Le controverse vicende di un’ideologia e della sua storia

Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci editore, Roma, 2017, pp. 254, 24 €.

 Amedeo Rossi

Nell’introduzione l’autore sembra definire un punto di vista nettamente schierato dalla parte di Israele.

Arrivato il 30 aprile 1998 a Tel Aviv per i suoi studi di storico, ricorda: “Festeggiavo anche io la nascita di Israele, che aveva finalmente dato uno Stato al popolo ebraico, dopo secoli di discriminazioni e persecuzioni e dopo la tragedia della Shoa.” Ma subito dopo racconta del suo ritorno nel 2001, durante la Seconda Intifada, e di essersi trovato in una situazione completamente diversa, tanto da aver manifestato insieme a “Mustafa Barghouti e Hanan Ashrawi, due leader palestinesi che sino ad allora avevo visto solo in foto.”

Dalla dissonanza tra questi due ricordi si intuisce una delle ragioni della stesura di questo libro: la dolorosa consapevolezza di una realtà lontana dalla narrazione della lotta gloriosa di un popolo oppresso che rivendica i propri diritti ad avere uno Stato. La riflessione sul conflitto israelo-palestinese fa parte del campo di studi dell’autore, che ha pubblicato altri libri sull’argomento, ma in questo saggio Marzano sembra cercare nelle vicende dell’ideologia sionista la radice del contrasto tra quello che si presentava come un movimento di liberazione e i suoi drammatici esiti storici. Per fare questo l’autore ripercorre le tracce di un pensiero spesso contraddittorio al suo interno, tanto da giustificare il plurale del titolo: “sionismi”.

Marzano ricorda quanto, fino allo sterminio nazista, il movimento sionista fosse minoritario all’interno delle comunità ebraiche europee, osteggiato sia dagli ebrei socialisti e comunisti che dall’ortodossia religiosa, che lo riteneva un movimento blasfemo. Al contempo fin dalle sue origini uno dei nodi principali del sionismo è stato il rapporto con i palestinesi. I suoi ideologi erano ben consci del fatto che la Palestina fosse una terra abitata da una popolazione che rappresentava uno dei principali ostacoli per la realizzazione del loro progetto, benché alcuni, come Magnes e Buber, ritenessero che fosse possibile vivere in armonia con i nativi.

Il libro ripercorre la storia delle varie tendenze del sionismo non in modo sincronico, ma in base al loro ruolo preponderante nel corso del tempo. Nei primi capitoli, pur citando anche le posizioni critiche, Marzano presenta l’evoluzione del pensiero e dell’azione della corrente maggioritaria, il “sionismo politico”, che si identificava principalmente con le figure di Chaim Weizman e di David Ben Gurion, il principale stratega della costruzione del consenso internazionale per il progetto sionista e l’edificatore dello Stato. Il complesso rapporto tra socialismo sionista e colonialismo di insediamento viene analizzato con attenzione, sostenendo la tesi che il primo fosse stato scelto da Ben Gurion per ragioni eminentemente pragmatiche: “Il socialismo era sostanzialmente diventato uno strumento, non un «collante di obiettivi universali, bensì […] un mezzo per la realizzazione del sionismo»”, scrive Marzano, citando lo storico israeliano Zeev Sternhell.

Come puntualmente documentato nel libro, pur avversato da destra e da sinistra questo modello di sionismo ha dominato il movimento sionista e la vita politica del nuovo Stato fino all’evento cruciale rappresentato dalla guerra dei Sei Giorni. Il fatto di aver triplicato in un brevissimo lasso di tempo e di evidente eco biblica le dimensioni dello Stato rappresentò un evento che molti, non solo in Israele, considerarono “miracoloso”. Le sfide al sionismo “socialista” vennero principalmente da tre direzioni. La prima, sorta a partire soprattutto dai primi decenni del ‘900, ad opera del rabbino Abraham Isaac Kook e di suo figlio Zvi Yehuda. In opposizione con il tradizionale quietismo dei rabbini ortodossi, che ritenevano che sarebbe stato dio a riportare gli ebrei nella Terra promessa, questa corrente teologica sosteneva che la conquista della terra avrebbe accelerato l’avvento del messia e la fine del mondo. Questo pensiero millenarista è stato la base ideologica del movimento dei coloni nazional-religiosi, i primi a costruire insediamenti nei territori occupati. Pur rappresentando una sfida aperta allo Stato basato su principi laici, questo movimento ha avuto un rapporto molto stretto con il potere politico, anche laburista, che ne ha consentito l’espansione. Marzano sembra privilegiare l’idea secondo cui i nazional-religiosi si siano serviti e si servano tuttora del potere politico-militare dello Stato per perseguire i propri scopi. Altri autori, sempre israeliani, sostengono invece che sia stata la dirigenza laburista, compresi Rabin e Peres, ad utilizzarli per la progressiva colonizzazione della Cisgiordania. L’avvio della colonizzazione israeliana in Cisgiordania è stata funzionale alla progressiva erosione della terra palestinese, come ammette lo stesso Marzano.

