Israele-Palestina: come le reti sociali sono state utilizzate e manipolate

Rayhan Uddin

Domenica 23 maggio 2021 – Middle East Eye

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver messo a tacere la disinformazione e di aver consentito incitamenti alla violenza.

Durante la recente recrudescenza di violenze in Israele e nei territori palestinesi occupati le reti sociali si sono dimostrate una spada a doppio taglio.

Questo venerdì [21 maggio] alle 2 del mattino è entrato in vigore un cessate il fuoco, ma non prima di una devastante escalation durante la quale i bombardamenti aerei israeliani su Gaza hanno ucciso 248 palestinesi, di cui 66 minori, e i razzi lanciati dall’enclave palestinese assediata hanno provocato 12 morti in Israele.

Nel corso delle ultime due settimane il mondo digitale si è trovato al centro dell’attenzione. Ha offerto uno spazio per documentare direttamente e senza filtro la situazione sul terreno, un mezzo per far circolare l’informazione sotto diversi formati e forme, oltre che una piattaforma che consentiva di amplificare i messaggi e i gesti di solidarietà.

Tuttavia, anche se c’è stato un uso positivo, si sono anche evidenziati degli abusi.

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver stroncato la disinformazione e di aver permesso degli incitamenti alla violenza. Le piattaforme sono state anche manipolate e utilizzate come vettori di propaganda dello Stato.

Middle East Eye si sofferma su cinque modi in cui le piattaforme di comunicazione informatica sono state sfruttate mentre la tensione era in aumento in Israele, a Gaza, nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

1. Censura a danno dei palestinesi

La violenza e la brutalità degli ultimi giorni sono state accompagnate da ripetuti esempi di limitazione e cancellazione di contenuti sulle reti sociali.

Tutto è iniziato con la campagna di resistenza contro l’imminente espulsione di sei famiglie nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est occupata – che ha catalizzato la repressione dei manifestanti da parte delle forze israeliane – che si è ritrovata al centro delle accuse di censura.

Il 7 maggio Middle East Eye ha informato che erano state sollevate preoccupazioni riguardo a contenuti eliminati e alla sopressione di account sulle reti sociali legate al quartiere. Mona al-Kurd, giornalista e abitante di Sheikh Jarrah minacciata di essere cacciata dalla casa della sua famiglia, ha visto il suo account Instagram temporaneamente sospeso mentre stava documentando i soprusi quotidiani. Anche suo fratello Mohammed al-Kurd ha visto il suo contenuto eliminato a causa dei “discorsi d’odio”, sebbene secondo lui si fosse limitato a filmare le violenze della polizia senza alcun commento.

Gli abitanti di Sheikh Jarrah si sono lamentati del fatto che le loro storie su Instagram ottenevano meno approvazioni e meno visualizzazioni per ragioni inspiegabili. Durante quel periodo su Facebook – società madre di Instagram – il gruppo “Salvare Sheikh Jarrah”, che contava più di 130.000 membri, è stato temporaneamente disattivato perché “violava gli standard della comunità”.

Ci sono state anche domande riguardo a Twitter quando l’account della giornalista palestinese Mariam Barghouti è stato sospeso mentre stava informando su una manifestazione di solidarietà con Sheikh Jarrah nella Cisgiordania occupata. In seguito Twitter ha dichiarato a VICE [società di media digitali statunitense-canadese, ndtr.] che la decisione era stata presa per sbaglio, omettendo di precisare quali disposizioni delle sue condizioni Barghouti fosse sospettata di aver infranto.

“Le limitazioni e la censura hanno un grande impatto sulla possibilità delle persone di comunicare, di organizzarsi e di condividere informazioni,” ha dichiarato a MEE Marwa Fatafta, responsabile delle politiche per il Medio Oriente e il Nord Africa di Access Now, Ong per la difesa dei diritti digitali.

“Quando non potete accedere al vostro account o un vostro contenuto è eliminato ciò viola la possibilità di esercitare il vostro diritto alla libertà d’espressione su internet.”

Queste restrizioni non riguardano unicamente l’attivismo relativo a Sheikh Jarrah. Quando la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa per reprimere brutalmente i fedeli in preghiera durante gli ultimi giorni del Ramadan, sono comparse denunce di censura.

Su Istagram l’hashtag “al-Aqsa” è stato temporáneamente nascosto a causa di indicazioni in base alle quali secondo una notifica ricevuta dagli utenti certi contenuti erano “suscettibili di non soddisfare le regole della comunità di Instagram”.

Facebook, che possiede Instagram, ha attribuito le soppressioni di contenuti a un “problema tecnico su scala mondiale che non era legato a un argomento specifico.”

Tuttavia, secondo alcuni documenti di comunicazione interna consultati da BuzzFeed [società statunitense di notizie specializzata in media digitali, ndtr.], pare che gli hashtag siano stati bloccati perché il sistema di controllo dei contenuti della piattaforma aveva associato per errore al-Aqsa (terzo sito più sacro per l’islam) con un’organizzazinoe terroristica.

Numerose organizzazioni ritengono che ogni censura da parte dei giganti delle reti sociali potrebbe essere paragonata alla distruzione di prove nella documentazione dei crimini di guerra, cosa su cui attualmente indaga la Corte Penale Internazionale in rapporto con le recenti violenze.

Oltre all’“errore”, un altro motivo possibile per il ritiro di certi contenuti sarebbe l’uso del termine “sionista”.

Secondo un articolo di “The Intercept” [sito fondato da Edward Snowden, ex tecnico della CIA che ha denunciato l’uso di dati riservati dei propri cittadini da parte di USA e GB, ndtr.], la politica di Facebook consistente nel sopprimere ogni contenuto che utilizzi il termine “sionista” come sinonimo di “ebreo” o di “ebraismo” si è rivelato difficile da mettere in pratica. Secondo uno dei moderatori della piattaforma le direttive lasciano “poco spazio alla critica del sionismo”.

Malgrado le preoccupazioni degli attivisti palestinesi, sono i responsabili del governo israeliano che la settimana scorsa hanno incontrato i funzionari di Facebook e TikTok. Il ministro della Giustizia Benny Gantz ha esortato le reti sociali a sopprimere i contenuti violenti e a rispondere rapidamente alle richieste dell’ufficio per l’informatica di Israele.

L’unità israeliana per l’informatica, che opera all’interno del ministero della Giustizia, sorveglia sistematicamente i contenuti palestinesi e li segnala ai giganti del digitale. Secondo un rapporto pubblicato dall’organizzazione di difesa dei diritti informatici palestinesi 7amleh Facebook accoglie l’81% delle richieste di soppressione dei contenuti da parte di questa unità informatica.

“Ciò conferma che la discriminazione digitale a cui sono esposti i palestinesi nello spazio informatico non è un errore tecnico,” ha dichiarato Mona Shtya di 7amleh a MEE. “Al contrario si tratta delle conseguenze dei tentativi sistematici delle autorità israeliane per far tacere gli attivisti per i diritti umani e per influenzare le politiche delle imprese tecnologiche in materia di controllo dei contenuti.”

Una coalizione di organizzazioni per i diritti informatici ha invitato Twitter e Facebook a fornire dati dettagliati relativi alle richieste presentate dall’unità informatica israeliana e ad essere trasparenti sul processo decisionale riguardante il ritiro di contenuti.

Inoltre un’organizzazione palestinese per la protezione dei dati, due agenzie di stampa e un traduttore hanno denunciato Facebook, accusandolo di censurare le loro pubblicazioni e in qualche caso di aver chiuso il loro account in violazione delle stesse politiche dell’impresa.

Il documento di 14 pagine inviato al relatore speciale dell’ONU incaricato della promozione e della protezione del diritto alla libertà d’opinione e d’espressione, consultato da Middle East Eye, concede alla società 21 giorni per dare spiegazioni. In caso contrario seguiranno delle azioni legali.

2. Disinformazione e notizie false

Milioni di persone in tutto il mondo si basano sulle reti sociali per informarsi sulle violenze in Israele e Palestina. Tuttavia non tutti i contenuti, compresi quelli ufficiali, sono corretti.

La disinformazione relativa a quanto avviene a Gaza si trova ai livelli più alti dello Stato: il portavoce arabofono ufficiale del primo ministro israeliano, Ofir Gendelman, ha condiviso un video che secondo lui mostra che Hamas lanciava dei razzi contro Israele. Queste immagini risalivano in realtà al 2018 e mostravano missili lanciati nel governatorato di Deraa, in Siria.

Questo tweet era stato originariamente etichettato da Twitter come un “media manipolato”, prima di essere cancellato da Gendelman.

Anche l’account Twitter ufficiale dell’esercito israeliano ha fatto circolare false informazioni. L’account @IDF (Forze di Difesa Israeliane) ha condiviso un video che sosteneva mostrasse Hamas mentre nascondeva dei lanciatori di missili in quartieri civili. Tuttavia nelle immagini si vede di fatto un finto mezzo militare utilizzato da Israele durante le esercitazioni di addestramento nel nord ovest del Paese.

Questo video è stato retwittato dall’account Twitter verificato “Stop Antisemitismo”, che in seguito si è scusato per l’errore. Nelle sue scuse ha insistito in modo provocatorio a etichettare le immagini come provenienti da un “quartiere in maggioranza musulmano”, cosa che sembra un chiaro tentativo di mettere in rapporto un’arma israeliana con i palestinesi.

“La disinformazione e le notizie false fanno parte integrante della propaganda delle autorità israeliane,” dichiara Mona Shtya. “Questo tipo di informazioni colpisce la coscienza della gente e i movimenti politici palestinesi.”

Secondo 7amleh, il 54% dei partecipanti a un sondaggio pubblicato nel suo rapporto “Notizie false in Palestina” ha indicato le autorità israeliane come la principale fonte di informazioni false. Il rapporto conclude anche che le notizie false aumentano del 58% durante gli attacchi israeliani contro i palestinesi.

Tra gli altri esempi di disinformazione che circolano su internet figurano le false informazioni in base alle quali a Gaza alcuni palestinesi hanno organizzato falsi funerali per suscitare la compassione della comunità internazionale.

Questo video falso, pubblicato dal consigliere del ministero degli Affari Esteri israeliano Dan Poraz, mostra un gruppo di adolescenti che apparentemente stanno portando una “salma”. Improvvisamente risuonano delle sirene e gli adolescenti, compresa la “salma”, si disperdono e fuggono. In realtà queste immagini sono state girate l’anno scorso in Giordania da un gruppo di giovani che cercavano di sfuggire alle restrizioni relative al COVID-19 fingendo di organizzare dei funerali.

