Il crollo del sionismo

Ilan Pappé

21 giugno 2024-The New Left Review

L’assalto di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe cominciavano già a farsi vedere, ma ora sono visibili fin dalle fondamenta. A più di 120 anni dalla sua nascita il progetto sionista in Palestina – l’idea di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo, musulmano e mediorientale – potrebbe essere di fronte alla prospettiva del collasso? Storicamente una pluralità di fattori può causare il capovolgimento di uno stato. Può derivare da continui attacchi da parte dei paesi vicini o da una guerra civile cronica. Può derivare dal crollo delle istituzioni pubbliche che diventano incapaci di fornire servizi ai cittadini. Spesso inizia come un lento processo di disintegrazione che acquista slancio e poi, in un breve periodo di tempo, fa crollare strutture che una volta apparivano solide e stabili.

La difficoltà sta nell’individuare i primi indicatori. Qui sosterrò che questi sono più chiari che mai nel caso di Israele. Stiamo assistendo a un processo storico – o, più precisamente, all’inizio di uno – che probabilmente culminerà nella caduta del sionismo. E, se la mia diagnosi è corretta, allora stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa. Perché una volta che Israele si renderà conto della portata della crisi, scatenerà una forza feroce e disinibita per cercare di contenerla, come fece il regime di apartheid sudafricano nei suoi ultimi giorni.

1.

Un primo indicatore è la frattura della società ebraica israeliana. Attualmente è composta da due schieramenti rivali che non riescono a trovare un terreno comune. La spaccatura deriva dalle anomalie nel definire l’ebraismo come nazionalismo. Mentre a volte l’identità ebraica in Israele è sembrata poco più che un argomento di dibattito teorico tra fazioni religiose e laiche, ora è diventata una lotta sul carattere della sfera pubblica e dello Stato stesso. Questa lotta viene combattuta non solo nei media ma anche nelle strade.

Un campo può essere definito lo “Stato di Israele”. Comprende ebrei europei più laici, liberali e soprattutto, ma non esclusivamente, appartenenti alla classe media e ai loro discendenti, che furono determinanti nella creazione dello Stato nel 1948 e rimasero egemoni al suo interno fino alla fine del secolo scorso. Non lasciatevi fuorviare, la loro difesa dei “valori democratici liberali” non influisce sulla loro adesione al sistema di apartheid che viene imposto in vari modi a tutti i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il loro desiderio fondamentale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista dalla quale gli arabi siano esclusi.

L’altro campo è lo “Stato della Giudea”, che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata. Gode ​​di livelli crescenti di sostegno all’interno del Paese e costituisce la base elettorale che ha assicurato la vittoria di Netanyahu alle elezioni del novembre 2022. La sua influenza ai vertici dell’esercito e dei servizi di sicurezza israeliani sta crescendo in modo esponenziale. Lo Stato della Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia che si estenda su tutta la Palestina storica. Per raggiungere questo obiettivo è determinato a ridurre il numero dei palestinesi al minimo indispensabile e sta contemplando la costruzione di un Terzo Tempio al posto di al-Aqsa. I suoi membri credono che ciò consentirà loro di rinnovare l’era d’oro dei Regni Biblici. Per loro se gli ebrei laici rifiutano di unirsi a questo sforzo essi sono eretici quanto i palestinesi.

I due campi avevano cominciato a scontrarsi violentemente prima del 7 ottobre. Nelle prime settimane dopo l’assalto sembravano accantonare le loro divergenze di fronte a un nemico comune. Ma questa era un’illusione. Gli scontri di strada si sono riaccesi ed è difficile vedere cosa potrebbe portare alla riconciliazione. Il risultato più probabile si sta già svolgendo davanti ai nostri occhi. Più di mezzo milione di israeliani, appartenenti alla fazione “Stato di Israele”, hanno lasciato il Paese da ottobre, segno che il Paese viene inghiottito dallo “Stato di Giudea”. Si tratta di un progetto politico che il mondo arabo, e forse anche il mondo in generale, non tollererà a lungo termine.

2.

Il secondo indicatore è la crisi economica di Israele. La classe politica non sembra avere alcun piano per riequilibrare le finanze pubbliche in mezzo a conflitti armati perpetui, oltre a diventare sempre più dipendente dagli aiuti finanziari americani. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, l’economia è crollata di quasi il 20%; da allora la ripresa è stata fragile. È improbabile che l’impegno di Washington di 14 miliardi di dollari possa invertire questa situazione. Al contrario la congiuntura economica non potrà che peggiorare se Israele porterà avanti la sua intenzione di entrare in guerra con Hezbollah e allo stesso tempo intensificherà l’attività militare in Cisgiordania, in un momento in cui alcuni paesi – tra cui Turchia e Colombia – hanno iniziato ad applicare misure economiche sanzionatorie.

La crisi è ulteriormente aggravata dall’incompetenza del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che incanala costantemente denaro verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma sembra per il resto incapace di gestire il suo dipartimento. Il conflitto tra lo “Stato di Israele” e lo “Stato di Giudea”, insieme agli eventi del 7 ottobre, sta portando alcune élite economiche e finanziarie a spostare i propri capitali fuori dallo Stato. Coloro che stanno pensando di delocalizzare i propri investimenti costituiscono una parte significativa del 20% degli israeliani che pagano l’80% delle tasse.

3.

Il terzo indicatore è il crescente isolamento internazionale di Israele che sta gradualmente diventando uno stato paria. Questo processo è iniziato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio. Ciò si riflette nelle posizioni senza precedenti adottate dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale. In precedenza, il movimento globale di solidarietà con la Palestina era riuscito a galvanizzare le persone a partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non è riuscito a promuovere la prospettiva di sanzioni internazionali. Nella maggior parte dei paesi [occidentali, n.d.t.] il sostegno a Israele è rimasto incrollabile tra l’establishment politico ed economico.

In questo contesto le recenti decisioni della CIG e della CPI – secondo cui: è plausibile che Israele stia commettendo un genocidio; esso deve fermare la sua offensiva a Rafah; i suoi leader potrebbero essere arrestati per crimini di guerra – devono essere viste come un tentativo di tenere conto delle opinioni della società civile mondiale, invece di riflettere semplicemente l’opinione delle élite. I tribunali non hanno attenuato i brutali attacchi contro la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Ma hanno contribuito al crescente coro di critiche rivolte allo Stato israeliano, che provengono sempre più sia dall’alto che dal basso.

4.

Il quarto indicatore, interconnesso, è il cambiamento epocale tra i giovani ebrei di tutto il mondo. In seguito agli eventi degli ultimi nove mesi molti ora sembrano disposti ad abbandonare il loro legame con Israele e con il sionismo e a partecipare attivamente al movimento di solidarietà palestinese. Le comunità ebraiche, in particolare negli Stati Uniti, un tempo fornivano a Israele un’efficace immunità contro le critiche. La perdita, o almeno la perdita parziale, di questo sostegno ha importanti implicazioni per la posizione globale del Paese. L’AIPAC può ancora fare affidamento sui sionisti cristiani per assistere e puntellare i suoi membri, ma non sarà la stessa formidabile organizzazione senza un significativo elettorato ebraico. Il potere della lobby si sta erodendo.

5.

Il quinto indicatore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che l’IDF rimanga una forza potente con armi all’avanguardia a sua disposizione. Eppure i suoi limiti sono stati messi in luce il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che l’esercito sia stato estremamente fortunato poiché la situazione avrebbe potuto essere molto peggiore se Hezbollah si fosse unito all’ attacco in modo coordinato. Da allora, Israele ha dimostrato di fare disperatamente affidamento su una coalizione regionale, guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, il cui attacco di avvertimento in aprile ha visto il dispiegamento di circa 170 droni oltre a missili balistici e guidati. Oggi più che mai il progetto sionista dipende dalla rapida consegna di enormi quantità di rifornimenti da parte degli americani, senza i quali non potrebbe nemmeno combattere un piccolo esercito di guerriglieri nel sud.

C’è ora tra la popolazione ebraica del paese una percezione diffusa dell’impreparazione e dell’incapacità di Israele di difendersi. Ciò ha portato a forti pressioni per rimuovere l’esenzione militare per gli ebrei ultra-ortodossi – in vigore dal 1948 – e iniziare ad arruolarne a migliaia. Ciò difficilmente farà molta differenza sul campo di battaglia, ma riflette la portata del pessimismo nei confronti dell’esercito – che a sua volta ha approfondito le divisioni politiche all’interno di Israele.

6.

L’ultimo indicatore è la rinnovata energia delle giovani generazioni di palestinesi. Queste sono molto più unite, organicamente connesse e chiare riguardo alle loro prospettive rispetto all’élite politica palestinese. Dato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania è tra le più giovani al mondo questa nuova fascia di età avrà un’enorme influenza nel corso della lotta di liberazione. Le discussioni che hanno luogo tra i giovani gruppi palestinesi mostrano che sono preoccupati di creare un’organizzazione genuinamente democratica – o un’OLP rinnovata, o una nuova del tutto – che persegua una visione di emancipazione che è antitetica alla campagna dell’Autorità Palestinese per il riconoscimento come Stato. Sembrano preferire una soluzione a uno Stato rispetto a uno screditato modello a due Stati.

Saranno in grado di organizzare una risposta efficace al declino del sionismo? Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Al crollo di un progetto statale non sempre segue un’alternativa più brillante. Altrove in Medio Oriente – in Siria, Yemen e Libia – abbiamo visto quanto sanguinosi e prolungati possano essere i risultati. In questo caso si tratterebbe di decolonizzazione e il secolo scorso ha dimostrato che le realtà postcoloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’azione dei palestinesi può portarci nella giusta direzione. Credo che, prima o poi, una fusione esplosiva di questi indicatori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando ciò accadrà, dobbiamo sperare che un robusto movimento di liberazione sia lì per riempire il vuoto.

Per più di 56 anni quello che è stato definito il “processo di pace” – un processo che non ha portato da nessuna parte – è stato in realtà una serie di iniziative americano-israeliane alle quali si chiedeva ai palestinesi di rispondere. Oggi la “pace” deve essere sostituita con la decolonizzazione e i palestinesi devono essere in grado di articolare la loro visione per la regione, mentre gli israeliani devono rispondere. Ciò segnerebbe la prima volta, almeno da molti decenni, in cui il movimento palestinese prenderebbe l’iniziativa di presentare le sue proposte per una Palestina postcoloniale e non sionista (o come verrà chiamata la nuova entità). Nel fare ciò, probabilmente guarderà all’Europa (forse ai cantoni svizzeri e al modello belga) o, più appropriatamente, alle vecchie strutture del Mediterraneo orientale, dove i gruppi religiosi secolarizzati si trasformarono gradualmente in gruppi etnoculturali che vivevano fianco a fianco nello stesso territorio.

Che le persone accolgano l’idea o la temano, il collasso di Israele è diventato prevedibile. Questa possibilità dovrebbe orientare il dibattito a lungo termine sul futuro della regione. Sarà inserito all’ordine del giorno man mano che le persone si renderanno conto che il tentativo secolare, guidato dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti, di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo sta lentamente giungendo al termine. Ha avuto abbastanza successo da creare una società di milioni di coloni, molti dei quali ora sono di seconda e terza generazione. Ma la loro presenza dipende ancora, come al loro arrivo, dalla capacità di imporre con la violenza la propria volontà a milioni di indigeni, che non hanno mai rinunciato alla lotta per l’autodeterminazione e la libertà nella loro patria. Nei decenni a venire i coloni dovranno abbandonare questo approccio e mostrare la loro volontà di vivere come cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




In che modo Israele distorce le accuse di antisemitismo per proiettare i propri crimini sui palestinesi

Amos Goldberg e Alon Confino

21 maggio 2024 – +972 Magazine

Il contenuto delle istigazioni attribuite da Israele e dai suoi sostenitori ai palestinesi viene apertamente affermato dai politici israeliani e attuato dallesercito israeliano.

Sulla scia della proliferazione di accampamenti studenteschi filo-palestinesi nei campus universitari americani, le accuse di antisemitismo sono tornate al centro del discorso politico statunitense e globale. Indubbiamente, come hanno sottolineato Peter Beinart e altri, in alcune di queste proteste sono apparse espressioni di antisemitismo, ma la loro prevalenza è stata notevolmente esagerata. In effetti, influenti personaggi ebrei e non ebrei nei media e nella politica hanno deliberatamente cercato di creare un panico morale pubblico confondendo le dure critiche a Israele e al sionismo con lantisemitismo.

Questa fusione è il risultato di una campagna decennale condotta da Israele e dai suoi sostenitori in tutto il mondo per ostacolare lopposizione alle violente politiche statali di occupazione, apartheid e dominio sui palestinesi, che negli ultimi sette mesi hanno assunto proporzioni immense e plausibilmente genocide.

Questa strategia non è solo cinica, ipocrita e dannosa per la lotta essenziale contro il vero antisemitismo. Permette anche a Israele e ai suoi sostenitori, come qui sosterremo, di negare i crimini e il discorso violento di Israele invertendoli e proiettandoli sui palestinesi e sui loro sostenitori, e chiamando ciò antisemitismo.

