Un’organizzazione legata a Israele guida la reazione contro le proteste studentesche

James Bamford

16 maggio 2024 – The Nation

L’Israeli-American Council ha lavorato per anni con le agenzie di intelligence israeliane. Lo scorso mese i suoi dirigenti hanno giurato di far sgombrare l’accampamento all’UCLA.

Era ormai tempo di reagire contro i campus dei college americani. E il poco noto Israeli-American Council [Consiglio Israelo-Americano] (IAC), un’organizzazione che ha stretti rapporti con l’intelligence israeliana e composta per lo più da israeliani espatriati, ha deciso che avrebbe guidato la carica in tutto il Paese. Domenica 28 aprile, quando alcuni membri del gruppo sono arrivati sul prato della Dickson Plaza all’UCLA, il presidente dell’IAC, Elan Carr, è salito sul palco. Politico repubblicano, ex-membro del consiglio nazionale dell’AIPAC [principale organizzazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] e consigliere speciale dell’amministrazione Trump per monitorare e combattere l’antisemitismo, ha avuto una scarsa considerazione nei confronti di chiunque avesse screditato Israele. Nel passato ha paragonato l’appello al boicottaggio economico di Israele alle azioni dei nazisti. E ha affermato che il gruppo Jewish Voice for Peace [Voci ebraiche per la pace, organizzazione di ebrei statunitensi antisionisti, ndt.], i cui membri hanno preso parte alle proteste, “è coinvolto nell’antisemitismo.”

Tra quanti si sono rivolti alla folla di contromanifestanti che sventolavano bandiere israeliane proprio davanti all’accampamento dei dimostranti filo-palestinesi, c’era il console generale di Israele per il Pacifico sudoccidentale, Israel Bachar. Ha parlato anche Jonathan Greenblatt, presidente dell’Anti-Defamation League [altra importante associazione della lobby filoisraeliana, ndt.]. Poi è arrivato Carr, che ha annunciato l’inizio della lotta. “Ci riprenderemo le nostre strade. Ci riprenderemo i nostri campus, dalla Columbia University all’UCLA o ovunque tra l’una e l’altra,” ha affermato. La domanda è: data la lunga storia di stretti rapporti dell’IAC con le organizzazioni dell’intelligence israeliana, per chi si stanno riprendendo i campus?

Durante il raduno un sostenitore di Israele ha estratto un coltello a serramanico e ha squarciato un manifesto filopalestinese mentre altri si scontravano con manifestanti filopalestinesi e il volto di un dimostrante si è coperto di sangue. Quella mattina presto alcuni contromanifestanti hanno tentato di arrampicarsi sulle barricate dell’accampamento filopalestinese e una guardia di sicurezza è stata cosparsa con uno spray urticante. Danielle Carr, un’assistente universitaria, ha detto di aver assistito a un’aggressione “veramente incredibile” contro i dimostranti filopalestinesi.

In precedenza il gruppo aveva allestito un enorme schermo chiaramente visibile dall’accampamento. Avrebbero iniziato una tecnica di guerra psicologica simile a quella utilizzata dall’esercito USA contro i presunti terroristi a Guantanamo. Un ispettore dell’FBI assegnato al campo di detenzione ha raccontato in un memorandum di aver visto una volta un “detenuto seduto per terra nella stanza degli interrogatori avvolto in una bandiera israeliana, con musica a tutto volume e una luce stroboscopica lampeggiante.” L’ispettore è uscito dalla stanza, notando in un rapporto che la sua opinione era che “tali tecniche non fossero autorizzate né approvate dalle regole dell’FBI.”

A quanto pare queste regole non si applicano all’IAC. Durante il raduno hanno sparato a tutto volume l’inno nazionale israeliano e poi sullo schermo gigante sistemato dai contromanifestanti hanno proiettato a volume altissimo duri video dei miliziani di Hamas. Secondo il Los Angeles Times i video includevano anche “un fiume di inquietanti suoni assordanti – lo stridio di un’aquila, il pianto di un bambino – con uno stereo e sparato a tutto volume in continuazione una versione in ebraico della canzone “Baby Shark” [canzoncina per bambini, ndt.] a notte fonda in modo che chi era accampato non potesse dormire. “Sfortunatamente abbiamo sperimentato maltrattamenti e il terrore notturni che possono veramente sconvolgere,” ha detto a un giornalista un dottorando ventottenne che era nell’accampamento.

Poi solo due giorni dopo i contromanifestanti filoisraeliani sono tornati per adempiere all’impegno dell’IAC di sgomberare l’accampamento con quelle che la prorettrice dell’università Mary Osako ha definito “orribili violenze.” Alle 22:48 il gruppo filoisraeliano si è avvicinato all’accampamento e ha scandito “Harbu Darbu”, un inno di guerra israeliano che chiede vendetta per il 7 ottobre. Lo scrittore di Los Angeles Piper French ha affermato che i sostenitori di Israele hanno proiettato “immagini raccapriccianti degli attacchi del 7 ottobre. Hanno anche fatto sentire in continuazione una canzone per bambini che i soldati dell’esercito israeliano pare abbiano fatto ascoltare per ore e ore a volume altissimo ai prigionieri palestinesi come forma di tortura,” così come una canzone israeliana sulla campagna delle Forze di Difesa Israeliane a Gaza. Poi sono ritornati dopo mezzanotte.

Hanno subito iniziato a demolire le barriere che proteggevano i manifestanti filopalestinesi ed hanno aggredito brutalmente quelli che si trovavano all’interno. “Le violenze sono state istigate da decine di persone che nei video si vedono manifestare contro l’accampamento,” afferma un’inchiesta del New York Times dopo aver rivisto più di 100 filmati. “Le immagini mostrano contromanifestanti che aggrediscono per varie ore studenti nell’accampamento filopalestinese, anche picchiandoli con bastoni, usando spray chimici e lanciando fuochi d’artificio come proiettili… Uno è stato lanciato in direzione di un gruppo di dimostranti che stavano trasportando un ferito fuori dall’accampamento.”

Altri a volto coperto hanno attaccato con assi di legno, tubi di plastica, pali di ferro, spray urticanti e anti-orso. Secondo Piper French “una folla di uomini… ha agitato bastoni di legno chiodati e proferito minacce di morte e stupro. Hanno preso a pugni e colpito con mazze quattro studenti di giornalismo, ne hanno buttato a terra uno e lo hanno colpito a lungo.” Venticinque manifestanti filopalestinesi sono stati portati in ospedale.

E non c’è stato nessun intervento da parte della polizia locale, che stranamente ha aspettato più di tre ore e mezza prima di interrompere la violenza di una parte sola. “Un’orda di vigilantes antipalestinesi ha attaccato l’accampamento degli studenti,” ha affermato un articolo sul sito web di Jewish Voice for Peace. “La sicurezza del campus, LAPD, e il personale sono rimasti a guardare mentre la folla che sventolava bandiere israeliane ha assalito l’accampamento, colpendo studenti con oggetti contundenti, lanciando contro di loro fuochi artificiali e li ha aggrediti con armi chimiche, provocando decine di feriti gravi.” La violenza è continuata “per ore e ore, senza che qualcuno intervenisse,” ha affermato Bharat Venkat, un professore associato. “Ho pensato che sarebbe stato ucciso uno studente.”

