Bibi ti sta guardando: Israele schiera le sue spie per combattere il coronavirus

Yossi Melman da Tel Aviv, Israele

Mercoledì 18 marzo 2020 – Middle East Eye

Le misure di sorveglianza proposte da Benjamin Netanyahu con il pretesto della pandemia minacciano un sistema di governo democratico già in crisi

Con il pretesto della pandemia di coronavirus e del peggioramento che ne è seguito della stabilità politica nel Paese, il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu ha fatto pressione a favore di misure estreme destinate a compromettere ancor di più diritti democratici e libertà civili già fragili.

Lunedì sera Netanyahu, che, dopo tre elezioni in quindici mesi che hanno portato a una paralisi, attualmente dirige un governo ad interim, ha autorizzato la polizia e lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, a sorvegliare le persone sospettate di aver contratto il virus.

Il piano del primo ministro consiste nel trasformare in armi contro la pandemia le stesse tecnologie utilizzate oggi dai servizi di sicurezza e, in misura minore, dalla polizia per lottare contro i miliziani armati e i delinquenti comuni.

Grande Fratello

Nel giro di una quindicina d’anni i servizi di intelligence israeliani hanno sviluppato uno degli strumenti di sorveglianza più avanzati al mondo per controllare e spiare i militanti palestinesi e le persone considerate nemiche dello Stato. Queste tecnologie consentono in particolare di localizzare i computer e di frugare dentro i telefoni effettuando verifiche incrociate sulla posizione delle antenne e dei segnali trasmessi.

Insieme alle telecamere di sorveglianza installate agli angoli delle strade delle “città sicure” (cioé molto sorvegliate) e al controllo sulle attività in rete, in particolare su Google, Twitter, Facebook e YouTube, esse rendono “visibile” la gente e la “mettono a nudo”.

Utilizzando i dati raccolti, queste tecnologie possono seguire e registrare gli spostamenti e il luogo in cui si trovano le persone, non solo in rete ma anche nella vita reale, e può anche recuperare questi stessi dati che le riguardano per un lasso di tempo di due o tre settimane.

Questa tecnologia, che Israele utilizza da anni nelle guerre e per seguire dei delinquenti, non è esclusiva di questo Paese. Dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Iran all’Italia, dal Qatar alla Russia, passando per l’Arabia Saudita, è presente e largamente utilizzata, incarnando perfettamente il concetto di Grande Fratello.

Tuttavia Israele è il primo Paese a riconoscere pubblicamente la sua intenzione di utilizzarla per cercare di arginare la propagazione del coronavirus.

Saltare la coda

Nessuno può mettere in discussione l’importanza di contenere e bloccare il virus per “appiattire la curva” [dei contagi, ndtr.], cosa che è ancora più importante oggi per Nazioni come Israele e l’Italia, i cui cittadini si sono fatti, e a ragione, la fama di Paesi dal comportamento caotico e poco inclini a seguire le regole.

C’è qualcosa di più israeliano che saltare la coda?

Così, in un momento in cui ci si chiede di tenerci lontani, di unirci solo in piccoli gruppi, di evitare le strette di mano e di controllare la nostra igiene personale, in realtà è difficile per le autorità israeliane imporre queste norme di comportamento.

Di fronte a queste difficoltà e alla crescente preoccupazione dei responsabili locali dei servizi sanitari, che temono che Israele, con “solo” 304 casi di coronavirus (al 17 marzo) fortunatamente finora non letali, debba ben presto affrontare un’esplosione esponenziale che colpirebbe decine di migliaia di persone, il governo ha introdotto il sistema di spionaggio in ambito civile, presentandolo come una cosa assolutamente necessaria.

Un’intrusione nella vita privata

Il governo di Netanyahu ha fornito garanzie riguardo al fatto che le tecnologie verranno utilizzate unicamente con lo scopo di localizzare ed identificare gli individui che senza saperlo sono stati in contatto con una persona trovata positiva al coronavirus.

Inoltre la decisione è stata approvata dal procuratore generale, con l’impegno che dopo 30 giorni le informazioni raccolte verranno distrutte.

Tuttavia molti israeliani si oppongono per vari motivi a queste misure. In primo luogo, chi le critica indica l’esempio di Taiwan, dove la sorveglianza informatica è stata utilizzata per impedire la propagazione dell’epidemia, ma in modo un po’ diverso. Il governo di Taiwan ha distribuito dei telefoni specificamente destinati ai casi sospetti, al fine di evitare di sorvegliare i telefoni privati dei cittadini.

Numerosi israeliani rifiutano questa decisione solo per principio. Secondo loro le democrazie non devono spiare i propri cittadini e queste nuove misure rappresenterebbero una palese violazione dei diritti umani, che aprirebbe la strada a un’invasione della loro vita privata (quello che i palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana conoscono bene).

Ma la maggiore preoccupazione deriva dal modo in cui la decisione è stata presa.

La Knesset ignorata

Per formulare la sua decisione come una misura legale, Netanyahu e il suo governo hanno attivato delle leggi d’emergenza inizialmente adottate dal governo del mandato britannico che controllò la Palestina dal 1918 al 1948.

Nel 1939, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, le autorità britanniche promulgarono queste leggi d’emergenza per combattere la Germania nazista. Ma dopo l’indipendenza d’Israele nel 1948 sono state utilizzate principalmente contro i palestinesi della Cisgiordania occupata e di Gaza, ma raramente contro cittadini israeliani e sicuramente non in modo massiccio, come avviene ora.

Cosa ancora più inquietante, queste leggi d’emergenza intese a sorvegliare i cittadini sono state promulgate senza l’approvazione né la supervisione della Knesset, il parlamento israeliano.

In effetti una sottocommissione della commissione Affari Esteri e Sicurezza, che controlla i servizi di intelligence e che è diretta dall’ex-capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Gabi Ashkenazi, ha rifiutato di approvare il progetto di legge senza una discussione approfondita. Netanyahu ha approfittato della confusione politica per ignorare la Knesset e imporre le leggi d’emergenza.

Il mese scorso il partito “Blu e Bianco” diretto da Benny Gantz, un altro ex-capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha paragonato le iniziative di Netanyahu a quelle del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

In seguito alle ultime elezioni in Israele, tenutesi due settimane fa, Gantz, con l’appoggio dei deputati israelo-palestinesi della Knesset, gode in parlamento di una maggioranza molto risicata (61 a 59). Tuttavia, a causa delle lotte intestine nel suo partito, gli risulta difficile formare un governo di coalizione per sostituire Netanyahu.

Un passo ulteriore

Nel frattempo le leggi d’emergenza non sono che una nuova pietra dell’edificio di comportamenti e di tendenze che minacciano il sistema democratico israeliano.

Netanyahu e suo figlio Yair non smettono di attaccare i media, definendo “di sinistra” i giornalisti nella speranza di far chiudere i giornali e le catene televisive indipendenti che, in realtà, non fanno che prendersi la briga di controllare le loro azioni.

Il duo padre-figlio, circondato da ministri accondiscendenti, ha anche attaccato senza sosta il sistema giudiziario del Paese.

Con il pretesto del coronavirus, il ministro della Giustizia Amir Ohana, fedele seguace di Netanyahu, ha ordinato la chiusura dei tribunali da sabato scorso a mezzanotte, per impedire l’inizio del processo a Netanyahu per corruzione, che doveva iniziare questo mercoledì.

Con tante misure prese per erodere la democrazia, gli israeliani temono in effetti che Netanyahu sia già ben incamminato per guidare Israele allo stesso modo in cui un certo numero di uomini forti di destra, da Erdogan a Vladimir Putin, passando per Jair Bolsonaro, governano le rispettive Nazioni.

All’ombra del coronavirus, la democrazia israeliana, già in crisi, si batte per salvare la sua anima e garantirsi la sopravvivenza.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




La Cisgiordania era ed è ancora il principale campo di battaglia di Israele

Adnan Abu Amer

24 gennaio 2020 – Middle East Monitor

Circoli israeliani hanno accusato Hamas di continuare ad aggravare il conflitto contro l’esercito e i coloni in Cisgiordania al fine di destabilizzare la sicurezza interna. Questo si è trasformato in crescenti tensioni da parte di Israele, soprattutto in quanto uno dei motivi degli accresciuti timori israeliani è quello di una lotta per la successione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Alla luce di tali timori il servizio di sicurezza [interno] Shin Bet ha annunciato di aver sventato nel 2019 560 importanti operazioni, compresi sei attentati kamikaze, quattro rapimenti di soldati e coloni e oltre 300 uccisioni. L’esercito ha neutralizzato circa 12 cellule armate palestinesi, che avevano programmato di condurre operazioni violente usando esplosivi.

Questi dati israeliani confermano che col passare del tempo le tensioni in Cisgiordania stanno aumentando e che l’opinione prevalente è che un’operazione armata, simile a quella di agosto nella colonia Dolev vicino a Ramallah, in cui è stata uccisa una colona israeliana con un ordigno esplosivo, può avere un buon esito dopo che la cellula che ha condotto l’operazione è riuscita a eludere il sistema di controllo israeliano. Comunque l’identificazione da parte dello Shin Bet della cellula che ha eseguito l’operazione ha svelato una vasta infrastruttura militare.