L’occupazione e la colonizzazione risvegliarono anche quelle correnti di pensiero che, pur riconoscendosi almeno in parte nel progetto sionista, ne mettevano in dubbio i metodi e la legittimità riguardo al trattamento riservato ai palestinesi. Ma non furono i movimenti pacifisti a capitalizzare la crisi del gruppo di potere laburista, bensì gli eredi del sionismo revisionista e dei gruppi armati degli anni ’30, che avevano praticato il terrorismo sia contro gli inglesi che contro la popolazione civile palestinese. Il libro torna a questo punto alle origini del revisionismo, così chiamato perché intendeva “revisionare il sionismo per farlo tornare ai principi che si erano nel frattempo persi.” Marzano sintetizza l’opposizione tra le due principali correnti del sionismo con i concetti di “Medinat Israel”, caro ai laburisti e che privilegiava la costruzione dello Stato con caratteristiche liberal-democratiche (quanto meno per i cittadini ebrei) e quello di “Eretz Israel”, la Terra di Israele. Quest’ultimo principio, che, insieme al liberismo in economia ed al comunitarismo etnico-religioso, avrebbe segnato i governi del Likud, ha prevalso nella vita politica israeliana, salvo nel periodo di governo di Rabin e degli accordi di Oslo. Marzano sembra ritenere che Oslo potesse rappresentare una soluzione del conflitto, ponendo di fatto fine all’occupazione della Cisgiordania, e che sia stata l’uccisione di Rabin a farli fallire. Tuttavia egli stesso ricorda che lo stesso primo ministro laburista si dichiarò contrario alla nascita di uno Stato palestinese, e d’altra parte in più occasioni favorì la prosecuzione della colonizzazione.

La seconda parte del libro ripercorre la deriva reazionaria e razzista che ha caratterizzato gli ultimi 20 anni della politica israeliana, i cui protagonisti sono stati prima Sharon e poi Netanyahu, e il progressivo espandersi della colonizzazione e del peso dei coloni ultranazionalisti e nazional-religiosi nei governi di quest’ultimo. Al contempo, individua la crisi dell’ideologia sionista, messa in discussione sia dai sionisti contrari all’occupazione che da post-sionisti (tra cui si colloca l’autore) ed anti-sionisti.

In conclusione Marzano si pone due domande: questa deriva era insita nell’ideologia sionista? Secondo l’autore sarebbe stata la prevalenza nel movimento del nazionalismo organico, sostenuto da Gordon ed accolto da Ben Gurion, rispetto al socialismo democratico propugnato da Borokov, a segnare la realizzazione pratica del sionismo e a determinare l’espulsione dei palestinesi. La colonizzazione della Cisgiordania ha portato all’alternativa tra uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini, che rappresenterebbe la fine del sionismo, e uno Stato di apartheid, quale già di fatto esiste. La seconda domanda conclude il libro: “Se si crede in uno Stato pienamente democratico, non è forse giunto il momento – come afferma il post-sionismo – di passare da uno «Stato ebraico e democratico» a uno «Stato per tutti i cittadini»?”

Per quanto complesso ed articolato, il libro non affronta la ragione per la quale il sionismo, al di là dei dibattiti ideologici, non poteva essere diverso e per la quale sionisti “socialisti” e revisionisti, nonostante le differenze tattiche, hanno da sempre condiviso l’obiettivo strategico. Era possibile costruire uno Stato in cui gli ebrei fossero la schiacciante maggioranza e che avrebbe dovuto ospitare, in base al progetto sionista, tutti gli ebrei del mondo senza espellere i palestinesi che, alla vigilia della nascita di Israele, rappresentavano i 2/3 della popolazione? E in generale, non avevano ragione gli ebrei antisionisti, da Rosa Luxemburg a Trotzki ai bundisti, a considerare il sionismo un movimento reazionario, in quanto nazionalista e colonialista?