Questo meccanismo psico-discorsivo di inversione e proiezione è alla base del documento fondamentale della cosiddetta lotta contro lantisemitismo”: la definizione di antisemitismo dell International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dellOlocausto] (IHRA), che Israele e i suoi alleati promuovono aggressivamente in tutto il mondo.

In risposta alle proteste studentesche la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha recentemente approvato un disegno di legge che, se approvato dal Senato, trasformerebbe in legge questa definizione, nonostante il fatto che la stessa IHRA la descriva come una definizione operativa giuridicamente non vincolante.”

Inversione e proiezione attraverso una definizione

L’IHRA è un’influente organizzazione internazionale composta da 35 Stati membri principalmente del Nord del mondo (compresi Israele e l’Europa orientale). Nel 2016 lorganizzazione ha adottato una definizione operativa di antisemitismo che include una vaga connessione dellantisemitismo all’ odio verso gli ebrei” insieme a 11 esempi che pretendono di illustrarlo; sette di questi si concentrano su Israele, equiparando essenzialmente allantisemitismo la critica a Israele e lopposizione al sionismo. Ciò ha quindi scatenato enormi polemiche nel mondo ebraico e non solo, nonostante la sua adozione da parte di decine di Paesi e centinaia di organizzazioni, da università a società calcistiche.

Nel corso degli anni sono stati registrati infiniti esempi che dimostrano come questa definizione serva a frenare la libertà di parola, a mettere a tacere le critiche nei confronti di Israele perseguendo chiunque le muova. Tanto che Kenneth Stern, che è stato il principale estensore della definizione, ne è diventato il principale oppositore. Definizioni alternative come la Dichiarazione di Gerusalemme sullantisemitismo (tra i cui promotori e redattori figurano gli autori di questo articolo) sono state suggerite come strumenti più accurati e meno politicamente distorti da utilizzare per scopi educativi nella lotta allantisemitismo.

Fondamentalmente, la definizione dellIHRA è una manifestazione del meccanismo di inversione e proiezione attraverso il quale Israele e i suoi sostenitori negano i crimini di Israele e li attribuiscono ai palestinesi. Uno degli esempi della definizione afferma, ad esempio, che negare al popolo ebraico il diritto allautodeterminazione” è antisemita. Eppure la politica ufficiale di Israele di insediamento coloniale, occupazione e annessione negli ultimi decenni ha negato al popolo palestinese il diritto allautodeterminazione.

Questa politica è stata intensificata sotto Benjamin Netanyahu, che nel gennaio 2024 ha pubblicamente promesso di opporsi a qualsiasi tentativo di creare uno Stato palestinese. Inoltre, facendo eco alla Legge sullo Stato-Nazione ebraico del 2018, i principi guida fondamentali della coalizione di governo dichiarano che il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile su tutte le aree della Terra di Israele”. Mentre Israele ostacola attivamente lautodeterminazione palestinese, la definizione dellIHRA inverte questa affermazione e la proietta sugli stessi palestinesi, definendola antisemitismo.

Secondo la definizione dellIHRA fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella nazista” è un altro esempio di antisemitismo. Anche qui il modello di inversione e proiezione è evidente, poiché Israele e i suoi sostenitori collegano continuamente gli arabi e soprattutto i palestinesi ai nazisti.

Questo è un discorso profondamente radicato e molto popolare in Israele. Parte da David Ben-Gurion, il primo presidente del consiglio israeliano, che vedeva gli arabi che combattevano Israele come i successori dei nazisti e giunge fino a Benjamin Netanyahu, che sostiene che Hamas è il nuovo nazismo e al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha recentemente affermato che ci sono 2 milioni di nazisti nella Cisgiordania occupata.

Alla luce di queste ipocrisie, laffermazione contenuta nella definizione dellIHRA secondo cui applicare doppi standard” nei giudizi morali su Israele è antisemita è un ulteriore esempio di questo meccanismo di inversione e proiezione. La stessa definizione dellIHRA utilizza doppi standard: mentre a Israele è consentito negare ai palestinesi il diritto allautodeterminazione e paragonarli ai nazisti, la definizione afferma che negare agli ebrei il diritto allautodeterminazione e tracciare collegamenti tra la politica israeliana e quella nazista è antisemita.

In difesa del genocidio

Come rilevato durante la recente audizione al Congresso degli Stati Uniti di tre rettrici di università americane d’élite, questo meccanismo psico-discorsivo va oltre la definizione dellIHRA. Un momento chiave ha fatto seguito alla domanda della deputata repubblicana Elise Stefanik alle rettrici se le loro istituzioni avrebbero tollerato le denunce riguardanti il genocidio contro gli ebrei.

“Presumo che lei abbia familiarità con il termine intifada, giusto?” ha chiesto Stefanik a Claudine Gay, rettrice dell’Università di Harvard. E lei comprende,” ha continuato, che luso del termine intifada nel contesto del conflitto arabo-israeliano è effettivamente un appello alla resistenza armata violenta contro lo Stato di Israele, compresa la violenza contro i civili e il genocidio degli ebrei. Ne è a consapevole?”

Questa equazione tra intifada e genocidio è infondata: intifada è la parola araba per una rivolta popolare contro loppressione e per la liberazione e la libertà (il verbo intafad انتفاض significa letteralmente scrollarsi di dosso”). Si tratta di un appello all’emancipazione ripetuto più volte nel mondo arabo contro i regimi oppressivi, e non solo contro Israele. Unintifada può essere violenta, come lo è stata la Seconda Intifada in Israele-Palestina tra il 2000 e il 2005, o non violenta, come lo è stata in larga misura la Prima Intifada tra il 1987 e il 1991, o l’“Intifada di WhatsApp” in Libano nel 2019. Detto questo, l’unica traccia di genocidio risiede nell’immaginazione di Stefanik e dei suoi pari. Questo è stato un momento fatale: Stefanik ha teso una trappola a Gay e Gay ci è caduta.

Un altro esempio di falsa e insidiosa accusa è laffermazione di Israele e dei suoi sostenitori secondo cui lo slogan di liberazione palestinese Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” sarebbe genocida e antisemita. Come hanno sostenuto gli storici Maha Nasser, Rashid Khalidi e altri, la stragrande maggioranza dei palestinesi e dei loro sostenitori che scandiscono questo slogan vuole semplicemente dire che la terra della Palestina storica sarà liberata politicamente – nel ripudio assoluto dellattuale realtà della mancanza di libertà sotto varie forme per i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Ciò potrebbe assumere la forma di uno Stato con uguali diritti per tutti, di due Stati nazionali completamente indipendenti o di una sorta di accordo binazionale o confederale.

In entrambi questi casi, Israele e i suoi sostenitori trovano un appello al genocidio contro gli ebrei laddove questo non esiste. Eppure in Israele, dopo i massacri e le atrocità del 7 ottobre, solo nei primi tre mesi molti leader israeliani, ministri del gabinetto di guerra, politici, giornalisti e rabbini hanno invocato esplicitamente e apertamente un genocidio a Gaza in più di 500 casi documentati, alcuni dei quali nel corso di programmi televisivi in prima serata. Ciò è stato evidenziato in modo scioccante davanti agli occhi del mondo intero nella causa che il Sud Africa ha presentato contro Israele a dicembre presso la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ).

Tra di loro, ad esempio, il presidente Isaac Herzog, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu. Più recentemente, linfluente rabbino Eliyahu Mali ha esortato lesercito israeliano a uccidere tutti i bambini e le donne a Gaza, mentre [il ministro delle Finanze] Smotrich ha chiesto lannientamento totale delle città di Rafah, Deir al-Balah e Nuseirat. Tali voci rappresentano unampia fascia dellopinione pubblica israeliana e corrispondono a ciò che sta realmente accadendo sul campo.

Il 26 gennaio la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una sentenza provvisoria in cui dichiara che esiste un rischio plausibile” che il diritto dei palestinesi ad essere protetti dal genocidio venga violato. Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata, con Israele che ha esteso la sua invasione a Rafah e ha deliberatamente affamato la popolazione di Gaza di 2,3 milioni di persone.

Molti studiosi di genocidio – tra cui Raz Segal, Omer Bartov, Ronald Grigor Suny, Marion Kaplan, Amos Goldberg e Victoria Sanford – sono giunti più o meno alla stessa conclusione della Corte Internazionale di Giustizia. Anche la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, nel suo recente rapporto Anatomia di un genocidio”, ha affermato che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che la soglia che indica che Israele abbia commesso un genocidio sia stata raggiunta”.

Pertanto funzionari e personaggi pubblici israeliani dichiarano esplicitamente e apertamente, e lesercito israeliano mette in atto, i contenuti delle accuse di istigazione rivolte da Israele e dai suoi sostenitori contro i palestinesi. E mentre i palestinesi e i loro sostenitori inneggiano alla liberazione dal fiume al mare”, Israele sta rafforzando la supremazia ebraica dal fiume al mare” sotto forma di occupazione, annessione e apartheid.

Suggeriamo quindi di interpretare questa inversione e proiezione non solo come un classico caso di doppi standard ipocriti contro i palestinesi, ma anche – come spesso accade con i processi di proiezione – come un meccanismo di difesa attraverso la negazione. Israele e i suoi sostenitori non possono smentire loppressiva struttura dellapartheid dello Stato, la delegittimazione dei palestinesi, o la retorica e i crimini genocidi, quindi distorcono queste accuse e le trasferiscono sui palestinesi.

La cosiddetta lotta contro lantisemitismo” che Israele e i suoi sostenitori stanno conducendo, fondata sulla definizione di antisemitismo dellIHRA, dovrebbe quindi essere vista come lennesimo mezzo utilizzato da uno Stato potente per negare i suoi atti criminali e le atrocità di massa. Il governo degli Stati Uniti deve assolutamente respingerlo.

Amos Goldberg è un docente di storia dell’Olocausto. I suoi libri più recenti sono Trauma in First Person: Diary Writing during lOlocausto” [Trauma in prima persona: note di diario durante l’Olocausto] e un libro co-edito con Bashir Bashir, The Holocaust and the Nakba: A New Grammar of Trauma and History.” [ed. italiana: Olocausto e Nakba”, Zikkaron]

Alon Confino è titolare della cattedra Pen Tishkach di studi sull’Olocausto presso l’Università del Massachusetts, Amherst. Il suo libro più recente è “A World Without Jews: The Nazi Imagination from Persecution to Genocide” [ed. Italiana: Un mondo senza ebrei. L’immaginario nazista dalla persecuzione al genocidio”, Mondadori].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le proteste nei campus: potrebbe essere il momento in cui Israele perde l’Occidente

David Hearst

29 aprile 2024 – Middle East Eye

Il movimento di protesta contro la guerra a Gaza ha rivitalizzato la causa nazionale palestinese e una nuova generazione di ebrei americani si sta opponendo all’identificazione con il sionismo.

Dal punto di vista militare l’offensiva del Tet, un attacco di sorpresa lanciato dai vietcong e dall’esercito nordvietnamita in Vietnam nel gennaio 1968, fu un fallimento.

Intendeva provocare un’insurrezione generale nel Vietnam del Sud che non scoppiò mai. Dopo la sorpresa iniziale l’esercito sudvietnamita e le forze USA si riorganizzarono e inflissero gravissime perdite alle migliori truppe vietcong.

Ma ebbe conseguenze molto importanti sulla guerra in Vietnam.

Il generale Tran Do, il comandante nordvietnamita della battaglia di Hue [una delle principali città del Paese e dove più duri furono i combattimenti, ndt.], ricordò: “Ad essere onesti, non raggiungemmo il nostro principale obiettivo, che era scatenare una rivolta in tutto il Sud. Eppure infliggemmo gravissime perdite agli americani e ai loro fantocci e questo fu un grande risultato per noi. Quanto ad avere un impatto sugli Stati Uniti, non era nelle nostre intenzioni, ma si dimostrò un risultato fortunato.”

L’offensiva del Tet si dimostrò un punto di svolta nell’appoggio dell’America alla guerra.

Il Pentagono venne sottoposto a critiche senza precedenti per le sue ottimistiche affermazioni sull’andamento della guerra e mentre i vietcong persero 30.000 soldati, l’anno seguente gli Usa subirono 11.780 caduti, dimostrando così le capacità di resistenza militare del Nord.

Si aprì un’ampia frattura nella credibilità tra l’allora presidente Lyndon B. Johnson (KBJ) e l’opinione pubblica. Lo stesso LBJ perse fiducia nei comandi militari e li sostituì.

Nel 1968 la Columbia University divenne uno degli epicentri delle proteste contro la guerra, spinte dai legami dell’università con l’industria bellica. Gli studenti occuparono cinque edifici e tennero in ostaggio per 36 ore Henry Coleman, il preside. C’è l’immagine iconica di uno studente che fuma un sigaro nel suo ufficio.

Venne fatta entrare la polizia. Ci furono centinaia di studenti arrestati, feriti, uno sciopero e poi le dimissioni del rettore della Columbia, Grayson Kirk. Le proteste contro la guerra raggiunsero l’apice fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica di Chicago e in seguito vennero viste come una delle ragioni dell’elezione di Richard Nixon.

Nel contempo il movimento contro la guerra si era esteso come un incendio a tutto il mondo.

