Il 24 maggio, una guardia della colonia israeliana di Dolev (Ramallah) ha sparato, ferendo un 16enne palestinese in circostanze non ancora chiare.

Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, alcuni palestinesi, noti o ritenuti tali, hanno lanciato pietre ferendo una israeliana che transitava in auto e danneggiando 17 auto israeliane.

Il valico di Kerem Shalom, per il transito delle merci, rimane aperto per l’ingresso di specifici prodotti di base, tra cui foraggio, forniture mediche, forniture e carburante per il settore privato e per UNRWA. Dal 10 maggio, nessuna merce è stata autorizzata ad uscire da Gaza attraverso il medesimo valico. Il valico di Erez rimane chiuso per la maggior parte dei palestinesi di Gaza: solo per visite mediche urgenti è stata consentita l’uscita ad un numero molto limitato di persone. Dal 25 maggio è sta autorizzata la pesca nel mare di Gaza, ma solo entro sei miglia nautiche dalla costa.

¡

Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 2 giugno, un palestinese è morto per le ferite riportate il 18 maggio: le forze israeliane gli avevano sparato durante scontri al checkpoint di Beit El.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Sheikh Jarrah microcosmo della Palestina

Sheikh Jarrah è un microcosmo della questione palestinese

Jamal Kanj

21 maggio 2021 – Middle East Monitor

I racconti sulla diaspora palestinese coprono una vasta casistica. Sheikh Jarrah è la storia delle famiglie palestinesi in un quartiere di Gerusalemme Est sotto l’occupazione israeliana.

Invece la mia diaspora parte da una famiglia di pastori di pecore e agricoltori della Galilea cacciati nel 1948 in un campo profughi del nord del Libano a cui fu impedito di tornare alle loro case. Per un caso fortunato, sono finito a vivere negli Stati Uniti e sono diventato un ingegnere civile iscritto [all’ordine] nello Stato della California.

Con l’esperienza di essere cresciuto come un rifugiato apolide, posso ben comprendere la disgrazia che la minaccia di espulsione fa pesare sulle famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah.

La lotta per il quartiere di Sheikh Jarrah è un microcosmo della questione palestinese. Mentre la guerra e la paura furono i principali strumenti israeliani per scacciare i miei genitori e più di 700.000 palestinesi dalle loro città e villaggi nel 1948, le attuali politiche israeliane usano trucchi legali per cambiare la composizione demografica delle comunità palestinesi, come nel caso di Sheikh Jarrah.

Sheikh Jarrah, situata a poco più di un chilometro a nord della Città Vecchia, prende il nome  dal medico del Saladino: Jarrah in arabo significa chirurgo. La comunità, originariamente costruita intorno alla tomba del chirurgo risalente al XIII° secolo, crebbe sino diventare tra le prime e più ricche comunità di cristiani e musulmani palestinesi al di fuori delle mura della Città Vecchia. Dopo la guerra del 1948, Sheikh Jarrah si espanse con l’arrivo di rifugiati palestinesi espulsi dal quartiere  Talbiya nella Gerusalemme occidentale occupata e da altre località.

Dal momento dell’occupazione di Gerusalemme Est nel 1967, diversi governi israeliani e amministrazioni comunali hanno usato pressioni, tribunali e violenza per sradicare i nativi di Gerusalemme  dalle  loro  case.

Un esempio calzante: nel 2001 coloni ebrei israeliani occuparono con la forza una parte della casa della famiglia Al-Kurd, sostenendo che durante l’era dell’Impero Ottomano la terra era di proprietà di  ebrei.  Invece di rimuovere gli intrusi, i tribunali israeliani assegnarono la casa a coloni ebrei. Gli Al- Kurd  divennero inquilini – nella loro stessa casa – e fu loro ordinato di pagare l’affitto agli intrusi.  Quando il  proprietario della casa si rifiutò di pagare l’affitto ai coloni estremisti, i tribunali israeliani dichiararono che la famiglia era insolvente e la costrinsero a lasciare quella che per 52 anni era stata la sua casa.