La Dichiarazione Balfour dissezionata: 67 parole che hanno cambiato il mondo

Amanda Thomas-Johnson

1 novembre 2017, Nena News

Middle East Eye

Un secolo dopo il sostegno del governo britannico per una patria ebraica genera ancora controversie. Ecco perché

È battuta a macchina su un singolo foglio di carta. È lunga meno di 70 parole. Il suo linguaggio è privo di emozioni e difficilmente potrebbe essere chiamata poetica. Ma la Dichiarazione Balfour, emessa dal governo britannico cento anni fa questa settimana, ha cambiato il corso della storia per ebrei, arabi e resto del mondo.

Dietro alla breve asserzione – nascosta in una lettera di 112 parole – sta la promessa ai sionisti di una patria per il popolo ebraico. Una promessa corroborata dalla spinta di Londra verso la vittoria nella guerra, dal romanticismo biblico dei cristiani dell’establishment e, nelle parole di Avi Shlaim, professore israeliano, dal “freddo calcolo degli interessi imperialisti britannici”.

Capire come la dichiarazione è stata prodotta è la chiave per comprendere come, un secolo dopo, resta fonte di intensa controversia, celebrata da molti ebrei ma anche avversata da molti arabi.

Tempo di guerra

È l’autunno 1917, tre anni dall’inizio della prima guerra mondiale. Le truppe britanniche sono quasi alle porte della città di Gerusalemme in Palestina. Il territorio, insieme a buona parte del Medio Oriente, è sotto il controllo dell’impero ottomano che, con la Germania, sta combattendo la Gran Bretagna.

Per farsi aiutare a vincere la guerra, i britannici incoraggiano gli arabi alla rivolta contro gli ottomani in cambio di una patria pan-araba. Ma nel 1916 Francia e Gran Bretagna avevano firmato in segreto gli Accordi di Sykes-Picot, che hanno fatto a pezzi il Medio Oriente e lo hanno spartito tra i due poteri europei.

In quello che è il secondo tradimento delle aspirazioni politiche arabe, Arthur Balfour, il segretario agli Affari esteri britannico, scrive il 2 novembre a Lord Walter Rothschild, preminente membro della comunità ebraica britannica. La dichiarazione è il culmine di numerose bozze, che erano state attentamente lette dai membri del governo.

Rothschild, un finanziere, è membro di una delle più ricche famiglie europee. È anche il primo ebreo a sedere nella Camera dei Lord e un leader del movimento sionista che ha lavorato per creare uno Stato per gli ebrei in Palestina – anche se la sua popolazione all’epoca era per oltre il 90% araba.

Il Regno Unito appoggia la causa sionista

Gli ebrei stavano immigrando in Palestina da qualche decennio, spinti dai pogrom antisemiti nell’impero russo alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo. Ma è nel 1897, con la fondazione dell’Organizzazione Sionista in Svizzera per volere di Theodore Herzl, giornalista austro-ungarico, che le aspirazioni del sionismo politico – una casa per il popolo ebraico in Palestina – cominciano a prendere forma.

Negli anni a seguire, i sionisti iniziano a fare premere per una maggiore migrazione in Palestina nella speranza che i grandi poteri – Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti – sostengano la loro campagna. Ma mentre una parte dell’establishment britannico è simpatetica con la causa sionista, il governo passa nel 1905 una legge che limita l’ingresso di ebrei nel paese.

Il primo ministro britannico, David Lloyd George, che l’accademico israeliano Avi Shlaim ha descritto come “l’energia” dietro la Dichiarazione, è un gallese di origine cristiano-evangelica. È un membro del gruppo di devoti politici cristiani che guardano alla creazione di uno Stato ebraico come il compimento di una profezia biblica: che un popolo a lungo perseguitato sarà in grado di tornare dall’esilio alla propria patria.

Subito dopo lo scoppio della guerra nel 1914, il leader sionista Chaim Weizmann prende contatti con Rothschild e comincia a fare lobby sui membri del governo britannico. Nel gennaio 1915 il governo discute per la prima volta l’idea di una patria per gli ebrei in Palestina.

John Bond del Progetto Balfour spuega che la discussione tra i politici britannici era focalizzata poco sulla religione e molto sulla sicurezza geopolitica: “I motivi non erano religiosi, ma di cocciuto imperialismo. La loro religione era l’impero britannico ben prima che esistesse il sionismo”.

La Gran Bretagna vede il beneficio strategico nel creare quello che Ronald Storrs, un futuro governatore di Gerusalemme, avrebbe descritto come “un’Irlanda del Nord ebraica fedele in un mare di arabismo potenzialmente ostile”. La Palestina, realizza Londra, è essenziale alla protezione dei propri interessi nella regione, specialmente il Canale di Suez e le vie di comunicazione con l’India, il gioiello della corona imperiale britannica a quel tempo.