Ci fu un’enorme manifestazione a Berlino ovest. Il Vietnam fu una delle scintille che provocarono settimane di scontri di piazza nella rivolta di operai e studenti del maggio ’68 a Parigi e in tutta la Francia. Ancor oggi si possono vedere fori di proiettile nel Marais, [quartiere] di Parigi.

Il movimento di protesta del maggio ’68 ebbe politicamente vita breve. L’insurrezione di Parigi finì in dieci settimane, benché a un certo punto l’Eliseo arrivò talmente vicino a perdere il controllo della situazione che il presidente in carica, De Gaulle, scappò dal Paese.

Il presidente francese si rifugiò nel caldo abbraccio della Nato. Dove altro avrebbe potuto andare? Scappò nel quartier generale dell’esercito francese in Germania insieme agli alleati della Nato.

Il giorno dopo mezzo milione di lavoratori sfilarono a Parigi scandendo “De Gaulle addio”. De Gaulle riuscì a vincere le successive elezioni, ma lo shock della notizia fu profondo. Tutto questo in Francia cambiò un’intera generazione.

Il 1968 oggi

Sono molti i paralleli tra il movimento di protesta del ’68 contro la guerra del Vietnam e le attuali proteste globali contro la guerra a Gaza.

Come nell’offensiva del Tet, l’evasione di massa dalla prigione di Gaza organizzata dalle Brigate al-Qassam il 7 ottobre è andata fuori controllo in poche ore. Ciò è stato dovuto in parte all’inaspettatamente rapido collasso della brigata Gaza dell’esercito israeliano nel sud di Israele.

Un attacco contro obiettivi militari, in cui sono stati uccisi centinaia di soldati israeliani, si è trasformato in una serie di massacri contro civili, sia abitanti di kibbutz che spettatori di un festival musicale in cui si sono imbattuti Hamas e altri gruppi scatenati oltre il confine. Secondo le fonti ufficiali di uno Stato del Golfo, l’attacco del 7 ottobre è stato la madre di ogni errore di calcolo.

Ma la risposta israeliana, la distruzione sistematica di Gaza durata sette mesi, una campagna genocida contro ogni cittadino e famiglia nella Striscia indipendentemente dall’affiliazione, la distruzione delle loro case, ospedali, scuole, università, ha determinato un punto di svolta nell’opinione pubblica mondiale.

Ancora una volta l’appoggio a questa guerra è fornito da un presidente democratico USA in un anno elettorale. Ancora una volta la Columbia è stata al centro della rivolta, con un accampamento di protesta contro l’attacco israeliano che ha provocato un’ondata di azioni simili nei campus dei college in tutti gli USA.

Columbia, Yale e Harvard sono tutte nel mirino di questa rivolta studentesca a causa dei legami delle università con Israele.

Alla Columbia gli studenti chiedono che l’università ponga fine agli investimenti nei giganti della tecnologia Amazon e Google che hanno un contratto di 1.2 miliardi di dollari per una super cloud di dati con il governo di Tel Aviv.

A Yale gli studenti stanno chiedendo che l’università disinvesta da “ogni impresa di produzione bellica che contribuisce all’aggressione israeliana contro la Palestina”. Yale ha scambi di studenti con sette università israeliane. Harvard ha programmi con tre di queste università, mentre la Columbia ha rapporti con quattro di esse.

Come nel 1968 molte di queste proteste sono state represse con la forza. Il preside della Columbia Nemat Minouche Shafik ha ordinato alla polizia di New York di disperdere l’accampamento di 50 tende sul South Lawn [il prato che si trova nella parte sud del campus, ndt.], il che ha portato all’arresto di 100 studenti della Columbia e del Barnard College, compresa la figlia della parlamentare statunitense Ilhan Omar.

Gli studenti sono stati anche sospesi dalle lezioni ed è stato detto loro che non potranno terminare il semestre accademico. A Yale 50 manifestanti sono stati arrestati con l’accusa di “violazione aggravata di proprietà privata”. In Ohio i dimostranti sono stati picchiati e colpiti con i taser. Circa 900 manifestanti sono stati arrestati in tutto il Paese dal primo scontro alla Columbia, il 18 aprile.

Niente di tutto ciò è nuovo.

Nel 1970 la Guardia Nazionale dell’Ohio aprì il fuoco contro i manifestanti uccidendone quattro e ferendo nove studenti in quello che è noto come il massacro della [università] Kent State. Allora come adesso la brutalità della polizia contro gli studenti ha solo provocato la diffusione delle proteste.

Ore dopo che l’amministrazione aveva chiuso un accampamento a Princeton, centinaia di studenti hanno occupato un cortile interno portando libri, computer portatili e lavagne per organizzare una “università popolare per Gaza”. Alcuni docenti si sono uniti e hanno guidato dibattiti e discussioni.

La polizia è stata chiamata in 15 università in tutti gli USA e ci sono proteste in altre 22 università e college.

Le proteste negli USA si sono estese a università britanniche, anche se hanno ricevuto minore attenzione mediatica.

Al Trinity College, Cambridge, il ritratto di Lord Balfour, il ministro degli Esteri britannico responsabile della dichiarazione che riconosceva il diritto degli ebrei a una patria in Palestina, è stato imbrattato e sfregiato prima di essere tolto dall’università.

Londra ha appena assistito alla sua tredicesima manifestazione nazionale dall’inizio della guerra. Per la loro persistenza e le dimensioni le proteste contro la guerra a Gaza sono comparabili solo con la manifestazione di oltre un milione di persone contro la decisione di Tony Blair di invadere l’Iraq, che nel 2003 è stata la più grande di questo genere.

Il movimento di protesta sta avendo un profondo effetto sulla stessa Gaza perché per una volta il popolo palestinese che affronta questo massacro non si sente solo.

Il giornalista e creatore di contenuti Bisan Owda ha detto: “Continuate così, perché voi siete la nostra unica speranza. E vi promettiamo che terremo duro e vi diremo sempre la verità. E per favore non lasciate che la loro violenza vi spaventi. Non hanno nessun’altra opzione se non farvi tacere e terrorizzarvi perché state demolendo decenni di lavaggio del cervello.”

Il bersaglio è il sionismo

Owda ha ragione. Se i bersagli del movimento di protesta del 1968 erano il Pentagono o il paternalismo repressivo dello Stato gollista, oggi sono il sionismo e chi arma Israele negli USA, in GB e in Germania.

Questa è la lobby filo-israeliana che etichetta e calunnia i politici come antisemiti per il loro appoggio alla Palestina. Sono loro che fanno sì che università codarde e in preda al panico caccino docenti dal loro lavoro. Si vedono come democratiche ma mettono mano alla strumentazione fascista. Danneggiano lo stato di diritto, la libertà di parola e il diritto a protestare.

Alla testa della rivolta contro il sionismo c’è una nuova generazione di ebrei che partecipano in numero sempre crescente a queste proteste.

Uno studente della Columbia e due del Barnard hanno spiegato perché: “Abbiamo scelto di essere arrestati nel movimento per la liberazione dei palestinesi perché siamo ispirati dai nostri antenati ebrei che lottarono per la libertà 4.000 anni fa. Quando la polizia è entrata nel nostro accampamento abbiamo formato una catena e cantato canzoni dell’epoca dei diritti civili che molti nei nostri predecessori più recenti hanno cantato negli anni ’60. Veniamo da un passato di attivismo progressista ebraico che ha superato linee di razza, classe e religione per trasformare le nostre comunità.

L’arresto e la brutalizzazione di oltre 100 studenti filopalestinesi della Columbia è l’azione peggiore di violenza nel nostro campus da decenni. Nel momento in cui la Columbia ha chiesto alla polizia di arrestare centinaia di studenti che protestavano, la nostra università ha normalizzato una cultura in cui le differenze politiche sono accolte con violenza e ostilità… Mentre scriviamo questo, studenti israeliani che ci passano vicino ci chiamano ‘animali’ in ebraico perché pensano che nessuno di noi li capirà, ripetendo le affermazioni del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant secondo cui i palestinesi di Gaza sono ‘animali umani’.”

La guerra a Gaza sta provocando un dibattito senza precedenti tra gli ebrei, con importanti intellettuali come la giornalista canadese Naomi Klein che afferma che il sionismo è un “falso idolo che ha preso l’idea della terra promessa e l’ha trasformata in un atto di compravendita a favore di uno Stato etnico militarista.”

Klein ha scritto: “Fin dall’inizio ha prodotto un orrendo genere di ‘libertà’ che vedeva i bambini palestinesi non come esseri umani ma come minacce demografiche, così come nel Libro dell’Esodo il faraone temeva la crescente popolazione israelita e quindi ordinò la morte dei loro figli.

Il sionismo ci ha portati all’ attuale catastrofe ed è tempo di dire chiaramente: ci ha sempre portati qui. È un falso idolo che ha guidato troppi del nostro popolo lungo un sentiero profondamente immorale che ora li fa giustificare il fatto di gettare via comandamenti fondamentali: non uccidere, non rubare, non desiderare i beni altrui.”

La Palestina è ovunque

Questi avvenimenti avranno delle conseguenze.

Nel futuro immediato il movimento contro la guerra a Gaza ha rivitalizzato la causa nazionale palestinese come non mai. Nei campi profughi in Libano sbiadite scritte sui muri che commemorano le battaglie di Fatah e dell’OLP sono state sostituite da nuovi e rilucenti simboli che celebrano l’attacco del 7 ottobre. Il triangolo invertito che rappresenta Hamas che attraversa in paracadute la barriera di Gaza è ovunque.

Ogni manifestazione in tutto il mondo è guidata dalla diaspora palestinese che ha reagito in modo opposto a quello che era stato immaginato da Israele e dai suoi sostenitori. Il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva pensato che se avesse ucciso gli anziani i loro figli e figlie avrebbero dimenticato la lotta.

Invece Netanyahu ha ricreato e rafforzato ovunque il legame dei palestinesi con la loro terra perduta. Se chiedi ai palestinesi del campo profughi giordano di Hitten dove sia la loro casa la risposta assolutamente maggioritaria è a Gaza o in Cisgiordania.

Questa ondata di solidarietà ha distrutto allo stesso modo anni di progetti per eliminare ogni legame tra la causa palestinese e il mondo arabo. Gli avvenimenti hanno contribuito. Le primavere arabe, la loro repressione e le guerre civili che ne sono seguite hanno soppiantato la Palestina come principale fonte di notizie per almeno un decennio.

Il tentativo israeliano di bypassare la causa nazionale palestinese tendendo direttamente la mano agli Stati del Golfo più ricchi stava per aver successo quando Hamas ha messo in atto il suo attacco.

Sette mesi dopo la Palestina è ovunque. Ogni sondaggio lo dimostra. Invece lo stesso Israele è sul banco degli imputati della giustizia internazionale, sotto indagine sia alla Corte Penale Internazionale, che sta per emettere mandati di arresto per Netanyahu e altri, e alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio.

Queste sono le conseguenze immediate, ma ce ne sono due a lungo termine che potrebbero essere ancora più importanti.

Il primo è che per la prima volta nella storia di questo conflitto Gaza, sia il suo popolo che i suoi combattenti, hanno evidenziato una determinazione a resistere e a lottare che l’OLP e Yasser Arafat non hanno mai dimostrato. Per la prima volta nella loro storia i palestinesi hanno una dirigenza che non rinuncerà alle sue principali richieste e che ispira rispetto.

La seconda conseguenza è che negli USA, l’unico Paese che può porre fine a questo conflitto ritirando il supporto militare, politico ed economico a Israele, sta crescendo una nuova generazione. È ancora oggi l’unica Nazione che Israele ascolta e che prende sul serio.

Tra loro gli ebrei sono orripilati da quello che si sta facendo nel loro nome. Orripilati da come la loro religione è stata trasformata in un’apologia della pulizia etnica. Orripilati da come la loro orgogliosa e sofferta eredità sia stata ridotta a una licenza di uccidere. Orripilati dal potere esercitato da Israele sul Congresso USA, sul parlamento britannico e su ogni importante partito in Europa.

Gli ebrei stanno sfidando l’affermazione secondo cui il sionismo è titolare della loro storia. Per questo sono in vario modo accusati di essere traditori, “kapo” (gli ebrei incaricati dalle SS naziste di controllare il lavoro forzato), odiatori di se stessi o semplicemente “animali”. Ma per me sono la principale fonte di speranza in questo paesaggio desolato. La guerra del Vietnam durò altri sette anni dopo l’offensiva del Tet. Neanche l’occupazione israeliana di Gaza avrà facilmente fine.

Ma potremmo aver raggiunto il punto di svolta nell’appoggio a Israele negli USA, in Gran Bretagna e in Europa, e ciò ha un significato storico.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst è co-fondatore e caporedattore di Middle East Eye. È commentatore, esperto della regione e analista sull’Arabia Saudita. È stato l’editorialista per l’estero del Guardian e corrispondente in Russia, Europa e a Belfast. È arrivato al Guardian da The Scotsman [quotidiano britannico edito a Edimburgo, ndt.], dove era corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Facoltà dell’Università Ebraica in Scienze della Repressione

Orly Noy

23 marzo 2024 – +972 magazine

La sospensione della docente palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian svuota di ogni significato i valori di pluralismo e uguaglianza proclamati dall’università.