Poraz ha condiviso questo video con l’hashtag “Pallywood” (combinazione delle parole Hollywood e Palestina), un concetto molto dannoso sostenuto dalla destra filo-israeliana che intende cínicamente accusare i palestinesi di drammatizzare la loro sofferenza per attirare i favori della comunità internazionale.

Un altro esempio di internauti che spacciano notizie false per associare i gazawi a “Pallywood”: la condivisione di un video che dovrebbe mostrare dei palestinesi mentre disegnano false ferite provocate dagli attacchi israeliani con l’aiuto di cosmetici. Queste immagini condivise la settimana scorsa sono state in effetti rintracciate nel 2018 e sono state girate nel quadro di un reportage su artisti palestinesi del trucco.

Nelle ultime settimane sono emerse anche due notizie filopalestinesi false. Il New York Times ha informato che alcuni media arabi hanno erroneamente associato immagini che mostravano ebrei che a Gerusalemme si stracciavano le vesti in segno di devozione con affermazioni secondo le quali simulavano delle ferite. Il Times ha scoperto che quel video era circolato varie volte in precedenza quest’anno.

Nel contempo una pubblicazione Facebook molto condivisa e che dovrebbe mostrare un giornalista che piange filmando degli avvenimenti all’interno di al-Aqsa [moschea di Gerusalemme, ndtr.], di fatto mostrava un fotografo irakeno durante una partita di calcio nel 2019.

3. Propaganda israeliana

Nel corso delle ultime due settimane gli account israeliani ufficiali sulle reti sociali, soprattutto quelli relativi all’esercito, sono stati utilizzati per condividere messaggi di propaganda altamente provocatori, spesso incendiari.

Mercoledì 12 maggio l’account Instagram in ebraico dell’esercito ha festeggiato la distruzione di un edificio civile a Gaza con uno meme prima e dopo.

Anche l’account Twitter @IDF ha condiviso in varie occasioni immagini di edifici bombardati dall’esercito israeliano a Gaza, in particolare un immobile che ospitava giornalisti di Al Jazeera, dell’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.] e di Middle East Eye. Queste immagini sono quasi sempre accompagnate da affermazioni secondo le quali gli edifici ospitavano attività di intelligence militare di Hamas, senza alcuna prova a suffragarle.

Il 13 maggio l’esercito israeliano ha annunciato su Twitter che, nel quadro di una più vasta campagna nel corso della quale ha informato i media internazionali che era in corso una invasione di terra, le sue forze terrestri avevano iniziato “attacchi nella Striscia di Gaza”. Tuttavia in seguito i media israeliani hanno informato che il tweet e la condivisione di informazioni avevano l’obiettivo deliberato di far credere ai combattenti di Hamas che fosse in corso un’invasione e di esporne al pericolo il maggior numero.

A causa di questo ricorso all’inganno sulle reti sociali molti hanno accusato l’esercito israeliano di fare cattivo uso delle sue piattaforme ufficiali e di “twittare dal vivo crimini di guerra.”

“Trovo inaccettabile che l’esercito israeliano utilizzi reti sociali per minacciare la gente e diffondere disinformazione quando è attivamente impegnato in azioni che si configurano come crimini di guerra,” lamenta Marwa Fatafta.

Gli attivisti dei diritti digitali hanno fatto un confronto tra il modo in cui vengono trattati dalle imprese delle reti sociali gli account ufficiali israeliani e la loro gestione degli account palestinesi.

“Ciò testimonia l’applicazione discriminatoria delle condizioni di utilizzo delle piattaforme ai loro utenti: censurano gli attivisti permettendo nel contempo alle pagine gestite dagli Stati di utilizzarle ed abusarne in funzione dei propri obiettivi politici e militari.”

Allo stesso modo numerosi osservatori hanno sottolineato le differenze tra gli account in ebraico e in inglese dell’esercito israeliano. Sull’account Instagram in ebraico dell’esercito le storie hanno la tendenza a essere aggressive e militariste e spesso includono immagini di edifici bombardati a Gaza, con l’ora e il luogo. Nel contempo sull’account in inglese il contenuto è spesso più difensivo e presenta Israele come vittima delle recenti violenze con l’aiuto di infografiche e presentazioni colorate.

In un post pubblicato sul suo account Instagram in inglese l’esercito israeliano ha ripreso un metodo di condivisione d’informazione popolare presso la generazione Y [i nati tra gli anni ’80 e ’90, noti anche come “millenians”, ndtr.] creando una serie di vignette e di fumetti per semplificare una serie di avvenimenti. A dispetto di fatti accertati, le immagini indicavano che Hamas era il solo responsabile di tutte le morti civili avvenute recentemente in Israele e a Gaza.

Nel contempo funzionari dell’esercito israeliano hanno sfruttato l’applicazione cinese per la condivisione di video TikTok riprendendo coreografie in voga per attirare il pubblico più giovane.

In particolare vari militari hanno partecipato al “Jalebi Baby Challenge “, nel corso del quale gli utenti indicano le proprie preferenze tra due emoticon. Praticamente sempre i soldati finiscono il video scegliendo una bandiera israeliana invece di una palestinese. Su un video militari israeliani scelgono l’emoticon escremento invece della bandiera palestinese e il dito medio alzato rivolto alla Palestina. In un altro esempio, che è stato oggetto di scherno, una soldatessa oppone per errore Israele alla bandiera del Sudan.

Oltre all’esercito, i messaggi di propaganda sono molto presenti anche su altri account ufficiali israeliani.

Martedì l’account Twittter ufficiale di Israele in arabo ha provocato indignazione pubblicando dei versetti del Corano accompagnati da una foto di Gaza sotto le bombe. Questo post è stato definito da alcuni critici “sadico e ignobile”.

Nel contempo l’account in inglese ha falsamente accusato la modella di origine palestinese Bella Hadid di voler “buttare in mare gli ebrei” quando si è unita allo slogan popolare filo-palestinese “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera.”

“Non è un fatto inedito che i governi cerchino di infangare quanti prendono posizione o li accusino di fare l’apologia del terrorismo o, in questo caso, dell’antisemitismo. Ciò esisteva già prima dell’era delle reti sociali,” rileva Marwa Fatafta.

Secondo la sostenitrice dei diritti digitali Israele, come altri Stati, cerca di “trollare” e perseguitare le persone per ridurle al silenzio. Tuttavia, spiega, le ultime due settimane hanno dimostrato il potere dei media digitali di “trasmettere la verità”, quando non vengono censurati.

4. “Linciaggio” programmato sulle applicazioni di messaggistica

Oltre alle applicazioni per la condivisione di contenuti, le piattaforme di messaggistica istantanea sono state criticate per aver   presumibilmente contribuito a facilitare la violenza dei civili israeliani.

La scorsa settimana messaggi postati su Signal e WhatsApp che MEE ha potuto consultare mostravano che gruppi israeliani di estrema destra avevano discusso nel dettaglio la pianificazione di attacchi violenti contro cittadini palestinesi di Israele.

“Portate di tutto, coltelli, benzina,” indicava un messaggio in un gruppo di discussione battezzato “The Underground Unit” [L’unità clandestina], formata da parecchie centinaia di membri. “Non abbiate paura, noi siamo gli eletti.”

“Quando vedete un arabo accoltellatelo,” ordinava un messaggio pubblicato su WhatsApp in un gruppo denominato “Israel People Alive Haifa” [Israele popolo vivo Haifa]. “Venite con bandiere, mazze, coltelli, armi, tirapugni, assi di legno, spray urticanti, tutto quello che li può ferire. Ristabiliremo l’onore del popolo ebraico.”

In un altro gruppo di discussione, sempre su WhatsApp, un membro ha scritto: “Abbiamo bisogno di bottiglie molotov. Alla moschea. Per farli tremare. Bruceremo le loro case, le loro auto, tutto.”

Messaggi che incitavano alla violenza contro i palestinesi sono stati lanciati anche su Telegram, e di conseguenza vari utenti di Twitter hanno chiesto alle applicazioni di messaggistica di intervenire per proteggere delle vite.

“Se Telegram non reagisce rapidamente i messaggi pubblicati nello spazio digitale per incitare alla violenza contro i palestinesi continueranno a propagarsi per le strade,” sostiene Mona Shtaya.

L’azione della folla è stata esacerbata dalla diffusione di false informazioni: secondo il New York Times messaggi pubblicati su Telegram e WhatsApp indicavano che folle di palestinesi stessero preparando aggressioni contro cittadini israeliani. Nonostante questi avvertimenti nessuna violenza è stata segnalata nella zona citata nei messaggi.

Un giornalista ha paragonato questi sviluppi agli avvenimenti osservati in India nel 2018, quando la diffusione di false voci riguardanti il rapimento di bambini e l’espianto di organi avevano scatentato un’ondata di linciaggi collettivi durante i quali alcuni stranieri erano stati aggrediti ed uccisi.

Fino a domenica [23 maggio] i 116 incriminati imputati in seguito alle violenze della settimana precedente erano tutti palestinesi.

La settimana scorsa Fake Reporter, un organismo israeliano di sorveglianza della disinformazione, ha dichiarato di aver trasmesso alla polizia e ai media israeliani un rapporto dettagliato contenente informazioni su gruppi di estrema destra che utilizzano WhatsApp e Telegram per pianificare attacchi contro negozi e civili palestinesi.

La consegna di questo dossier non ha dato luogo ad alcuna misura, mentre alcuni media hanno persino risposto che non valeva la pena di parlarne in quanto non erano stati commessi delitti.

“L’incitamento alla violenza contro gli arabi e i palestinesi sulle reti social è aumentata in modo clamoroso,” afferma Mona Shtaya.

“Nel 2020 abbiamo constatato un incremento del 16% delle affermazioni violente contro gli arabi rispetto all’anno precedente (2019); inoltre un messaggio su dieci riguardante i palestinesi e gli arabi conteneva affermazioni violente,” aggiunge in riferimento all’indice annuale del razzismo e dell’incitamento all’odio creato da 7amleh.

“Telegram e le altre applicazioni non devono appoggiare la violenza contro i palestinesi o devono prendere misure per impedire la trasmissione di messaggi che incitano alla violenza, di discorsi d’odio e di razzismo dalla loro piattaforma al mondo reale.”

5. Esercito di troll appoggiato dallo Stato

Le reti sociali sono spesso utilizzate per rilevare l’opinione pubblica sulle questioni mondiali attraverso gli hashtag più condivisi e i livelli di impegno che servono da indicatori informali delle opinioni popolari.