E i palestinesi?

Nel 1917 la popolazione della Palestina (700mila persone) è dominata da arabi – parte della “esistente comunità non ebraica” di cui parla la Dichiarazioni. La maggior parte delle comunità è musulmana, ma ci sono anche cristiani. C’è anche un piccolo numero di palestinesi ebrei che vivono in Palestina da secoli e condividono con gli altri palestinesi la lingua, gli usi e le tradizioni.

I palestinesi sono vissuti sotto il dominio dell’impero ottomano per quattro secoli, ma con la prima guerra mondiale il sostegno ai turchi è precipitato. Un nuovo regime turco nazionalista è ora a capo dell’impero e, con l’appoggio britannico, le aspirazioni politiche arabe sembrano più raggiungibili che mai.

Durante la guerra, la Gran Bretagna e i suoi alleati inseguono i territori ottomani. Ma le tensioni iniziano a montare in Palestina quando ondate di ebrei europei cominciano ad arrivare, a comprare le terre e a utilizzare la lingua ebraica, il tutto con l’obiettivo di creare uno Stato. Costruiscono anche insediamenti: uno viene chiamato Tel Aviv. I leader palestinesi temono una sconfitta e si lamentano con le autorità ottomane.

Lo scrittore arabo Abdullah Mukhlis riassume le parole di molti palestinesi quando, in anticipo sui tempi, nel 1910, scrive: “La creazione di uno Stato ebraico dopo migliaia di anni di declino…noi (arabi) temiamo che la nuova colonia espellerà gli indigeni e dovremo lasciare il nostro paese in massa”.

Prima della Dichiarazione non c’era unità tra i sionisti fuori dal Medio Oriente. Nel Regno Unito, ad esempio, solo 8mila dei 300mila ebrei presenti appartenevano ad un’organizzazione sionista prima della Dichiarazione Balfour.

Chris Doyle, il direttore del Council for Arab-British Understanding, spiega: “Gli ebrei sicuramente non erano uniti. Ce n’erano molti che pensavano che avrebbe avuto un impatto negativo. Il sionismo non aveva catturato l’immaginazione delle comunità ebraiche”

Come è stata ricevuta la Dichiarazione

Quando è divenuta pubblica, la Dichiarazione Balfour ha segnato un punto di svolta nella campagna tra gli ebrei. In Gran Bretagna è guidata dalla Federazione Sionista, un gruppo ombrello che preme per l’idea che il principale obiettivo del sionismo sia l’aliyah, ovvero l’immigrazione in Palestina. Una celebrazione viene organizzata nella Royal Opera House, durante la quale intervengono importanti leader sionisti e membri del governo.

I membri delle organizzazioni sioniste aumentano drasticamente anche negli Stati Uniti. Tuttavia, alcuni ebrei ortodossi si oppongono alla creazione di una patria ebraica in Palestina sulla base di convinzioni religiose.

Weizmann continua a fare lobby sui ministri, i diplomatici, i funzionari. Partecipa alla Conferenza di pace di Versailles nel 1919, quella che definisce i termini della pace per gli sconfitti. Weizmann prova a tenere i britannici ancorati alle loro promesse.

Herbert Samuel, il parlamentare sionista che aveva avviato le discussioni nel governo su una patria ebraica in Palestina, viene nominato governatore della Palestina nel 1920.

I successivi cento anni

I leader arabi palestinesi diventano furiosi quando la notizia della Dichiarazione emerge, nelle settimane successive. Dal 1920 in avanti, i palestinesi commemorano l’anniversario della Dichiarazioni con proteste che in alcuni casi si fanno violente.

Nel 1922 la Palestina finisce sotto il mandato britannico, che avrebbe dovuto preparare la popolazione all’eventuale auto-determinazione. Ma il documento del mandato lascia fuori la parola “arabo”. Al contrario, consacra la Dichiarazione Balfour all’interno di un contesto legale internazionale.

La Dichiarazione porta nel 1947 alla realizzazione del sogno sionista di una patria per gli ebrei quando le neonate Nazioni Unite si accordano per la spartizione della Palestina in un territorio arabo e uno ebreo. ,a questo genera ulteriore ostilità tra i vicini arabi di Israele. Quando Israele dichiara l’indipendenza nel 1948, la guerra scoppia. Israele esce vincitore ma i suoi abitanti vivranno da quel momento in poi sotto la costante minaccia del conflitto.

Nel 1948 i palestinesi vivono la Nakba, la catastrofe: centinaia di migliaia di loro vengono violentemente portati via dalle loro case e costretti a vivere sotto occupazione o fuori dalla Palestina.