Un’università che promuove diversità e inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza.” Queste sono alcune delle parole usate dall’Università Ebraica di Gerusalemme, una delle migliori istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione. Ma l’università non sembra aver avuto alcun problema a gettare dalla finestra tali valori quando la scorsa settimana ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’eminente studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.

La scandalosa decisione, presa senza la corretta procedura, è arrivata subito dopo il podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street in cui aveva esposto le sue opinioni critiche contro il sionismo, l’attacco israeliano contro Gaza e gli opinabili precedenti dello Stato riguardo ad affermazioni su avvenimenti relative alla guerra. Ma la studiosa è sotto osservazione da parte dell’università da mesi (anzi da anni), specialmente dopo che ha firmato una petizione alla fine di ottobre in cui chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio.” Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, deve “trovare un’altra casa accademica allineata con le sue posizioni.”

Indubbiamente la sospensione svuota di ogni significato alcuni corsi “illuminati” che offre. Anzi cosa può insegnare ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato Democratico” un’università che sospende un decano della facoltà senza una discussione? Cosa può insegnare su “libertà, cittadinanza e genere” un’istituzione accademica che si allinea con i sentimenti più estremi e aggressivi? Cosa può insegnare su “Diritti umani, femminismo e cambiamenti sociali” un’istituzione che zittisce e bullizza brutalmente la voce critica di una donna, una docente e un’appartenente a una minoranza perseguitata?

In una dichiarazione in cui parecchi anni fa presentava la sua visione dell’istituzione accademica il preside dell’università, il professor Asher Cohen, che con il rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian, sostiene che l’università ha “guidato un processo di inclusione di popolazioni che compongono la società israeliana. Noi crediamo in un campus diversificato, pluralistico e ugualitario, dove utenti di diverse formazioni possono familiarizzarsi con i valori della coesistenza.” Queste sono parolone da parte di chi sembra incapace di prendere in considerazione voci politiche critiche che differiscono dalle sue.

Nella stessa dichiarazione Cohen si gloria della profonda responsabilità dell’università “per la società israeliana e specialmente per Gerusalemme.” Questa è la stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove ogni giorno oltre 350.000 palestinesi sono oppressi, le loro case sono demolite e i loro bambini strappati dal letto nel cuore della notte e arrestati arbitrariamente senza che nessuno dei capoccioni nella torre d’avorio di Cohen pronunci una sola parola su di loro.

C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus del Monte Scopus, che affrontano un’occupazione delle loro terre e proprietà da parte dei coloni appoggiati dallo Stato. Ma è particolarmente incredibile che l’Università Ebraica non abbia mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione contro il villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza. È possibile che nelle sere che Cohen passa nel suo ufficio non riesca a sentire proprio sotto la sua finestra i rumori degli spari della polizia israeliana che da tempo sono la colonna sonora del villaggio?

Se solo il grande peccato (e lo è davvero) dell’Università Ebraica fosse l’inconsapevolezza! La sospensione di Shalhoub-Kevorkian va ad aggiungersi a una lunga lista di persecuzioni politiche e indottrinamento militaristico promossi dall’istituzione nel corso degli anni.

Dopo tutto questa è la stessa università che nel gennaio 2019 ha assecondato una violenta campagna di incitamento condotta da un gruppo di studenti di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che lei aveva redarguito uno studente per essere arrivato al campus in uniforme militare. Invece di difenderla dalle false accuse l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l’“incidente.” Questa è la stessa università che, nonostante le proteste di studenti e docenti, solo pochi mesi dopo ha scelto di trasformare il campus praticamente in un piccolo campo militare ospitando corsi dell’unità di intelligence dell’esercito israeliano, una delle molte redditizie collaborazioni con l’esercito.

Questa è la stessa università che ha ripetutamente perseguitato e zittito organi studenteschi palestinesi, mentre conferisce crediti accademici a studenti che fanno i volontari per il gruppo di estrema destra Im Tirtzu. E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla di come Israele abbia sistematicamente distrutto le scuole e le istituzioni di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i colleghi di Gaza assediati, bombardati e affamati, ma i principi dell’accademia stessa.

Spiegando la loro decisione in una lettera alla parlamentare Sharren Haskel, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato Shalhoub-Kevorkian di esprimersi in un modo “vergognoso, antisionista e provocatorio” dall’inizio della guerra, deridendola per aver definito genocidio le politiche di Israele a Gaza. Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano un genocidio la catastrofe a Gaza, ma anche la Corte Internazionale di Giustizia, il massimo tribunale al mondo, ha preso seriamente questa pesante accusa e deliberato che non la si può semplicemente ignorare.

È come se Cohen e Sheafer fossero sorpresi non solo di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche antisionista, non sia mai! Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università i suoi dirigenti sarebbero obbligati a informare ogni docente e studente prima che ne varchino i cancelli. Non sbaglieremmo nel dire che, a parte limiti legali, la ragione è che l’Università Ebraica beneficia della presenza dei palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, progressismo e inclusione. Intanto può continuare a perseguitare quei palestinesi a casa, lontano dagli occhi del mondo.

Questa vergognosa iniziativa sta già echeggiando clamorosamente nel mondo accademico e nei media a livello globale, bollando l’Università Ebraica con la vergogna che si merita. Nel frattempo il solo corso appropriato che riesco a trovare nel modulo dell’università è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche: Macchiavelli, il filosofo della tirannide.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Da Gaza al Congo: il sionismo e la storia dimenticata del genocidio

Ramzy Baroud

9 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Migliaia di chilometri separano l’Uganda e il Congo dalla Striscia di Gaza, ma questi luoghi sono connessi alla Palestina in modi che le tradizionali analisi geopolitiche probabilmente non riuscirebbero a spiegare. Eppure il 3 gennaio è stato rivelato che il governo israeliano di estrema destra di Benjamin Netanyahu sta attivamente discutendo proposte per espellere milioni di palestinesi verso Paesi africani in cambio di un prezzo definito.

Apparentemente la discussione sull’espulsione di milioni di palestinesi da Gaza è entrata nel pensiero mainstream israeliano il 7 ottobre, tuttavia il fatto che questo dibattito continui a oltre tre mesi dall’inizio della guerra di Israele contro Gaza indica che le proposte israeliane non sono l’esito di uno specifico momento storico come l’Operazione Diluvio Al-Aqsa, per esempio.

Anche a una rapida disamina le testimonianze storiche israeliane puntano al fatto che l’espulsione di massa dei palestinesi, nota in Israele come “trasferimento”, era, e resta, una rilevante strategia sionista che mira a risolvere il cosiddetto “problema demografico” dello Stato di apartheid.

Molto prima che il 7 ottobre i combattenti delle Brigate Al-Qassam e altri movimenti palestinesi assaltassero la recinzione che separa l’assediata Gaza da Israele, i politici israeliani avevano discusso in varie occasioni come ridurre la popolazione palestinese complessiva per mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. L’idea non era solo limitata agli estremisti oggi al governo in Israele, ma era anche dibattuta da personaggi come l’ex ministro della difesa israeliana Avigdor Lieberman che, nel 2014, suggerì un progetto per un “piano di scambio della popolazione”.

Persino intellettuali e storici ritenuti progressisti hanno sostenuto questa idea, sia in teoria che in pratica. In un’intervista con il giornale israeliano progressista Haaretz nel gennaio 2004 uno dei più influenti storici israeliani, Benny Morris, si rammaricava che il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, non fosse riuscito ad espellere tutti i palestinesi durante la Nakba, il catastrofico evento di massacri e pulizia etnica che portò alla costruzione dello Stato di Israele sopra città e villaggi palestinesi.

Essi includono una memoria ufficiale pubblicata il 17 ottobre della think tank Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy e un rapporto diffuso tre giorni dopo dalla testata israeliana Calcalist, [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.] che riportava un documento che proponeva la stessa strategia.

Che Egitto, Giordania e altri Paesi arabi abbiano apertamente e immediatamente dichiarato la loro totale opposizione all’espulsione dei palestinesi è un’indicazione del grado di serierà di queste proposte ufficiali israeliane.

Il nostro problema è [trovare] un Paese che voglia accogliere i gazawi,” ha detto il 2 gennaio Netanyahu, “e noi ci stiamo lavorando.” I suoi commenti non sono i soli. Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha detto che “la cosa da fare nella Striscia di Gaza è incoraggiare l’emigrazione.”

È stato allora che il dibattito ufficiale israeliano ha adottato il termine “migrazione volontaria”. Non c’è niente di “volontario” in 2.2 milioni di palestinesi ridotti alla fame che devono affrontare il genocidio mentre vengono spinti sistematicamente verso la zona di confine fra Gaza ed Egitto.

Nella causa presentata alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), il governo del Sudafrica ha incluso la pulizia etnica di Gaza pianificata da Tel Aviv come uno degli argomenti principali elencati da Pretoria, che accusa Israele di genocidio.

A causa del mancato entusiasmo da parte dei Paesi occidentali filoisraeliani, i diplomatici israeliani stanno facendo il giro del mondo alla ricerca di governi che vogliano accettare palestinesi vittime di pulizia etnica. Immaginate se questo comportamento provenisse da un qualsiasi altro Paese, un Paese che ammazza civili, minori, donne e uomini e poi fa shopping per trovare altri Stati che accettino i sopravvissuti in cambio di denaro.

Israele non solo si fa beffe del diritto internazionale, ma ha anche raggiunto un livello ancora più basso nel comportamento spregevole di qualunque altro Stato, ovunque nel mondo, in qualsiasi momento della storia, antica o moderna. Nonostante ciò il mondo continua a rimanere a guardare, sostenere, come nel caso degli USA e del Regno Unito, o a protestare timidamente o energicamente, ma senza fare neanche un passo significativo per fermare il bagno di sangue a Gaza, o per bloccare la possibilità di scenari veramente terrificanti che potrebbero seguire se la guerra non finisce, e presto.

Tuttavia c’è una cosa che molti forse non sanno: il movimento sionista, l’istituzione ideologica che fondò Israele, prese in considerazione il suggerimento di spostare gli ebrei del mondo in Africa e stabilire là il loro Stato, prima di scegliere la Palestina quale “focolare ebraico”. Il cosiddetto “Schema Uganda” del 1903 fu formulato da Theodor Herzl, il giornalista ateo che fondò il sionismo politico, al sesto congresso sionista. Era basato su una proposta avanza da Joseph Chamberlain, ministro britannico per le Colonie. Alla fine il progetto venne abbandonato, ma i sionisti prima continuarono a cercare altri posti, per poi decidere per la Palestina e stabilirsi là, sfortunatamente per i palestinesi.

Se paragoniamo il linguaggio genocidiario dei leader israeliani di oggi e studiamo i loro punti di riferimento razzisti riguardo ai palestinesi, possiamo vedere una significativa coincidenza con il modo in cui le comunità ebraiche sono state percepite dagli europei per centinaia di anni. L’improvviso interesse sionista per il Congo come “patria” potenziale per i palestinesi illustra ulteriormente il fatto che il movimento sionista continua a vivere all’ombra della sua storia, proiettando il razzismo europeo contro gli ebrei attraverso il razzismo di Israele contro i palestinesi.

Il 5 gennaio Amihai Eliyahu ministro israeliano per il Patrimonio [di Gerusalemme], ha suggerito che gli israeliani “devono trovare delle soluzioni per i gazawi che siano più dolorose della morte.” Non dobbiamo affannarci per trovare un simile linguaggio usato dai nazisti tedeschi contro gli ebrei nella prima metà del Ventesimo Secolo. Se la storia si ripete, lo fa in modo grottesco e crudele.

Ci è stato detto che il mondo ha imparato dalle uccisioni di massa delle guerre precedenti, incluso l’Olocausto e altre atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Eppure sembra che le lezioni siano state ampiamente dimenticate. Non solo Israele sta ora assumendo il ruolo di assassino di massa, ma anche il mondo occidentale continua a giocare il ruolo assegnatogli in questa storica tragedia. I leader occidentali o applaudono Israele, o protestano garbatamente, o non fanno assolutamente nulla.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Golda: maldestro tentativo di promuovere la propaganda israeliana

Nada Elia

30 agosto 2023 – Middle East Eye

Il film è permeato dalla narrazione sionista, mentre ignora verità fondamentali sulla guerra arabo-israeliana del 1973

Avevo scarse aspettative per Golda, il film sull’ex prima ministra israeliana che nel 1973 ottenne la vittoria del proprio Paese contro gli eserciti egiziani e siriani. 

L’Hollywood Reporter ha descritto il film come un biopic che presenta l’unica donna capo di stato di Israele come “una leader militare sorprendentemente efficace” e una scaltra diplomatica. Ovviamente il regista Guy Nattiv non voleva mostrarci molto del lato “umano” dietro la leggenda, o solo aspetti che potrebbero renderla ancor più leggendaria. Ma con un interesse potenzialmente rinnovato in questo personaggio storico forse questo potrebbe essere un ottimo momento per separare il mito dalla realtà. 