L’esercito israeliano e i suoi servizi segreti si concentrano su ciò che definiscono l’importante ruolo ricoperto all’interno di Hamas dalla sua struttura in Cisgiordania, che è responsabile della direzione delle operazioni in Cisgiordania. Sta operando su più vasta scala e con maggiore intensità per destabilizzare la sicurezza e per prendere di mira soldati e coloni. Vale la pena sottolineare che alcune delle recenti decisioni prese a livello politico israeliano relativamente ai palestinesi non fanno che gettare benzina sul fuoco, scatenando ulteriori tensioni.

Quindi lo stato di allerta dell’esercito israeliano in Cisgiordania è recentemente aumentato in previsione della possibilità di un improvviso allontanamento di Abbas dalla scena politica. La ragione è che la lotta per la successione potrebbe portare ad una resistenza popolare che sconfini in resistenza armata, dato che la maggioranza dei candidati alla successione ha iniziato ad accumulare armi, sollevando gravi preoccupazioni in Israele.

Il principale fattore che influirà sulla situazione della sicurezza in Cisgiordania restano le elezioni israeliane e la parallela diffusione di messaggi provocatori da parte dei politici israeliani riguardo al futuro della Cisgiordania. Questi includono l’annessione della Valle del Giordano, di importanti blocchi di colonie, il divieto di costruzione per i palestinesi in area C ed altre decisioni arbitrarie.

Tutti questi orientamenti politici e comportamenti israeliani sul campo non faranno che esacerbare le tensioni per la sicurezza in Cisgiordania, suscitando reazioni negative tra i palestinesi, ed hanno un effetto dannoso sul coordinamento per la sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese, che contribuisce ampiamente alla stabilità dell’esercito e dei coloni. Questo richiede che Israele sia preparato ad ogni sorpresa che possa verificarsi in Cisgiordania.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“Volete sapere di che cosa mi accusano ? Anche io”.

Oren Ziv

27 Ottobre 2019 +972

Hiba al-Labadi è in sciopero della fame da 35 giorni, dopo essere stata imprigionata senza processo da Israele in agosto. Gli attivisti palestinesi e israeliani stanno ora cercando di sensibilizzare il pubblico a riguardo.

La scorsa domenica, attivisti israeliani e palestinesi hanno lanciato una campagna virale per chiedere il rilascio della cittadina giordana che sostiene uno sciopero della fame dal mese scorso, dopo essere stata imprigionata da Israele senza processo in agosto.

Hiba al-Labadi, una cittadina giordano-palestinese di ventiquattro anni, è stata arrestata dalle forze israeliane il 20 agosto al valico di frontiera del ponte Alleby; in compagnia della madre, si stava dirigendo dalla Giordania alla città di Jenin, in Cisgiordania, per un matrimonio.il suo arresto è stato giustificato con un presunto incontro tra al-Labadi ed alcuni affiliati di Hezbollah (partito islamista e gruppo militante libanese sciita,ndtr) nel corso di una precedente permanenza a Beirut, dove la giovane visitava la sorella.

Al-Labadi è in sciopero della fame da 35 giorni.

La scorsa domenica, gli attivisti israeliani hanno lanciato unazione di protesta di 30 ore in piazza Habima a Tel Aviv, durante la quale diverse donne si sono ammanettate ad una sedia posta allinterno duno stanzino trasparente, che richiamava la cella in cui al-Labadi è stata interrogata. Molti passanti si sono fermati per fotografare la rappresentazione, alcuni dei quali hanno contattato le autorità per denunciare una anziana donna legata ad una sedia. Due agenti sono accorsi sul posto per fare degli accertamenti.

La detenzione amministrativa è una pratica che Israele sfrutta per incarcerare i palestinesi (e talvolta anche alcuni ebrei) senza accuse né processo- per un periodo indefinito. Gli ordini di detenzione amministrativa vengono rivalutati ogni sei mesi, ma ai detenuti non è comunicato di che cosa li si accusi, nè vengono mostrate loro le prove a sostegno dellincarcerazione. Ne consegue che sia virtualmente impossibile difendersi contro un ordine di detenzione amministrativa.

Parliamo di una giovane donna che è in prigione da agosto senza accuse ufficiali, e nessuno in Israele ne discute, ha dichiarato Sigal Avivi, unattivista politica di rilievo nonché uno degli organizzatori delliniziativa. Secondo Avivi, gli attivisti hanno deciso di passare allazione dopo aver letto delle torture subite da al-Labadi e delle severe condizioni nelle quali è detenuta. Avivi ha inoltre aggiunto che larresto di al-Labadi è unopportunità per rinvigorire le proteste contro la pratica della detenzione amministrativa. Non possiamo più tacere, vediamo Israele utilizzare questo strumento continuamente, e ciò in violazione delle norme internazionali.

Nel corso del fine settimana, degli attivisti in Israele hanno lanciato una campagna online che riportava una fotografia di al-Labadi e la didascalia in arabo ed ebraicoHai sentito parlare di me?, mirata a portare lattenzione sulla detenzione amministrativa. I contenuti della pagina Facebook in lingua ebraica che fornisce informazioni riguardo alla detenzione della ragazza ed alla lotta per ottenerne il rilascio sono stati condivisi centinaia di volte dalla sua apertura.

Lunedì al-Labadi sarà portata davanti alla corte militare di Ofer per unudienza sul suo arresto amministrativo. Gli attivisti pianificano un presidio di protesta allesterno del tribunale.

Lo scorso sabato decine di palestinesi hanno manifestato in via Salah a-Din a Gerusalemme Est, chiedendo allesercito israeliano il rilascio di al-Labadi. La polizia ha disperso la folla con la forza arrestando due persone, e degli agenti sono stati filmati mentre buttavano a terra i manifestanti e vi si sedevano sopra nel corso dellarresto. Il fotografo e attivista Faiz Abu Rmeleh è stato spintonato da un agente mentre riprendeva gli scontri.

Attivisti israeliani protestano contro la detenzione amministrativa di Hiba al Labadi dinanzi alla prigione di Ofer il 28 ottobre. (foto: AHMAD GHARABLI / AFP)

Lavvocato Juwad Bolous, che ha fatto visita ad al-Labadi durante la detenzione, ha dichiarato che dal suo arresto la giovane è stata interrogata per sedici giorni consecutivi senza che le fosse permesso di vedere il suo legale. La maggior parte degli interrogatori è durata diverse ore, durante le quali la ragazza rimaneva legata ad una sedia ed ammanettata. Secondo Bolous, al-Labadi è stata insultata ed ha ricevuto degli sputi dagli agenti che la interrogavano, i quali hanno minacciato di arrestarne la madre e la sorella. Sistemi di oppressione e tortura sono stati sfruttati per costringerla a firmare unammissione di colpevolezza. Però, nonostante questi interrogatori crudeli, lei non ha confessato, ha scritto Bolous nel fine settimana.

Al-Labadi respinge le accuse, che non sono state rese pubbliche al di fuori di una dichiarazione dello Shin Bet ( i servizi sicurezza interni israeliani, ndtr), il quale imputava larresto a gravi questioni di sicurezza. La comunicazione dello Shin Bet lascia trasparire che la giovane è detenuta per alcuni post pubblicati sulla propria pagina Facebook in cui esprimeva sostegno per Hezbollah e per degli attacchi violenti in Cisgiordania.

Secondo i resoconti di giornalisti palestinesi, al-Labadi è stata trasferita dalla prigione di Jalma ad un ospedale di Haifa per ricevere delle cure, ma presto è stata rimessa in custodia.

Questo articolo è apparso originariamente su Local Call, in ebraico.

(Traduzione dallinglese a cura di Jacopo Liuni)




Come alcuni medici israeliani rendono possibile la tortura da parte dello Shin Bet

Ruchama Marton

7 ottobre 2019- +972

Dall’autorizzare brutali tecniche di interrogatorio al redigere referti medici falsi, alcuni medici israeliani hanno assunto un ruolo attivo nella tortura dei prigionieri palestinesi.

Se lo Shin Bet [servizi di sicurezza interni israeliani, ndtr.] gestisce una scuola per i propri agenti ed addetti agli interrogatori, il curriculum deve sicuramente includere una lezione su come dire una menzogna. Sembra che i testi insegnati non siano cambiati nel corso degli anni. Nel 1993, rispondendo alle accuse secondo cui lo Shin Bet aveva brutalmente torturato il detenuto palestinese Hassan Zubeidi, l’allora comandante delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] del comando nord Yossi Peled disse al giornalista israeliano Gabi Nitzan che “in Israele la tortura non c’è. Ho fatto il soldato per 30 anni nelle IDF e so quello di cui sto parlando.”

Ventisei anni dopo, il vice capo dello Shin Bet ed ex-addetto agli interrogatori dello Shin Bet Yitzhak Ilan ha ripetuto la stessa frase al conduttore del telegiornale della televisione nazionale Ya’akov Eilon mentre parlava di Samer Arbeed, un palestinese di 44 anni che è stato ricoverato in ospedale in condizioni critiche dopo essere stato, a quanto pare, torturato dallo Shin Bet. Arbeed è sospettato di aver organizzato un attentato mortale che in agosto ha ucciso una ragazza israeliana ed ha ferito suo padre e suo fratello presso una sorgente in Cisgiordania. Ilan si è molto arrabbiato all’idea che lo Shin Bet sia in qualche modo responsabile delle condizioni di Arbeed.