I sionisti, intanto, celebrano Balfour. Strade delle principali città, compresa Gerusalemme, prendono il suo nome. Balfouria, un insediamento a sud di Nazareth, era stata fondata in suo onore nel 1922. La sua scrivania si trova nel Museo del Popolo Ebraico a Tel Aviv. La Giornata Balfour viene celebrata ogni anno il 2 novembre.

Da parte sua Balfour non ha mai mostrato alcun rimorso. Nel 1919 dice al suo successore, George Curz

on, che non concordava con lui sulla politica britannica verso la Palestina, che “il sionismo, che sia giusto o sbagliato, è radicato in tradizioni vecchie di anni, nei bisogni presenti e nelle speranze future ed è di più profonda importanza dei desideri e i pregiudizi dei 700mila arabi che oggi vivono quell’antica terra”.

La lettera è conservata alla British Library.

(Traduzione a cura della redazione di Nena News)




L’eroe sionista progressista Barak si vanta che la sinistra israeliana ha “liberato” i territori occupati per gli ebrei

Jonathan Ofir

 30 settembre 2017, Mondoweiss

Questa settimana l’ex-primo ministro israeliano ‘di sinistra’ Ehud Barak ha seriamente vuotato il sacco riguardo all’occupazione del 1967 da parte di Israele, esprimendo in termini non ambigui che non si tratta di una questione esclusivamente della destra, come i suoi critici spesso amano dire. Barak ha dimostrato che è qualcosa di cui la “sinistra” è integralmente partecipe. E lo abbiamo sentito dalla bocca del diretto interessato – il diretto interessato chiamato ‘fulmine’ (in ebraico ‘Barak’ vuol dire fulmine).

Nel suo articolo su Haaretz, Barak ha lamentato il fatto che nella recente manifestazione che ha festeggiato i 50 anni dell’occupazione (pubblicizzata con lo slogan “Siamo tornati a casa”), non ci fossero abbastanza esponenti di ‘sinistra’. Barak ha detto che non c’era una rappresentanza sufficientemente nazionale: “Una cerimonia nazionale avrebbe sottolineato quello su cui siamo d’accordo e che ci unisce, piuttosto che quello che ci divide e separa,” ha scritto.

Sì, Barak sente che la ‘sinistra’ è esclusa, e non le viene riconosciuto a sufficienza il merito per la sua parte nell’occupazione e nel progetto di colonizzazione!

Una commemorazione nazionale avrebbe dovuto sottolineare che le persone che hanno costruito l’esercito israeliano e guidato la guerra per la liberazione di quelle parti della terra erano Yitzhak Rabin, Haim Bar-Lev, Motta Gur ed altri (che in seguito si rivelarono essere ‘di sinistra’, dio ce ne scampi), e che il partito che consolidò e guidò l’impresa di colonizzazione per un decennio, soprattutto in base a considerazioni relative alla sicurezza, furono l’odiato ‘Allineamento’ [significato della parola ebraica “Maarakh”, nome della coalizione israeliana di centro sinistra al potere in Israele dal 1969 al 1991, ndt.], il precursore del partito Laburista,” ha scritto.

Ah! L’ironia non potrebbe essere maggiore. Barak, nel suo patetico tentativo di giocare un ruolo centrale in qualunque cosa sia “nazionale”, in realtà finisce per sentirsi escluso, in quanto ‘di sinistra’, dai festeggiamenti. Nel suo sproloquio finisce per confermare che non c’è una reale differenza tra destra e sinistra sioniste – né storicamente, né nell’attualità.

Ciò è quello che il giornalista di “Haaretz” Gideon Levy sta sottolineando ormai da un po’ di tempo, e la sua risposta è arrivata il giorno dopo con l’articolo intitolato “Quale opposizione? Ehud Barak si adegua a Netanyahu ed ai coloni”, sottotitolato “Il valoroso ‘campo della pace’ di Israele è orgoglioso del numero di colonie che ha costruito, un tasso di costruzione all’anno che Netanyahu potrebbe solo sognarsi.”

Levy nota come Barak stia utilizzando lo stesso linguaggio degli estremisti di destra del governo, con frasi come “noi siamo orgogliosi del nostro ruolo nel ritorno in ogni parte della terra e nell’ impresa di colonizzazione che è indispensabile alla nostra sicurezza”, e Levy conclude che “questo è il segno distintivo di sinistra del partito Laburista, praticamente l’unica opposizione che Netanyahu abbia. Eppure è dubbio che Netanyahu si esprimerebbe in modo diverso.”