Tra i poliziotti c’era Aaron Cohen, un ben noto istruttore della polizia civile che insegna le tattiche israeliane di contro-intelligence. A un certo punto si è mascherato con una kefiah, la tradizionale sciarpa palestinese a scacchi, che ha nascosto il suo volto tranne gli occhi, e si è infiltrato nell’accampamento. Secondo il suo sito web, Cohen in precedenza ha lavorato per l’israeliana mista’aravim, o unità “araba”, un gruppo “specificamente addestrato per infiltrarsi tra la popolazione araba locale e… incaricata di arresti ad alto rischio di terroristi, raccolta di informazioni e assassinii mirati, che utilizza il camuffamento e la sorpresa come sua arma principale.”

In seguito ha detto: “Così la notte scorsa ho fatto una piccola indagine speciale… Quindi ho tirato fuori la vecchia kefiah, che è diventata il nuovo simbolo nazista degli intellettuali, me la sono messa intorno al volto nel modo giusto … e sono entrato nell’UCLA appena ha fatto buio e mi sono infiltrato proprio in quell’accampamento. Ho passato circa un’ora lì in giro nel perimetro.” Ha detto di essere stato invitato a entrare nell’ufficio dello sceriffo “dietro il filo divisorio con il loro gruppo di risposta rapida,” una chiara indicazione degli stretti rapporti tra ex membri dell’intelligence israeliana e le forze dell’ordine USA.

L’Israeli-American Council è nato nel 2006 sul tovagliolo di carta di un ristorante, molto prima delle proteste e manifestazioni nel campus dell’UCLA. È stata un’idea del console generale israeliano a Los Angeles dell’epoca, Ehud Danoch. Voleva riunire la grande popolazione di espatriati israeliani negli USA, quindi formare un potente gruppo di pressione in appoggio alle politiche del governo israeliano. Tra i suoi principali fondatori c’era Adam Milstein, ex presidente nazionale e attuale membro del consiglio di amministrazione nato in Israele e immobiliarista multimiliardario, nonché criminale, di Los Angeles.

Nel 2008 si dichiarò colpevole e venne incarcerato per due accuse di evasione delle tasse federali. Faceva parte di una complessa trama guidata da un gran rabbino di New York, estesa da Israele a New York e Los Angeles. Utilizzava false associazioni benefiche, tra cui una yeshiva, scuola ebraica ortodossa, per evadere tasse e riciclare milioni di dollari. Gli investigatori la definirono “un’impressionante struttura e un’attività sinistra.” E l’IRS [agenzia delle entrate USA, ndt.] disse: “Non si è trattato di un caso riguardante la religione, la tradizione o le donazioni benefiche. Si è trattato solo di un caso di avidità.” Subito dopo il suo rilascio Milstein fece una richiesta piuttosto strana al ministero della Giustizia. Voleva andare in Israele dove, tra le altre cose, avrebbe voluto “incontrare il primo ministro israeliano” Benjamin Netanyahu. Il ministero della Giustizia accolse la sua richiesta.

L’IAC è stato generosamente finanziato e guidato per anni dal supermiliardario di Las Vegas Sheldon Adelson, il principale donatore della campagna elettorale di Trump nel 2020. L’organizzazione è anche riuscita ad avere stretti legami con l’intelligence israeliana. Per anni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato sempre più preoccupato per il crescente attivismo filopalestinese nei campus dei college statunitensi e soprattutto del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele. Più il movimento prendeva piede nei campus, più Netanyahu era preoccupato di perdere i miliardi in aiuti dell’America e il suo fondamentale appoggio alle Nazioni Unite. Di conseguenza ha nominato Gilad Erdan, suo stretto collaboratore, come responsabile del tenebroso ministero degli Affari Strategici, con la principale priorità di lanciare operazioni sotto copertura negli USA per reprimere il movimento filopalestinese e dare segretamente la caccia in ogni modo possibile ai suoi sostenitori.

Il quartier generale di Erdan era nascosto al 29esimo piano di un grattacielo di uffici, la Champion Tower, nel quartiere di Bnei Brak a Tel Aviv. E nel 2016 la vice di Erdan nel ministero, la direttrice generale Sima Vaknin-Gil, disse a una commissione governativa che l’obiettivo del suo ministero era perseguitare il movimento di boicottaggio filopalestinese negli USA in modo che la “narrazione del mondo non fosse che Israele equivale all’apartheid.” In un altro punto del discorso chiarì come il ministero avrebbe raggiunto quell’obiettivo: “Per fare ciò,” affermò, “dobbiamo utilizzare trucchi e furbizie.” Che sarebbero stati tradotti in operazioni sotto copertura e attività clandestine negli Stati Uniti.

Per le operazioni negli USA era fondamentale un’unità molto sofisticata di intelligence che prendesse di mira americani innocenti in tutto il Paese. Venne descritta nel 2016 ai membri dell’IAC da Sagi Balasha, un ex ufficiale superiore israeliano ed ex presidente dell’IAC dal 2011 al 2015. Poi tornò in Israele e rilevò Concert, un’organizzazione di copertura controllata dal ministero degli Affari Strategici, dove lui chiamava Vaknin-Gill “la mia collaboratrice”. E tra i suoi progetti c’era Israel Cyber Shield [Scudo Informatico di Israele]. “Iniziammo creando un progetto chiamato Israel Cyber Shield,” ha affermato. “In realtà è un’unità di intelligence civile che raccoglie dati, analizza e agisce contro gli attivisti del movimento BDS, della sua gente, organizzazioni o eventi. E noi gli forniamo tutto quello che raccogliamo. Stiamo utilizzando il sistema di dati più sofisticato, il sistema di intelligence sul mercato israeliano.”

E secondo Vaknin-Gil tutto quello che raccolgono include sorveglianza su studenti, frequentatori di chiese e lavoratori in tutto il Paese, ogni gruppo che possa appoggiare o simpatizzare con la causa palestinese e con il boicottaggio. Descrivendo i vari aspetti delle operazioni sotto copertura ha detto: “La principale è l’intel, intelligence…Quello che abbiamo fatto è stato mappare e analizzare tutto il fenomeno (filopalestinese) a livello globale. Non solo gli Stati Uniti, non solo i campus, ma i campus e l’intersezionalità, i sindacati e le chiese.” E la segretezza era fondamentale: “Siamo un altro governo che lavora su suolo straniero, e dobbiamo essere molto, molto cauti,” ha affermato. C’erano buone ragioni per la discrezione di Israele. Tra i principali obiettivi c’è stata Linda Sarsour, una dirigente sia del movimento filopalestinese che di Black Lives Matter, che ha aderito al boicottaggio nel 2016.