Lasciando da parte queste assurde forme di negazione, come medico e fondatore di “Medici per i diritti umani-Israele”, sono sempre rimasto scosso da come in Israele medici israeliani collaborino e consentano le torture.

Nel giugno 1993 organizzai a Tel Aviv una conferenza internazionale per conto di MEDU contro la tortura in Israele. Alla conferenza presentai un documento medico dello Shin Bet scoperto per caso dalla giornalista israeliana Michal Sela. Nel documento al medico dello Shin Bet veniva chiesto se il prigioniero in questione avesse una qualche limitazione di carattere medico riguardo al fatto di tenerlo in isolamento, se potesse essere legato, se il suo volto potesse essere coperto o se potesse essere lasciato in piedi per lunghi periodi di tempo.

Lo Shin Bet negò che questo documento fosse mai esistito. “Non c’è nessun documento. Era un semplice documento sperimentale che non è in uso,” sostenne l’istituzione. Quattro anni dopo venne alla luce un secondo documento, simile in modo sospetto al primo. Quel documento chiedeva ai dottori di autorizzare la tortura in base a una serie di condizioni precedentemente concordate.

Il primo documento, insieme ad altre risultanze, venne pubblicato nel libro intitolato “Tortura: diritti umani, etica medica e il caso di Israele.” Il libro non si può trovare in Israele: Steimatzky, la più antica e grande catena di librerie di Israele, ha vietato la sua vendita. Forse è un’ulteriore prova che in Israele non si pratica la tortura.

Dopo che il documento venne scoperto, MEDU si rivolse all’associazione dei medici di Israele e chiese di unirsi alla lotta contro la tortura. L’IMA [Israel Medical Association] pretese che il MEDU consegnasse i nomi dei medici dello Shin Bet che avevano firmato il documento in modo che la questione potesse essere gestita internamente.

Mi rifiutai di consegnare i nomi e dissi all’avvocato dell’IMA di non essere interessato a perseguire medici di base – volevo cambiare l’intero sistema. Ciò significava l’abolizione della legittimità concessa alle confessioni estorte sotto tortura, educare i membri dell’IMA riguardo alla non collaborazione con i torturatori, e in particolare fornire aiuto concreto a quei dottori che denunciassero sospetti di torture o interrogatori brutali.

All’epoca l’IMA si accontentò di far circolare le nostre dichiarazioni senza fare niente per impedire ai medici dello Shin Bet di cooperare con la tortura. Oltretutto l’organizzazione non rispettò i suoi obblighi di creare un ambito di discussione in cui i dottori informassero su sospette torture.

Un fallimento etico, morale e pratico

Ma non sono solo i medici nello Shin Bet e nel servizio carcerario israeliano che collaborano con la tortura. In tutto Israele i medici dei pronto soccorso stilano falsi pareri medici in sintonia con le richieste dello Shin Bet. Prendete ad esempio il caso di Nader Qumsieh, della città cisgiordana di Beit Sahour. Venne arrestato a casa sua il 4 maggio 1993 e portato cinque giorni dopo nel centro medico Soroka di Be’er Sheva. Lì un urologo gli diagnosticò un’emorragia e una lacerazione allo scroto.

Qumsieh affermò di essere stato picchiato e colpito ai testicoli durante l’interrogatorio. Dieci giorni dopo Qumsieh venne portato davanti allo stesso urologo per un controllo medico, dopo che questi aveva ricevuto una telefonata dall’esercito israeliano. L’urologo scrisse una lettera retrodatata (come se fosse stata redatta due giorni prima), senza effettuare realmente un ulteriore controllo del paziente, in cui diceva che “secondo il paziente, egli è caduto dalle scale due giorni prima di essere arrivato al pronto soccorso.” Questa volta la diagnosi fu “ematoma superficiale nella zona dello scroto, che corrisponde a contusioni locali subite da due a cinque giorni precedenti la visita.” La lettera originaria dell’urologo scritta dopo il primo esame sparì dalla documentazione medica di Qumsieh. La storia ci insegna che ovunque i medici introiettano facilmente e concretamente i valori del regime, e molti di loro diventano suoi leali servitori. Questo è stato il caso della Germania nazista, degli Stati Uniti e di vari Paesi in America latina. Lo stesso vale per Israele. Il caso di Qumsieh, insieme a innumerevoli altri casi, riflette il fallimento etico, morale e concreto del sistema sanitario israeliano di fronte alla tortura.

Già dal XVIII° secolo giuristi – più che medici – pubblicarono opinioni legali accompagnate da prove secondo cui non c’era rapporto tra provocare dolore e arrivare alla verità. Quindi sia la tortura che le confessioni estorte con la sofferenza erano legalmente prive di valore. Si può solo supporre che i capi dello Shin Bet, dell’esercito e della polizia conoscano questo pezzo di storia.

Eppure la tortura, che include una crudeltà sia psicologica che fisica, continua ad avvenire su vasta scala. Perché? Perché il reale obiettivo della tortura e dell’umiliazione è spezzare lo spirito e il corpo del prigioniero o della prigioniera. Eliminare la sua personalità.

La ragione giuridica per vietare la tortura è basata sull’idea utilitaristica che non si possa arrivare alla verità infliggendo dolore. Ma i medici sono tenuti prima di tutto al principio che sia proibito provocare danno fisico o psicologico a un paziente.

Il documento di idoneità medica dello Shin Bet consente di impedire il sonno, consente a chi interroga di esporre il prigioniero a temperature estreme, di picchiarlo, di legarlo per molte ore in posizioni dolorose, di obbligarlo a stare in piedi per ore finché i vasi sanguigni dei piedi bruciano, di coprigli la testa per lunghi periodi di tempo, di umiliarlo sessualmente, di spezzare il suo spirito recidendo i rapporti con la famiglia e gli avvocati, di tenerlo in isolamento finché perde la salute mentale.

Il modulo di idoneità medica dello Shin Bet non è lo stesso di quello utilizzato per stabilire l’idoneità per far parte della forza aerea o persino guidare un’auto. Questo tipo di “idoneità” porta il prigioniero direttamente nella camera di tortura – e il medico lo sa. Il medico sa a quale tipo di processo sistematico di dolore e umiliazione lui o lei sta prestando il proprio consenso e approvazione. Sono i medici che sovrintendono alla tortura, visitano il prigioniero torturato e stilano il parere medico o il referto patologico.

Il camice bianco passa nella camera di tortura come un’ombra in agguato durante gli interrogatori. Un dottore che collabora con le torture di Israele è complice di quello stesso sistema. Se un prigioniero o una prigioniera muore durante l’interrogatorio, il medico è complice della sua morte. Medici, infermieri, paramedici e giudici che sanno quello che avviene e preferiscono rimanere in silenzio sono tutti complici.

Ci dobbiamo opporre in modo incondizionato a qualunque forma di tortura, senza eccezioni. Noi, cittadini di uno Stato democratico, dobbiamo rifiutare di cooperare con il crimine della tortura, e a maggior ragione se si tratta di medici.

Non dobbiamo neanche nasconderci dietro l’idea che la tortura sia un sintomo dell’occupazione, dicendo a noi stessi che questa pratica sparirà quando finirà l’occupazione. La tortura è una concezione del mondo in base alla quale i diritti umani non trovano posto o non hanno valore. Esisteva molto prima dell’occupazione e continuerà ad esistere se noi non cambiamo quella mentalità.

Pratiche investigative violente e crudeli non contribuiscono alla sicurezza nazionale neppure se sono commesse in suo nome. La tortura provoca una vertiginosa distruzione del nostro stesso tessuto sociale. Non perdono i valori morali, della dignità umana e della democrazia solo quelli che praticano questo terribile tipo di “lavoro”, ma anche tutti quelli che rimangono in silenzio, che non lo vogliono sapere. Di fatto, tutti noi.

Il dottor Ruchama Marton è il fondatore di “Medici per i Diritti Umani-Israele”. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La comunità internazionale è complice delle torture di Israele ai palestinesi

Ramona Wadi

2 ottobre 2019 – Middle East Monitor

Le torture subite dal prigioniero palestinese Samer Arabeed da parte degli agenti israeliani dello Shin Bet [servizi segreti interni, ndtr.] che lo interrogavano hanno dimostrato, ancora una volta, che il divieto di tale trattamento, sancito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, dallo Statuto di Roma e dalla Convenzione ONU contro la Tortura, è poco più di una serie di punti di riferimento utilizzati dalle associazioni per i diritti umani come monito per i torturatori.

Arabeed è stato trasferito all’ospedale Hadassah in seguito a pesanti torture dopo essere stato arrestato per la sua presunta partecipazione in agosto ad un attacco con una bomba. Una dichiarazione dell’associazione di sostegno ai detenuti e per i diritti umani, Addameer, ha riferito che Israele ha ammesso di aver utilizzato “metodi estremi ed eccezionali durante gli interrogatori, che in realtà equivalgono a torture”.

Il ministero di Giustizia israeliano ha annunciato un’indagine per decidere se si debbano avviare procedimenti penali contro i funzionari dello Shin Bet. Le torture subite da Arabeed gli hanno provocato rottura delle costole e perdita di conoscenza. Ora la sua situazione lo mette in pericolo di vita e dipendente da un macchinario di supporto vitale. Il suo trasferimento dal carcere all’ospedale è stato comunicato in ritardo alla sua famiglia e al suo avvocato.