Muhammad Al- Kurd, il capo della famiglia, morì meno di due settimane dopo essere stato espulso  dalla sua casa per la seconda volta. La prima era stata nel 1948 dalla città di Haifa e la seconda fu, appunto, nel 2008.  Sua moglie, Fawzieh Al- Kurd, sconvolta, all’epoca cinquantaseienne, si piazzò  in una tenda fuori della sua casa per protestare contro questa espulsione.

Gli Al- Kurd non furono i primi palestinesi a perdere la loro casa a Sheikh Jarrah e non saranno gli ultimi. Nel 2002, Israele ha espulso con la forza 43 palestinesi dalle loro case per lasciarle a coloni  israeliani. Nell’agosto 2009, anche le famiglie palestinesi Al- Hanoun e Al- Ghaw hanno perso le loro case cedute a coloni estremisti. Nel 2017, la famiglia Shamasneh ha incontrato un destino analogo.

Oggi 500 palestinesi di Sheikh Jarrah sono a rischio di espropriazione a causa dell’ingiunzione di sgombrare le loro case da parte di un tribunale israeliano di primo grado. Poiché i palestinesi  hanno  poche o nessuna possibilità nel sistema legale israeliano,  la protesta pubblica  è l’unica  risorsa  rimasta loro per pubblicizzare l’ingiustizia e impedire al governo israeliano di privarli di nuovo della loro casa.

Le decisioni del tribunale israeliano sulle proprietà immobiliari a Sheikh Jarrah rendono evidente lo sfacciato carattere discriminatorio delle leggi nei confronti dei non ebrei nello Stato di Israele.  Ad esempio, la contestata pretesa dei coloni alla proprietà dei terreni non è basata sul diritto  di  qualsiasi individuo a esigere la sua legittima eredità, ma piuttosto su una pretesa di carattere religioso basata su un atto di proprietà fasullo vecchio di centocinquant’anni.

Quegli stessi tribunali, però, non riconoscono gli stessi diritti alle famiglie Al- Kurd, Al- Hanoun, Al- Ghaw e Shamasneh o agli altri 500 palestinesi a Sheikh Jarrah che sono in possesso di atti di proprietà di terreni e case a Gerusalemme Ovest e Haifa. In Israele solo gli ebrei possono reclamare le proprietà. I palestinesi, musulmani e cristiani, che vivono a Gerusalemme est sono considerati  “proprietari assenteisti” giuridicamente impossibilitati a rivendicare le case da cui sono stati sfrattati con la forza 70 anni prima.

Quando gli è stata posta una domanda sulle leggi che permettono agli ebrei, ma non ai palestinesi, di reclamare le proprietà, l’attuale vice-sindaco di Gerusalemme, Fleur Hassan-Nahoum, ha risposto: “Questa è una Nazione ebraica”. Come riportato dal New York Times all’inizio di questo mese, ha  aggiunto, “È ovvio che vi siano leggi che qualcuno può ritenere a favore degli ebrei: siamo uno Stato ebraico, costituito appositamente per proteggere il popolo ebraico.”

Il vice sindaco di Gerusalemme ha involontariamente rivelato il razzismo istituzionale su cui si basa il sistema gerarchico di Israele che favorisce un gruppo a scapito di tutti gli altri.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

 

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)

 

 

 




Intervista a Khaled Meshaal: l’alto dirigente sostiene che ora è Hamas a guidare la lotta palestinese

David Hearst

25 maggio 2021 – MIDDLE EAST EYE

Parlando a MEE Meshaal chiede a tutti i palestinesi di unirsi in una “rivolta totale” contro l’occupazione israeliana

Hamas è ora alla guida del popolo palestinese perché il ruolo principale di una leadership durante l’occupazione è condurre i palestinesi verso la libertà e la liberazione, ha detto a Middle East Eye Khaled Meshaal, capo dell’organizzazione nella diaspora.

Nella prima intervista in inglese del gruppo militante dal momento del cessate il fuoco con Israele di venerdì scorso, Meshaal invita ad una rivolta totale in “tutte le località” del territorio storico della Palestina: Gerusalemme e la Città Vecchia, la Cisgiordania e l’interno dello stesso Israele.