È stata anche una delle principali organizzatrici della Marcia delle Donne in seguito all’insediamento del presidente Donald Trump. Secondo un’inchiesta del giornale israeliano Haaretz tra il materiale che l’unità Cyber Shield è riuscita a ottenere segretamente da Sarsour c’era un file protetto con una password “contenente informazioni sui suoi genitori, e un altro con più di 10 pagine tutte identificate come ‘riservate’… Il dossier finiva con una sintesi che evidenziava i suoi evidenti punti deboli.” Una volta raccolti, i dati poi venivano consegnati per essere utilizzati da un’altra unità israeliana segreta che prendeva di mira americani, nota come Act.iL, che poi poteva sfruttare i “punti deboli” di Sarsour. Act.iL è nata in modo inusuale.

Il 4 giugno 2017 il governatore di New York Andrew Cuomo nominò Erdan “Gran Cerimoniere Onorario” della parata per celebrare Israele, nonostante il fatto che egli fosse il capo delle operazioni sotto copertura di Netanyahu negli Stati Uniti. Ma Cuomo aveva passato buona parte del suo incarico di governatore ad assecondare i sostenitori di Israele tra i quasi due milioni di votanti ebrei e invitò vicino a sé Erdan alla marcia attraverso il centro di Manhattan. Ore dopo Erdan ripagò Cuomo per quell’onore lanciando la sua nuova operazione: una rete di fabbriche segrete di troll [agenti provocatori informatici, ndt.] in tutti gli USA diretta da Israele. L’idea era di incoraggiare studenti filoisraeliani a scaricare un’app israeliana con cui avrebbero potuto rispondere a “missioni” dirette dal governo israeliano per prendere di mira e perseguitare segretamente chi, come Sarsour, criticava Israele e i sostenitori dei palestinesi.

Rapidamente l’app ebbe oltre 20.000 potenziali troll in rete, molti dei quali ebrei americani, e un budget di 1.1 milioni di dollari. Benché sviluppata e controllata dal ministero degli Affari Strategici di Erdan, ottenne il generoso sostegno di Adelson e Milstein di IAC, che facevano parte del suo consiglio direttivo. La sala operativa delle attività era appena fuori Tel Aviv e il responsabile era Yarden Ben-Yosef, un maggiore della riserva in quello che definiva “un’unità d’élite dell’intelligence”. “Lavoriamo con il ministero degli Affari Esteri e con quello degli Affari Strategici, ci consultiamo con loro e gestiamo progetti comuni,” disse a una rivista israeliana. “Anche con le agenzie di intelligence,” aggiunse. “Parliamo tra di noi. Lavoriamo insieme.”

Nel 2018 l’operazione aveva aperto fabbriche di troll dirette da Israele in tutti gli USA e stava realizzando 1.580 missioni alla settimana. A un certo punto la fabbrica di troll di Boston creò una missione per prendere di mira una chiesa locale che stava proiettando un documentario che secondo loro era eccessivamente critico con Israele. Il testo della mail proposto faceva un confronto con gli scontri dei suprematisti bianchi a Charlottesville, in Virginia, e definiva il narratore del film “un noto antisemita”. Quello che spesso succedeva in questi casi era che la sala operativa allora dirigeva i troll nel bombardamento sulle reti sociali. Poi nascondevano i propri link per Israele e attaccavano i bersagli, in questo caso i fedeli cristiani. L’idea era di “cancellare” il documentario.

Tra gli estimatori del successo della fabbrica di troll c’era Shoham Nicolet, uno dei fondatori di IAC e all’epoca suo presidente. “Nicolet,” secondo un giornalista israeliano che era presente, “era visibilmente estasiato quando parlava al gruppo dalla nuova sala operativa via Skype. ‘Immaginate altre 20 sale come questa, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo,” si entusiasmava.”

Una volta che la sala operativa ebbe ottenuto i file riservati di Linda Sarsour, insieme a come sfruttare i suoi punti deboli, i troll americani dell’organizzazione vennero indirizzati per attaccarla. Utilizzando i dati prepararono una lettera distribuita attraverso i troll nel tentativo di impedire la sua presenza in college e università, cosa che in buona misura avvenne. Successivamente Ben-Yosef confermò ad Haaretz che Act.iL riceveva materiale dall’unità di Israel Cyber Shield: “La nostra collaborazione con (ICS) è simile a quella che abbiamo con altri gruppi, e include la condivisione di dati,” affermò.

Un’altra organizzazione legata all’IAC che prende di mira studenti americani critici con Israele o sostenitori della Palestina è la Israel on Campus Coalition [Coalizione di Israele nei campus] (ICC). Con sede a Washington, è sostenuta da Milstein dell’IAC, che fa parte del suo consiglio direttivo e contribuisce a finanziarla attraverso la sua fondazione di famiglia. L’ICC agisce a favore di Israele come una sorta di centro di sorveglianza clandestino di studenti in tutto il Paese. Come per le fabbriche di troll, riceve in forma riservata informazioni su studenti filopalestinesi da studenti filoisraeliani che collaborano nei college e università in tutto il Paese. Molte di queste informazioni sono poi incluse in una “sintesi di intelligence” e riportate al ministero degli Affari Strategici. In base a questo lavoro di intelligence l’ICC attacca poi gli studenti presi di mira. “Abbiamo costruito questa massiccia campagna politica nazionale per annientarli,” si è vantato una volta in una registrazione fatta a sua insaputa Jacob Baime, il direttore esecutivo dell’organizzazione.

Per colpire migliaia di studenti in tutto il Paese la sala operativa dell’ICC è tappezzata di monitor a schermo piatto e alcune delle più avanzate tecnologie di intelligence sul mercato. Per un certo periodo ha utilizzato il programma Radian6, che monitora conversazioni in rete in tempo reale da più di 150 milioni di fonti sui social media. “Lo elimineremo gradualmente nel corso del prossimo anno e introdurremo una tecnologia più sofisticata sviluppata in Israele,” ha affermato Baime. Tuttavia la segretezza è fondamentale: “Il 90% delle persone che dedica molta attenzione a questo spazio non ha la più pallida idea di quello che stiamo realmente facendo, che a me piace,” ha affermato. “Lo facciamo in modo sicuro e anonimo, e ciò è fondamentale.”

Ora l’IAC ha annunciato l’ultimo fronte nella sempre più ampia guerra di Israele contro gli studenti americani: reprimere le proteste e manifestazioni che intendono porre fine al genocidio israeliano a Gaza e alla sua brutale occupazione militare della Palestina. È una guerra a lungo combattuta in segreto dal ministro degli Affari Strategici Erdan e a lungo sostenuta da Milstein, il cofondatore di IAC. Nel 2017 su The Times of Israel [quotidiano israeliano in lingua inglese, ndt.] egli arrivò fino al punto di definire la lotta per i diritti dei palestinesi e per il boicottaggio di Israele “un sofisticato movimento di odio impegnato alla distruzione del popolo ebraico.” Quell’anno in un discorso al Center for Entrepreneurial Jewish Philanthropy summit [Vertice Filantropia Imprenditoriale Ebraica] disse: “Dobbiamo insegnare loro che chiunque ci attacchi pagherà un prezzo, dovrà risponderne. Dobbiamo passare all’offensiva.” A giudicare dalle ore di percosse e violenze contro gli studenti dell’UCLA la scorsa settimana da parte di contromanifestanti che brandivano pali di ferro dopo il raduno dell’IAC, sembra che Milstein e Erdan, ora ambasciatore di Israele all’ONU, abbiano finalmente esaudito i loro desideri.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Mentre lo Stato ebraico si lancia in un baratro, la temibile lobby dell’AIPAC non fa assolutamente niente

PHILIP WEISS e JAMES NORTH

17 giugno 2020 – Mondoweiss

Di tutti i drammi che stanno avvenendo nel contesto del piano del governo israeliano di annettere grandi aree della Cisgiordania a partire da luglio, è passato in buona misura sotto silenzio un prodigio politico: l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato Americano per le Questioni Pubbliche di Israele] (AIPAC), la temibile lobby israeliana a Washington, non ha avuto niente da dire e di conseguenza con il suo silenzio potrebbe avere preannunciato il suo stesso declino.