Tuttavia queste piattaforme sono spesso utilizzate in modo più cinico per manipolare sistematicamente le conversazioni in rete.

La piattaforma israeliana in rete Act.IL è stata sviluppata nel giugno 2017 per reclutare e organizzare un’esercito di migliaia di troll incaricati di intrufolarsi nelle conversazioni in rete relative alla questione israelo-palestinese e in particolare al movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

I troll ricevono dalla piattaforma istruzioni sui contenuti filo-israeliani e anti-palestinesi da ritwittare e da “approvare”, come sulle petizioni da firmare. Ricevono anche dei modelli di commenti che sono incoraggiati a copiare e incollare nelle discussioni al riguardo.

Act.IL è stato lanciato in collaborazione col ministero israeliano degli Affari Strategici, il cui ministro ha definito il dispositivo “Iron Dome [cupola di ferro] della verità”, in riferimento al sistema antimissilistico israeliano. La piattaforma riceve finanziamenti e direttive dallo Stato israeliano. L’applicazione è descritta come un dispositivo di “astroturfing”, una strategia di relazioni pubbliche sostenuta da un governo con l’intento di indurre in errore e dare la falsa impressione di una campagna popolare spontanea.

Michael Bueckert, ricercatore e vicepresidente di “Canadesi per la giustizia e la pace in Medio Oriente”, gestisce un account Twitter che tiene sotto controllo l’applicazione Act.IL. e riferisce delle sue attività. “Uno dei principali obiettivi dell’applicazione è tenere distinte le attività dei suoi utenti dallo Stato israeliano o dalle lobby e fare in modo che l’attività filo-israeliana sulle reti sociali che mette in scena sembri spontanea e organica,” spiega a MEE.

Secondo Michael Beuckert il ministero degli Affari Strategici ha come politica lavorare con organizzazioni di facciata “per dissimulare il ruolo dello Stato israeliano”. Ritiene d’altronde che sia ragionevole credere che il governo giochi “un ruolo più importante di quanto viene presentato in pubblico nel finanziamento continuo e nelle operazioni dell’applicazione.”

Domenica scorsa l’applicazione ha organizzato una tempesta su Twitter con gli hashtag #RightToSelfDefence (Diritto all’autodifesa) e #IsraelUnderFire (Israele sotto attacco).

Nel corso delle ultime due settimane Act.IL ha anche utilizzato il suo canale Telegram per inviare delle “missioni” ai propri utenti per diffondere un discorso anti-palestinese.

All’inizio del mese, durante la violenta repressione delle forze israeliane contro i fedeli ad al-Aqsa, l’applicazione ha spinto gli utenti a commentare degli aggiornamenti in tempo reale della Reuter, dell’AFP [agenzie di stampa, rispettivamente inglese e francese, ndtr.] e del Washington Examiner [sito di notizie conservatore statunitense, ndtr.] dando la colpa ai gruppi palestinesi.

“È inaccettabile che dei fedeli innocenti, dei civili e dei poliziotti siano vittime di violenti disordini fomentati da Hamas e da Fatah. Il terrorismo non ha posto nei luoghi santi e nelle loro vicinanze,” si può leggere sotto un aggiornamento dell’AFP, dove i troll sono stati incoraggiati a diffondere opinioni simili.

Nonostante i tentativi coordinati intesi a interferire nelle conversazioni in rete, Michael Bueckert ha dei dubbi riguardo all’impatto delle ultime attività dell’esercito israeliano di troll.

“Certo, possono contribuire a diffondere argomenti di discussione importanti dell’hasbara (diplomazia pubblica israeliana) sulle reti sociali e a diffondere ampiamente la disinformazione. Tuttavia ho l’impressione che molta gente non creda più a questi vecchi argomenti,” afferma. “Le persone non tollerano più tanto un atteggiamento che in genere continua a incolpare le vittime.

Le persone iniziano ad aprire gli occhi di fronte agli orrori dell’apartheid israeliano e non vogliono avere niente a che fare con esso; nessuna applicazione potrà cambiare ciò.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Israele e Hamas dichiarano il cessate il fuoco dopo 11 giorni di conflitto 

20 maggio 2021 Al Monitor

Il Gabinetto di Sicurezza di Israele ha approvato all’unanimità una proposta egiziana di cessate il fuoco nell’undicesimo giorno di conflitto con i militanti palestinesi nella Striscia di Gaza, che ha causato più di 200 morti.

Giovedì il Gabinetto di Sicurezza di Israele ha approvato all’unanimità una proposta egiziana di cessate il fuoco, nell’undicesimo giorno di conflitto con i militanti palestinesi nella Striscia di Gaza, che ha causato più di 200 morti.

I rapporti dei media israeliani hanno informato che il cessate il fuoco inizierà venerdì alle 2 del mattino (ora locale), circa quattro ore dopo l’annuncio.

Hamas, il movimento islamista palestinese che dall’inizio delle ostilità il 10 maggio ha lanciato migliaia di razzi contro Israele, ha confermato il cessate il fuoco.

Mercoledì il vice capo politico di Hamas Mousa Abu Marzouk ha sottolineato che il cessate il fuoco sarà un’interruzione dei lanci, non una tregua. I colpi da entrambe le parti probabilmente continueranno fino a quando non inizierà il cessate il fuoco.

I dirigenti israeliani hanno smentito voci secondo cui avrebbero concordato ulteriori condizioni al di là dello stop alle operazioni militari, suggerendo che le ragioni sottostanti al conflitto – le denunce palestinesi di espropriazioni di fronte al mancato raggiungimento di una soluzione a due Stati o altra equa soluzione – continueranno.

I dirigenti di Hamas hanno richiesto che le forze di sicurezza di Israele si astengano dall’entrare nel complesso della moschea di Al- Aqsa e interrompano i tentativi da parte dei coloni israeliani di sfrattare attraverso pratiche legali sei famiglie palestinesi dal quartiere di Gerusalemme Sheikh Jarrah.

La settimana scorsa Israele ha respinto una precedente offerta accompagnata da simili richieste, optando per il proseguo dei bombardamenti mirati contro i comandanti di Hamas e della Jihad a Gaza.

Le bombe israeliane hanno ucciso almeno 230 persone a Gaza, tra cui moltissime donne e bambini. In seguito al lancio di 4.000 razzi all’interno di Israele sono morti dodici israeliani. La gran parte di essi comunque sono stati intercettati dal sistema di difesa antimissile israeliana Iron Dome.

L’annuncio è giunto poche ore dopo che il Presidente USA Joe Biden ha telefonato al Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Dirigenti egiziani hanno condotto la mediazione tra Hamas e Israele. Anche diplomatici del Qatar e della Giordania, come anche funzionari delle Nazioni Unite, sono stati coinvolti nel compito di fare pressione per porre fine al conflitto.

Secondo una lettera del Congresso ottenuta da Al-Monitor, all’inizio di giovedì deputati USA ancora una volta hanno premuto su Biden perché chiedesse un immediato cessate il fuoco.

I rappresentanti democratici Hank Johnson della Georgia e Pramila Jayapal di Washington e leader democratici progressisti, compresa Alexandra Ocasio Cortez di New York, hanno chiesto a Biden di fare pressioni più intense sul governo Netanyahu ed hanno avvertito che non facendolo avrebbe potuto danneggiare ulteriormente la credibilità USA a livello internazionale.

Questa settimana si sono sollevate ulteriori proteste, in larghissima parte di democratici, sia nel Congresso che in Senato, dopo che è stato reso noto che l’amministrazione Biden ha programmato di concedere alla Boeing la licenza per rifornire Israele di armi teleguidate simili a quelle che sarebbero state usate nel conflitto.

La portavoce del Congresso Nancy Pelosi, democratica della California, all’inizio di questa settimana ha chiesto un immediato cessate il fuoco, quando si sono intensificate le critiche su una percepita riluttanza da parte della Casa Bianca a fare pressioni sul governo Netanyahu per un alleggerimento della sua devastante campagna.

Biden mercoledì ha detto a Netanyahu che si aspettava per quella sera una “significativa de-escalation” nel conflitto.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Unità, infine: il popolo palestinese si è sollevato

Ramzy Baroud

18 maggio 2021 – Middle East Monitor

 

Anzitutto qualche chiarimento sul linguaggio usato per descrivere le violenze in atto nella Palestina occupata ed anche in tutto Israele. Non è un ‘conflitto’. Non è neppure una ‘controversia’ o una ‘violenza settaria’, né una guerra in senso tradizionale.

Non è un conflitto perché Israele è una potenza occupante e il popolo palestinese è una nazione occupata. Non è una controversia perché libertà, giustizia e diritti umani non possono essere trattati come semplici divergenze politiche. I diritti inalienabili del popolo palestinese sono inscritti nel diritto internazionale e umanitario e l’illegalità delle violazioni israeliane dei diritti umani in Palestina sono riconosciute dalle stesse Nazioni Unite.

Se è una guerra, allora è una guerra unilaterale israeliana, che incontra una modesta, ma reale e determinata resistenza palestinese.

In realtà, si tratta di una rivolta palestinese, un’Intifada senza precedenti nella storia della lotta palestinese, sia per la sua natura che per la sua portata.

Per la prima volta da tanti anni vediamo il popolo palestinese unito, da Gerusalemme Al-Quds [nome arabo della città di Gerusalemme. Significa “la (città) santa”, ndtr.] a Gaza, alla Cisgiordania e, anche in modo più importante, alle comunità, città e villaggi nella Palestina storica – oggi Israele.

Questa unità conta più di qualunque cosa, è molto più carica di conseguenze di qualche accordo tra le fazioni palestinesi. Essa eclissa Fatah e Hamas e tutto il resto, perché senza un popolo unito non può esserci una resistenza significativa, una prospettiva di liberazione, una lotta vincente per la giustizia.

Il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu non poteva certo prevedere che un’azione di routine di pulizia etnica nel quartiere di Gerusalemme est di Sheikh Jarrah avrebbe condotto ad una sollevazione palestinese, che unifica tutti i settori della società palestinese in una dimostrazione di unità senza precedenti.

Il popolo palestinese ha deciso di lasciarsi alle spalle tutte le divisioni politiche e le polemiche di fazione. Sta invece creando nuove terminologie, incentrate sulla resistenza, la liberazione e la solidarietà internazionale. Di conseguenza sta sfidando la faziosità, e contemporaneamente ogni tentativo di normalizzare l’apartheid israeliano. Di pari importanza, la voce palestinese sta ora bucando il silenzio internazionale, costringendo il mondo ad ascoltare un unico canto di libertà.