Il mito: negli Stati Uniti Golda Meir è un’icona femminista. Era il quarto primo ministro di Israele dal 1969 al 1974 quando, in un sondaggio Gallup, fu votata “la donna più ammirata” negli USA, davanti all’allora first lady Betty Ford, con Pat Nixon, moglie dell’ex presidente Richard Nixon, al terzo posto. 

La leader israeliana era bianca, appartenente alla seconda ondata [migratoria], ragazza copertina del femminismo sionista progressista americano, il cui ritratto con la didascalia “Ma sa scrivere a macchina?” era comparso sui manifesti di una campagna pubblicitaria che criticava gli stereotipi di genere sul posto di lavoro. 

Naturalmente è detestata dai palestinesi come la donna che, fra numerose altre affermazioni offensive, ha detto che “i palestinesi non esistono” e insinuato che gli arabi odino gli ebrei più di quanto non amino i propri figli. 

 Non molti di quelli a cui piacerebbe riproporre la negazione della nostra esistenza fatta dalla Meir sono effettivamente al corrente del più ampio contesto di quella affermazione, di quanto sia profondamente radicata nella visione del mondo eurocentrica ed imperiale che un popolo non costituisca di diritto una nazione in mancanza degli orpelli del moderno Stato-Nazione europeo. 

Quindi Meir non stava negando che noi esistessimo come esseri umani, ma piuttosto che avessimo diritti in quanto palestinesi perché la Palestina, la nazione storica, non era uno Stato indipendente riconosciuto secondo i criteri europei. 

Quando mai c’è stato un popolo indipendente palestinese con uno Stato palestinese?” ha detto. “Era Siria meridionale prima della Prima Guerra Mondiale e poi una Palestina che includeva la Giordania. Non è che ci fosse un popolo palestinese in Palestina che si considerava un popolo palestinese e noi siamo arrivati e li abbiamo buttati fuori e tolto loro il Paese. Non esistevano.” 

Mentalità coloniale

Ovviamente questa è la stessa mentalità con cui si sono privati i popoli autoctoni dell’isola di Turtle [nel lago Erie, tra Michigan e Ohio, ndt.] del loro diritto alla sovranità, perché non avevano confini arbitrari e un sistema politico riconosciuto dai conquistatori europei. Il sionismo si basa su questa mentalità coloniale reiterata ufficialmente quest’anno dal ministro israeliano delle finanze Bezalel Smotrich, che ha anche detto che la storia palestinese e la nazione palestinese non esistono.

Basta dare un’occhiata ai documenti dell’epoca a cui Meir fa riferimento per dimostrare che si sbaglia: la rivista Falastin fu fondata agli inizi del 1900 e la valuta dell’epoca reca la scritta “Palestina”, non “Siria meridionale”.

Gli israeliani sembrano più equilibrati a proposito di questa donna controversa. L’enciclopedia delle donne ebree Shalvi/Hyman scrive: “Era, come si dice oggi, un’‘ape regina,’ una donna che, arrivata in vetta, ha tolto la scala. Non ha esercitato le prerogative del potere per risolvere i problemi specifici delle donne, per promuovere altre donne o per far progredire lo status delle donne nella sfera pubblica. Il fatto è che, alla fine del suo mandato, le sue sorelle israeliane non stavano meglio di prima che si insediasse.” 

Le prime recensioni di Golda non sono state entusiastiche. Bad Movie Reviews, un canale YouTube dedicato alla recensione di brutti film, l’ha descritto come parole come “noioso”, “piatto” e “unidimensionale”.

Secondo il Washington Post il film “è superficiale”. Infatti non ci è mai detto il motivo per cui l’Egitto e la Siria hanno attaccato Israele il 6 ottobre 1973. Era per riottenere la penisola del Sinai e le alture del Golan, entrambe occupate illegalmente da Israele dal 1967. 

Invece sentiamo Meir mettere in guardia dalla minaccia per Israele “se i siriani conquistano le alture di Golan”. Ma un esercito che si riprende una terra occupata illegalmente non sta “conquistando” quella terra, la sta liberando. 

Invenzioni offensive

Meir è interpretata da Helen Mirren, il cui talento va “perso in una nuvola di fumo”, secondo una recensione pubblicata dal Detroit News, che definisce i film “irritante” e “maldestro”. Inoltre il focus è sull’ “autodifesa” di Israele, un presunto “diritto” più volte ricordato dai nostri politici quando in realtà nessun Paese ha il “diritto” di difendere un’occupazione illegale, anzi ha l’obbligo giuridico di porvi fine.

Persino il Los Angeles Times, una testata decisamente filo-sionista, ha definito la pellicola “scialba”, pur lodando l’interpretazione di Mirren, “la migliore e forse la sola cosa interessante”. Stranamente il quotidiano osserva che, mentre Bradley Cooper ha suscitato controversie perché indossava una protesi sul naso per interpretare un altro famoso ebreo, Leonard Bernstein, il dibattito se ‘solo ebrei dovrebbero interpretare ebrei?’ qui non c’è stato”, anche se Mirren indossa un naso finto (e abiti imbottiti) per interpretare il personaggio sullo schermo.

Ovviamente questi recensori, come me, non si sono fatti influenzare dal battage pubblicitario del film. Cosa Golda dovesse trasmettere noi non l’abbiamo capito

E va bene così. La mia preoccupazione era che il film avrebbe avuto un gran successo, tale da migliorare l’immagine di Israele con la sua hasbara sionista [propaganda per diffondere all’estero informazioni positive su Israele e le sue azioni, ndt.] in un momento in cui il Paese ne ha un bisogno disperato. E la narrazione sionista certamente permea tutto il film: “Questo è di nuovo come nel 1948,” dice Meir, come se nel 1948 fosse stato Israele, non la Palestina, ad essere stato attaccato. 

Meir sostiene anche che gli “arabi” (riferendosi a egiziani e siriani, i palestinesi non sono citati neppure una volta nel film) non piangono i propri morti, mentre la morte di ogni soldato ebreo morto in battaglia grava pesantemente sulla sua anima. Altre simili invenzioni sioniste offensive costellano il film.

Ma l’effetto complessivo del film è proprio il contrario. Vediamo un Paese intenzionato ad attivare la sua potenza nucleare per tenersi illegalmente terra occupata e politici manipolatori disposti a estorcere armi agli USA anche quando il Paese sembra riluttante a offrirglieli senza condizioni. Questa non è proprio la leader eroica, straordinaria ed etica con cui il regista e i produttori sicuramente volevano far colpo su di noi. 

In conclusione, anche se Golda avrebbe dovuto tenere a galla la propaganda israeliana, in realtà l’ha affondata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Al Center for Jewish History alcuni studiosi ebrei osano parlare della Nakba: fischiati

Philip Weiss

1 maggio 2003 – Mondoweiss

Al Center for Jewish History lo studioso Omer Bartov è stato continuamente interrotto e fischiato quando ha descritto la “brutale” espulsione dei palestinesi durante la Nakba. Alcuni gridavano “vergogna!” e una persona è uscita.

Ieri a New York, in occasione del 75esimo anniversario della fondazione di Israele, al Center for Jewish History [Centro di storia ebraica] si è tenuta una conferenza sugli ebrei americani e il sionismo che ha rivelato la notevole tensione all’interno della comunità ebraica in merito al sionismo. 

Tre oratori hanno voluto parlare della Nakba. C’è stata dell’opposizione e in un caso fischi e urla di “Vergogna.” 

Omer Bartov, docente alla Brown University, ha tenuto una conferenza sull’ “Eredità del 1948” in cui ha descritto l’Olocausto e la Nakba come eventi “insanabili”. Ha detto che, se il sionismo è stato la logica risposta al genocidio degli ebrei in Europa, “dopo la Nakba niente potrebbe sembrare più giusto della richiesta dei palestinesi di poter tornare nelle loro terre, da cui furono brutalmente espulsi.”

Bartov, uno studioso dell’Europa orientale, ha affermato che l’impossibilità di spartire la terra indica la strada verso un futuro democratico: “Smantellare le barriere, ammettere che questa terra potrà essere una patria solo quando sarà finalmente la patria di tutti i suoi abitanti.”

Bartov è stato interrotto e fischiato. È stato riferito che alcuni dei presenti avrebbero urlato “Vergogna!” e che una persona è uscita. Ci sono stati anche dei brontolii quando uno dei relatori ha fatto riferimento a J Street! [associazione di ebrei progressisti USA, ndt.] l’accademica canadese Mira Sucharov all’inizio della sua relazione si è rivolta rispettosamente ai disturbatori per cercare di placarli. Ha poi descritto nei dettagli il bombardamento di Giaffa nell’aprile del 1948, durante il quale 68.000 dei 70.000 abitanti del quartiere di Ajami furono “respinti in mare.” Ha poi osservato che quando i suoi parenti si preoccupano per gli ebrei spinti in mare questo è “letteralmente” quello che è accaduto ai palestinesi nel 1948 prima della fondazione dello Stato. (Un argomento che ho sostenuto anch’io.) 

Sucharov ha poi continuato dicendo che nei suoi corsi fa riferimento all’articolo di Ari Shavit sulla pulizia etnica di Lod (o Lydda) apparso sul New Yorker perché alla fine egli dichiara che rifarebbe tutto da capo per ottenere uno Stato a maggioranza ebraica. Lei fa notare che Shavit serve “su un piatto d’argento,” la posizione sionista.

Eric Alterman è stato ancora più penetrante. Ha detto che i palestinesi non accetterebbero nessuna delle tesi sioniste presentate al Center for Jewish History, e naturalmente nessun palestinese è stato invitato a parlare della loro profonda conoscenza del sionismo. Alterman ha detto che 700.000 palestinesi furono espulsi prima del maggio 1948 dalle milizie sioniste, antesignane dell’esercito israeliano, e che terre e proprietà palestinesi furono poi confiscate dallo Stato e date al Fondo Nazionale Ebraico. 

Alterman ha poi detto: “Tutto della vita dei palestinesi è discriminatorio. E non c’è nulla che noi [ebrei] accetteremmo.” 

Ha poi continuato: “Non hanno diritti. A me va benissimo il divorzio fra ebrei americani e Israele” perché i cosiddetti “valori condivisi” fra le due società sono stati un disastro per l’identità degli ebrei americani. 

Alterman ha anche detto che nella comunità ebraica il racconto dell’Esodo [la fuga dall’Egitto narrata nell’omonimo libro della Bibbia] sta “crollando”. E che, questa è la mia parte preferita, gli ebrei sono stanchi che i “neoconservatori” parlino a nome della comunità. 

Alterman e Sucharov sono stati zittiti dal resto degli oratori. “Non risolveremo noi il 1948,” ha detto un altro relatore, David Makovsky, frase in codice per dire “Per favore, smettete di parlare della Nakba”. 

E così tre docenti di storia ebraica, di cui due sono stati importanti sionisti progressisti, hanno espresso una critica nei confronti di Israele piuttosto blanda in un luogo ebraico e c’è stata una gran rabbia. 

Sucharov ha colto questa tensione quando ha detto di essere stata marginalizzata dalla propria famiglia per la partecipazione a una commissione che discuteva se il termine “apartheid” fosse applicabile a Israele/Palestina. Una zia scandalizzata ha telefonato a un’altra e il “risultato è stato un ostracismo ufficiale.” Sucharov non può più far visita alla zia in Israele e non è stata invitata al suo ottantesimo compleanno. “È molto doloroso.” 

Questo è solo un assaggio di quello che presto succederà alla comunità ebraica. Dal massacro israeliano di Gaza nel 2014 ci sono state tensioni sul sionismo nella comunità ebraica e anche all’interno delle famiglie ebree, al punto che i rabbini evitano a tutti i costi l’argomento. 

Nel 2021, durante l’attacco israeliano contro Gaza, 94 studenti e cantori rabbinici hanno firmato una lettera indirizzata al “cuore della comunità ebraica” lamentando la violenza israeliana e “l’espulsione intenzionale di palestinesi.” Alterman dice che a una conferenza di J Street alcuni di questi studenti hanno detto di aver perso il lavoro a causa della lettera, e che “uno piangeva.” (E io ho riferito che la rabbina Angela Buchdahl, una celebrità, dichiarò che non ne avrebbe assunto nessuno.)

Tale tensione che ribolle non può durare. Le forze sono troppo potenti: Israele è troppo incasinato e non può più essere tollerato dai giovani ebrei. E la lobby israeliana, il sostegno ai politici degli ebrei americani, è semplicemente troppo importante per l’esistenza di Israele. Nessuno cederà senza lottare e sarà ben presto guerra aperta. 

Un giorno i giovani ebrei chiederanno che la Nakba sia nominata e consacrata nelle associazioni progressiste ebraiche americane che hanno armato, e negato, la pulizia etnica. Chiederanno l’accettazione dei palestinesi che descrivono la Nakba come un “genocidio.”