Ciò in quanto l’iniziativa israeliana è senza dubbio una grande minaccia per il futuro dello “Stato ebraico”, sicuramente la maggiore crisi che Israele abbia affrontato almeno negli ultimi 10 anni, e ciononostante l’organizzazione, il cui unico scopo è garantire il futuro di Israele, è stata assolutamente silenziosa. Il sito tweet dell’AIPAC è pieno di pubblicità del genere camera di commercio (“L’innovazione israeliana ci rende più sicuri e più sani”), e neppure una parola sull’annessione.

Ma se ci si mette in contatto con singoli importanti sionisti negli Stati Uniti, progressisti o conservatori, sono tutti contrari all’annessione. Persone come Jeremy Burton, Dennis Ross, Robert Satloff, Martin Indyk, Jeremy Ben-Ami, Jeffrey Goldberg, persino Daniel Pipes. Essi si rendono conto della minaccia rappresentata dall’annessione per il futuro dello Stato ebraico. La minaccia è molteplice e ovvia: l’annessione isolerà Israele nel mondo e farà sì che gli europei impongano sanzioni contro Israele; l’annessione minaccia il trattato di pace con la Giordania; l’annessione minerà così tanto il movimento palestinese da rendere possibile una terza Intifada, tanto che persino i sionisti laburisti prevedono una “rivolta” come risposta naturale di un popolo messo all’angolo; l’annessione frammenterà e inizierà a dissolvere il sostegno del partito Democratico a Israele; l’annessione renderà l’apartheid ufficiale e innegabile, persino agli occhi di molti ebrei americani che hanno resistito a rendersene conto per anni; l’annessione darà forza alla campagna per il boicottaggio.

L’unica obiezione a questa sfilza di argomenti è l’illusione messianica: dio (o i britannici) hanno promesso la terra agli ebrei, perciò, di cosa vi preoccupate? Se sei una persona seria che crede nella necessità di uno Stato ebraico, questo è davvero un periodo veramente pericoloso. Un governo israeliano con un limitato appoggio dell’opinione pubblica sta per lanciare una nuova era che potrebbe produrre anni e anni di isolamento e di violenza in Israele. Persino uno dei beniamini dell’AIPAC, che fa parte del movimento dei coloni, è contrario!

Ancora una volta la domanda è: dov’è l’AIPAC? È la maggiore organizzazione filoisraeliana, che in una notte può avere 76 firme del Senato su un tovagliolo e riunire ogni anno in un centro congressi di Washington 20.000 sostenitori di Israele. È talmente famoso che chiunque lo conosce anche solo dalle sue iniziali. E oggi tutta questa potenza di fuoco è silenziosa. Durante una vera e propria crisi per lo Stato ebraico, l’AIPAC non ha niente da dire.

Ci sono un paio di spiegazioni plausibili per questo silenzio. Primo, l’AIPAC, per sua stessa politica, non ha mai criticato il governo israeliano. Va bene, ma cosa succede se questo governo sta per spingere lo Stato ebraico in un baratro? L’AIPAC è talmente condizionato da un ragionamento tattico da non poter vedere una reale minaccia quando si presenta? Forse.

Ma in questo caso la lobby ha dimostrato di aver esaurito la sua utilità per Israele ed è una vittima della sua stessa irresponsabilità. Per decenni ha affermato che non avrebbe mai criticato Israele mentre colonizzava la terra di un altro popolo ed ora, quando Israele è sul punto di fare un enorme passo in quella direzione, non si può smentire.

O forse l’AIPAC pensa di non poter criticare un presidente USA, di non poter danneggiare il suo accesso alla carica più alta del Paese. Trump è assolutamente pronto all’annessione. Pensa che ciò possa fargli avere i milioni di Sheldon Adelson [miliardario americano che finanzia Trump, Israele e le colonie, ndtr.] e forse la Florida in novembre, e l’AIPAC non può essere minimamente critico con un presidente o potrebbe perdere la possibilità di avervi accesso.

Ma di nuovo: il portabandiera della lobby israeliana ha sacrificato la sua stessa missione a una tattica burocratica. Ha costruito una potenza mostruosa e malefica a Washington per appoggiare Israele ed ora, in un momento di crisi, non dice niente.

Il fallimento dell’AIPAC ha chiaramente rafforzato altre organizzazioni sioniste. J Street [associazione di sionisti progressisti contrari all’occupazione, ndtr.] sta conducendo la lotta contro l’annessione insieme ad “Americans for Peace Now [Americani per la pace adesso, organizzazione sionista statunitense a favore della soluzione dei due Stati, ndtr.]. La graduale conquista della lobby israeliana da parte di J Street che abbiamo visto più o meno nell’ultimo anno sembra ormai inevitabile, data l’abdicazione dell’AIPAC. Di fatto l’unico commentatore ad evidenziarlo è il nuovo presidente di APN, Hadar Suskind, che ha scritto su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] che le principali organizzazioni della lobby israeliana hanno consentito a Israele di sacrificare il suo futuro “sull’altare dell’etno-nazionalismo”.

Con una disperata richiesta di aiuto, Suskind ha scritto che è a rischio nientemeno che lo Stato ebraico: “Quando questo futuro sarà minacciato, noi ci esprimeremo a voce alta, denunceremo apertamente e lotteremo per una prospettiva che rifletta l’opinione sia dei fondatori di Israele che della grande maggioranza degli ebrei americani. Chiediamo a tutti i nostri colleghi di unirsi a noi per proteggere un Israele ebraico e democratico opponendoci chiaramente e fortemente all’annessione. Non aspettate che sia troppo tardi.”

Qualunque cosa si pensi del progetto sionista – e noi siamo contrari – da una prospettiva politica, l’abdicazione dell’AIPAC è sia mistificatoria che patetica, e potrebbe portare a una caotica lotta generazionale all’interno della lobby israeliana in cui i giovani ebrei di IfNotNow [SeNonOra, organizzazione di ebrei statunitensi contraria alle politiche israeliane, ndtr.] e Open Hillel [Hillel Aperto, associazione universitaria ebraica con posizioni critiche, ndtr.] stanno improvvisamente contendendo la leadership all’American Jewish Committee [Comitato Ebraico Americano, storica organizzazione ebraica statunitense filosionista, ndtr.].