I capi di questo nuovo movimento sono giovani palestinesi, a cui è stato impedito di partecipare a qualunque forma di rappresentanza democratica, che vengono costantemente emarginati ed oppressi dalla loro stessa leadership e dalla incessante occupazione militare israeliana. Sono nati in un mondo di esilio, povertà ed apartheid, indotti a pensare di essere inferiori, di una razza inferiore. Il loro diritto all’autodeterminazione e tutti gli altri loro diritti sono stati rinviati indefinitamente. Sono cresciuti senza speranza, vedendo le loro case demolite, la loro terra rubata e i loro genitori umiliati.

Infine, si stanno sollevando.

Senza un previo coordinamento e senza un manifesto politico, questa nuova generazione palestinese sta facendo sentire la sua voce, sta mandando un inequivocabile forte messaggio ad Israele e alla sua società sciovinista di destra, cioè che il popolo palestinese non è fatto di vittime passive: che la pulizia etnica di Sheikh Jarrah e del resto della Gerusalemme est occupata, il protratto assedio di Gaza, l’interminabile occupazione militare, la costruzione di colonie ebraiche illegali, il razzismo e l’apartheid non resteranno più sotto silenzio; benché stanchi, poveri, spossessati, assediati ed abbandonati, i palestinesi continueranno a difendere i propri diritti, i propri luoghi sacri e l’assoluta inviolabilità del proprio popolo.

Certo, l’attuale violenza è stata fomentata dalle provocazioni israeliane nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est. Tuttavia non si è mai trattato solo della pulizia etnica di Sheikh Jarrah. Questo quartiere assediato non è che un microcosmo della più ampia lotta palestinese.

Netanyahu può aver sperato di usare Sheikh Jarrah come un modo per mobilitare il suo elettorato di destra intorno a sé, per formare un governo di emergenza o aumentare le sue possibilità di vincere anche le quinte elezioni. Il suo spericolato comportamento, inizialmente dovuto a motivi del tutto personali, ha scatenato una ribellione popolare tra i palestinesi, mostrando Israele come lo Stato violento, razzista e di apartheid quale è ed è sempre stato.

L’unità palestinese e la resistenza popolare si sono dimostrate vincenti anche sotto altri aspetti. Mai prima d’ora avevamo visto questa ondata di sostegno alla libertà palestinese, non solo da parte di milioni di persone comuni in tutto il mondo, ma anche da parte di celebrità – star del cinema, calciatori, intellettuali di primo piano ed attivisti politici, addirittura modelle e influencer dei social media. Gli hashtag ‘SaveSheikhJarrah’ e ‘FreePalestine’, tra i tanti altri, sono ora interconnessi e hanno pervaso tutte le piattaforme social per settimane. I continui tentativi di Israele di presentarsi come una vittima perenne di qualche immaginaria orda di arabi e musulmani non pagano più. Il mondo finalmente può vedere, leggere e ascoltare la tragica realtà della Palestina e la necessità di porre termine immediatamente a questa tragedia.

Nulla di tutto ciò sarebbe possibile se non per il fatto che tutti i palestinesi hanno legittime ragioni e stanno parlando all’unisono. Nella loro spontanea reazione e nella genuina, comune solidarietà tutti i palestinesi sono uniti, da Sheikh Jarrah all’intera Gerusalemme, a Gaza, Nablus, Ramallah, Al-Bireh e persino alle città palestinesi all’interno di Israele – Lod, Umm Al-Fahm, Kufr Qana ed altre.

Nella nuova rivoluzione popolare della Palestina le fazioni, la geografia e tutte le divisioni politiche sono irrilevanti. La religione non è fonte di divisione, ma di unità spirituale e nazionale.

Le attuali atrocità israeliane a Gaza continuano, con un crescente pedaggio di morte. Questa devastazione continuerà fino a quando il mondo tratterà il devastante assedio della impoverita e sottile Striscia (di Gaza) come irrilevante. La gente a Gaza moriva da molto prima che le bombe israeliane esplodessero sulle sue case e quartieri. Moriva per la mancanza di medicine, per l’acqua inquinata, per la carenza di elettricità e per le infrastrutture fatiscenti.

Dobbiamo salvare Sheikh Jarrah, ma dobbiamo anche salvare Gaza; dobbiamo chiedere la fine dell’occupazione militare israeliana della Palestina e, con essa, del sistema di discriminazione razziale e di apartheid. Le organizzazioni internazionali per i diritti umani sono ora precise e determinate nel descrivere questo regime razzista, con Human Rights Watch e l’associazione israeliana per i diritti B’Tselem che si uniscono all’appello per l’eliminazione dell’apartheid nell’intera Palestina.

Parlatene. Parlatene apertamente. I palestinesi si sono svegliati. E’ ora di schierarsi al loro fianco.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché i palestinesi protestano? Perché vogliamo vivere

Mariam Barghouti

Domenica 16 Maggio 2021 – The Guardian

Proprio come le proteste di Black Lives Matter non riguardavano solo un omicidio, noi stiamo fronteggiando un regime di totale oppressione

Ho iniziato ad andare alle manifestazioni quando avevo 17 anni. All’inizio andavo alle proteste contro l’occupazione militare israeliana. Poi abbiamo anche cominciato a protestare contro l’autoritarismo dell’Autorità Palestinese e di Hamas, e la disgustosa rivalità tra le fazioni politiche palestinesi. Per i palestinesi, la protesta è diventata uno stile di vita, un modo per essere risoluti, per perseverare.

Negli ultimi dieci anni gran parte di questo fardello di protesta è stato sostenuto da singole famiglie palestinesi che hanno subito l’espulsione o la violenza per mano di soldati e coloni. La minaccia di sfratti o demolizioni può provocare una protesta locale, nella speranza di prevenire questo o quel particolare oltraggio. Ma in questo momento l’attenzione del mondo è su di noi non come individui ma come collettività, come palestinesi. Non si tratta solo di un villaggio o di una famiglia o “solo di quelli della Cisgiordania” o “solo di quelli di Gerusalemme”.

Ciò per cui ora stiamo protestando per le strade non è un omicidio o un raid violento, ma un intero regime di oppressione che distrugge i nostri corpi, le nostre case, le nostre comunità, le nostre speranze, proprio come le proteste per le vite dei neri che l’anno scorso si sono propagate negli Stati Uniti non riguardavano solo George Floyd o Breonna Taylor o qualunque altro omicidio.

Questo è ciò che fa il colonialismo: soffoca ogni parte della tua vita, e poi finisce col seppellirti. È un processo strategico e deliberato che viene ostacolato o ritardato solo perché gli oppressori sono quasi sempre affrontati e sfidati da coloro che sono sotto il loro dominio. Alla fine, chi vuole rimanere incatenato per quelle che sono le sue origini?

La scorsa settimana ero nei pressi dell’insediamento illegale di Beit El, adiacente a Ramallah in Cisgiordania, mentre l’esercito israeliano inviava jeep che si precipitavano verso manifestanti, giornalisti e personale medico, martellando in pieno la folla con candelotti lacrimogeni.

Il suono di quei candelotti che a decine si dirigevano a spirale contro di noi mi fa ancora tremare. Mi ricorda il giorno del dicembre 2011, nel villaggio di Nabi Saleh [villaggio palestinese a 20 chilometri a nord-ovest di Ramallah, ndtr.] quando un soldato israeliano sparò un candelotto lacrimogeno, da distanza ravvicinata, direttamente sul volto del ventottenne Mustafa Tamimi, che stava lanciando delle pietre, poi morto a seguito delle ferite.

Ricordo il volto di Janna Tamimi, sua cugina, di sei anni, mentre gridava con la sua fragile voce: “Perché hai ucciso il mio migliore amico?” Dietro di lei c’era l’insediamento illegale di Halamish. La protesta di Mustafa era contro l’espansione degli insediamenti e l’impunità della violenza dei coloni mentre lui e la sua comunità erano imprigionati nel villaggio, senza accesso a sorgenti d’acqua o servizi pubblici.

Il fatto che queste proteste non abbiano dei leader illustra i decenni di deterioramento delle condizioni di tutti i palestinesi. Questo è l’esito di una generazione nata dai penosi accordi di Oslo del 1993-1995, cresciuta durante decenni che hanno solo consolidato l’espansione degli insediamenti coloniali israeliani e la stretta sulle vite dei palestinesi.

Più di questo, si tratta di una continua crescita di energia, di resistenza e di perdita di fiducia. Ma allo stesso tempo, è una completa rivendicazione della fiducia, non nei responsabili politici internazionali, non nei comitati di negoziazione, non negli osservatori umanitari e nelle ONG, ma in noi stessi.

“Perché devi sempre metterti in prima linea?” mia madre mi rimproverava anni fa, mentre gettava via i miei vestiti inzuppati della pestilenziale “kharara”, l’acqua puzzolente irrorata dai militari israeliani.

Utilizzata sovente nel corso delle proteste in Cisgiordania, le forze israeliane la stanno spargendo anche nelle strade di Sheikh Jarrah e nelle case dei palestinesi. È un tentativo di rendere le nostre vite così insopportabili da costringerci ad andarcene.

Volevo dirlo a mia madre, che se non fossi stata io lo avrebbe fatto qualcun altro. Volevo dirle come a Gaza le proteste pacifiche del 2018 sono state accolte con l’uccisione di centinaia di persone da parte dei cecchini, tanto che i soldati israeliani le hanno trasformate in un implacabile giostra del tiro a segno, provocando deliberatamente ferite invalidanti.

Ma sapevamo entrambe che ciò che la rendeva così arrabbiata era l’orribile riconoscimento che non avevamo altra scelta che protestare, che finché l’ingiustizia persiste e i nostri sogni di una migliore realtà continuano a spingerci verso la sfida, bagnarci nell’acqua puzzolente significava almeno che ero viva.

Questo è esattamente il motivo per cui stiamo protestando, perché siamo pronti ad essere vivi.

Mariam Barghouti è una scrittrice e ricercatrice palestinese.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Stavolta è diverso

Ahmed Abu Artema

14 maggio 2021 The Electronic Intifada

Mentre scrivo l’edificio dove vivo qui a Gaza trema incessantemente. Sopra di noi gli aerei da combattimento israeliani F-16 ci attaccano con una bordata apparentemente incessante di bombe.

Mentre scrivo gli eventi si succedono rapidi, quindi sicuramente quando l’articolo verrà pubblicato è probabile che ci saranno stati molti cambiamenti, ma voglio tentare di evidenziare le caratteristiche generali dell’attuale fase di escalation in Palestina.

L’escalation è iniziata a Gerusalemme durante il mese di Ramadan, con una serie di provocazioni messe in atto dalle autorità di occupazione israeliane.