L’anziano dirigente, alla guida dell’ufficio politico di Hamas fino al 2017, afferma inoltre che il movimento sarebbe pronto a discutere con gli Stati Uniti.

Dice che è strano che l’amministrazione del presidente Joe Biden continui a parlare con i talebani, che hanno combattuto attivamente le truppe statunitensi in Afghanistan per quasi due decenni, e si rifiuti di parlare con Hamas, che non è impegnata a combattere gli Stati Uniti ma dal 1997 è ritenuta da Washington un’organizzazione terroristica.

In un messaggio diretto a Biden Meshaal ha aggiunto: Non vi consideriamo nostri nemici, anche se ci opponiamo a molte delle vostre politiche di parte a favore di Israele e contro i nostri interessi arabi e islamici. Ma non vi combattiamo. Quindi siamo pronti a comunicare con qualsiasi partito senza condizioni.”

Ma avverte che Hamas non sarebbe disposta a cambiare la sua posizione su Israele. “Non importa quanto tempo ci vorrà, questo è il mio messaggio a Biden, agli Stati Uniti e a tutti gli Stati occidentali che continuano a inserire Hamas nelle liste del terrorismo. Dico loro: non importa quanto tempo ci vorrà, Hamas non soccomberà alle vostre condizioni “

Meshaal sostiene che i Paesi arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele non solo hanno pugnalato alle spalle i palestinesi, ma hanno anche danneggiato i loro interessi rischiando di provocare una rivolta popolare.

“Ciò che sperano di ottenere da Israele è un’illusione e una fantasia”, avverte Meshaal. “Anche se non si vergognano, hanno prospettive molto limitate perché l’opinione pubblica sarà contro di loro”.

Hamas ha verificato un aumento del sostegno popolare in Palestina in seguito della sua decisione di lanciare razzi contro Israele in risposta alle aggressioni israeliane alla moschea di al-Aqsa e ai residenti di Sheikh Jarrah.

Tale sostegno viene da aree al di fuori del suo controllo tradizionale dove i suoi membri sono stati sottoposti a ripetuti arresti, ma dalla Cisgiordania e tra i cittadini palestinesi di Israele.

Alla domanda se ritenga che Mahmoud Abbas possegga ancora una qualche autorevolezza come presidente palestinese dopo l’ultimo round di combattimenti, Meshaal ha risposto: Non escludiamo nessuno e non disconosciamo il ruolo di nessuno.

Tuttavia, indubbiamente tutti hanno notato che le credenziali di Hamas e il suo status nella leadership palestinese si sono rafforzati poichè ha guidato la lotta nelle ultime fasi e specialmente in quella attuale”.

Per la prima volta in molti anni le bandiere di Hamas sono state viste sventolare accanto a quelle di Fatah in manifestazioni e proteste a Nablus, e venerdì un imam che si era rifiutato di menzionare Gaza nel suo sermone settimanale ad al-Aqsa è stato costretto a lasciare la moschea a causa della rabbia dei fedeli.

A Gerusalemme e a Umm al Fahm, nel nord di Israele, i manifestanti hanno gridato il nome di Mohamed ad-Deif, il capo dell’ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam, che Israele ha cercato di uccidere durante il recente conflitto.

Meshaal afferma che la funzione primaria della leadership in queste condizioni sia la lotta e la resistenza, e la guida dei palestinesi verso la libertà e la liberazione.

Le elezioni non sono l’unica opzione

Solo poche settimane prima che scoppiassero i combattimenti, Hamas era propenso a contestare le elezioni insieme a Fatah e ad altre fazioni palestinesi prima che le stesse fossero rinviate da Abbas.

Meshaal sostiene che Hamas ha fiducia in se stesso e che sia comunque pronto a presentarsi al ballottaggio, ma che le elezioni non rappresentino l’unica opzione.

Hamas non ha paura di proporsi alla sua gente tramite le urne. Forse altri hanno paura”, ha detto, con un’evidente stoccata ad Abbas.