Lo scorso luglio il prigioniero palestinese Nasser Taqatqa è morto dopo essere stato torturato e interrogato dallo Shin Bet. Le testimonianze di ex prigionieri palestinesi confermano il fatto che negli interrogatori israeliani si utilizza sistematicamente la tortura. Nel 2013 Arafat Jaradat morì sotto tortura mentre era detenuto nel carcere di Megiddo.

Nel novembre 2018 la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza favorevole alla tortura nel caso che il detenuto sia membro di “una organizzazione terroristica individuata come tale”, sia coinvolto nella resistenza armata o quando non esista altro mezzo per ottenere informazioni. Se Israele ha stabilito questa immunità, come si può sperare che il continuo riferimento alle leggi e alle convenzioni internazionali sia sufficiente per impedire la tortura dei prigionieri palestinesi?

Definendo i dettagli sulla proibizione della tortura, la comunità internazionale evitò la responsabilizzazione, allo scopo di garantire i diritti umani agli autori e un labirinto di vicoli ciechi senza uscita per le vittime. Tra questi due estremi, le organizzazioni per i diritti umani si sono fatte carico di difendere i principi al posto dei governi, ma per il loro limitato potere o, in alcuni casi, per i loro programmi parziali, non hanno potuto realizzare nessun sistema di giustizia praticabile.

Israele è assolutamente consapevole di questa discrasia e sfrutta la mancanza di responsabilizzazione per falsificare ciò che costituisce un metodo accettabile di tattiche di interrogatorio. La totale marginalizzazione dei palestinesi da parte della comunità internazionale relativamente ai loro diritti ha facilitato la costante normalizzazione della tortura da parte di Israele, in totale violazione del diritto internazionale, in assenza di una condanna collettiva.

Il risultato è una permanente separazione tra le informazioni diffuse e il tipo di azione legale che fornirebbe ai prigionieri palestinesi una possibilità di giustizia. Le organizzazioni per i diritti umani come Addameer si vedono costrette ad una collaborazione involontaria con la diplomazia, girando continuamente a vuoto per svegliare le coscienze, che è ciò che la comunità internazionale voleva in primo luogo quando non ha potuto mantenere l’assunzione di responsabilità.

Chiedere la liberazione di Arabeed non significherà la fine della feroce violenza di Israele. E’ una mossa preventiva rispetto a nuove torture, ma dietro a questa storia ve ne sono altre che sono sfuggite alla scarsa attenzione dei media che sbatte i nomi delle vittime in prima pagina, anche se per breve tempo. Addameer da sola non può ottenere giustizia per i prigionieri palestinesi. Come minimo, dovrebbe esserci un’attenzione globale collettiva per mostrare la complicità della comunità internazionale nella tortura e la sua agenda ingannevole sui diritti umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Ramona Wadi

Fa parte della redazione di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)

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Palestinese ricoverato in ospedale in condizioni critiche dopo essere stato interrogato dagli israeliani

Shatha Hammad da Ramallah, Cisgiordania occupata

29 settembre 2019 – Middle East Eye

Gli avvocati e la famiglia di Samir Arbeed accusano lo Shin Bet israeliano di torture in seguito a percosse e a metodi di interrogatorio “eccezionali”

Gli avvocati e la famiglia dicono che un detenuto palestinese è stato ricoverato in ospedale e si trova in condizioni critiche dopo essere stato torturato e duramente percosso durante l’arresto e l’interrogatorio.

Secondo i suoi legali Samir Arbeed, di 44 anni, accusato di essere responsabile di un attacco nella Cisgiordania occupata, era in buone condizioni di salute prima di essere preso in custodia da Israele mercoledì. Tuttavia, dopo essere stato sottoposto a un interrogatorio da parte del servizio di intelligence interno di Israele Shin Bet è stato trasferito all’ospitale Hadassah di Gerusalemme.

Le autorità israeliane hanno accusato Arbeed di essere la mente della cellula che in agosto ha effettuato un attentato dinamitardo, che ha ucciso una diciassettenne israeliana, nei pressi della colonia illegale di Dolev, nella Cisgiordania occupata a nord est di Ramallah.

Sabato lo Shin Bet ha affermato che i membri della cellula fanno parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e che tutti e quattro sono stati arrestati. Lo Shin Bet ha anche sostenuto che la cellula stava pianificando un altro attentato.

Secondo mezzi di informazione israeliani un giudice ha concesso al servizio di sicurezza il permesso di “utilizzare mezzi eccezionali per interrogare” Arbeed.

Noura Miselmani, la moglie di Arbeed, ha detto a Middle East Eye di aver visto forze speciali israeliane colpire suo marito mentre veniva arrestato mercoledì di fronte al suo posto di lavoro nella città di al-Bireh. Afferma che giovedì, quando ha detto al giudice di essere sofferente e non in condizioni di mangiare per i colpi subiti, Arbeed è comparso davanti al tribunale con evidenti lividi.

Nonostante le sue difficili condizioni, il giudice ha adottato la decisione di consentire un interrogatorio militare e l’uso della forza per ricavare informazioni da lui,” ha detto.

Condizioni critiche

Sabato le autorità israeliane hanno detto a un avvocato di “Addameer”, un gruppo per i diritti dei detenuti palestinesi, che Arbeed era stato trasferito in ospedale.

Tuttavia Miselmani sostiene che in realtà Arbeed era stato ricoverato da venerdì.

Prima di essere arrestato era in buone condizioni. Mio marito non aveva nessuna malattia e la sua salute è peggiorata a causa delle torture subite,” afferma.

Sabato lo Shin Bet ha rilasciato una dichiarazione in cui dice: “Durante l’interrogatorio del capo della cellula terroristica responsabile dell’attacco nei pressi della sorgente Ein Buvin che ha ucciso Rina Shnerb, chi lo ha interrogato ha rilevato che egli non si sentiva bene. In base alla procedura è stato trasferito all’ospedale per esami e cure mediche. Non può essere fornito nessun altro particolare.”

Gli avvocati di Arbeed hanno detto che a loro è stato concesso di vederlo solo alle 22,30 di domenica, quando hanno scoperto che era arrivato in stato di incoscienza, con fratture alla cassa toracica, lividi, segni di percosse su tutto il corpo e grave insufficienza renale.

La sua famiglia afferma che a loro è stato impedito di vederlo e che lo Shin Bet ha rifiutato di fornire ogni ulteriore informazione sul caso.

Miselmani afferma che solo sabato lo Shin Bet ha emanato un comunicato nel tentativo di evitare ogni responsabilità legale nel caso Arbeed fosse morto.

Chiediamo a tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani di intervenire rapidamente per salvare mio marito Samir e di contribuire a garantire il suo immediato rilascio,” afferma.

Sahar Francis, direttrice di “Addameer”, sottolinea che la tortura di detenuti è illegale e che ogni confessione ottenuta in simili circostanze è inattendibile e dovrebbe essere ignorata.

In base allo Statuto di Roma quello che Samir ha subito è un crimine, soprattutto in quanto è entrato in condizioni critiche entro le 48 ore in conseguenza del fatto di essere stato torturato,” dice a MEE, aggiungendo che il suo ricovero in ospedale “conferma che è stato sottoposto a violenza e a gravissime torture.”

Francis sostiene che durante gli interrogatori militari di detenuti palestinesi le autorità israeliane usano normalmente metodi che costituiscono torture.

Ci sono decisioni della Corte Suprema israeliana che consentono allo Shin Bet di utilizzare la tortura come mezzo per estorcere confessioni,” afferma.

Estesa caccia all’uomo

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, Arbeed è stato arrestato per la prima volta due settimane fa in quanto sospettato di altri delitti, ma è stato rilasciato.

Nuove informazioni secondo cui sarebbe stato in possesso di esplosivi, lo hanno visto di nuovo in arresto mercoledì, informa Haaretz.

Le forze israeliane hanno condotto una vasta caccia all’uomo in seguito all’attacco nei pressi di Dolev il 23 agosto. Anche il padre e il fratello della diciassettenne Shnerb sono rimasti feriti nell’esplosione.

Domenica il FPLP ha affermato che le forze israeliane hanno arrestato decine di suoi membri in varie località della Cisgiordania, aggiungendo che non si farà intimidire dagli arresti.

Siamo impegnati in un percorso di resistenza e ciò continuerà ad aumentare finché il vulcano palestinese erutterà in faccia all’occupazione e ai coloni,” afferma il FPLP in un comunicato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per alcuni abitanti di Gaza che necessitano di cure mediche, l’attesa per un permesso di uscita porta alla morte

Amira Hass

4 dicembre 2017 Haaretz

Yara Bakheet, di 4 anni e Aya Abu Mutalq, di 5, sono tra i 20 pazienti morti quest’anno poiché i loro permessi di uscita non sono arrivati in tempo

A gennaio la bimba di 4 anni Yara Bakheet si ammalò. Vomitò spesso nel corso di un’intera settimana e si disidratò, e dopo una serie di esami all’ospedale europeo di Khan Yunis a Gaza, i medici dissero alla madre, la ventottenne Aisha Hassouna, che sua figlia soffriva di insufficienza cardiaca.