La prima della serie, alla fine di aprile, è stata la decisione di impedire ai palestinesi di radunarsi a Bab al-Amoud [Porta di Damasco, una delle entrate principali alla Città Vecchia, ndtr] in Gerusalemme. Questo ha dato origine a diverse proteste che alla fine hanno costretto Israele a ritirare l’ordine.

Un’altra provocazione – tuttora in corso – che ha attirato qualche attenzione internazionale, è costituita dalle ordinanze di espulsione in corso contro le famiglie palestinesi dalle loro case di Sheikh Jarrah [quartiere prevalentemente palestinese a Gerusalemme Est,ndtr] – una concessione dei tribunali ai coloni israeliani.

Una terza provocazione israeliana è stata l’irruzione nella moschea di al-Aqsa durante la preghiera di venerdì 7 maggio. Le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni e pallottole metalliche ricoperte di gomma sui fedeli, causando oltre 200 feriti.

In una quarta provocazione i coloni hanno annunciato che avrebbero marciato a Gerusalemme il 10 maggio per celebrare quello che essi definiscono il Giorno di Gerusalemme [festa nazionale israeliana che commemora la riunificazione di Gerusalemme e l’istituzione del controllo israeliano sulla Città Vecchia all’indomani della guerra dei sei giorni nel 1967, ndtr]. L’intenzione era di sfilare vicino alla moschea di al-Aqsa.

Questa marcia è poi degenerata, la mattina del 10 maggio, in una quinta provocazione quando, per la seconda volta in una settimana, le forze israeliane hanno fatto irruzione ad al-Aqsa, attaccando i fedeli che pregavano all’interno e devastando il luogo sacro. Più di trecento palestinesi sono rimasti feriti.

Un’ondata di rabbia

Queste provocazioni si sono protratte per tutto il Ramadan e hanno provocato un’ondata di rabbia che ha investito i palestinesi in tutta la loro patria storica. Sono scoppiate proteste ad Haifa, Giaffa, Ramallah e Gaza.

A Gaza i manifestanti hanno chiesto alle Brigate Qassam, il braccio armato di Hamas, di intervenire. I palestinesi di Gaza hanno sostenuto con forza la necessità di una pronta risposta da parte delle fazioni della resistenza in ritorsione alle violazioni a Gerusalemme.

Ho letto sui social media qualcosa come centinaia di messaggi di attivisti che chiedevano ad Hamas perché la rappresaglia ci mettesse così tanto ad arrivare. Tassisti, negozianti, gente comune: tutti facevano la stessa domanda.

Alla fine è arrivato l’avvertimento da Qassam che i soldati israeliani avevano due ore per evacuare al-Aqsa, togliere l’assedio ai murabitoun – i fedeli che rimangono giorno e notte nel sito per proteggerlo con la loro presenza – e liberare tutti i prigionieri.

Allo scadere del termine fissato, non avendo ricevuto alcuna risposta da Israele, Qassam ha lanciato una raffica di razzi verso Gerusalemme.

L’esercito israeliano ha risposto bombardando la città di Beit Hanoun nel nord della Striscia di Gaza.

Nove persone, compresi tre bambini, sono stati uccisi mentre si preparavano ad interrompere il digiuno.

I combattenti per la libertà di Gaza hanno continuato con le ritorsioni ed Israele ha intensificato i bombardamenti colpendo abitazioni residenziali.

L’aviazione israeliana ha distrutto diverse torri residenziali che ospitavano anche dozzine di sedi di organi di stampa e imprese commerciali.

Israele ha inoltre attaccato stazioni di polizia e vari edifici governativi, tutti obiettivi civili.

Perché è diverso

L’attuale escalation si distingue per il fatto che il popolo palestinese chiedeva una risposta alle pratiche dell’occupazione israeliana. Poiché Hamas ha risposto, esso viene considerato eroico.

Non c’è critica o denuncia della decisione di agire da parte di Hamas, nonostante siano i cittadini a pagare il prezzo più alto dell’aggressione israeliana con la perdita dei propri cari e delle loro case.

Gaza mostra con chiarezza che i palestinesi credono fermamente nella resistenza come via verso la liberazione dall’occupazione.

Questa ondata di combattimenti è significativa anche perché è nata come risposta alle continue violazioni avvenute a Gerusalemme.

Tutti i precedenti casi di escalation da parte di Hamas erano stati provocati da aggressioni israeliane contro la Striscia di Gaza. Così. quando Gerusalemme ha chiesto aiuto a Gaza e questa si è sollevata in sua difesa, si è rafforzato un sentimento nascente di unità nazionale palestinese e si è liberata dall’isolamento la resistenza palestinese di Gaza.

Che si tratti di Gaza o di qualsiasi altro luogo in Palestina, i palestinesi lottano contro l’occupazione che li ferisce ovunque con aggressioni ed abusi.

Questa escalation si è caratterizzata anche per un aumento del livello di sfida all’interno dei movimenti di resistenza. La cancellazione della marcia per il Giorno di Gerusalemme ha rappresentato una delle prime vittorie.

Gli attacchi israeliani contro Gaza hanno sempre comportato sofferenze e tragedie. Tuttavia, stavolta l’escalation viene percepita come particolarmente significativa, come eroica.

In tutta la Palestina la gente aveva un disperato bisogno di qualcuno che la facesse sentire sostenuta e difesa. I palestinesi hanno bisogno di sentire che non sono soli a pagare il prezzo. E’ pertanto estremamente significativo che la resistenza sia esplosa in tutta la Palestina storica.

Israele si è impegnato a distruggere l’identità palestinese, specialmente in città, paesi e villaggi all’interno dei confini del 1948 che ha volutamente tenuto in stato di povertà – le zone cioè dove quell’anno veniva proclamato lo Stato di Israele durante la Nakba, la pulizia etnica della Palestina.

In quelle aree le proteste di massa, le stazioni di polizia incendiate, la sostituzione delle bandiere israeliane con quelle palestinesi, tutto sembra indicare un nuovo risveglio dello spirito palestinese.

I palestinesi sono ancora profondamente radicati nella propria terra, attaccati alla loro identità, il loro profondo senso di unità è più significativo di qualsiasi fattore che li possa tenere separati, e la loro capacità di sopravvivere agli orrori e ai crimini di Israele non finisce mai di sorprendere.

Israele possiede un potente arsenale missilistico e nel tentativo di recuperare la dignità perduta a fronte della resistenza palestinese, Israele continua a commettere crimini contro la popolazione civile di Gaza.

Tuttavia la potenza di Israele non gli garantisce legittimazione né stabilità. Il progetto sionista in Palestina è estraneo a questa terra, e tutti gli sforzi di neutralizzare o rimuovere la presenza palestinese sono falliti da più di settanta anni.

Il popolo palestinese potrà anche indebolirsi, ma non morirà. Ha la volontà di combattere fino alla fine e alla vittoria certa.

Ahmed Abu Artema è uno scrittore residente a Gaza, ricercatore presso il Centro di Studi di Politica e Sviluppo.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




#NOTINOURNAMES

Siamo un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani.
In questo momento drammatico e di escalation della violenza sentiamo il bisogno di prendere la parola e dire #NotInOurNames, unendoci ai nostri compagni e compagne attivisti in Israele e Palestina e al resto delle comunità ebraiche della diaspora che stanno facendo lo stesso.
Abbiamo già preso posizione come gruppo quest’estate condannando il piano di annessione dei territori della Cisgiordania da parte del governo israeliano (https://www.joimag.it/contro-lannessione-una-voce…/) e il nostro percorso prosegue nella sua formazione e autodefinizione.
-gli sfratti a Sheikh Jarrah e la conseguente repressione della polizia
-gli ultimi episodi repressivi sulla Spianata delle Moschee
-il governo israeliano che pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei, in Israele e nella diaspora
-i giochi di potere (di Netanyahu, Hamas, Abu Mazen) che non tengono conto delle vite umane
-i linciaggi e gli atti violenti che si stanno verificando in molte città israeliane
-il bombardamento su Gaza
-il lancio di razzi indiscriminato da parte di Hamas
-la riduzione del dibattito a tifo da stadio
-l’utilizzo strumentale della Shoah sia per criticare che per sostenere Israele
-le posizioni unilaterali e acritiche degli organi comunitari ebraici italiani
-gli eventi di piazza organizzati dalle comunità ebraiche con il sostegno della classe politica italiana, compresi personaggi di estrema destra e razzisti
-la narrazione mediatica degli eventi in Medio Oriente che non tiene conto di una dinamica tra oppressi e oppressori
-qualunque iniziativa e discorso che veicoli rappresentazioni islamofobe e antisemite
La situazione attuale rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l’intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente. Condanniamo le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi.
All’interno delle nostre società riteniamo necessaria ogni forma di solidarietà e mobilitazione, ma ci troviamo spesso in difficoltà. Pur coscienti che antisionismo non sia sinonimo di antisemitismo, osserviamo come un antisemitismo non elaborato, che si riversa più o meno consciamente in alcune delle giuste e legittime critiche alle politiche di Israele, rende alcuni spazi di solidarietà difficili da attraversare. Si tratta di una impasse dalla quale vogliamo uscire, per combattere efficacemente ogni tipo di oppressione.
Aliza Fiorentino
Sara De Benedictis
Daniel Damascelli
Bruno Montesano
Teodoro Cohen
Micol Meghnagi
Michael Blanga-Gubbay
Susanna Montesano
Michael Hazan
Beatrice Hirsch
Giorgia Alazraki
Bianca Ambrosio
Alessandro Fishman
Tali Dello Strologo
Giulia Frova
Sara Missio
Alessandro Dayan
Ruben Attias
Keren Strulovitz
Enrico Campelli
Jonathan Misrachi
Yael Pepe
Claudia Pepe
Daniel Disegni
Sara Buda
Dana Portaleone
Ludovico Tesoro
Viola Gabbai
Edoardo Gabbai
Benjamin Fishman
Lorenzo Foà
Alessandro Foà
Giulio Ambrosio
Gaia Fiorentino
Joy Arbib
Nathan De Paz Habib
Joel Hazan
Tami Fiano
Emanuel Salmoni



25 membri del Congresso USA sottoscrivono una lettera a Blinken per sollecitarlo a condannare gli sfratti di Sheikh Jarrah

Ben Samuels

13 maggio 2021 Haaretz

Il rilevante numero di firmatari è segno che all’interno del Partito Democratico sta aumentando la contrarietà ai progetti di evacuazione.