Come in un atto di spontanea autodistruzione politica, il silenzio dell’AIPAC è un prodigio, proprio come in primo luogo l’accumulazione di potere della lobby.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele ha partecipato alla decisione degli USA di assassinare il generale iraniano

Philip Weiss

4 gennaio 2020 – Mondoweiss

La giustificazione di Trump per l’assassinio del capo militare iraniano Qasim Suleimani il 2 gennaio sono state le presunte minacce di Suleimani a diplomatici e soldati americani in Iraq. E persino il New York Times ha citato la sua responsabilità per “l’ondata di attacchi di miliziani contro Israele,” e un attacco contro l’Arabia Saudita come ragioni dell’uccisione.

Molti articoli suggeriscono che nella decisione di Trump siano stati considerati gli interessi israeliani. Sul LA Times [Los Angeles Times, quarto quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] Noga Tarnopolsky ha riferito che i politici israeliani sono stati informati in anticipo:

Israele è stato informato preventivamente del piano USA…hanno riferito analisti militari e diplomatici israeliani venerdì notte, evitando di fornire ulteriori dettagli data la pesante censura militare.

La nostra opinione è che gli Stati Uniti abbiano informato Israele su questa operazione in Iraq, probabilmente qualche giorno fa,” ha detto a Channel 13 [canale televisivo israeliano, ndtr.] Barak Ravid, giornalista e opinionista con fonti molto addentro al sistema di sicurezza israeliano.

L’amministrazione Trump si è consultata con l’Arabia Saudita, gli Emirati e Israele prima dell’attacco, ma non con gli alleati europei, afferma Negar Mortazavi dell’Indipendent [giornale inglese di centro sinistra, ndtr.]. “(Mike) Pompeo ha chiamato Netanyahu, MBS (Mohammed bin Salman [reggente dell’Arabia Saudita, ndtr.]) e MBZ [lo sceicco Mohammed bin Zayed [generale e politico degli Emirati, ndtr.] più di una volta negli ultimi giorni per discutere di Iran, attraverso il Dipartimento di Stato [il ministero degli Esteri USA, ndtr.].” Mortavazi nota che i comunicati di ieri del Dipartimento di Stato dimostrano che Pompeo ha chiamato i ministri degli Esteri di GB e Germania dopo il fatto.

Sana Saeed di AjPlus [canale di notizie di Al Jazeera, ndtr.] osserva:

Il Congresso non sapeva della decisione di assassinare Suleimani, ma indovinate chi lo sapeva? Israele.

Jeff Morley riferisce che lo scorso anno dei funzionari degli apparati di sicurezza israeliani hanno caldeggiato l’assassinio di Suleimani: “Il Mossad ha preso di mira Suleimani, Trump ha premuto il grilletto.” Lo scorso ottobre Morley affermava che Israele sembrava aver messo Suleimani nel mirino:

Lo scorso ottobre Yossi Cohen, capo del Mossad israeliano, ha parlato apertamente dell’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, il capo della forza scelta Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana.

Sa molto bene che il suo assassinio non è impossibile,” ha detto Cohen in un’intervista. Suleimani si era vantato che Israele cercò di ucciderlo nel 2006 e non ci riuscì.

Trump ha ora soddisfatto i desideri del Mossad,” conclude Morley. “Dopo aver dichiarato la propria intenzione di porre fine alle ‘stupide e infinite guerra’ dell’America, il presidente ha di fatto dichiarato guerra al più grande Paese della regione per solidarietà con Israele, il Paese più impopolare del Medio Oriente.”

Il New York Times informa che dei funzionari israeliani avevano in precedenza promosso l’idea di uccidere Suleimani, ma dirigenti in Israele e negli USA avevano opposto resistenza, per timore che l’omicidio scatenasse una guerra con l’Iran:

Almeno una volta, tuttavia, dei funzionari israeliani hanno prospettato la possibilità di attaccarlo con le loro strutture di controllo. Secondo importanti funzionari dell’intelligence americana e israeliana, ciò avveniva nel febbraio 2008, mentre operatori delle intelligence israeliana e americana stavano inseguendo Mugniyah, il comandante di Hezbollah, nella speranza di ucciderlo, (Imad Mugniyah venne assassinato da Israele in Siria nel 2008).

Jonathan Ofir scrive su Facebook:

Il concetto secondo cui gli USA hanno agito da soli, senza rapporti con Israele, è solo un’affermazione a vantaggio della propaganda israeliana.

MJ Rosenberg ha twittato che la complicità di Israele nell’attacco non sarà mai presa in considerazione dal Congresso:

Il Congresso non avvierà mai un’inchiesta sul ruolo di Israele nell’attacco all’Iran e su tutto quello che ne conseguirà perché entrambi i partiti [del Congresso] sono controllati dall’AIPAC [la Commissione Americana per gli Affari Pubblici di Israele, ndtr], controllata da Netanyahu.

Parliamo dell’AIPAC. Ieri l’associazione di punta della lobby filo-israeliana ha lodato la decisione di Trump e ha paragonato Suleimani a Osama bin Laden:

La decisiva azione del presidente ha fatto giustizia di uno dei più pericolosi terroristi al mondo, responsabile della morte di oltre 600 militari USA.

In quanto comandante della forza IRGC-Quds iraniana, Qasem Suleimani ha spietatamente portato avanti le ambizioni rivoluzionarie del regime, causando morte e distruzione in Medio Oriente e mettendo in pericolo i nostri alleati e interessi …

L’AIPAC sembra fare eco al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ieri ha elogiato Trump: “Il presidente Trump merita tutto il plauso per aver agito in modo rapido, energico e deciso. Israele sta con gli Stati Uniti nella sua giusta lotta per la pace, la sicurezza e l’autodifesa.

Altrettanto importante dell’AIPAC è la Fondazione per la Difesa delle Democrazie (FDD), un gruppo di esperti pro-Israele che ha fornito molti analisti politici all’amministrazione Trump.

Uno dei falchi di Trump, Richard Goldberg, ha lasciato ieri il suo lavoro come consigliere capo per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca; ma Bloomberg riferisce che lo stipendio di Goldberg è stato pagato da FDD. “Goldberg tornerà a FDD, che ha continuato a pagare il suo stipendio durante il suo periodo al Consiglio Nazionale di Sicurezza.”

Un ex funzionario di Obama, Ned Price, è turbato dal resoconto: “Se fosse vero, è un monito di come la corruzione e i conflitti di interesse facciano sempre parte dell’equazione, anche quando la posta in gioco non potrebbe essere più alta”.

Il giornalista Nick Wadhams spiega l’influenza di FDD:

L’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton ha espressamente creato un lavoro per Goldberg – direttore per la lotta contro le armi di distruzione di massa dell’Iran. L’obiettivo era contrastare ciò che Bolton vedeva come un desiderio nei ministeri di Stato e del Tesoro di indebolire la campagna di “massima pressione” contro l’Iran …

Quella lotta è stata solo una delle battaglie legate all’Iran interne all’amministrazione e ha sottolineato l’influenza esercitata dalla Fondazione per la Difesa delle Democrazie, il think tank in cui Goldberg aveva precedentemente lavorato, nello spingere per una linea più dura contro l’Iran.