PS. Makovsky ha continuato a offrire una visione edulcorata dei valori israeliani. E per un buon motivo: i “valori condivisi” con gli USA. sono un “pilastro” dell’esistenza di Israele. E così Makovsky asserisce (contro ogni evidenza) che le imponenti proteste per la democrazia in Israele “continueranno fino al prossimo ostacolo: la questione palestinese. Ha detto che il governo USA “ha tentato di fare gol” tre volte nei colloqui di pace e che parte della colpa dei fallimenti va ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Luciana Galliano)




Crisi israeliana: non si tratta di democrazia, si tratta di supremazia liberale sionista

Sai Englert

28 marzo 2023 – Middle East Eye

Israele è uno Stato di apartheid basato sull’espropriazione palestinese, con metà delle persone che vivono sotto il suo dominio diretto private del diritto al voto. Altro che preziosa democrazia liberale dei manifestanti

Dopo tre mesi di mobilitazione in tutta la società israeliana, che ha visto centinaia di migliaia di manifestanti scendere in piazza, i blocchi ripetuti delle principali autostrade, il rifiuto di massa dei riservisti di presentarsi per il servizio militare e un insieme di azioni di sciopero e di serrate da parte dei datori di lavoro, il governo di Benjamin Netanyahu sembra – nel momento in cui scriviamo – essere stato costretto a cedere almeno in parte alle istanze del movimento di protesta sociale.

Lunedì sera Netanyahu ha annunciato che era in procinto di rinviare la controversa riforma dei tribunali nazionali da parte del suo governo.

“Per senso di responsabilità nazionale, per volontà di prevenire una spaccatura tra la nostra gente, ho deciso di sospendere la seconda e la terza lettura del disegno di legge”, ha dichiarato al parlamento.

Dopo aver licenziato il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, a causa degli appelli di quest’ultimo per la sospensione della riforma giudiziaria del governo, Netanyahu ha mostrato di aver perso il controllo su una situazione già caotica. Le organizzazioni dei datori di lavoro e l’Histadrut – la più grande federazione sindacale israeliana e pilastro storico del movimento coloniale sionista – hanno annunciato congiuntamente che avrebbero bloccato l’economia. Centri commerciali, università, ospedali e fabbriche, così come l’unico aeroporto di Israele, sono stati chiusi, insieme ad asili e scuole.

L’attuale crisi politica è emersa alla fine dello scorso anno, quando Netanyahu è stato rieletto primo ministro a capo di una coalizione di destra, che andava dal suo stesso partito Likud e dai suoi abituali alleati ultraortodossi all’organizzazione della destra più radicale dei coloni.

Aggressivamente anti-palestinese e favorevole a un’espansione ancora più rapida degli insediamenti coloniali a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, la coalizione ha promesso un ulteriore giro di vite nei confronti dei palestinesi: violenze, furti e omicidi, ma all’ennesima potenza, da parte della colonizzazione israeliana.

Allo stesso tempo, la coalizione ha messo al centro della sua argomentazione l’idea che la sinistra israeliana avesse controllato per troppo tempo le leve del potere dello Stato e il proposito di porre fine a tutto ciò il più rapidamente possibile. Al centro di questo programma c’è una proposta di riforma giudiziaria che limiterebbe il potere dell’Alta Corte israeliana e la porrebbe sotto il controllo del parlamento, cioè della coalizione di governo.

Assalto a tutto campo alla democrazia

In base a queste riforme, la nomina dei giudici sarebbe di competenza parlamentare, mentre le decisioni prese dalla Corte potrebbero essere ribaltate da una maggioranza parlamentare. Questo, sostengono i critici della riforma, è un assalto a tutto campo alla democrazia israeliana e inaugurerebbe la fine di un tanto acclamato ordine democratico liberale israeliano.

Gettando benzina sul fuoco, il governo ha anche proposto e accelerato una serie di altre leggi che sono state ampiamente percepite – anche da commentatori di destra e da sostenitori del governo – come palesemente auto-centrate. Dalla legalizzazione dei “regali” ai dipendenti pubblici e dalla revoca del divieto di prestare servizio nel governo per i politici condannati, alla limitazione della possibilità per i giornalisti di pubblicare registrazioni di [discorsi] di politici, la lista dei desideri del governo ha fatto infuriare un’opposizione già ostile.

Il fiore all’occhiello di questo pacchetto di riforme è stato il disegno di legge approvato con successo la scorsa settimana che rende così difficile l’impeachment di un primo ministro in carica da concedere a Netanyahu l’immunità di fatto, proteggendolo dai potenziali esiti del suo processo per corruzione in corso.

Lo scenario era perfetto per uno scontro frontale nella società israeliana tra i campi pro e contro Netanyahu.

In effetti, i fronti pro e contro Netanyahu – o pro e anti-coalizione – costituiscono il modo migliore per comprendere l’attuale lotta in Israele. Le idee tradizionali di destra e sinistra non colgono del tutto le divisioni politiche in Israele in generale, e nel momento attuale in particolare.

Come accennato in precedenza, i principali protagonisti dell’opposizione alle riforme del governo sono state le organizzazioni dei datori di lavoro e i riservisti delle unità militari, considerati in Israele “d’élite”, cioè veterani.

Un ruolo centrale lo hanno avuto i piloti di caccia – gli stessi piloti che hanno acquisito una fama mondiale bombardando regolarmente a tappeto gli abitanti della Striscia di Gaza con le orrende conseguenze che sono così ben documentate.

Benny Gantz, leader dell’opposizione e figura chiave del movimento, ha costruito la sua carriera politica sulla scia del massacro di Gaza del 2014, che ha gestito come capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. A febbraio ha detto ai manifestanti che dovevano difendere l’Alta Corte perché: “per decenni, io vi ho protetto. E mentre io vi proteggevo il tribunale proteggeva me”.

Nessuna di queste componenti può essere considerata di sinistra.

Orrore diffuso

Allo stesso modo, le organizzazioni tradizionali del movimento operaio israeliano, come l’Histadrut o il Partito laburista, sono state storicamente gli artefici chiave dell’espropriazione dei palestinesi.

Vale la pena ribadire, nel pieno dei dibattiti in corso, che è stato il movimento operaio israeliano – attraverso la sua federazione sindacale, i suoi kibbutz (fattorie collettive), le sue milizie e il suo partito politico – a battersi per l’esclusione dei palestinesi dallo Stato e dal mercato del lavoro, e ha imposto un regime militare ai cittadini palestinesi dello Stato fino al 1966 e ai palestinesi nei Territori occupati dopo il 1967.

Sono stati questi stessi attori che hanno espulso oltre 700.000 palestinesi dalle loro case, raso al suolo più di 500 villaggi e centri urbani e impedito a qualsiasi rifugiato di tornare successivamente alle proprie case, in diretta violazione del diritto internazionale. Ancora una volta è difficile considerare queste organizzazioni come particolarmente progressiste, figuriamoci come paladine della democrazia.

Questa tensione è stata resa ben chiara dal recente clamore che hanno suscitato le dichiarazioni di Bezalel Smotrich in una conferenza in Francia, in cui ha affermato: Non esiste una nazione palestinese. Non c’è una storia palestinese. Non esiste una lingua palestinese”.

Smotrich è l’attuale ministro delle Finanze, un colono in Cisgiordania e il primo politico civile (e non funzionario militare) ad essere stato incaricato del controllo illegale israeliano sui territori palestinesi occupati.

Le sue dichiarazioni hanno generato un orrore diffuso – come dovrebbero – per la loro palese negazione razzista anche del fatto più basilare dell’esistenza dei palestinesi. Anche gli Stati del Golfo, normalmente così felici di collaborare con Israele, hanno ritenuto necessario chiedere l’intervento degli Stati Uniti.

Democrazia – per chi?

Tuttavia, i sentimenti espressi da Smotrich non sono né nuovi né sorprendenti.

Anzi, sono l’ovvio presupposto ideologico per la colonizzazione in corso della Palestina da parte di Israele. Come diceva il vecchio slogan sionista: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. L’episodio più famoso è quello in cui Golda Meir – una fedele sostenitrice dell’Histadrut e del partito laburista, che è stata la prima e unica primo ministro donna di Israele – dichiarò nel 1969 che “i palestinesi non esistono”.

Perciò riguardo a tutte le accuse nei confronti della destra israeliana, sarebbe bene ricordare che la sinistra israeliana ha sempre condiviso idee simili. Il problema, a quanto pare, è il sionismo.

Riaffermare questi fatti storici di base è importante perché ci permette di dare un senso alla composizione – e ai limiti – dell’attuale movimento sociale in Israele.

Mentre una parte della copertura internazionale riguardo alle riforme si è concentrata sui loro potenziali effetti per i palestinesi – ad esempio sul consenso alla legalizzazione degli avamposti dei coloni contro le sentenze dell’Alta Corte – queste stesse questioni sono state praticamente assenti sia nella protesta che nel dibattito pubblico.

Invece i manifestanti si sono drappeggiati con le bandiere israeliane e si sono presentati come difensori dello Stato e delle sue istituzioni contro intrusi illegittimi – le stesse istituzioni che hanno sviluppato e istituzionalizzato il regime di apartheid israeliano contro i palestinesi.

I pochi cittadini palestinesi dello Stato che hanno tentato, per convinzione ideologica, di intervenire nelle proteste, si sono trovati esclusi, messi a tacere o censurati. Reem Hazzan, ad esempio, è stata invitata a parlare a una manifestazione anti-Netanyahu ad Haifa. È stata costretta a presentare il suo discorso in anticipo agli organizzatori, che poi le hanno chiesto di modificarlo.

Hazzan aveva pianificato di dire ai manifestanti che esiste un collegamento diretto tra il ritiro delle istituzioni democratiche israeliane e l’occupazione militare pluridecennale in corso e la discriminazione razziale contro i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e i Paesi arabi confinanti, ndt.]. Di questo, a quanto pare, la lotta del movimento per la “democrazia” non si occupa.

“Supremazia ebraica”

Hazzan non è sola. E’ talmente eclatante l’esclusione sistematica dei palestinesi, e così totale è il rifiuto di esaminare quale sia stata la realtà della “democrazia” israeliana per i milioni di palestinesi che vivono sotto il suo governo, o come cittadini di seconda classe o come sudditi del suo regime militare che il Tajammu (Balad), che un importante partito politico palestinese che opera all’interno di Israele ha rilasciato una dichiarazione che afferma:

Il mancato riconoscimento della stretta connessione tra la continua violazione dei diritti del popolo palestinese su entrambi i lati della Linea Verde e il colpo di stato giudiziario ci fanno capire che non è per una vera democrazia e una cittadinanza sostanziale che le masse stanno attualmente scendendo in piazza, ma per la conservazione dell’equazione ebraico e democratico”, che si concentra su una democrazia procedurale fondata sul concetto di supremazia ebraica… Pretendere che il popolo arabo-palestinese si mobiliti per questa lotta è più che infondato, è anche indice di sfrontatezza”.

L’esclusione dei palestinesi e delle loro richieste è tanto più eclatante dal momento che l’elezione del governo Netanyahu è stata interpretata – giustamente – dal settore militare e dei coloni come un’indicazione che essi hanno completa libertà d’azione in Cisgiordania. Dall’inizio dell’anno sono stati uccisi oltre 80 palestinesi con attacchi militari che si sono intensificati in frequenza e violenza, in particolare nelle città di Jenin e Nablus.

L’esempio più eclatante dell’accresciuto appoggio del governo ai coloni è stato il pogrom nella città di Huwwara, dove centinaia di coloni hanno imperversato per ore, attaccando gli abitanti, bruciando auto e distruggendo negozi e case.

Quasi 400 palestinesi sono stati feriti e uno ucciso. L’intero attacco si è svolto sotto l’occhio vigile dei militari. In risposta, Smotrich ha dichiarato: “Huwwara deve essere spazzata via. Penso che lo Stato di Israele dovrebbe farlo”.

È a dir poco inquietante che in un tale contesto centinaia di migliaia di persone scendano in piazza per salvare la separazione dei poteri rifiutandosi persino di ascoltare le vittime del regime “liberal democratico” di Israele.

Quale democrazia liberale?

L’attuale movimento di protesta in Israele non è un movimento per trasformare la politica israeliana. Non è nemmeno un movimento per la democrazia. È un movimento che lotta per mantenere lo status quo israeliano: una società costruita su una terra rubata e la continua esclusione dei palestinesi, che sancisce il suo dominio coloniale attraverso un sistema legale che solo lei riconosce.

Le organizzazioni sociali e le istituzioni che partecipano al movimento lo confermano ripetutamente, e lo confermano ulteriormente i rapporti di forza che ripropongono al suo interno. Sarebbe lecito chiedersi se una società coloniale che legalizza le sue politiche espansionistiche attraverso la sua Alta Corte sia migliore, o più democratica, nel vero senso della parola, di una che lo fa attraverso il suo parlamento.

Cosa significa parlare di Israele come di una democrazia liberale, quando le sue istituzioni mantengono il blocco mortale su Gaza, continuano ad espandere gli insediamenti coloniali in Cisgiordania, a Gerusalemme e sulle Alture del Golan e mantengono oltre 65 leggi che prendono di mira specificamente i palestinesi di entrambe le parti della Linea Verde?

Ha senso discutere di democrazia liberale a proposito di uno Stato che non solo ha espulso centinaia di migliaia di suoi futuri cittadini ma continua a rifiutare a loro e ai loro discendenti il diritto al ritorno? Che tipo di democrazia – liberale o meno – si basa sulla negazione del fondamentale diritto di voto a più o meno la metà della popolazione – circa sei milioni di persone – che vive sotto il suo dominio diretto?