Washington – Venticinque membri democratici della Camera dei Rappresentanti hanno sottoscritto una lettera al Segretario di Stato Antony Blinken chiedendogli di condannare pubblicamente il progetto di sfratto dei palestinesi dalle loro case nel quartiere di Gerusalemme Est Sheikh Jarrah situate su terreni rivendicati dai coloni israeliani, e di esercitare pressione diplomatica su Israele per evitare l’implementazione del progetto.

Il numero dei firmatari della lettera, fatta circolare per quasi una settimana dai rappresentanti Marie Newman e Mark Pocan, è decisamente più alto di quello previsto, ed è un segno che all’interno del Partito Democratico sta crescendo la contrarietà a quei progetti di evacuazione.

Le critiche dei Democratici arrivano mentre le tensioni in Israele hanno raggiunto un punto di rottura, e un numero senza precedenti di membri di diverse correnti del Partito esprime un inconsueto sostegno senza riserve per i palestinesi di Sheikh Jarrah, nonché critiche per il trattamento da parte di Israele dei manifestanti di Gerusalemme.

Newman e Pocan sono co-promotori di una proposta di legge presentata da Betty McCollum che specifica quali azioni non possano venire finanziate da Israele utilizzando denaro dei contribuenti USA, ed inoltre richiede controlli aggiuntivi sulle modalità di distribuzione degli aiuti. Il disegno di legge proibisce specificamente la distruzione delle proprietà dei palestinesi e McCollum dichiara che “i contributi USA destinati alla sicurezza di Israele dovrebbero promuovere la pace e non potranno mai essere impiegati per violare i diritti umani dei minori, demolire le case delle famiglie palestinesi, o per annettere in via permanente le terre palestinesi.”

Fra i firmatari della lettera compaiono altri co-promotori del disegno di legge McCollum, fra cui Pramila Jayapal, Betty McCollum, Rashida Tlaib, Raul Grijalva, Ilhan Omar, Alexandria Ocasio-Cortez, Andre Carson, Jesus “Chuy” Garcia, Cori Bush, Judy Chu, Ayanna Pressley, Bobby Rush e Eddie Bernice Johnson.

Ad essi si sono aggiunti diversi rappresentanti che non comparivano nel disegno di legge McCollum, fra cui Gerald Connolly, Jared Huffman, Peter Welch, Judy Chu, Alan Lowenthal, Veronica Escobar, Jackie Speier, Anna Eshoo, Chellie Pingree, Debbie Dingell e Hank Johnson.

“Le famiglie palestinesi hanno tutti i diritti di vivere in sicurezza all’interno delle proprie case. Ecco perché ho proposto ai miei colleghi di scrivere insieme al Dipartimento di Stato chiedendo l’immediata condanna di queste brutalità perpetrate dal governo israeliano contro le famiglie palestinesi a Gerusalemme Est. L’America deve difendere i diritti umani dovunque,” ha dichiarato Newman in un comunicato. La lettera afferma che “i progetti israeliani di demolire le case palestinesi di Al-Bustan [sobborgo a sud della moschea di al-Aqsa, Gerusalemme, ndtr.] e di cacciare i palestinesi dalle proprie case di Sheik Jarrah costituiscono un’evidente violazione della Quarta Convenzione di Ginevra [che protegge da atti di violenza e dall’arbitrio i civili che si trovano in mano nemica o in territorio occupato,ndtr]

Facendo riferimento ad un dissenso di lunga data da parte degli americani nei confronti delle demolizioni di case palestinesi a Gerusalemme Est, i legislatori chiedono che l’amministrazione Biden “invii immediatamente il più energico messaggio diplomatico a Israele affinché desista dai suoi progetti” e nel contempo ribadisca pubblicamente che rimane valida la posizione USA sulle demolizioni delle abitazioni in vigore dai tempi dell’amministrazione Nixon.

I parlamentari richiedono inoltre il sollecito riesame di precedenti richieste fatte dal Congresso al Dipartimento di Stato affinché questo indaghi se l’uso di armi statunitensi nella demolizione di case da parte di Israele violi la legge di controllo sull’esportazione di armi [AECA: Arms Export Control Act, 1976, ndtr] e aggiungono che l’ambasciata USA in Israele dovrebbe “inviare osservatori per documentare l’evacuazione forzata dei palestinesi da parte di Israele, comprese informazioni dettagliate sulle unità militari coinvolte in tali operazioni e sull’utilizzo di armi statunitensi, coerentemente ai controlli e rendicontazioni riguardanti la legge Leahy ed eventuali violazioni dell’AECA.

L’AECA dichiara che le armi statunitensi sono vendute esclusivamente per scopi di legittima difesa, mentre la Legge Leahy proibisce agli USA di finanziare l’equipaggiamento e l’addestramento di forze militari straniere sospettate di violazioni di diritti umani o di crimini di guerra.

(Traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Realtà coloniali: da Sheikh Jarrah a Lod

Nimer Sultany

12 maggio 2021 – Mondoweiss

La realtà del colonialismo da insediamento, della ebraizzazione della Palestina, esiste a Lod, “all’interno di Israele”, tanto quanto a Sheikh Jarrah, nei territori occupati.

Nei giorni scorsi i cittadini palestinesi di Israele hanno protestato contro l’oppressione israeliana a Gerusalemme. Si ribellano allo sfratto e allo spossessamento dei palestinesi di Sheikh Jarrah [quartiere di Gerusalemme est, ndtr.] , all’attacco contro i fedeli all’interno della moschea di Al-Aqsa, ai tentativi della polizia di impedire ai cittadini palestinesi di pregare nella moschea durante il Laylat Al-Qadr [‘la notte del destino’, una delle ultime 10 notti del Ramadan, ndtr.] e al brutale attacco a Gaza.

I media israeliani sono preoccupati della situazione. Stamattina Roni Daniel, corrispondente esperto in materia di sicurezza della TV israeliana, ha sostenuto che il comportamento dei cittadini palestinesi è più preoccupante del conflitto con Hamas. L’esercito si occuperà di Hamas, ha assicurato agli ascoltatori, ma il problema dei disordini all’interno di Israele è molto più grave, ha ribadito, respingendo i tentativi del conduttore di fargli domande su Gaza.

In generale i media israeliani sono allarmati per il crollo della “coesistenza” nelle “città miste” all’interno di Israele: Lod, Ramla, Giaffa, Acri e Haifa. A Lod il sindaco ha chiesto l’intervento dell’esercito in città contro i suoi stessi cittadini. Il governo ha acconsentito: ha dichiarato lo stato di emergenza e imposto il coprifuoco sulla città.

Eppure è difficile prendere sul serio questa invocazione ad una coesistenza perduta. La realtà del colonialismo da insediamento, della ebraizzazione della Palestina, esiste a Lod tanto quanto a Sheikh Jarrah. L’ideologia che vi sta alle spalle è simile. Anche le forze politiche sono le stesse.

Per esempio, nel 2004 Haaretz ha parlato di un “insediamento a Lod”, riferendosi ad un gruppo di coloni religiosi della Cisgiordania che si sono trasferiti a Lod per impedire “il controllo arabo”.

Questo non è stato solo un semplice caso di privati cittadini che si spostano nella città. Nel 2003 l’Amministrazione delle Terre di Israele ha concesso all’associazione Kiryat Eliyashiv, che era l’unico partecipante alla gara d’appalto, sei dunam [1 dunam= 0,1 ettaro, ndtr.] di terra, di fatto gratuitamente (7 shekel israeliani per unità abitativa!) [1,76 euro, ndtr.]

Questi tentativi di insediamento per modificare la “bilancia demografica” tra palestinesi ed ebrei israeliani sono l’espressione di una politica di apartheid: i capi dei coloni religiosi hanno subito chiarito che nessun arabo può ottenere un appartamento nel quartiere di Ramat Eliyashiv. Solo gli ebrei!

Nel 2015 il sito web [israeliano] Walla ha ulteriormente riferito di questa realtà di segregazione a Lod, Ramla e Giaffa, che separa dai ricchi quartieri ebrei i negletti ghetti arabi, afflitti da povertà e delinquenza.

Questa segregazione consiste in muri che dividono i quartieri arabi ed ebraici a Ramla e Lod.

A Lod un muro alto più di 4 metri e lungo 1,5 chilometri separa l’arabo Pardes Shnir dall’ebraico Nir Zvi.

A Ramla un muro alto 4 metri e lungo 2 chilometri separa l’arabo Jawarish dall’ebraico Ganei Dan.

Sembra esserci segregazione anche nel villaggio non riconosciuto di Dahmash. I ricchi quartieri ebraici appena costruiti sono ben forniti. Ma il quartiere di Dahmash, che esiste da oltre 70 anni, è costantemente sotto minaccia di demolizioni. In quanto villaggio non riconosciuto, manca dei servizi essenziali come elettricità e acqua corrente. Ieri un razzo ha ucciso due abitanti di Dahmash. Questo incidente ha messo ulteriormente in luce la vulnerabilità dei cittadini palestinesi. Non disponevano di alcuna rifugio antiaereo.

Il sindaco di estrema destra di Lod (i media lo definiscono un kahanista [seguace del defunto rabbino Kahane, esplicitamente razzista, ndtr.]) ha contribuito alla segregazione anche bloccando le licenze edilizie per impedire agli abitanti arabi di trasferirsi nei quartieri ebraici.

I kahanisti e l’organizzazione [di estrema destra, ndtr.] Lahava, che hanno marciato a Gerusalemme gridando morte agli arabi solo pochi giorni fa, sono calati su Ramla e Lod. Centinaia di questi estremisti hanno attaccato cittadini arabi a Ramla.

Itamar Ben Gvir [capo del partito kahanista, ndtr.], ora membro della Knesset, a Lod ha invitato a sparare a chiunque lanci pietre. 

Il Ministro per la Sicurezza interna Amir Ohana [del partito di destra Likud, ndtr.] ha già stabilito che il cittadino ebreo che ha sparato ad un manifestante arabo, Musa Hassouna, da 50 metri di distanza ha agito per autodifesa e che i privati cittadini ebrei con fucili stanno aiutando la polizia! In seguito a questa pressione politica la polizia, che inizialmente aveva arrestato lo sparatore, lo ha rilasciato il giorno dopo. La violenza privata contro i cittadini palestinesi è quindi incoraggiata e sancita dalle autorità dello Stato.

Dunque la realtà è quella di un colonialismo di insediamento in cui i poteri privati e pubblici agiscono di concerto per ebraizzare la terra e scatenare violenze nella Palestina storica, dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo).