Nel suo articolo sull’assassinio, il New York Times ha dato ampio spazio all’amministratore delegato di FDD, Mark Dubowitz, nel giustificare l’assassinio di Suleimani. Eli Clifton del Quincy Institute punta il dito sul finanziamento di FDD:

E’ importante rivelare ai lettori del New York Times che il maggior finanziatore di FDD è il super-finanziatore di Trump, Bernie Marcus, che afferma “L’Iran è il diavolo”?

Si sta letteralmente citando qualcuno che sostiene le decisioni di Trump sulla politica estera che viene finanziato da uno dei maggiori finanziatori di Trump.

Marcus è il fondatore di Home Depot (impresa di prodotti domestici, ndtr.) e il secondo maggior finanziatore di Trump dopo Sheldon Adelson. Di gran lunga il più grande sostenitore di Trump, Adelson ha affermato di aver desiderato di prestare servizio nell’esercito israeliano e non nell’esercito americano. Una volta ha esortato il presidente Obama a colpire l’Iran con armi atomiche.

Eli Clifton ha riferito due anni fa che Marcus e Adelson e un terzo donatore miliardario filo-israeliano hanno spianato la strada a Trump perché si ritirasse dall’accordo con l’Iran.

Marcus ha definito l’accordo con l’Iran un “trattato mortalmente mortale”, riferisce Militarist Monitor (pubblicazione indipendente online, ndtr.). E Marcus ha finanziato molti gruppi filo israeliani di destra:

Secondo i documenti fiscali, la suddetta fondazione di Marcus da cui prende il nome ha finanziato gruppi di falchi e neoconservatori come “American Enterprise Institute”, “Christian United for Israel”, “Friends of IDF” [l’esercito israeliano], “Hoover Institution”, “Hudson Institute”, “Israel Project”, “Jewish Institute for National Security Affairs”, “Manhattan Institute” e “Middle East Media Research Institute”, così come altri gruppi conservatori come “Judicial Watch” e “Philanthropy Roundtable”. Fa anche parte del consiglio di amministrazione della Coalizione Repubblicana Ebraica.

Colin Powell [politico americano, generale a quattro stelle in pensione] una volta accusò il “Jewish Institute for National Security Affairs” per il piano di invasione dell’Iraq, che lui stesso sostenne. L’idea che Israele abbia avuto un ruolo di spicco nella decisione dei politici statunitensi di invadere l’Iraq è ampiamente accettata ma anche dibattuta. Spesso si dice che questa idea sia faziosa, e questa è una delle ragioni per cui la stampa più importante evita la prospettiva israeliana, allora e adesso.

Ringraziamenti a Scott Roth e James North.

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net e ha fondato il sito nel 2005-06

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi e Luciana Galliano)




Quando l’esercito israeliano inizia ad attaccare lo fa anche la sua armata di troll in rete

Michael Arria

15 novembre 2019 – Mondoweiss

Act.IL [applicazione per telefonini rivolta a sostenitori di Israele, ndtr.] è una campagna internazionale filo-israeliana finanziata almeno in parte dal governo del Paese. Il progetto include un’applicazione che consente agli utenti di guadagnarsi punti e premi per la promozione dello Stato di Israele in rete, attaccando il BDS e altri movimenti filo-palestinesi. Secondo un reportage di Electronic Intifada [sito palestinese di notizie e commenti, ndtr.] dell’inizio dell’anno, opera con un bilancio di oltre un milione di dollari.

Michael Bueckert è uno studente di dottorato in sociologia ed economia politica alla Carleton University [università canadese con sede a Ottawa, ndtr.] e dall’aprile 2018 ha curato un account twitter che segue le “missioni” dell’applicazione. Bueckert ha parlato con Michael Arria di Mondoweiss della storia del progetto, del suo uso durante i recenti attacchi contro Gaza e della sua effettiva influenza o meno.

Arria: Solo per cominciare, penso che molte persone che stanno dalla nostra parte siano probabilmente a conoscenza del tuo lavoro. Ma per gente che non ne sa niente, puoi descrivere brevemente l’applicazione ACT:IL e spiegare chi la finanzia?

Bueckert: Sì. Ormai da un paio d’anni seguo le attività di propaganda dell’applicazione semiufficiale di Israele. Si chiama ACT.IL ed è stata creata con una sorta di collaborazione tra il governo israeliano e un certo numero di gruppi della lobby filoisraeliana negli USA finanziati da Sheldon Adelson [miliardario USA che finanzia Netanyahu e i coloni, ndtr.]. Forse c’è una mancanza di chiarezza riguardo all’esatta natura di quel rapporto. L’applicazione è stata finanziata in parte dal governo israeliano… Penso che il governo abbia pagato per lo sviluppo del sito web su cui è stata ospitata e per parecchie pubblicità, compresi contenuti sponsorizzati, come articoli sponsorizzati su giornali israeliani che sembrano proprio normali articoli ma sono stati pagati essenzialmente dal governo israeliano. All’epoca gli sviluppatori dell’applicazione stavano parlando con lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna di Israele) e con i funzionari della difesa israeliana di come avrebbero lavorato per identificare obiettivi in rete e per avere una sorta di compito per elaborare le reazioni. Ma su questo hanno fatto una parziale marcia indietro.

Ma fondamentalmente è un’applicazione che chiunque al mondo può scaricare sul proprio telefonino e identifica obiettivi in rete, le chiamano “missioni”, in cui singoli individui filoisraeliani possono molto facilmente partecipare a una discussione in rete. Quindi identificherà un tweet che loro devono leggere o un commento su Facebook riguardo a un articolo di notizie che gli può piacere. Essenzialmente, è un modo per coordinare in rete un comportamento in modo che sembri naturale, ma in realtà è assolutamente architettato da questa specie di organismo centralizzato con il sostegno del governo israeliano. Però l’obiettivo è condizionare molto rapidamente il discorso in rete in modo che sia a favore di Israele.

Arria: Hai una qualche idea di quante persone stanno usando l’applicazione e portando avanti queste “missioni”?

Bueckert: È difficile dirlo in ogni momento. Non sembra che ci siano molte persone. Sicuramente ci sono migliaia di persone che hanno scaricato l’applicazione, forse decine di migliaia. Ma è difficile valutare esattamente quanta gente sia attiva in modo continuativo. Molte missioni non sembrano avere molta diffusione, non tanti utenti hanno partecipato a molte di esse. Per cui è molto, molto difficile dirlo.

Arria: Ci sono momenti particolari in cui l’applicazione è più attiva che in altri?

Bueckert: Di nuovo, è difficile dirlo in termini di utilizzo, ma sicuramente lo si può dire magari in base alla quantità di missioni che l’applicazione sta producendo. Ci sono un sacco di argomenti diversi. Direi che le missioni sono più frequenti ogni volta che un musicista o un artista sta per andare in Israele. In genere c’è un numero di missioni per l’applicazione che danno indicazione agli utenti di fare commenti sui loro post di Instagram o dare loro il benvenuto in Israele, questo tipo di cose, per una sorta di lotta contro qualunque pressione che possano ricevere a favore del boicottaggio [contro Israele].