Di certo, come conclude Levy, l’articolo di Barak è “sorprendente” e dovrebbe essere ricordato e sottolineato in futuro come il vero volto della sinistra israeliana senza maschera. Barak nel suo articolo entra in dettagli per suggerire quali oratori avrebbero potuto essere scelti per rappresentare la ‘sinistra’:

Una commemorazione nazionale avrebbe dovuto includere sul palco il generale (della riserva) Elad Peled, un uomo che ha liberato Safed all’età di 21 anni, come capo di un’unità del Palmach [brigata d’elite facente parte dell’Haganah, milizia sionista durante il mandato britannico, ndtr.], e poi ha liberato tutta la Samaria [zona settentrionale della Cisgiordania nella denominazione ebraica, ndt.] all’età di 40, come capo della 36ima divisione,” scrive.

Ha liberato tutta la Samaria” – è chiaro?

Barak continua suggerendo persone come Dalia Rabin, la figlia del “capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che ha presieduto alla vittoria”, Isaac Herzog, “leader dell’opposizione e figlio dell’ex capo dell’intelligence militare ed ex presidente Chaim Herzog, che dissipò i timori dell’opinione pubblica prima e durante la guerra con apparizioni in televisione – all’epoca un nuovissimo mezzo di comunicazione – e ricoprì il ruolo di primo governatore di Gerusalemme unificata,” così come Hila Elazar- Cohen, “la figlia maggiore del generale David Elazar, che pretese l’attacco e la conquista delle Alture del Golan fin dal primo giorno di guerra, e lo guidò dal quarto.”

Barak poi plaude al “Piano Allon”, proposto dal dirigente di sinistra Yigal Allon in seguito alla guerra del 1967 per conservare grandi parti della Cisgiordania e colonizzarle:

Una cerimonia statale avrebbe profuso elogi alla lungimiranza del “Piano Allon” e alla logica interna della fondazione di blocchi di colonie, di costruire quartieri ebraici a Gerusalemme est e di stabilire colonie lungo il fiume Giordano –una dimensione imposta da una seria prospettiva per la sicurezza e condivisa da tutti gli strati della società,” scrive.

Barak ha assolutamente ragione – il progetto di occupazione e di colonizzazione non è cosa che sia successa solo a causa di qualche colono messianico di destra – è stato un progetto premeditato in cui la destra e la sinistra sono state coinvolte fin dall’inizio.

La differenza tra Barak e i coloni di destra è piuttosto cavillosa a questo riguardo – riguarda le colonie isolate che non si trovano nei ‘blocchi di colonie’, che Barak vede come non utili per la sicurezza, ma che esistono piuttosto solo per rispettare il comandamento religioso di ‘colonizzare la terra’. Barak pensa che quello che realmente unirebbe tutti gli israeliani, piuttosto che separarli, sarebbe “innanzitutto la sicurezza, la convinzione che l’unità del popolo ha la precedenza sull’unità della terra, ed i valori della “Dichiarazione di indipendenza” – al contrario di “un progetto reazionario, nazionalista, macchiato di messianismo che minaccia tutto il nostro futuro.”

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Barak è un uomo di molti miti, ed ha avuto un ruolo centrale nella creazione di parecchi di essi. Ha uno status mitologico in quanto militare più decorato di Israele, noto come il “signor Sicurezza”, un uomo che venera la ‘sicurezza’ come se fosse un dio. Ha anche creato il mito dell’’offerta generosa’ che avrebbe fatto nel 2000 ad Arafat – un’offerta che era essenzialmente equivalente a bantustan [zone destinate ai neri nel Sudafrica dell’apartheid, ndt.]. Al contempo ha creato il mito correlato che, poiché Arafat ha rifiutato questa ‘offerta generosa’, ciò era la prova che “non c’era nessun interlocutore”.

La nozione di ‘sicurezza’ di Barak è quella classica sionista quando si tratta di palestinesi – controllo, ‘autonomia’, accerchiamento e, cosa più importante, separazione. Separazione oggi è la parola d’ordine della sinistra israeliana, e molti dimenticano che apartheid significa ‘separazione’. Il risultato concreto dei bantustan e della ‘separazione’, come la mette in pratica Israele, è l’apartheid, e lo abbiamo visto per moltissimi decenni. Tutto quello che Barak vuole è conservare la capacità di nasconderlo meglio e quei coloni ‘messianici’ di destra stanno fuorviando la richiesta di ‘sicurezza’.