È quindi una finzione sostenere che all’interno di Israele vi è “coesistenza” o che ci sono “città miste. È una realtà di ghetti e di apartheid: un ininterrotto progetto coloniale di supremazia ebraica. Jim Crow non era un progetto di coesistenza [ in riferimento alle leggi segregazioniste negli USA tra ‘800 e ‘900, ndtr.] .

È anche fuorviante definire Israele una “democrazia liberale” o semplicemente una “società profondamente divisa”. In un contesto di assenza di una clausola di uguale protezione nella Dichiarazione dei Diritti di Israele, e della Legge sui Comitati di Ammissione del 2011, che consente di escludere i cittadini palestinesi dal poter vivere in centinaia di località, la legge fondamentale [che in Israele funge da costituzione, ndtr.] “Israele Stato Nazione del Popolo Ebraico” del 2018 semplicemente costituzionalizza la supremazia ebraica.

C’è ironia nel fatto che fino a poco tempo fa l’analogia dell’apartheid o la configurazione giuridica del crimine di apartheid sia stata usata con riferimento alla Cisgiordania. Invece uno dei primi casi in cui i palestinesi hanno evocato l’apartheid si riferiva alla situazione coloniale antecedente al 1967. Fayez Sauegh nel suo libro del 1965 “Il colonialismo sionista in Palestina” proponeva un’analogia con l’apartheid del Sudafrica prima dell’occupazione [israeliana della Cisgiordania, ndtr.] del 1967 e all’interno del disegno coloniale da insediamento.

Nimer Sultany è lettore di Diritto Pubblico presso la Scuola di Studi Orientali e Africani. È direttore responsabile del Palestine Yearbook of International Law [Annuario Palestinese di Diritto Pubblico, rassegna giuridica specializzata sulla Palestina, ndtr.], autore di “Law and Revolution: Legitimacy and constitutionalism after the Arab spring” [Legge e rivoluzione: legittimità e costituzionalismo dopo le primavere arabe, (OUP 2017) e di “Citizens without citizenship: Israel and the Palestinian minority 2000-2002” [Cittadini senza cittadinanza: Israele e la minoranza palestinese 2000-2002] (Mada, 2003).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Non solo a Sheikh Jarrah: i palestinesi rischiano sfratti ovunque

Redazione di MEE

11 maggio 2021- Middle East Eye

Le famiglie palestinesi hanno subito per decenni continue minacce di sfratti in Israele e nei territori occupati

Nelle ultime settimane la situazione nella Città Vecchia di Gerusalemme e dintorni è peggiorata e la repressione attuata dalle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti palestinesi che protestavano a causa degli sfratti è diventata progressivamente sempre più brutale.

Lunedì mattina le forze israeliane hanno ancora una volta fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa sparando proiettili di acciaio ricoperti di gomma e lanciando lacrimogeni all’interno del complesso, ferendo centinaia di palestinesi.

L’escalation di violenza sta avvenendo nel contesto della prevista espulsione di 40 palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, della Gerusalemme Est occupata.

Sin dall’inizio dell’anno scorso i tribunali israeliani avevano ordinato lo sfratto di 13 famiglie palestinesi del quartiere, basandosi su una deliberazione di un tribunale di prima istanza agli inizi del 2021 a favore di rivendicazioni vecchie di decenni su lotti di terra da parte di coloni israeliani.

Un’udienza della Corte Suprema per un appello palestinese era stata fissata per lunedì, ma il ministero della Giustizia israeliano l’ha rinviata a causa delle crescenti tensioni nelle ultime settimane.

Da quando Israele ha occupato Gerusalemme Est durante la guerra del 1967, le organizzazioni di coloni israeliani hanno rivendicato la proprietà di terre a Sheikh Jarrah e hanno presentato con esito positivo vari ricorsi per sfrattare i palestinesi dal quartiere.

Quattro delle 38 famiglie della zona rischiano lo sfratto imminente, mentre tre saranno probabilmente sfrattate il 1 agosto.

Quelle rimanenti si trovano a stadi diversi nell’iter giudiziario in vari tribunali israeliani in uno scontro frontale con potenti gruppi di coloni israeliani.

Nonostante l’attenzione recentemente sia concentrata su Sheikh Jarrah, molte famiglie palestinesi in Israele, a Gerusalemme Est e nella Cisgiordania occupata devono affrontare l’imminente pericolo di espulsione, il che evidenzia l’annoso schema di trasferimenti forzati ed espropriazioni di palestinesi da parte di Israele.

Qui di seguito elenchiamo varie zone dove i palestinesi stanno lottando per rimanere.

Silwan

Come a Sheikh Jarrah, i coloni israeliani hanno avanzato rivendicazioni simili per ottenere la proprietà di terre di palestinesi situate vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme.

Israele ha una strategia di insediamenti detta “Bacino Sacro”, che prevede unità abitative per i coloni e una sfilza di parchi intitolati a località e personaggi della Bibbia nei dintorni della Città Vecchia di Gerusalemme. Il piano richiede la rimozione degli abitanti palestinesi dal quartiere di Silwan.

A novembre un tribunale israeliano ha ratificato lo sfratto di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa a Silwan, a sud della moschea di al-Aqsa, a favore del gruppo di coloni israeliani di Ateret Cohanim.

Questo gruppo, che mira a espandere la presenza di coloni nei quartieri a maggioranza palestinese di Gerusalemme Est, intorno e all’interno della Città vecchia, ha fatto causa agli abitanti di Batan al-Hawa, sostenendo che, durante il periodo ottomano e fino al 1938, quando le autorità del mandato britannico le spostarono a causa di tensioni politiche, quei terreni erano di proprietà di ebrei yemeniti.

Anche gli abitanti di Wadi al-Rababa, un’altra zona che ospita circa 800 palestinesi gerosolimitani, sono da tempo in guerra con i bulldozer israeliani. A gennaio alcuni abitanti hanno riferito a Middle East Eye che soprusi e tentativi di demolizione da parte delle autorità israeliane sono aumentati durante la pandemia da Covid-19.

L’avanzata dei coloni israeliani a Silwan è cominciata nel 2004, quando furono fondati due avamposti di coloni. Il numero di avamposti era arrivato a sei nel 2014, da appartamenti isolati a interi caseggiati.

Le autorità israeliane hanno annunciato a novembre un piano di scavi per la costruzione di una funivia sopra Silwan. Il controverso progetto altererebbe drasticamente il paesaggio della storica Città Vecchia ed espanderebbe la presenza israeliana nella zona, facilitando l’accesso dei turisti al Muro Occidentale a spese dei negozianti palestinesi della Città Vecchia

Sin dal 1995, l’Autorità israeliana per le antichità scava dei siti a Silwan con il sostegno della fondazione dei coloni “Ir David”, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e trovare testimonianze dell’esistenza della “Città di Davide” risalente a tremila anni fa.

Il completamento del progetto della “Città di Davide” che include un “viale” in stile romano costruito sulle strade che per generazioni sono state dei palestinesi, consoliderebbe la posizione illegale dei 450 coloni  che attualmente vivono a Silwan e marginalizzerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

Giaffa

Altrove, a Giaffa, nella zona costiera a sud di Tel Aviv, Middle East Eye ha riportato ad aprile che Amidar, un’impresa immobiliare israeliana statale, sta progettando di espellere gli abitanti palestinesi dalle proprie proprietà per venderne alcune a Eliyahu Mali, il capo di una sinagoga militante a Giaffa che sta cercando di impadronirsene per trasformarle in una sinagoga.

Decine di cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono il 20% della popolazione del Paese, sono stati attaccati lo stesso mese dalla polizia israeliana e dai seguaci di Mali.

Mali è a capo di “Settling in the Hearts“, [insediarsi nei cuori], un progetto di espansione di colonie israeliane che preme per stabilire avamposti nel cuore di città a maggioranza palestinese e nei quartieri della Gerusalemme Est occupata, in Cisgiordania e in Israele, come al-Ajami.

In aprile Mahmoud Abed, giornalista e attivista di Giaffa, ha detto a MEE che nella zona si stava attuando da parte delle autorità israeliane “un trasferimento silenzioso” di famiglie palestinesi risultante in “una mancanza di sicurezza personale e di una vita dignitosa” per i palestinesi.

Il 70% dei palestinesi che abitano a Giaffa vive in proprietà di cui Israele si è impadronito nel 1948 tramite società statali, come Amidar. Queste imprese possiedono un terzo della proprietà mentre gli abitanti ne possiedono i due terzi,” ha detto Abed.

In anni recenti Israele ha messo all’asta proprietà a Giaffa e chiesto agli abitanti palestinesi di fare delle offerte in concorrenza con ricchi investitori israeliani sulla quota di un terzo detenuta dalle società statali israeliane.

Nessuno può mettere insieme un milione e mezzo di dollari in 60 giorni per restituirli alle compagnie. Quasi 40 famiglie palestinesi se ne sono andate da Giaffa perché non possono comprare o affittare una casa nella zona,” ha detto Abed a MEE.

Umm al-Fahm

Anche Umm al-Fahm, una cittadina nella regione di Wadi Ara vicino ad Haifa, nel nord di Israele, dove recentemente i manifestanti hanno dimostrato contro la violenza e l’inerzia della polizia israeliana [nei confronti della delinquenza locale, ndtr.], ha visto tentativi di sfratto e demolizioni.

I cittadini palestinesi di Israele protestano da tempo che le proprie città e paesi sono poco serviti dalle autorità israeliane, mentre i permessi di costruzione per fornire alloggi per le comunità in espansione sono difficili da ottenere.

Secondo Arab48 [sito di notizie in arabo, ndtr.] la famiglia Eghbarieh, per esempio, da oltre dieci anni è bloccata da dispute con le autorità israeliane riguardo alla demolizione della loro casa. La famiglia ha recentemente presentato ricorso contro lo sfratto.

Secondo Bldtna, sito web palestinese di notizie che ha riferito di parecchie attività commerciali e case nella zona di Wadi Ara a cui recentemente sono state presentate ingiunzioni di demolizione e sfratto perché non avevano un permesso edilizio, lo scorso agosto bulldozer israeliani hanno demolito un edificio in costruzione a causa di una presunta mancanza di licenza edilizia.

Molti palestinesi hanno dovuto demolire loro stessi le proprie case e attività, di fronte all’alternativa fra il farlo loro stessi o pagare le demolizioni attuate dalle autorità israeliane.

Khan al-Ahmar

Prima di Sheikh Jarrah nel 2021, il destino di Khan al-Ahmar aveva attirato l’attenzione mondiale nel 2018.