Vale la pena ricordare che tutte queste decisioni sono state prese e messe in pratica sotto l’occhio vigile dell’Alta Corte israeliana.

La verità è che non può esserci democrazia sotto una supremazia razziale. Un regime di apartheid è per definizione illiberale. Un dominio coloniale richiede il solido dominio di un gruppo su un altro. La coalizione di Netanyahu potrebbe cadere. O potrebbe resistere alla tempesta.

In ogni caso, la democrazia non emergerà vittoriosa tra il fiume e il mare [Il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ndt.].

Sarebbe necessario sfidare le idee più basilari del sionismo per raggiungere un tale risultato: che uno Stato democratico debba essere per e di tutti i suoi abitanti.

Questa battaglia non viene condotta nelle strade attorno alla Knesset [parlamento israeliano, ndt.] né portata avanti da sindacati, soldati e datori di lavoro israeliani. La sua vittoria dipende da sempre dal soddisfacimento delle richieste formulate tanto tempo fa dal movimento nazionale palestinese: liberazione e ritorno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sai Englert è docente di economia politica del Medio Oriente all’Università di Leida. È l’autore di Settler Colonialism: an Introduction [Colonialismo da insediamento: un’introduzione]. La sua ricerca si concentra sulle conseguenze del neoliberismo sul movimento operaio in Israele. È impegnato anche sul colonialismo di insediamento, sulla trasformazione del lavoro e sull’antisemitismo. È membro del comitato editoriale sia della rivista Historical Materialism [Materialismo Storico, ndt.] che di Notes from Below [Note a piè di pagina, ndt.].

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Smotrich smaschera il vero volto genocida di Israele

Ali Abunimah

20 marzo 2023 – The Electronic Intifada

Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, ha dichiarato domenica a Parigi che i palestinesi non esistono.

Non esistono “i palestinesi perché non esiste il popolo palestinese”, ha detto Smotrich.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi e ovazioni dai partecipanti”, ha osservato The Times of Israel e come mostrano i video dell’evento.

Smotrich è andato oltre, dichiarando che lui – un colono della Cisgiordania – è un “vero” palestinese.

Appesa al podio di Smotrich c’era una bandiera che raffigurava l’intera Palestina storica, la Giordania e parti del Libano e della Siria come appartenenti allo Stato sionista, rivelando un desiderio di una ancora più grande espansione territoriale che anche altri funzionari israeliani hanno espresso di recente.

L’affermazione che i palestinesi non esistono o sono un “popolo inventato” è diffusa tra i sionisti.

Nel 2014 Sheldon Adelson, il defunto miliardario grande donatore a favore delle cause anti-palestinesi e del Partito Repubblicano, ha dichiarato allo stesso modo che “i palestinesi sono un popolo inventato”.

Adelson ha aggiunto: “Lo scopo dell’esistenza dei palestinesi è distruggere Israele”.

Due anni dopo Brooke Goldstein, un’importante attivista della lobby israeliana negli Stati Uniti, ha affermato che “non esiste un individuo palestinese”.

Ma forse il fatto più noto è la dichiarazione del 1969 del primo ministro israeliano Golda Meir secondo cui “non esistono palestinesi”.

Meir era uno dei pilastri dell’establishment del partito laburista di Israele che si pretendeva di sinistra.

L’ultimo commento di Smotrich arriva poche settimane dopo aver dichiarato che la città palestinese di Huwwara dovrebbe essere “spazzata via” dallo Stato di Israele.

Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich pensi davvero ciò che dice e, se gli fosse data l’opportunità, lui e il movimento politico in ascesa che rappresenta realizzerebbero questa opzione.

Inoltre, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che ciò di cui Smotrich sta parlando e propagandando è il genocidio del popolo palestinese.

Né le osservazioni di Smotrich sono sfoghi sconsiderati; riflettono un pensiero profondo e attento e un’ideologia coerente.

Valori delle SS tedesche

Nel 2017, Smotrich elaborò un piano per costringere il popolo palestinese a lasciare la propria terra e per occupare una volta per tutte l’intero territorio.

All’epoca, Daniel Blatman, professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica, scrisse che Smotrich aveva preso ispirazione per il suo piano dal libro biblico di Giosuè, che descrive il massacro totale di un popolo da parte dei “figli di Israele”.

Blatman definì Smotrich, che allora era vicepresidente del parlamento israeliano, la Knesset, “la più importante figura di governo fino ad oggi a dire sfacciatamente che l’opzione del genocidio è sul tavolo se i palestinesi non accettano i nostri termini”.

Secondo il piano di Smotrich, i palestinesi avrebbero dovuto sottomettersi completamente alla supremazia ebraica o essere costretti ad andarsene.

Oggi Smotrich non solo controlla il ministero delle finanze, ma gli sono stati conferiti poteri speciali sulla cosiddetta amministrazione civile, la burocrazia di occupazione militare israeliana che gestisce la vita di milioni di palestinesi, persone che Smotrich ritiene inesistenti.

“L’ammirazione di Smotrich per il genocida biblico Joshua bin Nun lo porta ad adottare valori che assomigliano a quelli delle SS tedesche”, ha aggiunto Blatman, un ex membro del Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

Va sottolineato che anche allora il primo ministro Benjamin Netanyahu era disposto a dare un implicito segno di approvazione alle idee di Smotrich.

“Sono stato felice di sentire che stai indirizzando la discussione dell’incontro al tema del futuro della Terra di Israele”, ha detto Netanyahu in un saluto registrato riprodotto durante l’incontro in cui Smotrich ha esposto il suo piano di genocidio.

Fino a non molti anni fa questo Paese era deserto e abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni di esilio, la Terra di Israele è fiorente”, ha affermato Netanyahu.

Tentativi “liberal” di mascheramento.

I sionisti “liberal” hanno già compiuto intensi sforzi per ritrarre personaggi del calibro di Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale kahanista [seguace del defunto rabbino Kahan, ndt] israeliano Itamar Ben-Gvir come aberrazioni che in qualche modo non sono veri rappresentanti di Israele e del sionismo.

Possiamo aspettarci che questi sforzi di occultamento si intensifichino.

Ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich stia semplicemente articolando l’ideologia e la politica fondative di Israele.

Nel 2004, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha intervistato Benny Morris, uno dei “nuovi storici” israeliani che negli anni ’80 ha utilizzato fonti sioniste per convalidare i resoconti palestinesi della Nakba – la sistematica pulizia etnica della Palestina del 1948 durante la quale le milizie sioniste perpetrarono stupri, omicidi arbitrari e dozzine di massacri.

Morris ha spiegato che David Ben-Gurion, il primo ministro fondatore di Israele – come Meir un pilastro del Partito laburista di sinistra nominalmente laico – ha diretto personalmente il deliberato “trasferimento” del popolo palestinese da gran parte della sua patria.

“Ben-Gurion era favorevole al trasferimento”, ha spiegato Morris. “Ha capito che non poteva esistere uno Stato ebraico con una numerosa e ostile minoranza araba al suo interno. Non ci sarebbe stato un tale Stato. Non sarebbe stato in grado di esistere”.

“Non ti sento condannarlo”, ha detto a Morris l’intervistatore di Haaretz.

“Ben-Gurion aveva ragione”, ha risposto Morris. “Se non avesse fatto quello che ha fatto, uno Stato non sarebbe venuto in essere. Questo deve essere chiaro. È impossibile evitarlo. Senza lo sradicamento dei palestinesi, qui non sarebbe sorto uno Stato ebraico”.

Ma per Morris, l’errore di Ben-Gurion è che non ha fatto una sufficiente pulizia etnica.

Dato che lui [Ben-Gurion] era già impegnato nell’espulsione, forse avrebbe dovuto fare un lavoro completo”, ha affermato Morris.

“So che questo fa inorridire gli arabi, i “liberal” e i tipi politicamente corretti”, ha detto Morris. “Ma la mia sensazione è che questo posto sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse effettuato una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”.

“Potrebbe anche diventare evidente che questo è stato il suo errore fatale”, ha aggiunto Morris. “Se avesse effettuato un’espulsione totale – piuttosto che parziale – avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni”.

Nessuno che si definisca sionista, sia di “sinistra” che di estrema destra, può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris.

Ecco perché nessuno che si definisce sionista sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

È per questo che i sionisti, anche della varietà “liberal”, si preoccupano costantemente della “minaccia demografica” derivante dalla nascita di bambini palestinesi.

Questo è genocidio

E se nessun sionista può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris, allora non può nemmeno essere in disaccordo con Smotrich.

In effetti, lo stesso Smotrich ha fatto eco a Morris quasi alla lettera nel 2021, quando ha urlato ai legislatori palestinesi nel parlamento israeliano che “è stato un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non vi abbia buttati fuori nel 1948”.

Possono fingere shock e disgusto per il linguaggio di Smotrich, ma chiunque creda che Israele debba rimanere uno “Stato ebraico” con una maggioranza ebraica deve almeno sostenere la pulizia etnica dei palestinesi che Israele ha perpetrato fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che sostenga o meno attivamente ulteriori espulsioni su vasta scala in futuro.

In effetti la posizione del numero sempre minore di “liberal” israeliani e di altri sostenitori della cosiddetta soluzione dei due Stati può essere riassunta come segue: sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra che Israele ha già effettuato, ma pensiamo che le future espulsioni e sottrazioni di terre dovrebbero essere limitate, anche se è ampiamente aperto il dibattito sulla loro entità.

Mentre la posizione di Smotrich e compagnia è: noi, come voi, sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra fino ad oggi, ma pensiamo che ce ne debba essere molto di più.

Moralmente e praticamente non c’è differenza perché entrambe le posizioni relegano milioni di palestinesi a vivere sotto il brutale dominio del suprematismo e dell’apartheid ebraico, o esiliati dalla loro patria, solo ed esclusivamente perché non sono ebrei.

Insieme alle frequenti affermazioni secondo cui i palestinesi non esistono e non sono mai esistiti come popolo, le espulsioni e i massacri di Israele trascendono il crimine già sufficientemente orribile della pulizia etnica ed entrano nel regno del genocidio: la completa cancellazione dei palestinesi come popolo.

Anche qui, la posizione di Smotrich secondo cui i palestinesi non hanno esistenza e tanto meno diritti come popolo non è un’aberrazione ma un riflesso del consenso israeliano.

Ricordiamo che nel 2018 Israele ha adottato la cosiddetta Legge sullo Stato-Nazione, uno strumento costituzionale che dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico”, negando così ai palestinesi qualsiasi diritto nazionale o esistenza.

E a dicembre, quando il nuovo governo di coalizione di Benjamin Netanyahu si è insediato, ha dichiarato come primi principi guida che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della terra di Israele”.

Israele torna alle sue radici

Si dice spesso, comprensibilmente, che l’attuale governo israeliano sia il più apertamente razzista e di destra della storia.

Ciò può essere vero in termini di retorica, ma non c’è alcuna differenza pratica tra il fondatore “socialista” laico di Israele, David Ben-Gurion, e un sionista religioso di estrema destra come Smotrich.

Ma dopo decenni di soppressione del linguaggio apertamente genocida di Smotrich a favore della presentazione di un volto “liberal” e “democratico”, perché gli israeliani ora stanno abbracciando questa retorica?

Ciò dipende dal fatto che il “problema demografico” di Israele – l’esistenza di “troppi” palestinesi che vivono e respirano sul proprio suolo – sta diventando urgente.

Con gli ebrei ancora una volta una minoranza tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, molti israeliani sentono chiaramente di non avere altra scelta che tornare pienamente alle radici genocide del loro paese.

Ecco perché l’ostracismo verso Smotrich – come hanno fatto i funzionari francesi rifiutandosi di incontrarlo durante la sua permanenza nel loro paese – è insufficiente e fuorviante perché ritrae falsamente un “estremista” come il problema.

Il problema è il sionismo stesso e l’incubo genocida e coloniale in corso che ha scatenato sul popolo palestinese e sulla sua terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Perché l’opposizione israeliana non vuole parlare del vero obiettivo della riforma giudiziaria

Michael Schaeffer Omer-Man

21 febbraio 2023 – +972 Magazine

Politici del governo hanno esplicitamente affermato che la riforma giudiziaria riguarda l’annessione. Gli oppositori non vogliono ammetterlo perché condividono lo stesso progetto.

Quasi esattamente 10 anni fa il ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin, allora giovane stella nascente nel partito di Netanyahu, il Likud, parlò a una conferenza organizzata dal Movimento Israeliano per la Sovranità, sostenitore della totale annessione da parte di Israele dei territori palestinesi occupati. Prima di esporre un piano di quattro fasi per quello che molti hanno definito una “annessione strisciante” attraverso piccoli passi successivi nell’applicare la legge israeliana alla Cisgiordania, Levin mise in guardia il suo pubblico di ideologi.

Non ho dubbi che tra non molto riusciremo ad estendere la sovranità su tutta la Terra di Israele,” rassicurò i presenti. “È importante avere questo progetto perché a volte esso contrasta con le tattiche e i compromessi che devono essere fatti lungo il percorso. Dobbiamo attenerci a questo obiettivo in modo intelligente giorno dopo giorno, potrei persino dire talvolta con raffinatezza, per raggiungere alla fine il nostro obiettivo.”