Ma la richiesta di ‘sicurezza’ di Barak è fuorviata anche dalla sua stessa gente. Il suo stesso ministro degli Esteri nel 1999-2001, Shlomo Ben-Ami, chiama ‘mitica’ la richiesta di sicurezza nella valle del Giordano. Eppure i dirigenti di sinistra confermano la volontà di Barak di ‘legittimare’ i ‘blocchi di colonie’, che è la ragione per cui il leader della sinistra Isaac Herzog si è lamentato della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dello scorso anno, che ha condannato tutte le colonie (comprese quelle di Gerusalemme est) come “flagranti violazioni” delle leggi internazionali. Herzog era arrabbiato per il danno che questo ha causato ai “blocchi di colonie” – il danno fatto alla loro legittimità.

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Dopo tutto quello che è stato detto e fatto, l’unica differenza tra Barak ‘di sinistra’ e i coloni ‘messianici’ è che egli cerca di mettersi al servizio della vera religione di Stato di Israele – il sionismo – in base alla nozione più laica di ‘sicurezza’, mentre i coloni più di destra sono più interessati alle questioni della promessa divina.

In fin dei conti il “ritorno ad ogni parte della terra” di Barak non è poi così diverso dallo slogan ufficiale della cerimonia: “Siamo tornati a casa”. Il suo “liberata tutta la Samaria” non è poi così diverso dal “questa terra è nostra, tutta è nostra” dell’alta diplomatica israeliana Tzipi Hotoveli [vice-ministra degli Esteri e deputata del Likud, ndt.]. A volte succede che i principali dirigenti della sicurezza di Israele sputino il rospo in questo modo. Uno dei più rappresentativi uomini della sicurezza di Israele, Moshe Dayan, lo ha fatto parecchie volte. Una delle sue ammissioni più gravi è stata sulla guerra del 1967 e sulla fase preparatoria ad essa, che aveva più a che fare con le scaramucce con la Siria sul confine del Golan e nelle zone smilitarizzate. Nel 1976 disse al generale Israel Tal che i siriani il quarto giorno non erano “una minaccia per noi”, e spiegò come avvenne la maggioranza delle schermaglie:

So come iniziò là almeno l’80% degli scontri. Secondo me, più dell’80%, ma parliamo di circa l’80%. Successe così: mandavamo un trattore per arare una certa zona dove non si poteva fare niente, nell’area smilitarizzata, e sapevamo in anticipo che i siriani avrebbero iniziato a sparare. Se non sparavano, avremmo detto al trattore di andare ancora più avanti, finché i siriani si sarebbero infastiditi e avrebbero sparato. E allora avremmo utilizzato l’artiglieria e poi anche le forze aeree, e fu così che andò,” disse Dayan (come documentato da Serge Schmemann sul New York Times nel 1997).

Dayan spiegò anche a Tal che la vera ragione che stava dietro le provocazioni e la successiva conquista era in realtà solo l’avidità – l’avidità di terra:

Là gli abitanti dei kibbutz vedevano terra buona per l’agricoltura,” disse. “E bisogna ricordare che quello era un periodo in cui la terra agricola era considerata la cosa più importante e di valore.”

Tal si stava chiedendo se là non ci fosse veramente un problema di ‘sicurezza’. “Quindi tutto quello che volevano gli abitanti dei kibbutz era la terra?” chiese.

Dayan, pur confermando che naturalmente loro “volevano levarsi di torno i siriani”, tuttavia disse:

Le posso dire con assoluta sicurezza: la delegazione che andò a convincere Eshkol [all’epoca primo ministro israeliano, ndt.] di conquistare le Alture non stava pensando a queste cose. Stava pensando alla terra delle Alture. Senta, anch’io sono un coltivatore. Dopo tutto sono di Nahalal, non di Tel Aviv, e ne so qualcosa. Li vidi e parlai con loro. Non cercarono neanche di nascondere la loro avidità per quella terra.”

Come documentato in “1967” di Tom Segev, p. 388, la delegazione che descrive Dayan era stata inviata su ordine del generale David Elazar, capo del comando settentrionale al tempo della conquista. È lo stesso generale che Barak suggerisce che avrebbe dovuto essere rappresentato dalla sua figlia maggiore.

Barak può continuare a rimproverare quelli di destra perché sono troppo fanatici sulla questione della terra, ma lui è in realtà altrettanto avido di essa. Sta solo nascondendo l’avidità con la ‘sicurezza’, ed è quello che i sionisti hanno fatto da sempre.