Il villaggio si trova in Cisgiordania, fra Gerusalemme Est e le colonie illegali israeliane di Maale Adumim e Kfar Adumim.

Nel settembre del 2018, nonostante richieste di Paesi europei, organizzazioni per i diritti umani e attivisti affinché Israele bloccasse il progetto, la Corte Suprema israeliana ha approvato la demolizione di Khan al-Ahmar.

I piani per demolire Khan al-Ahmar fanno parte del cosiddetto piano E1, che prevede la costruzione di centinaia di unità abitative per collegare Kfar Adumim e Maale Adumim con Gerusalemme Est, nell’Area C della Cisgiordania controllata da Israele.

Se implementato completamente, il piano E1 di fatto dividerebbe a metà la Cisgiordania, separando Gerusalemme Est dalla Cisgiordania e costringendo i palestinesi a fare una deviazione ancora più lunga per andare da un posto all’altro, mentre le colonie illegali potrebbero continuare ad espandersi.

Nel 2018, causa della pressione internazionale, Israele ha sospeso i piani di demolire Khan al-Ahmar, ma a marzo il quotidiano israeliano Yedioth Athronoth ha rivelato che i funzionari stavano di nuovo pianificando di sfrattare i palestinesi dal villaggio.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar appartengono alla tribù degli Jahalin, un gruppo di beduini espulso dal deserto di Naqab, anche detto Negev, durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Gli Jahalin si sono poi stabiliti sulle pendici orientali di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie, le cui abitazioni e scuole di fortuna, fatte di ondulato e legno, sono state demolite parecchie volte in anni recenti dall’esercito israeliano.

Legislazione delle colonie

Dall’annessione di Gerusalemme Est nel 1967, Israele ha usato due leggi principali per sfrattare i palestinesi dalle loro case.

La Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 classifica i palestinesi che sono stati espulsi o che hanno lasciato il Paese dopo il novembre 1947 come “assenti” mette le loro proprietà sotto il controllo dello Stato israeliano.

La Legge e Ordinanza Amministrativa del 1970 permette il trasferimento di proprietà perdute a Gerusalemme Est nel 1948 solo agli ebrei.

I palestinesi non possono rivendicare diritti su beni posseduti prima del 1948.

La politica israeliana di insediare i propri civili nei territori palestinesi occupati e cacciando la popolazione locale viola norme fondamentali della legislazione umanitaria internazionale,” ha rilevato Amnesty International, citando le Convenzioni dell’Aia e la Quarta Convenzione di Ginevra.

L’ong aggiunge che “stabilire insediamenti comporta atti importanti”, compresa l’ingiustificata “massiccia distruzione e appropriazione di proprietà” e “trasferimento… da parte della potenza occupante di parti della propria popolazione civile nei territori che occupa, o la deportazione o il trasferimento di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di questo territorio” costituisce crimini di guerra secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Amnesty ha anche criticato quello che chiama “urbanistica e sistema di zone discriminatori” da parte di Israele.

Nel frattempo, dagli Accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania è stata divisa in Aree A, B e C, con la maggior parte della popolazione palestinese nelle Aree A e B. L’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania, è sotto totale controllo militare israeliano, con comunità palestinesi più piccole che nella zona vengono regolarmente minacciate di demolizioni delle proprie case, mentre le colonie israeliane nelle vicinanze prosperano.

Nell’Area C, dove si trova la maggior parte della costruzione delle colonie, Israele ha allocato il 70% della terra alle colonie e solo l’1% ai palestinesi,” secondo Amnesty, mentre a Gerusalemme Est, “Israele ha espropriato il 35% della città per la costruzione di colonie, permettendo ai palestinesi di costruire su solo il 13% della terra.”

Mentre continua la lotta per Sheikh Jarrah nei tribunali e nelle strade, il fato di altre comunità palestinesi mostra che il problema non comincia né finisce con questo quartiere di Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Ventiquattro palestinesi uccisi nei raid aerei israeliani contro Gaza*

Al Jazeera e agenzie

10 maggio 2021- Al Jazeera

*Alle 00,17 di mercoledì 12 maggio le vittime palestinesi sono 28 di cui 10 bambini [ ndr]

Secondo il ministero della Salute palestinese, almeno 24 palestinesi sono stati uccisi a seguito dei raid aerei israeliani contro la Striscia di Gaza occupata, dopo che Hamas aveva lanciato dal territorio costiero dei razzi verso Israele.

Le forze israeliane hanno continuato a bombardare il territorio fino a martedì mattina, prendendo di mira siti a Khan Younis, nel campo profughi di al-Bureij e nel quartiere di al-Zaitoun.

All’alba sono morti almeno 3 civili, uccisi da un aereo da guerra israeliano che ha preso di mira una casa del campo profughi di al-Shati.

Raed al-Dahshan, portavoce della difesa civile di Gaza, ha detto ad Al Jazeera che fra i tre ci sono una donna e un disabile.

Il ministero della Salute palestinese di Gaza ha detto che, in seguito agli attacchi israeliani, il bilancio delle vittime è salito a 24 persone, inclusi nove bambini. Almeno altre 106 persone sono state ferite.

La maggior parte dei bambini apparteneva alla stessa famiglia. Due di loro, Ibrahim, undicenne, e il fratellino Marwan, di sette anni, erano gli unici figli di Yousef al-Masri.

In attesa dell’iftar, il pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, i ragazzini stavano giocando davanti alle loro case a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza, quando due esplosioni hanno fatto tremare la strada.

Lunedì, Eman Basher, insegnante, ha reso omaggio a Rahaf al-Masri,10 anni, uccisa durante gli attacchi.

Dopo il ferimento di centinaia di palestinesi da parte delle forze israeliane che hanno preso d’assalto il complesso della moschea di Al Aqsa che si trova nella Gerusalemme Est occupata, Hamas, l’organizzazione che governa a Gaza, ha lanciato decine di razzi contro Israele, incluso bombardamento che ha fatto scattare le sirene contro i raid aerei fino a Gerusalemme.

Hamas ha dato un ultimatum a Israele perché ritirasse le forze da Al Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam e anche per gli ebrei [come luogo su cui sorgeva il Secondo Tempio, ndtr.].

Le tensioni a Gerusalemme sono state alimentate dalle previste espulsioni forzate di famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e dai raid delle forze israeliane contro Al Aqsa, in una delle notti più sante del mese di Ramadan.

Israele avverte Hamas

In un discorso il primo ministro Benjamin Netanyahu ha minacciato un’operazione di lunga durata contro Hamas, accusando il gruppo di aver varcato la “linea rossa” con gli ultimi lanci di razzi, promettendo una pesante reazione. “Chi ci attacca pagherà un prezzo altissimo,” ha detto.

Un soldato israeliano ha riferito che, nella parte sud del Paese un civile ha riportato leggere ferite dopo che un veicolo è stato colpito da un missile anticarro partito da Gaza.

Abu Obeida, portavoce dell’ala militare di Hamas, ha detto che l’attacco contro Gerusalemme è stato la risposta a quelli che lui chiama “crimini e aggressioni” israeliane nella città. “Questo è un messaggio che il nemico farebbe bene a capire”, ha aggiunto.

Ha minacciato altri attacchi se le forze israeliane ritorneranno nel complesso della moschea di Al Aqsa o espelleranno famiglie palestinesi da un quartiere di Gerusalemme Est.

Attacco contro Al Aqsa

All’inizio della giornata la polizia israeliana ha lanciato lacrimogeni, granate stordenti e usato proiettili ricoperti di gomma contro i fedeli palestinesi alla moschea di Al Aqsa.

Più di una decina di lacrimogeni e granate stordenti sono finite nella moschea, mentre la polizia ha attaccato i manifestanti all’interno delle mura che circondano il complesso.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese più di 300 palestinesi sono stati feriti dalle forze armate israeliane, incluse 228 persone ricoverate in ospedali e ambulatori per essere curati. La polizia israeliana ha dichiarato che sono stati feriti 21 agenti, tre dei quali sono stati portati in ospedale. Paramedici israeliani hanno detto che sono stati feriti anche sette civili israeliani.

Di conseguenza, e in un apparente tentativo di evitare ulteriori scontri, le autorità israeliane hanno cambiato il percorso pianificato di una marcia di israeliani dell’estrema destra ultra-nazionalista attraverso il quartiere musulmano della Città Vecchia per ricordare la “Giornata di Gerusalemme”, che celebra la conquista israeliana di Gerusalemme Est che non è riconosciuta dalla comunità internazionale come territorio israeliano.

Lo scontro di lunedì è stato l’ultimo dopo settimane di attacchi quasi ogni notte da parte di truppe israeliane nella Città Vecchia di Gerusalemme contro manifestanti palestinesi durante il sacro mese musulmano di Ramadan.

Sabato, più di 250 persone sono state ferite dopo l’ingresso di forze israeliane dentro Al Aqsa durante la Laylat ul-Qadr, una delle notti più sante dell’Islam.

Espulsioni forzate

Le tensioni nella Gerusalemme Est occupata sono state alimentate dalla prevista espulsione forzata di decine di palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, dove coloni israeliani illegali stanno cercando di occupare proprietà di famiglie palestinesi.

Abitanti del quartiere e attivisti della solidarietà locale e internazionale hanno recentemente tenuto veglie a sostegno delle famiglie palestinesi minacciate di sfratto.

Lunedì la Corte Suprema israeliana ha rimandato una sentenza definitiva sul caso, citando le “circostanze”.

La polizia di frontiera e le forze israeliane hanno attaccato i sit-in usando acqua maleodorante, lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti. Decine di palestinesi sono stati arrestati.

Nida Ibrahim, reporter di Al Jazeera da Ramallah, ha detto che in tutta la Cisgiordania occupata hanno avuto luogo “moltissime proteste spontanee” di sostegno.

Abbiamo sentito persone intonare slogan a sostegno di quelli di Gerusalemme Est e Sheikh Jarrah, inneggiando alla libertà, affinché i palestinesi non vengano cacciati dalle proprie case.”

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno manifestato profonda preoccupazione per gli scontri a Gerusalemme Est, esortando Israele a calmare la situazione e a non eseguire le espulsioni forzate. Anche gli alleati arabi di Israele e la Turchia hanno condannato le azioni di Israele.

Israele ha conquistato Gerusalemme Est, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza durante la Guerra dei Sei giorni nel 1967.

Ha poi annesso unilateralmente Gerusalemme Est e considera l’intera città quale sua capitale, una decisione non riconosciuta dalla vasta maggioranza della comunità internazionale. I palestinesi vogliono i territori occupati per uno Stato futuro con capitale Gerusalemme Est.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)