Un anno dopo Levin parlò di nuovo alla conferenza. Oltre ai passi discreti e implacabili che aveva presentato nella sua precedente apparizione, il politico del Likud aggiunse due importanti prerequisiti per una totale annessione. Il primo, ammonì, era una lenta e paziente campagna per cambiare il modo in cui l’opinione pubblica israeliana, compresa la destra annessionista, pensava e parlava della questione palestinese dopo decenni in cui gli Accordi di Oslo e la soluzione a due Stati avevano caratterizzato il discorso.

La seconda condizione imprescindibile per l’annessione di cui parlò fu molto più audace: una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario israeliano. “Non possiamo accettare l’attuale situazione in cui il sistema giudiziario è controllato da estremisti di sinistra, una minoranza post-sionista che si auto-nomina a porte chiuse, imponendoci i suoi valori, non solo sull’(annessione), ma anche su altre questioni,” spiegò Levin. “Un cambiamento del sistema giudiziario è essenziale perché ci consentirà e ci faciliterà il fatto di intraprendere passi concreti sul terreno che rafforzino il processo di promozione della sovranità.”

Molti nella destra israeliana vedono il sistema giudiziario del Paese, che in realtà ha appoggiato e consentito l’esistenza stessa e l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati, come ostile al movimento dei coloni. Vedono gli occasionali vincoli che la Corte ha introdotto, in particolare il fatto che essa abbia bocciato una legge che avrebbe legalizzato colonie costruite su proprietà privata palestinese rubata, come il principale impedimento alla possibilità di realizzare i sogni annessionisti, che per loro sono una combinazione di imperativi messianici e ideologici.

Passano 10 anni e Levin diventa il nuovo ministro della Giustizia di Israele, accelerando una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario del Paese, in un processo che molti all’interno di Israele definiscono un tentativo di colpo di stato. La proposta di legge ha scatenato in Israele un massiccio movimento di protesta che ha visto manifestazioni settimanali, scioperi generali, minacce di fuga di capitali e importanti personalità che invocano la disobbedienza civile.

Nonostante la crescente rivolta, lunedì notte la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato in prima lettura una legge che darebbe al governo un notevole controllo sulla commissione per la selezione dei giudici israeliani e impedirebbe alla Corte Suprema di esercitare il controllo giudiziario sulle Leggi Fondamentali del Paese. La proposta richiede altre due letture perché venga convertita in legge.

In un Paese con un ordine costituzionale caratterizzato dalle innumerevoli decisioni dei suoi leader di non prendere decisioni, la prospettiva di un risoluto governo di estrema destra che consolidi il potere e sovverta l’unico controllo istituzionale sulle sue pretese è indubbiamente terrificante. Quindi molti israeliani pensano di lottare per salvare la democrazia, le libertà e i diritti che hanno sperimentato nel loro Paese per più di 70 anni.

Ma ciò sollecita una domanda cruciale: perché il latente obiettivo ideologico e politico che promuove questa riforma dell’intero sistema di governo israeliano da parte dell’estrema destra, cioè l’annessione unilaterale dei territori occupati, è così assente dal discorso pubblico e dalle proteste nelle piazze?

Non è un progetto degli estremisti

Non c’è bisogno di vedere i video di 10 anni fa su YouTube per capire l’ossessione fanatica che la destra israeliana ha riguardo all’annessione. Solo qualche anno fa, in un governo non diverso da quello di oggi, Netanyahu disse che entro breve avrebbe ufficialmente annesso vaste aree della Cisgiordania occupata, un piano poi congelato in cambio della normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, seguiti dal Bahrein, dal Marocco e dal Sudan.

In seguito a quel disastro per la destra annessionista, nel 2020 l’allora presidente della Knesset Yariv Levin, insieme all’attuale ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, fondò il “Comitato per la Terra di Israele”. Pur mettendo in guardia i suoi sodali ideologici che come presidente della Knesset avrebbe dovuto parlare in “termini istituzionali”, durante il primo incontro Levin rassicurò i suoi alleati del comitato che avrebbe comunque lavorato per procedere verso l’annessione. “La sovranità su tutta la terra di Israele,” affermò, “è l’irrevocabile diritto del popolo ebraico. È nostro dovere, e non una questione di scelta, realizzarlo.”

È importante analizzare la leadership di Levin a favore dell’annessione per due ragioni. La prima è che egli si trova ora nella posizione di mettere le basi giuridiche per la sua realizzazione. La seconda è che i progetti annessionisti di questo governo, sia all’interno di Israele che a livello internazionale, tendono ad essere liquidati come un progetto di politici e partiti dei coloni estremisti che sono arrivati al governo e grazie ai quali Netanyahu è stato in grado di riprendere il potere dopo quattro elezioni inconcludenti e un breve periodo all’opposizione.

Il Comitato per la Terra di Israele, che Levin ha co-fondato per portare avanti strategie legislative e alleanze trasversali tra i partiti finalizzate all’annessione, è sempre stato dominato dal Likud. Nella 23esima Knesset, quando il comitato è stato fondato, i parlamentari del Likud rappresentavano il 44% dei membri, più di metà degli eletti del partito. Da allora nella 24esima Knesset, sciolta lo scorso novembre, l’87% dei deputati del Likud faceva parte del comitato ed essi rappresentavano il 57% di esso. Pochi anni prima il comitato centrale del Likud aveva votato per sostenere l’annessione come parte del proprio programma.

Nonostante la loro esplicita agenda, nel più vasto dibattito pubblico Netanyahu e il Likud sono percepiti come intenzionati a riformare il sistema di governo israeliano per ragioni diverse, di megalomania e corruzione. Il primo ministro, si afferma, attualmente è sotto processo per corruzione, la principale ragione citata dai suoi alleati storici per abbandonarlo, e l’unico modo per lui di garantirsi di non finire in galera è attraverso il controllo del potere giudiziario. All’interno di questa narrazione la riforma governativa è stata definita semplicemente come un abuso di potere, benché con conseguenze di vasta portata per l’economia, la posizione diplomatica, i diritti civili e per una delle linee di faglia più spinose di Israele: i rapporti tra Stato e religione.

Generalmente si attribuisce ai partiti più piccoli e radicali dell’ultimo governo Netanyahu, guidati da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, l’uso della riforma giudiziaria per raggiungere finalmente il loro sogno di annessione, sfrenata espansione delle colonie ed espulsione del maggior numero possibile di palestinesi. Per gran parte dell’opposizione essi sono tutt’al più degli opportunisti che hanno individuato il momento in cui le loro fantasie messianiche convergono con gli interessi personali di Netanyahu e in cui finalmente hanno influenza perché senza di loro il governo crollerebbe.

Di conseguenza la lotta per salvare la democrazia israeliana dipinge la propria distopia in parallelo con la caduta nell’autoritarismo vista in Ungheria e in Polonia nello scorso decennio. Quindi bloccare l’“orbanizzazione” di Israele è diventata una sorta di parola d’ordine dell’opposizione.

Un ethos colonialista unificante

La ragione di questa dissonanza tra la narrazione dell’opposizione e il vero progetto del Likud è duplice. Primo, perché in parte è vera: in effetti Netanyahu ha bisogno di questi alleati di coalizione proprio per la sua stessa sopravvivenza politica e la sua libertà personale. La seconda ragione si riduce al fatto che l’opposizione israeliana e Netanyahu condividono la stessa ideologia, il sionismo, il cui fondamento è la convinzione che dio abbia dato la Terra di Israele al popolo ebraico, che gli ebrei abbiano il diritto di stanziarsi su ogni parte di quella terra e che la sopravvivenza del popolo ebraico dipenda dalla estrinsecazione fisica e politica di tale dottrina.

L’unica seria sfida a questo progetto, il fallito processo di Oslo che prevedeva la partizione e diversi livelli di limitata autonomia palestinese, non ha mai contrastato la fondamentale convinzione sionista che tutta la Terra di Israele sia del popolo ebraico. Quello su cui leader come Yitzhak Rabin e Ariel Sharon dissentivano riguardava il compromesso strategico, non l’ideologia. Loro e gli israeliani che ne seguivano i rispettivi percorsi non hanno mai visto la rinuncia alla piena applicazione di quello che è noto come sionismo massimalista o espansionista come una sua negazione.

Questo caposaldo del sionismo è la ragione per cui Rabin, Sharon, Shimon Peres, Ehud Olmert, Tzipi Livni e qualunque altro importante politico israeliano che ha proposto o inteso fare concessioni territoriali non si è mai sognato di rinunciare a tutte le colonie israeliane al di là della Linea Verde. A un decennio dall’ultimo processo di pace credibile, in Israele il sostegno persino a una limitata concessione territoriale è praticamente sparito.

A prescindere dalla sua veridicità storica, l’idea della sinistra israeliana di terra in cambio di pace è stata screditata dalla maggioranza degli israeliani sionisti come un errore comprovato. Persino quei partiti politici che ancora sostengono una soluzione a due Stati, anche solo in teoria, hanno interiorizzato da molto tempo l’inutilità di perseguirla. Un recente sondaggio ha rilevato che il sostegno degli ebrei israeliani a un regime di apartheid permanente, in cui Israele controlli tutto il territorio dal fiume Giordano al Mediterraneo ma non conceda pari diritti ai palestinesi, è raddoppiato negli ultimi due anni dal 15 al 29%. Nello stesso periodo il numero di ebrei israeliani che appoggiano i due Stati è sceso dal 43 al 34 %.

Cosa ancora più grave, una significativa sezione trasversale di quanti protestano contro il piano Netanyahu-Levin-Smotrich-Ben Gvir, e stanno anche avvertendo di un possibile spargimento di sangue nelle piazze, condivide il latente insieme di principi ideologici e obiettivi politici che il quel progetto intende raggiungere.

Per alcuni israeliani l’opposizione è personale: aborrono l’idea che governi il loro Paese qualcuno sotto processo per corruzione. Per altri, come Avigdor Lieberman [leader di un partito ultranazionalista laico, ndt.] e molti israeliani laici preoccupati dalle imposizioni religiose, si tratta dell’alleanza di Netanyahu con partiti religiosi ebraici. Per quanti sono più vicini al centro-sinistra, le differenze riguardano il prezzo per il vissuto ebraico democratico e quasi liberale di Israele.

Molti economisti e importanti uomini d’affari sono semplicemente terrorizzati dai previsti danni per l’economia israeliana derivanti dall’erosione dello stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.

Il problema con la “democrazia israeliana”

Dato che queste differenze non sono ideologiche, praticamente nessuno sta facendo i conti con la dissonanza tra la propria concezione della democrazia israeliana che starebbe cercando di salvare e l’intrinsecamente antidemocratico e illiberale regime di apartheid su cui la “sovranità ebraica” si è sempre fondata.

Il centro e buona parte della destra israeliani si oppongono all’annessione a breve termine della Cisgiordania perché pensano che in base alle attuali circostanze lo status quo di una “temporanea” occupazione militare di più di 55 anni sia più prudente dal punto di vista strategico. Secondo loro cancellare formalmente la distinzione tra i territori occupati e il vero e proprio territorio riconosciuto di Israele renderebbe troppo difficile convincere il mondo che Israele non è un regime di apartheid in cui a metà della popolazione, palestinese, vengono negati fondamentali diritti democratici, civili e umani.

Tale dissonanza risulta evidente se si considera che l’opposizione al piano di Netanyahu non sta offrendo un progetto alternativo. Non stanno suggerendo che Israele adotti una costituzione con garanzie formali di uguaglianza, diritti civili, democrazia o chiarezza sulla questione dei rapporti tra Stato e religione. Non hanno intenzione di denunciare le mire espansionistiche di Levin, Smotrich e Ben Gvir perché tali mire e la convinzione che la Terra di Israele sia del popolo ebraico è intrinseca all’ethos sionista. Non sono in grado di definire cosa effettivamente ne sia della democrazia israeliana se continua a governare in modo antidemocratico milioni di palestinesi senza concedere loro pari diritti.

Tuttavia il baratro che, come avvertono alcuni, potrebbe portare Israele a una guerra civile non riguarda visioni contrapposte del Paese. Il fatto è che un gruppo non si accontenta più di aspettare le “giuste condizioni” per realizzare il sogno sionista della sovranità ebraica su tutta la Terra di Israele, mentre l’altro preferisce attenersi alla tradizione politica di guadagnare tempo decidendo di non decidere.

Per Netanyahu, Levin, Smotrich e Ben Gvir le conseguenze della formalizzazione di un regime di apartheid che mini la nozione di Israele come una democrazia, e alcuni dei privilegi e vantaggi che questa definizione offre loro, valgono il costo, se pure il mondo è intenzionato a imporne uno. E proporre una vera visione alternativa richiederebbe all’opposizione un livello di riflessione su se stessa e una sfida a convinzioni fondamentali che praticamente nessuno intraprenderebbe volontariamente.

Michael Schaeffer Omer-Man è direttore di ricerca per Israele-Palestina al DAWN [Democracy for the Arab World Now, istituto di ricerca statunitense, ndt.]. Fino al 2019 è stato direttore di +972 Magazine. Ha lavorato anche con agenzie internazionali umanitarie e per i rifugiati nel contesto Israele/Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)