Poi c’è un’intera categoria di missioni più serie e importanti, dove viene veramente presa di mira una specifica questione locale, di solito in università dove devono colpire una specifica conferenza o gruppo di studenti in modo che sembri che ci sia una reazione spontanea contro un’organizzazione filo-palestinese, quando in realtà è tutto preordinato. E in qualche caso, intendo dire, l’applicazione si è vantata di aver fatto licenziare persone o di aver fatto annullare eventi. Per cui quando prende di mira una questione locale può realmente avere una grande impatto.

E poi penso che i momenti in cui si vede la maggiore attività sia come ora, quando c’è un’escalation di violenza, soprattutto con attacchi aerei contro Gaza e il lancio di razzi in risposta. È quando hai una risposta assai massiccia, con tutta una serie di missioni tutte in una volta. E forse c’è un’impennata negli utenti reali che sfruttano queste missioni, non so. Ma sicuramente l’applicazione è molto più attiva in questi momenti.

Arria: Su questo punto puoi parlare del tipo di missioni che hai visto di recente? È appena stato annunciato un cessate il fuoco, ma negli ultimi due giorni Israele ha lanciato missili contro Gaza. Com’è una tipica missione quando succede qualcosa del genere?

Bueckert: Certo. Quindi adesso ci sono circa 40 missioni relative a questo problema. La maggior parte di queste missioni sta prendendo di mira articoli di notizie, su Facebook o Twitter, in cui ti si chiede di lasciare un commento che metta in discussione la terminologia utilizzata. Se il titolo dell’articolo dice che è stato ucciso un miliziano della Jihad Islamica, ti viene chiesto di commentare: “Hai omesso un’informazione importante” o “È una prospettiva di parte.” Questo tipo di cose, E penso che il punto principale di questo tipo di missioni (soprattutto su Facebook) sia fare in modo che gli utenti normali scoprano le notizie e si imbattano in quegli articoli informativi, perché quello che stanno cercando di fare (e in questo caso, hanno molto successo) è ottenere questi commenti a sostegno per mettere in cima alla lista un commento proprio sotto all’articolo su Facebook. Così se sei un utente casuale di Facebook e ti imbatti in questi articoli di notizie, la prima cosa che vedi appena sotto il titolo sono questi commenti critici da parte di persone qualsiasi in rete e quella che sembra una normale reazione spontanea a quell’articolo è in realtà coordinata. Quindi direi che così è la maggioranza delle missioni.

E molte di loro intendono distogliere l’attenzione delle notizie dal fatto che sono state le uccisioni mirate di dirigenti della Jihad Islamica da parte di Israele che hanno deliberatamente scatenato quest’ultima serie di violenze. E così molti articoli stanno cercando di contrastare ciò dicendo che ci sono razzi tutto il tempo, Israele non ha colpito per primo. Ci sono anche parecchie missioni in cui, per esempio, condividono su Facebook video di razzi lanciati su Israele per dire che così è la vita sotto il terrorismo da Gaza, questo genere di cose.

Alcune missioni sono un po’ offensive. Una di loro riguarda la condivisione del video di un uomo in Israele e di come il suo cane sia stato emotivamente scioccato dal lancio di razzi, favorendo così il benessere dei cani in Israele. Nel frattempo penso che in quel preciso momento erano stati uccisi 36 palestinesi. Quattro di loro erano minorenni. E quindi (le missioni riguardano il fatto di) evitare qualunque domanda sulle vittime palestinesi e cercare di dare tutta la colpa a Gaza. E questo è il tipo di missioni che in questo momento stanno inondando l’applicazione.

Arria: So che è impossibile quantificare quale impatto cose del genere stiano avendo, ma personalmente hai la sensazione che stia in qualche modo facendo la differenza in termini di opinioni a favore di Israele?

Bueckert: È veramente impossibile dirlo. Ci sono stati una serie di tentativi di verificarlo. (Uno studio) ha suggerito che molto del traffico per la pagina di destinazione che hanno creato sia arrivato effettivamente dal mio account Twitter, mettendolo in evidenza, piuttosto che dall’applicazione stessa. E quindi ciò suggerisce che ci sia molto poco da ricavarne, almeno ciò è avvenuto in precedenti occasioni.

Anche Electronic Intifada ha fatto su ciò qualche articolo, che suscita qualche domanda sulla sua efficacia, considerando soprattutto la quantità di denaro e di risorse che sono stati impiegati. Penso sia veramente impossibile dire se commenti di “mi piace” su Facebook e Twitter facciano una qualche differenza o meno, ma sospetto che sia tutt’al più molto ridotta.

Tuttavia direi che quando si tratta di missioni più mirate, che attaccano determinati individui e riguardano la situazione lavorativa di persone o cercano di far annullare conferenze, queste sembrano essere piuttosto efficaci. C’è stato un caso all’inizio dell’anno, quando l’applicazione ha avuto molte missioni da perseguire (il Comitato Consultivo per il Modello di Programma di Studi Etnici della California) per la proposta di un programma di studi etnici che parlava in termini positivi dei palestinesi e del BDS come movimento sociale. E ci sono stati molte missioni che hanno preso di mira specifici consigli di amministrazione scolastici, mandando mail ai singoli individui sul comitato di programma. Quindi quando si tratta di questi specifici esempi, penso che l’applicazione possa essere piuttosto efficace. Ma quando si tratta solo di cercare di condizionare la reazione generale a un avvenimento come gli attuali raid aerei e razzi, non lo so proprio.

Arria: Il monitoraggio dell’applicazione ti ha dato la sensazione di quanto Israele stia prendendo seriamente il movimento BDS? Da una parte si sentono costantemente gruppi filo-israeliani prendersi gioco del movimento perché avrebbe un impatto insignificante, ma poi ci sono anche molte risorse che vengono utilizzate per combatterlo, come vediamo in questo caso.

Bueckert: È un dibattito che c’è anche in Israele e tra diversi ministeri, persino riguardo a se (il BDS) sia realmente una minaccia o qualcosa su cui valga la pena di impiegare risorse. Il ministero degli Affari Strategici, ovviamente, è quello che si occupa di tutta la faccenda. Ma al ministero degli Affari Esteri penso che la concezione sia che dovrebbero piuttosto semplicemente ignorarlo e lasciarlo perdere, per cui è difficile dire cosa effettivamente pensino.

Cosa suggerisce la quantità di risorse che mettono in questo tipo di campagne? Beh, non penso che suggerisca necessariamente che (credano che il BDS sia una reale minaccia), ma piuttosto che non hanno intenzione di lasciare che una qualunque opinione a favore dei palestinesi venga accolta all’interno dell’attuale discorso pubblico. La mia impressione è che tutto ciò riguardi meno la minaccia concreta del BDS e più l’assoluta intolleranza relativa a qualunque cosa positiva nei confronti dei palestinesi.

Michael Arria è il corrispondente dagli USA di Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Per Israele Bolton è Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”, per chiunque altro è il dottor Stranamore dentro “Apocalypse Now”

Chemi Shalev

23 marzo 2018, Haaretz

Per il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump non c’è una guerra che non gli piaccia, un nemico che non voglia distruggere o un accordo diplomatico che valga la carta su cui è scritto.