Le venne fissato un appuntamento all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme est dove, così dissero alla madre, vi erano i mezzi adeguati per curare sua figlia.

Gli esami medici, il foglio di appuntamento e l’impegno al pagamento, unitamente alla richiesta di un permesso per Yara e suo padre di uscire da Gaza, furono inoltrati all’Amministrazione israeliana di Coordinamento e Collegamento , che concede i permessi di uscita in base al parere del servizio di sicurezza Shin Bet.

La madre ha raccontato ad un ricercatore dell’associazione per i diritti umani B’Tselem che la prima richiesta venne respinta. Yara mancò l’appuntamento. Ne fu fissato uno nuovo per il 16 febbraio. La famiglia ripercorse l’intera trafila burocratica: documenti, copie, appuntamento, impegno di pagamento, modulo di richiesta ed un viaggio all’ufficio palestinese di collegamento, che inviò i documenti ai dirigenti e funzionari israeliani.

Questa volta, per assicurarsi che la domanda di permesso non fosse respinta a causa dell’identità dell’adulto accompagnatore, fu deciso che l’accompagnatore sarebbe stata la nonna della mamma, di 72 anni. La domanda venne accettata e le due persone partirono per Gerusalemme.

La bisnonna a sua volta soffriva di pressione alta e diabete. Peggio ancora, la piccola Yara non la conosceva bene e rifiutò il suo aiuto all’ospedale. La bambina pensò di essere stata abbandonata dai genitori e per tutto il tempo in cui rimase all’ospedale Al-Makassed, dove le era stato applicato un catetere, rifiutò di parlare con i genitori al telefono. “Mi sembrava che mi si chiudesse il cuore per il desiderio di sentire la sua voce”, disse Hassouna, la mamma.

Yara tornò a casa sciupata e rimase arrabbiata con sua madre che non le era stata accanto. La sua condizione diventava sempre più evidente quando Lara, la sua gemella, era nelle vicinanze. Dopo cure e degenze in ospedale nella Striscia di Gaza, si decise di mandare Yara di nuovo a Al-Makassed. Fu preso un appuntamento per il 2 giugno ed i documenti e certificati furono nuovamente inoltrati all’ufficio israeliano di collegamento.

Una settimana prima dell’appuntamento, la famiglia ricevette sul cellulare un messaggio che diceva che la richiesta era ancora sotto esame. L’appuntamento fu perso. Passarono i giorni, la condizione di Yara peggiorò e quando incominciò a sentire mancanza di fiato e soffocamento, fu portata un’altra volta all’ospedale europeo. Fu preso un altro appuntamento a Al-Makassed per il 20 luglio, per inserire un pacemaker, che a Gaza non era disponibile. Ma Yara morì all’ospedale europeo il 13 luglio.

Yara è una dei 20 pazienti gravemente ammalati che sono morti quest’anno a Gaza poiché la loro richiesta per un permesso israeliano di uscita per ricevere cure non è stato concesso in tempo. Un nuovo rapporto di B’Tselem, che sarà pubblicato questa settimana, si occupa di questo crescente fenomeno di ritardi ingiustificati nell’emissione di permessi di uscita per cure mediche.

I pazienti non hanno ricevuto dinieghi ufficiali, ma solo il messaggio “Stiamo valutando la vostra domanda.” I funzionari israeliani di collegamento inviano questo messaggio agli impiegati dell’ufficio palestinese di collegamento, che invia un messaggio alla famiglia, a volte la sera prima dell’appuntamento.

E’ difficile stabilire se e quando una morte sia causata direttamente da un ritardo nell’emissione di un permesso di uscita per cure mediche. Però è chiaro che l’indecisione, le aspettative e la delusione, la costante incertezza, la tensione e la necessità di affrontare l’intera logorante procedura burocratica nuovamente ogni volta, non sono cose salutari.

Peggioramento negli ultimi quattro anni.

A giugno, quando Yara avrebbe dovuto andare a Gerusalemme per farsi inserire un pacemaker, 1920 pazienti avevano inoltrato richieste per permessi di uscita da Gaza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che furono approvate 951 richieste, 20 furono respinte (meno dell’1%) e 949 (49,4%) rimasero senza risposta fino alla data prevista del ricovero in ospedale o della terapia. Di queste ultime, 222 erano richieste per minori di 18 anni e 113 per persone ultrasessantenni.

A settembre, il 42% delle 1858 richieste di permessi per cure mediche rimasero nel limbo. Di esse, 140 erano per minori di 18 anni e 99 per persone di oltre 60 anni.

E’ stata una chiara tendenza nel corso dello scorso anno, sulla quale il 9 novembre Haaretz ha riferito: le domande di permessi di uscita per qualunque scopo vengono rinviate senza risposta per settimane e mesi. Nel settembre di quest’anno il loro numero è arrivato a 16.000.

La percentuale di richieste inevase per permessi di uscita per cure mediche è quasi triplicata negli ultimi quattro anni. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, citata nel rapporto di B’Tselem, nel 2014 il 15,4% delle richieste rimasero inevase; nel 2015 la percentuale era del 17,6%. A settembre 2017, vi erano 8555 richieste rimaste inevase, che rappresentano il 43,7% di un totale di quasi 20.000 richieste.

“Ragioni di sicurezza” fu la spiegazione per il rigetto del 2,9% delle richieste, mentre circa il 53% fu approvato. Circa tre quarti delle richieste era per cure mediche in ospedali palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Lo Shin Bet ha affermato in risposta: “L’anno scorso abbiamo visto un aumento della pratica attraverso cui le organizzazioni terroriste, capeggiate da Hamas, sfruttano l’uscita degli abitanti di Gaza (anche per motivi medici) per promuovere attività terroristiche, incluso il trasferimento di esplosivi e di denaro per i terroristi e altri mezzi di favoreggiamento.

“Lo scorso aprile, due palestinesi a cui era stato consentito di entrare in Israele perché uno di loro potesse ricevere cure per il cancro, sono stati fermati al valico di Erez. Nel loro bagaglio sono state trovate provette per uso medico, all’interno delle quali era stato nascosto esplosivo che era evidentemente destinato ad un attacco di Hamas in Israele.

“Dato il grave pericolo costituito da queste attività, vengono effettuati rigidi controlli di sicurezza su chiunque faccia richiesta di uscire da Gaza. Ovviamente questi controlli prendono del tempo e si fanno costanti sforzi per ridurre questi tempi e dare priorità alle procedure per tutte le richieste, con particolare attenzione a quelle di carattere umanitario inoltrate da chi intende entrare in Israele per ricevere cure mediche salva-vita.”

Circa il 20% delle richieste rimaste inevase nel 2017 si riferivano a bambini e adolescenti minori di 18 anni e circa l’8% (725) a persone di oltre 60 anni.

Una di queste ultime è Fatma Biyoumi, di 67 anni, che soffre di una grave patologia al sangue. Dopo esami e terapie a Gaza, le hanno fissato appuntamenti per il 24 ottobre e il 4 novembre all’ospedale An-Najah di Nablus. Non avendo ricevuto risposte, ha mancato gli appuntamenti. E’ stato fissato un altro appuntamento, questa volta per un giorno di agosto all’ospedale Augusta Victoria di Gerusalemme, e la risposta è rimasta “in fase di valutazione”, benché l’associazione non profit israeliana “Medici per i diritti umani” l’avesse assistita nelle sue richieste per un permesso di uscita.

Un altro appuntamento è stato fissato per il 17 dicembre, e Biyoumi e la sua famiglia vivono in una situazione di continua attesa: la richiesta verrà accettata, oppure verrà approvata all’ultimo istante, in modo da aumentare l’incertezza, e ci sarà abbastanza tempo per organizzarsi?

Nella sua dichiarazione ad Haaretz di giovedì, lo Shin Bet ha detto che Biyoumi “è stata convocata per essere interrogata, dopodiché sarà possibile concludere la procedura per la sua valutazione di sicurezza.” Ci risulta che Biyouni sia stata interrogata dallo Shin Bet al valico di Erez mercoledì.

Huwaida, di 48 anni, malata di tumore al sangue, ha un appuntamento per il 6 dicembre, dopo aver ricevuto la risposta “in corso di valutazione” a tutte le sue precedenti richieste: per terapie il 13 agosto, l’11 settembre, il 24 settembre, il 9 ottobre, il 29 ottobre, l’8 novembre e il 22 novembre. Anche lei è stata aiutata da “Medici per i diritti umani” e anche lei sta vivendo in ansia per il timore di un’altra delusione.

Lo Shin Bet ha detto ad Haaretz che “dopo che è stata interrogata ed il suo caso esaminato, è stata inviata una risposta all’ufficio di collegamento che dice che non vi sono ostacoli legati alla sicurezza per l’approvazione della sua richiesta.”

Delusione il giorno prima

Aya Abu Mutlaq aveva 5 anni quando è morta. Soffriva dalla nascita di paralisi cerebrale ed era curata a Gaza. Nell’ottobre 2016 si decise di mandarla a farsi curare all’ospedale Al-Makassed. Fu inoltrata richiesta per un permesso per lei e suo padre, perché sua madre aveva partorito solo due mesi prima. L’appuntamento era per il 4 febbraio e il 3 febbraio la famiglia ricevette un messaggio che diceva che la richiesta era ancora in fase di valutazione. L’appuntamento fu rinviato al 16 marzo. Di nuovo, un giorno prima dell’appuntamento, arrivò un messaggio che diceva che gli israeliani stavano ancora valutando la richiesta.