Ma ha proseguito: Eppure, ancora una volta, le elezioni sono l’unica opzione? È l’unico strumento del sistema di riconciliazione ed in grado di rimettere ordine in casa palestinese? No.”

Meshaal afferma che i palestinesi sono un unico popolo con un’unica causa e invita ad una “rivolta totale in tutti i luoghi”.

A Gerusalemme, dove incombe la minaccia su al-Aqsa, su Sheikh Jarrah, sulla Città Vecchia e su tutta Gerusalemme; in Cisgiordania, dove sono presenti l’occupazione, gli insediamenti coloniali, la scissione dei legami e la confisca di terre; e nella Palestina del 1948, dove vige la discriminazione razziale, i tentativi di espellere e bandire il nostro popolo coll’uso di norme giuridiche; anche la resistenza di Gaza; fino alla diaspora. Tutti sono partecipi della responsabilità della liberazione”.

Mentre Meshaal parlava, i coloni israeliani, sostenuti dalla polizia, prendevano ancora una volta d’assalto al Aqsa.

Alla domanda su cosa abbia indotto Hamas a lanciare nuovamente razzi, Meshaal ha affermato che il cessate il fuoco non era condizionato solo alla cessazione degli attacchi israeliani a Gaza, ma alla fine delle incursioni delle forze di sicurezza israeliane ad al-Aqsa e alla fine dello sfollamento degli abitanti palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e di Gerusalemme Est.

La battaglia è scoppiata per questi motivi. A tali condizioni cesserà iI lancio da Gaza dei razzi della resistenza”, ha detto.

Tuttavia ha proseguito affermando come ogni area sotto occupazione possa scegliere la propria forma di resistenza.

“Non esiste una formula che vada bene per tutti e nello stesso momento.”

Israele “sta pagando un prezzo”

Meshaal sostiene che l’ultimo conflitto abbia evidenziato il ruolo dei palestinesi che vivono all’interno dei confini della Palestina del 1948.

“Hanno inviato il messaggio che siamo del tutto parte di questo popolo e che vengono in aiuto di al-Aqsa, del quartiere di Sheikh Jarrah e di Gaza proprio come fa ogni altro palestinese che viene in aiuto dell’altro fratello”, dice.

Aggiunge che Israele stia anche pagando il prezzo delle politiche razziste e delle violazioni dei diritti dei suoi cittadini palestinesi, tanto da mettere a nudo la “fragilità” del suo Stato.

È diventato evidente a tutte le comunità palestinesi, arabe e islamiche e alle persone libere di tutto il mondo che Israele sta contando i suoi giorni e che questa occupazione, gli insediamenti, il colonialismo, non hanno futuro nella regione”.

MEE ha chiesto a Meshaal di spiegare in che modo Hamas sia passato da una posizione di contestazione delle elezioni, anche mentre centinaia dei suoi membri venivano arrestati in Cisgiordania, al lancio dei razzi.

In quel momento c’era un acceso dibattito all’interno di Hamas sull’opportunità di contestare le elezioni, dal momento che non sarebbe stato in grado di agire liberamente come partito politico. Alla fine le elezioni sono state rinviate, molti credono annullate, da Abbas che ha usato come scusa il rifiuto di Israele di consentire ai gerosolimitani di votare.

Meshaal ha confermato che c’è stato un “dibattito interno” sull’opportunità di candidarsi alle elezioni in Cisgiordania. Ma ha insistito sul fatto che il principio riguardante la sua candidatura alle elezioni non fosse in discussione.

Spiegando il passaggio dalle urne ai razzi, Meshaal dice che la decisione di annullare le elezioni abbia creato “rabbia e frustrazione” e un senso di stupore: “Perché questo passo?”

Poi sono arrivate le violenze ad al-Aqsa contro fedeli e manifestanti e la minaccia di sfollamento degli abitanti dalle loro case a Sheikh Jarrah.

Accusa Israele di aver iniziato l’aggressione. Afferma che Hamas aveva avvertito Israele, in modo che Israele non fosse sorpreso dal lancio di razzi.