Il licenziamento di H.R. McMaster e la nomina di John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sono stati accolti con gioia a Gerusalemme, con terrore nelle altre capitali. Israele spera che Bolton metta a posto i suoi nemici, mentre il mondo oggi ha maggiori timori di imminenti tensioni e guerre. Israele vede Bolton come Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”, arrivato per sparare ai cattivi, ma per la maggior parte del mondo è il dottor Stranamore [personaggio dello scienziato pazzo e criminale nell’omonimo film di Kubrik, ndt.], con un pizzico di “Apocalypse Now” [omonimo film di Coppola, ambientato durante la guerra del Vietnam, ndt.]. Se non altro l’esplosione di festeggiamenti in onore della nomina di Bolton nella coalizione di Netanyahu evidenzia la collocazione di Israele all’estrema destra dello spettro politico mondiale.

Bolton ha legami di lungo tempo e profondi con molti politici e funzionari israeliani. È un “vero amico”, come ha detto la ministra della Giustizia Ayelet Shaked [del partito di estrema destra dei coloni “Casa ebraica”, ndt.], uno che appoggerà incondizionatamente i sogni e le illusioni del suo campo, a differenza di scocciatori come Barack Obama e gli europei, che di tanto in tanto osano suggerire che è tempo di ricredersi. Netanyahu può essere soddisfatto, ma dovrebbe essere più cauto: la nomina di Bolton gli renderà più difficile limitare le richieste degli alleati della sua coalizione con la scusa che gli USA vi si oppongono. La nomina di Bolton rafforza il blocco di destra – messianico – evangelico in entrambi i Paesi, a cui Netanyahu racconta ancora a se stesso di non appartenere.

Per Bolton non c’è una guerra che non gli piaccia, un rivale che non voglia distruggere, un nemico che non voglia ridurre in mille pezzi e un conflitto internazionale che non creda si possa risolvere con le armi. Disprezza la diplomazia, denigra le organizzazioni multilaterali, vuole tornare ai giorni, se mai sono esistiti, in cui l’America diceva al mondo che cosa fare e tutti le davano retta. Bolton voleva attaccare la Corea del Nord, bombardare, bombardare e ancora bombardare l’Iran, seppellire le aspirazioni nazionali dei palestinesi. Non ha mai ritrattato il suo appoggio alla fallimentare guerra all’Iraq, e probabilmente sogna di trovare il nascondiglio in cui Saddam Hussein ha occultato le sue inesistenti armi di distruzione di massa.

Il passaggio da McMaster a Bolton sostituisce i freni della Casa Bianca con un acceleratore premuto a fondo; acuisce l’immagine bellicosa e aggressiva dell’amministrazione Trump in tutto il mondo. La nomina consolida la trasformazione, che Trump ha iniziato con la sostituzione del segretario di Stato Rex Tillerson con il più aggressivo [ex] direttore della CIA Mike Pompeo, da una politica estera americana rude ma tradizionale a un approccio radicale basato su politiche umorali, l’uso della forza e il totale disprezzo nei confronti dell’opinione pubblica internazionale. Il Pentagono rimane nelle mani del più cauto James Mattis, che probabilmente si unirà al generale e capo di stato maggiore John Kelly per formare un fronte comune, ma sarà Bolton che d’ora in poi indicherà la linea della Casa Bianca. Non è assurdo supporre che le ore siano contate anche per la partenza di Mattis e Kelly.

Trump, che trae profitto dai conflitti, probabilmente si rallegra delle reazioni contrarie alla nomina di Bolton. Deve aver superato la sua avversione per i famosi baffi del suo nuovo consigliere. Ma Bolton deve anche il suo nuovo incarico a due miliardari di estrema destra a cui il presidente dà retta. Il primo è il riservato commerciante di algoritmi Robert Mercer, che ha finanziato il Bolton’s PAC [comitato di Bolton, istituto per la sicurezza nazionale USAda lui fondato, ndt.] e i rapporti di questo con l’ora discussa [impresa di analisi informatica, ndt.] Cambridge Analytica. Bolton è il secondo consigliere per la sicurezza nazionale che Mercer ha sponsorizzato: il primo è stato Michael Flynn, che poi è stato coinvolto nell’inchiesta sul Russiagate [scandalo sulle interferenze russe nelle elezioni vinte da Trump, ndt.] di Robert Mueller [procuratore speciale che si occupa del caso, ndt.] ed ha ammesso di aver mentito all’FBI.

L’altro magnate che si congratula con se stesso è Sheldon Adelson, che ha preso Bolton sotto la sua ala e che da molto tempo finanzia lautamente le sue attività. L’ex-ambasciatore USA all’ONU, che ha abbandonato il suo incarico un decennio fa dopo che le sue opinioni sono state giudicate troppo estremiste per essere confermato dal Senato, deve essere stato una delle poche persone al mondo ad aver approvato la proposta di Adelson di far scoppiare una bomba nucleare nel deserto iraniano, solo a scopo dimostrativo. Si dice che Adelson sia rimasto scontento di Tillerson e di McMaster e che abbia fatto presente a Trump le sue opinioni. Il suo braccio destro alla “Coalizione Repubblicana Ebraica” [gruppo lobbystico che mette in contatto la comunità ebraica con i parlamentari repubblicani, ndt.], Elliott Broidy – il finanziere californiano noto in Israele per il fallimento del suo fondo “Markstone”, che ha privato molti israeliani dei loro fondi pensione – è stato ora denunciato per aver preso 2.7 milioni di dollari dagli Emirati Arabi Uniti per promuovere i loro interessi a Washington. Broidy ha invitato Trump a mollare Tillerson; McMaster era il suo ostacolo alla Casa Bianca. Ora entrambi se ne sono andati.

La “Sheldonizzazione” dell’amministrazione Trump in generale e la nomina di Bolton in particolare riducono le già scarse possibilità che Trump non voglia abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano, intensificando inevitabilmente le tensioni regionali e creando forse le condizioni per una guerra. La presenza di Bolton alla Casa Bianca cancella anche ogni possibilità di riportare i palestinesi al tavolo dei negoziati, non solo per le opinioni del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, ma anche a causa della legge Taylor ora approvata, che è apparentemente intesa a bloccare i sussidi dell’Autorità Nazionale Palestinese ai terroristi in carcere, ma che in realtà avrà come conseguenza una notevole riduzione dell’aiuto USA ai palestinesi.

Ma l’esultanza scoppiata nella destra israeliana va ben oltre lo scontro armato con l’Iran o il fatto di mettere la parola fine sulla bara del processo di pace. Riflette la rinnovata speranza, che ha conosciuto alti e bassi durante i primi 15 mesi di Trump al potere, che i tempi siano ora più maturi che mai prima d’ora per passi audaci ed irreversibili, compresa l’annessione [dei territori palestinesi occupati, ndt.]. Ma, mentre gli entusiasti di Bolton in Israele e negli USA stanno ascoltando estasiati le trombe che annunciano l’arrivo del Messia, il resto del mondo sta udendo sirene che danno l’allarme che non si tratta di un’esercitazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)