La condizione della bambina peggiorò. Venne fissato un nuovo appuntamento per il 27 aprile, ma lei morì il 17 aprile. Suo padre era uscito tre volte da Gaza in passato, per Ramallah e Gerusalemme – per essere curato ad un problema al ginocchio. Non riusciva a capire perché all’improvviso, quando sua figlia aveva avuto bisogno che lui la accompagnasse, la richiesta sia stata rinviata finché lei morì.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa la metà delle persone che fanno richiesta di accompagnare pazienti non ottengono i permessi di uscita – cosa che spesso rimanda le cure al paziente. In base a nuove procedure presso il Coordinatore delle Attività Governative nei Territori [occupati], il tempo richiesto dall’ufficio di collegamento per occuparsi delle domande di permessi di uscita è aumentato significativamente – fino a 70 giorni, esclusi i weekend e le festività ebraiche. Per le situazioni sanitarie (ma non quelle di vita o morte) il tempo massimo previsto è di 23 giorni.

Un attento monitoraggio di “Medici per i diritti umani” dei casi di nove pazienti donne affette da tumore dimostra che l’ufficio di collegamento non rispetta i limiti di tempo stabiliti. Negli ultimi mesi, otto delle nove donne non si sono presentate agli appuntamenti per le terapie mediche perché le loro richieste di permesso erano “in fase di valutazione”.

Ma, secondo lo Shin Bet, “un esame dei casi citati nell’inchiesta di Haaretz” – che si è occupata di 11 pazienti morti e di parecchi altri che hanno atteso l’approvazione della richiesta per diversi mesi – “ ha rivelato che la maggior parte delle loro richieste di ingresso in Israele è stata approvata, ed alcuni hanno già usufruito dei loro permessi per entrare in Israele e ricevere cure mediche.”

Il 29 novembre Ghada Majadala e Mor Efrat, dell’organizzazione israeliana di medici, hanno inviato una lettera urgente al Generalmaggiore Yoav Mordechai, capo del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (occupati), ed a Moshe Bar Siman Tov, direttore generale del ministero della Sanità (israeliano). Nel documento, che si incentra sulle nove donne affette da tumore, Majadala ed Efrat hanno sottolineato che le cure oncologiche disponibili a Gaza non sono adeguate.

Negli ultimi mesi si è verificato un calo nello stock di farmaci utilizzati insieme alla chemioterapia, hanno scritto, ed è difficile operare per asportare i tumori per la carenza di carburante e di elettricità. Inoltre a Gaza non esistono trattamenti di radioterapia o con iodio radioattivo, né esiste l’attrezzatura per seguire l’andamento della malattia. In più, sia la lettera di Majadala ed Efrat, sia il rapporto di B’Tselem affermano che l’Autorità Nazionale Palestinese sta attualmente conducendo una politica di riduzione del numero di pazienti mandati a curarsi fuori Gaza.

Nella loro lettera, di cui è stata mandata copia all’Associazione Medici Israeliani e al Comitato etico degli infermieri, Majadala ed Efrat hanno scritto che le attese provocano non solo sofferenza, ma anche esaurimento per le battaglie burocratiche. “ Una mancata risposta impedisce ai pazienti di far valere il proprio diritto ad appellarsi contro il rifiuto, se esso venisse comunicato”, hanno scritto. “Non dare risposte per mesi dimostra una politica di disprezzo per la sofferenza dei pazienti.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’Europa non deve comprare ciò che Israele vende per combattere il terrorismo

Jeff Halper, 20 agosto 2017 , Haaretz

Israele è riuscito a trasformare 50 anni di resistenza palestinese all’occupazione in lavoro a domicilio ed ora vende al mondo intero il concetto di stato di polizia.

Ogni volta che avviene un attacco terroristico, come quello della scorsa settimana a Barcellona, i politici e gli “esperti” di sicurezza israeliani appaiono in televisione per criticare l’ingenuità degli europei. Se solo comprendessero il terrorismo come facciamo noi e prendessero le misure preventive che prendiamo noi, dicono, subirebbero molti meno attacchi. I più spregevoli in proposito sono stati i commenti del ministro israeliano dell’Intelligence Yisrael Katz dopo le bombe di Bruxelles nel marzo 2016, in cui morirono 34 persone.

Invece di porgere le condoglianze a nome del governo israeliano, ha inveito contro i belgi nel più arrogante dei modi. “Se in Belgio continuano a mangiare cioccolato, a godersi la vita e ad atteggiarsi a grandi liberali e democratici, senza tener conto del fatto che alcuni dei musulmani che vivono là organizzano azioni terroristiche,” ha sentenziato, “non saranno in grado di combatterli.”

I belgi hanno reagito con rabbia e ribadito la posizione della maggior parte dei governi europei: mentre continueremo ad essere vigili ed a prendere le necessarie precauzioni, non intendiamo sacrificare le nostre libertà e la nostra apertura politica per diventare delle copie di Israele. Poiché essi comprendono che il governo Netanyahu sta spacciando qualcosa di molto più insidioso delle mere precauzioni – ancor più delle armi, dei sistemi di sorveglianza e sicurezza e dei modelli di controllo della popolazione, che sono il pane delle esportazioni israeliane. Ciò che Israele raccomanda agli europei – e agli americani, canadesi, indiani, messicani, australiani ed a chiunque altro li ascolterà – è nulla di meno che un concetto del tutto nuovo di Stato, lo Stato sicuritario.

Che cos’è uno Stato sicuritario? Essenzialmente, è uno Stato che pone la sicurezza al di sopra di ogni altra cosa, sicuramente al di sopra della democrazia, del dovuto rispetto della legge e dei diritti umani, tutte cose che considera “lussi liberali” in un mondo sopraffatto dal terrorismo. Israele si presenta niente di meno che come il modello per i Paesi del futuro. Voi europei ed altri non dovreste criticarci, dicono Katz e Netanyahu, dovreste imitarci. Guardate che cosa abbiamo fatto. Abbiamo creato una democrazia vivace dal Mediterraneo al fiume Giordano, che dispensa ai suoi cittadini una florida economia e la sicurezza personale – anche se la metà della popolazione di quel Paese sono dei terroristi (cioè palestinesi senza cittadinanza che vivono in enclave isolate del Paese). Se noi possiamo ottenere questo, potete immaginare che cosa possiamo offrire a chi di voi è minacciato dagli attacchi terroristici?

Con un brillante ribaltamento dell’immagine, Israele è riuscito a trasformare 50 anni di resistenza palestinese all’occupazione in un’industria a domicilio. Etichettandola come “terrorismo”, non solo ha delegittimato la lotta palestinese, ma ha trasformato i territori occupati in un laboratorio di contro insorgenza e controllo della popolazione, gli elementi di avanguardia sia delle guerre estere che della repressione interna. Ha trasformato le tattiche di controllo e gli strumenti bellici dei sistemi di sorveglianza ad esse corrispondenti in prodotti commercializzabili. Non c’è da stupirsi, come ci ricorda costantemente Netanyahu, che “il mondo” ami Israele. Dalla Cina all’Arabia Saudita, dall’India al Messico, dall’Eritrea al Kazakhstan, Israele fornisce gli strumenti con cui i regimi repressivi controllano i loro popoli in agitazione.

La vasta portata militare di Israele è ben documentata. Si dispiega in oltre 130 Paesi ed ha apportato sei miliardi e mezzo di esportazioni nel 2016. Meno note ma più dannose per i diritti civili sono le esportazioni di Israele nel settore della sicurezza. Tre esempi:

1. Israele spinge le agenzie di sicurezza e le forze di polizia straniere a fare pressione per [l’adozione di] prassi da Stato sicuritario nei loro stessi Paesi. Irride alla mancanza di volontà delle democrazie occidentali di impiegare i profili etnici e razziali, come fanno la sicurezza e la polizia israeliane all’aeroporto internazionale Ben Gurion ed in tutto il Paese. In contesti specifici come gli aeroporti, i profili possono certamente essere efficaci – il Ben Gurion è senza dubbio uno degli aeroporti più sicuri al mondo – ma questo avviene al prezzo di umiliare e far perdere tempo alle persone prese di mira. Comunque, quando vengono estesi al resto della società, perdono quell’efficacia e quasi invariabilmente si trasformano in un metodo legalizzato di intimidazione nei confronti di chiunque un governo voglia controllare.

2. La polizia nazionale israeliana svolge decine di programmi e conferenze di formazione delle forze di polizia di tutto il mondo, in cui pone l’accento non sulle tattiche di polizia interne, ma piuttosto sulla “contro insorgenza interna” e la pacificazione delle popolazioni che creano problemi. Il Centro ‘International Law Enforcement Exchange’ della Georgia negli Stati Uniti sostiene che 24.000 poliziotti americani sono stati formati dalla controparte israeliana. A differenza di altri Paesi occidentali, che pongono un netto discrimine tra i loro militari che conducono operazioni all’estero e le proprie agenzie di polizia e di sicurezza interna incaricate di garantire la sicurezza, ma anche i diritti civili dei loro cittadini, Israele non ha simili limiti interni. L’esercito e la polizia costituiscono un’unità interconnessa, con forze paramilitari – lo Shin Bet (servizi di sicurezza interna, ndtr.), la polizia di frontiera, il comando patriottico, Yasam (unità speciale antisommossa della polizia israeliana, ndtr.) ed altre – che li mettono ulteriormente in comunicazione tra loro. Quindi in Israele la distinzione tra cittadini con diritti civili e non cittadini “sospetti” e presi di mira si perde, e si tratta di una distinzione che la politica israeliana tenta di cancellare anche nella sua attività di formazione della polizia straniera.