“Quando hanno assalito la moschea di al-Aqsa alla fine del Ramadan la resistenza è stata costretta a rispondere … e la battaglia è iniziata”, prosegue Meshaal.

Sostiene che non c’è contraddizione tra impegnarsi nella battaglia politica attraverso elezioni e alleanze sostenendo la causa e mobilitandosi in suo favore nei forum internazionali, e impegnarsi in combattimenti. Le due battaglie sono collegate fra loro“.

Alla domanda su chi abbia preso la decisione di lanciare i razzi, Meshaal risponde che il movimento ha un’unica leadership, ma ogni singola parte prende le sue decisioni personali.

“Quando la dirigenza di al-Qassam prende una decisione su come portare avanti la lotta decide in conformità con la strategia e l’orientamento comune del movimento. Lo stesso vale per coloro che lavorano nel campo della mobilitazione di massa o delle relazioni politiche. Queste sono decisioni complesse prese di volta in volta durante i percorsi di lavoro. Derivano dalla risoluzione stabilita a livello centrale dalla leadership del movimento”.

Reciprocità di interessi” con l’Egitto

Meshaal riserva parole gentili per l’Egitto, nonostante il presidente Abdel Fatteh el-Sisi abbia organizzato un colpo di stato militare contro il presidente eletto Mohamed Morsi sostenuto dai Fratelli Musulmani e abbia massacrato i suoi sostenitori a Rabaa, oltre ad aver rafforzato l’assedio di Gaza distruggendo i tunnel di Hamas e la parte egiziana del valico di confine di Rafah.

Meshaal dice che il ruolo dell’Egitto negli affari palestinesi è fondamentale, anche se ci sono stati disaccordi.

La reciprocità degli interessi richiede che entrambe le parti lavorino insieme e possano prevedere dei ruoli sui quali concordare e collaborare nonostante le differenti opinioni, come lei ha detto, sulla questione della Fratellanza o altro”.

“Noi di Hamas, sebbene siamo una parte essenziale della Fratellanza, costituiamo un movimento di resistenza e non interferiamo negli affari degli altri, trattando con i Paesi islamici, e con gli altri, in base alla nostra causa e ai relativi interessi, senza interferenze reciproche negli affari di ognuno.

“Pertanto, accogliamo con favore il ruolo egiziano così come accogliamo con favore i ruoli di tutti gli Stati arabi e islamici o di qualsiasi Paese del mondo fintanto che sia inteso a servire il nostro popolo fermando l’aggressione contro di esso e assecondando la sua determinazione”.

Il leader anziano di Hamas ha affermato che gli stati arabi hanno la responsabilità di elaborare una nuova strategia per recuperare la Palestina, Gerusalemme e al-Aqsa e porre fine all’occupazione.

Credo che tutti abbiano capito l’inutilità dei negoziati, l’inutilità del processo di pace e degli accordi di pace con Israele e l’inutilità della normalizzazione. Coloro che avevano visto Israele come parte naturale della regione si sono sbagliati. Alcuni pensavano di poter trarre vantaggio da Israele nel confronto con i loro diversi nemici.

“Tutti sono ormai certi che Israele costituisca il vero nemico della regione e che Israele sia un’entità fragile e che possiamo sconfiggerlo invece di lamentarci delle sue politiche”.

Sostiene che l’Egitto sia scontento delle politiche israeliane nei confronti della Diga del Rinascimento in Etiopia, che il Cairo vede come una minaccia alla sicurezza nazionale. Di certo l’Egitto è scontento delle notizie sui presunti piani israeliani di scavare un canale navigabile alternativo al Canale di Suez.

“Pertanto, invece di sentirci impotenti riguardo alle violazioni e ai piani di Israele, questa è un’opportunità … la resistenza in Palestina e questa grande rivolta del nostro popolo sta dicendo agli arabi, ‘Gente, siamo una sola Ummah [termine arabo che designa la comunità dei fedeli dell’Islam, ndtr.], abbiamo gli stessi interessi, quindi partiamo da questo risultato.’

“Combattiamo un’unica battaglia, non solo per salvare e rivendicare la Palestina, ma anche per proteggere l’intera Ummah”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)