3. Israele è un leader mondiale nella messa in sicurezza delle città, dei grandi eventi e delle aree “non governabili”. C’è un legame diretto tra la chiusura dei quartieri, villaggi e campi profughi palestinesi e la vendita di queste tattiche alla polizia locale per creare “zone di sicurezza” sterilizzate e “difese perimetrali” intorno a centri finanziari, distretti governativi, ambasciate, sedi in cui il G-8 e la NATO tengono i loro incontri al vertice, piattaforme petrolifere e depositi di carburante, centri di conferenze in ambienti “insicuri” del Terzo Mondo, località turistiche, centri commerciali, porti ed aeroporti, siti di grandi eventi e le case e gli itinerari di viaggio dei ricchi. Israele è altrettanto coinvolto nella questione del muro di confine di Trump, che è soprannominato il “confine Palestina-Messico.”

Ci sono l’impresa israeliana Magna BSP, fornitrice dei sistemi di sorveglianza che circondano Gaza, che è entrata in partenariato con imprese statunitensi per inserirsi nel lucroso mercato della “sicurezza di confine” ; la NICE Systems, i cui tecnici sono laureati dell’unità di sorveglianza 8200 dell’esercito israeliano. La ‘Privacy International’ ha indagato su come i governi autocratici di Tajikistan, Kyrgyzstan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakhstan siano riusciti a monitorare attivisti per i diritti umani, giornalisti ed altri cittadini all’interno e fuori dai loro Paesi, rivelando i più intimi dettagli delle loro vite private. “I principali operatori”, ha concluso Human Rights Watch, “sono multinazionali con uffici in Israele – NICE Systems e Verint.”

Nella sua versione definitiva lo Stato sicuritario auspicato da Netanyahu e Katz è essenzialmente un modello di Stato di polizia in cui la popolazione è facilmente manipolata dall’ossessione della sicurezza. Il modello israeliano è particolarmente odioso perché funziona: ne è testimone la pacificazione dei palestinesi. Sembra senza dubbio un buon argomento pubblicitario. Il problema è che trasforma la gente stessa del Paese in palestinesi senza diritti. Sembrerebbe che lo Stato sicuritario possa conciliarsi con la democrazia – dopo tutto, Israele si spaccia come “l’unica democrazia nel Medio Oriente.” Ma solo i pochi privilegiati nel mondo potranno godere delle tutele democratiche dello Stato sicuritario, come fanno gli ebrei israeliani. Le masse, coloro che resistono alla repressione e all’esclusione da parte del sistema capitalistico, coloro che lottano per una vera democrazia, sono condannati ad essere palestinesi globali. L’ ‘israelizzazione’ di governi, eserciti e forze di sicurezza significa la ‘palestinizzazione’ della maggioranza di noi.

Jeff Halper è un antropologo israeliano, direttore del Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case (ICAHD) ed autore del libro “Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale” (Londra, Pluto Books, 2015).[di prossima edizione italiana, ndt]

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La sorveglianza di Gerusalemme rivela una “nuova generazione” di coloni ebrei radicali

Yotam Berger – 27 agosto 2017, Haaretz

Una fonte dello Shin Bet dice che il punto di svolta è stata l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona, e il comportamento prudente dello Shin Bet in quell’occasione. Da allora, attacchi contro palestinesi, attivisti di sinistra e soldati si sono moltiplicati.

Fino a poco tempo fa l’avamposto di Baladim, nei pressi della colonia di Kochav Hashahar in Cisgiordania, preoccupava molto il servizio di sicurezza Shin Bet. Considerava Baladim il centro del terrorismo ebraico in Cisgiordania e attribuiva attacchi contro molti palestinesi, attivisti di sinistra e soldati alle poche decine di giovani che vi si stabilivano in modo saltuariamente.

Da quando è stato evacuato due mesi fa, Baladim è rimasto praticamente vuoto; la cosiddetta “gioventù della collina” [“Hilltop Youth”, gruppi di giovani estremisti ebrei molto violenti, ndt.] non era tornata. Ma lo Shin Bet afferma che questa quiete è ingannevole: negli ultimi mesi la frangia di estremisti si è in realtà rafforzata. Lo Shin Bet la definisce “la seconda generazione dell’infrastruttura della rivolta.”

La prima generazione è stata responsabile, tra le altre azioni, dell’uccisione della famiglia Dawabsheh nel villaggio palestinese di Duma nel 2015 [in cui morirono bruciati vivi un bambino di 18 mesi e i suoi genitori, ndt.] e di aver incendiato la chiesa dei Pani e dei Pesci lo stesso anno. Ora lo Shin Bet teme una nuova ondata di terrorismo ebraico.

Ma persone al corrente sia del lavoro dello Shin Bet che dei “giovani delle colline” considera esagerati i termini “infrastruttura” e “organizzazione terroristica”. Questa “seconda generazione” è solo un gruppo amorfo, sostengono, ed i suoi membri – poche decine di persone dai 16 ai 25 anni – non funzionano come un’organizzazione coordinata e gerarchica.

Sia lo Shin Bet che molti dei giovani delle colline descrivono Meir Ettinger, un nipote del rabbino Meir Kahane [estremista ebreo americano razzista e fondatore del partito “Kach, ndt.] come il leader della prima generazione. Lo stesso nome “la rivolta” viene da un documento che egli scrisse delineando piani per rovesciare il governo. Ma persone in contatto con i giovani delle colline dicono che la decisione dello Shin Bet di fare di Ettinger il bersaglio ebreo più ricercato era essenzialmente una profezia che si autoavverava.

Se avesse potuto avrebbe mandato fiori allo Shin Bet,” dice uno. “Sono loro che hanno fatto di lui una rockstar.”

Lo Shin Bet è orgoglioso di aver smantellato la “prima generazione”, cosa che ha fatto in parte ponendone alcuni membri in detenzione amministrativa, o prigione senza imputazione, e colpendo altri con divieti di ingresso in Cisgiordania. Pur ammettendo che alcune di queste persone non avevano rapporti con gravi crimini come gli assassinii di Duma, lo Shin Bet afferma che queste misure discutibili erano necessarie per smantellare la rete terroristica.

Ma la nascita di una seconda generazione mette in questione l’efficacia di queste tattiche. Il punto di svolta, afferma una fonte dello Shin Bet, è stata l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona in febbraio, e specialmente il comportamento cauto dello Shin Bet in quell’occasione. Da allora attacchi contro palestinesi, attivisti di sinistra e soldati si sono moltiplicati. Lo Shin Bet sostiene che i coloni estremisti veterani hanno iniziato a tornare in Cisgiordania ed altri nuovi si sono uniti alle loro fila.

Il servizio di sicurezza afferma che questo in realtà dimostra l’efficacia delle sue misure amministrative: l’incremento [degli attacchi] è iniziato quando i divieti di ingresso in Cisgiordania sono scaduti. Riguardo alla nuova generazione, non ha subito queste misure, per cui i suoi membri “non provano il timore e l’effetto dissuasivo di molti attivisti veterani,” sostiene il servizio di sicurezza.

Secondo lo Shin Bet la “seconda generazione” consiste in qualche decina di persone. Dall’inizio dell’anno l’esercito israeliano ha emanato 47 ordini amministrativi contro di loro, di cui 28 sono ancora effettivi. Cinque sospetti sono attualmente in arresto, soprattutto per aver violato tali ordini – per esempio, per aver preso contatto con qualcuno che gli ordini vietavano di contattare – e poi hanno rifiutato la libertà condizionata. L’unico detenuto amministrativo, Elia Nativ, è stato rilasciato lo scorso fine settimana.

Il diciannovenne Nativ, della colonia di Yitzahr, è stato arrestato a giugno perché sospettato di coinvolgimento nell’incendio di due villaggi palestinesi e nel tentativo di danneggiare automobili diplomatiche a Gerusalemme nei pressi del consolato spagnolo e una struttura dell’ONU. Ma quando un giudice ha ordinato di liberarlo subito dopo per insufficienza di prove, lo Shin Bet lo ha posto in detenzione amministrativa per due mesi.

In un’intervista con Haaretz, il padre di Nativ, Yitzhak, ha smentito voci di una “seconda generazione della rivolta,” affermando di non pensare che suo figlio “abbia mai parlato con Ettinger.”

Persino il giudice li ha liberati,” nota. “Un’organizzazione terroristica è un’organizzazione che commette attacchi, che intende uccidere persone. Non è qualche ragazzino che lancia qualcosa. Che lo Shin Bet sia addirittura coinvolto in questa faccenda mi sembra allucinante.”

Una retata notturna a Gerusalemme pesca nove sospetti

Nativ è stato arrestato con altri otto durante una retata notturna in un appartamento di Gerusalemme di proprietà di un attivista dell’estrema destra che era all’estero. L’appartamento era abitato saltuariamente da circa 10 persone considerate membri della seconda generazione. Ma di questi arrestati solo Nativ e Hanoch Rabin – che lo Shin Bet considera in realtà parte della prima generazione – erano sospettati di reati contro la proprietà. E Rabin, che in precedenza aveva abitato in vari avamposti illegali in Cisgiordania, è stato rilasciato pochi giorni dopo.

Gli altri sono stati sospettati solo di aver violato ordini amministrativi, e molti sono stati rapidamente rilasciati. Ma uno, Yisrael Meir Samany di Gerusalemme, è stato di nuovo arrestato pochi giorni dopo insieme ad altre due persone, mentre portavano attrezzi che secondo lo Shin Bet pensavano di usare per danneggiare proprietà palestinesi. Un ragazzo di 16 anni che è stato arrestato con Samany è stato rilasciato, ma di nuovo arrestato qualche giorno dopo per aver violato un ordine amministrativo.

Lo Shin Bet afferma che la seconda generazione ha legami con la prima. In base alla sorveglianza dell’appartamento di Gerusalemme prima della incursione notturna, Rabin non era l’unico attivista della prima generazione che vi passava del tempo.

Un altro arrestato quella notte è stato Moshe Shahor, diciannovenne di Ramle, un altro attivista coinvolto in avamposti illegali. Suo nonno, Dov Lior, è rabbino nella colonia di Kiryat Arba [nei pressi di Hebron, una delle colonie più estremiste dei Territori Occupati, ndt.]. Shahor è stato arrestato per la violazione di un ordine amministrativo ma ha rifiutato la libertà condizionata, per cui è rimasto in carcere.

In seguito Shahor ha scritto una lettera al capo del fronte interno dell’esercito israeliano che ha firmato l’ordine amministrativo contro di lui, che è circolata tra gli attivisti dell’estrema destra.

Neanche lei pensa che il caso di un adolescente che incontra un amico per mangiare una pizza per qualche minuto sia davvero un fatto in grado di mettere in pericolo la sicurezza della regione,” ha scritto. “Al contrario, ciò dimostra chiaramente che quest’ordine intendeva liquidare i giovani delle colline…Il giudice ha proposto che io sia liberato dopo essermi impegnato a rispettare l’ordine amministrativo e a non parlare con quelli con cui mi aveva proibito di parlare. Ma ho deciso che ne avevo abbastanza. Questa volta non voglio firmare.”

Un altro attivista veterano degli avamposti che ha rifiutato la libertà condizionata è David Chai Hasdai, 22 anni. “Per tre anni mi hanno dato ordini che mi hanno allontanato dai miei amici,” ha detto in tribunale, secondo amici che erano presenti. “Non voglio obbedire a questo ordine.”

Altre persone arrestate in quella retata erano di una generazione più giovane, compresi alcuni minorenni. Sono tutti religiosi. Molti, se non tutti, sono di colonie della Cisgiordania. La maggior parte, anche se non tutti, provengono da famiglie stabili.

L’avvocato Chaim Blaycher dell’organizzazione Honenu, che difende molti giovani delle colline, afferma che per la maggior parte sono “davvero bravi ragazzi”, che hanno più bisogno di assistenti sociali che del carcere – un’affermazione ripetuta da altri adulti che li conoscono. Un parente di uno degli adolescenti arrestati afferma che molti ad un certo punto hanno lasciato la scuola per impegnarsi in lavori agricoli o nell’allevamento in avamposti della Cisgiordania.

L’avvocato Itamar Ben-Gvir, un attivista veterano del partito di Kahane che difende anche lui molti giovani delle colline, smentisce allo stesso modo voci di una “rivolta” organizzata con la prima e la seconda generazione, affermando che ciò “nasce o dalla mancanza di comprensione della situazione nella zona o dal fatto che lo Shin Bet vuole finire in prima pagina.”

Blaycher sostiene inoltre che nessuno si sognerebbe di coinvolgere lo Shin Bet per un adolescente laico accusato di danneggiare automobili. Ben-Gvir condivide. Benché gli atti vandalici non siano stati chiariti, dice, “lo stesso Shin Bet ammette che questo gruppo, che chiama la ‘seconda generazione’, non ha attaccato esseri umani,” e gli atti vandalici non riguardano il lavoro dello Shin Bet. “Se la loro visione del mondo fosse diversa, lo Shin Bet non sarebbe coinvolto in questa faccenda,” aggiunge.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




State attenti, giardinieri e commesse di Gaza

Il calvario di un onesto appaltatore di un’agenzia delle Nazioni Unite dimostra il potere che Israele esercita su chiunque a Gaza. La colpa è solo di Hamas

Amira Hass, 11 gennaio 2017 Haaretz

Waheed al-Bursh, un appaltatore del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, tornerà a casa sua nella Striscia di Gaza giovedì, sette mesi dopo essere stato arrestato al checkpoint di Erez. E’ una sconfitta per il servizio di sicurezza dello Shin Bet, che ha tentato di incastrarlo con una serie di accuse di aver aiutato Hamas per anni.

E’ una situazione inbarazzante anche per l’accusa, che è uscita dall’immagine in cui lo Shin Bet l’ aveva dipinta ed ha raggiunto un patteggiamento con l’avvocato di Bursh, Lea Tsemel. Ed è un tacito ammonimento di come i media israeliani, che in agosto hanno tranquillamente pubblicato falsi rapporti basati su informazioni distorte, hanno condannato Bursh senza processo come terrorista o attivista di Hamas infiltrato nell’agenzia dell’ONU.

17 giorni di interrogatori da parte dello Shin Bet, interrogatori da parte della polizia, quattro o cinque giorni in una cella con degli informatori, collaboratori che si spacciavano per prigionieri per ragioni di sicurezza – nulla di tutto ciò ha potuto provare il giudizio emesso dallo Shin Bet e dai media.

Di tutte le accuse di “contatto con un agente straniero”, “aver fornito servizi ad un’organizzazione illegale” e “uso di materiale terroristico”, l’accusa ne ha mantenuta solo una: la seconda. Mercoledì scorso Bursh è stato condannato in base ad essa.

Il giudice Aharon Mishnayot della Corte distrettuale di Be’er Sheva ha detto che si trattava di un’accusa grave e lo stesso ha detto il rappresentante dell’accusa del distretto meridionale, Shuli Rothschild. Hanno dovuto dirlo per giustificare il clamore che ha preceduto il processo. Ma la sentenza, con pena già scontata, afferma il contrario: non è grave.

Allora di che cosa si trattava? Uno dei compiti del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite è di rimuovere e sistemare le macerie prodotte dai bombardamenti di Israele a Gaza nell’estate 2014 (un totale di circa 2 milioni di tonnellate). Bursh era responsabile del trasporto di questi detriti in luoghi predisposti dal Ministero dei Lavori Pubblici del governo di riconciliazione di Ramallah. All’inizio del 2015 gli venne richiesto da funzionari di quel ministero nella Striscia di trasportare parte delle macerie in un sito nel nord di Gaza.

Bursh spiegò che una tale richiesta doveva pervenire attraverso canali ufficiali e che lui non poteva decidere. Allora dal ministero di Ramallah arrivò una richiesta ufficiale al Programma di Sviluppo ONU di trasportare le macerie al porto peschiero a nord di Gaza, per evitare l’arretramento del litorale.

Bursh trasportò circa 300 tonnellate, che un anno dopo, appena prima del suo arresto nel luglio 2016, erano ancora ammassate lungo la strada. Lui non sapeva che Hamas intendeva chiudere quella parte della spiaggia.

Come molti funzionari nei ministeri del governo a Gaza, i due ufficiali del Ministero dei Lavori Pubblici che contattarono Bursh erano uomini di Hamas e noti membri della sua ala militare. Bursh è stato condannato per aver omesso di riferire ai suoi superiori che erano questi i due funzionari che lo avevano contattato, “chiudendo gli occhi sul favore che ciò costituiva per l’ala militare di Hamas”, come ha scritto Mishnayot.

Il giudice, un ex presidente della corte d’appello militare e residente della colonia di Efrat, avrebbe anche dovuto scrivere che il Programma di Sviluppo ed altre agenzie dell’ONU stanno fornendo un grande servizio ad Israele. Nelle impossibili condizioni di divieti e restrizioni imposte da Israele, queste agenzie evitano un disastro umanitario ancor peggiore a Gaza.

Israele ha definito Hamas un’organizzazione illegale. A Gaza Hamas è il governo de facto, che deve anche fornire servizi alla popolazione, e lo sta facendo. Attivisti delle componenti civile e militare di Hamas sono stati inseriti in diverse funzioni del settore pubblico.

Bursh aveva tutte le ragioni per credere che gli uomini che lo avevano contattato lo avevano fatto nel loro ruolo di funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici. Li ha considerati canali ufficiali – che Israele controlla. Questo gli è costato lo sconvolgimento della sua vita, sette mesi di prigione, duri interrogatori, danni alla sua salute, la separazione dalla sua famiglia e la preoccupazione per il suo futuro professionale e finanziario.

Quale è il messaggio? Quando vuole, Israele può condannare e distruggere la vita di qualunque giardiniere nel comune di Gaza, di ogni commessa di un negozio di abbigliamento o di qualunque venditore di falafel. La motivazione? “Fornire dei servizi ad un’organizzazione illegale.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)