Jonathan Ofir

  • Musicista, direttore d’orchestra, scrittore/blogger israeliano residente in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Crimini di guerra e ferite aperte: la dottoressa che ha sfidato la segregazione israeliana

Alon Mizrahi

 12 settembre 2017,+972

In occasione dei suoi 80 anni, Ruchama Marton, la fondatrice di “Physicians for Human Rights-Israel”, parla delle atrocità di cui è stata testimone quando era soldatessa, del duraturo potere del femminismo e perché solo un aiuto dall’esterno ha la possibilità di porre fine al dominio militare israeliano sui palestinesi.

Ruchama Marton viene dalla generazione che si potrebbe chiamare 1.5 degli attivisti israeliani contro l’occupazione. Era un po’ troppo giovane per partecipare al piccolo gruppo di avanguardia che fondò la rivoluzionaria organizzazione socialista Matzpen negli anni ’60, ma abbastanza grande da aver preso lezioni da una testa calda, il professor Yeshayahu Leibowitz [grande intellettuale e teologo ebreo israeliano, molto critico con gli esiti del sionismo, ndt.] a Gerusalemme. Là, mentre frequentava la facoltà di medicina, ha rivoluzionato la procedura di ammissione per le studentesse, che portò all’abolizione delle quote di ammissione. E quando scoprì che nella facoltà di medicina c’era un bando contro le donne in pantaloni, si ribellò anche contro di esso.

Marton ha fondato “Physicians for Human Rights-Israel” [“Medici per i Diritti Umani – Israele”] durante la Prima Intifada, portando il termine “diritti umani” nel discorso politico israeliano. Nata in Israele, dove ha passato tutta la sua vita, è stata per più di 40 anni una psichiatra impegnata. Il suo rapporto con questo posto è complicato e doloroso, quasi impossibile.

Marton non modera le sue parole quando si tratta delle organizzazioni di sinistra e per la pace, che vede come una specie di “società umanitaria”, attribuendo scarsa importanza ad un attivismo che non faccia i conti direttamente con la violazione dei diritti umani, il cui nucleo centrale sono i diritti politici.

Per tutta la sua vita si è indignata per l’ingiustizia e la segregazione. Tra la lotta contro lo sciovinismo, il patriarcato e quella di tutta una vita contro l’occupazione, rifiuta di rimanere in silenzio.

Ho incontrato Marton per un’intervista nella sua casa di Tel Aviv in occasione dei suoi 80 anni. Avevo previsto che non mi sarebbe stato facile. Avevo ragione.

Come psichiatra con anni di esperienza voglio iniziare con quella che ritengo una grande domanda. Perché siamo così ossessivamente legati alla disumanizzazione degli arabi? Perché sembra che il maggior desiderio di questo posto sia negare ai palestinesi qualunque tipo di riconoscimento e di legittimazione? In fin dei conti a questo punto non ha uno scopo concreto, abbiamo già vinto.

Cosa intende con ‘non ha uno scopo concreto?’ Non ha senso. Serve agli interessi sionisti. A ogni singolo [interesse].

Mi spieghi

Innanzitutto, siamo colonialisti. Il sionismo è colonialista. E la prima cosa che un buon colonialista fa è spogliare. Spogliare di cosa? Di tutto quello che può. Di quello che è importante, di tutto quello che gli serve. Della terra. Delle risorse naturali. E, naturalmente, dell’umanità. Dopotutto è ovvio che per controllare qualcun altro devi portargli via la sua umanità.”

Ma questo progetto non è terminato? Non è che noi adesso siamo in guerra e stiamo per conquistare un nuovo territorio. La “Guerra di indipendenza” [denominazione sionista della guerra contro palestinesi ed arabi nel 1947-48, ndt.] è finita molto tempo fa. Abbiamo vinto. Abbiamo già tracciato dei confini. Perché abbiamo ancora bisogno di quella mentalità?

Quali confini? Non ci sono confini, non ci saranno confini, e non vedo che ci sia una qualunque intenzione di tracciarli ora. Ma, oltre a ciò, la spoliazione è un compito senza fine. Quel popolo occupato, quel popolo spogliato, che sia all’interno o all’esterno della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania fino alla guerra del ’67 e all’occupazione israeliana della Cisgiordania, ndt.], non è d’accordo. Non si arrende. Non accetta di essere spogliato della sua terra, della sua acqua, della sua umanità. Come ha detto Hannah Arendt: “Senza diritti politici non c’è essere umano. I diritti politici vengono prima di ogni altra cosa. Prima del diritto di proprietà, di movimento, di riunione e associazione. Quelli sono tutti molto belli, ma sono secondari. Senza diritti politici, tutto quello che fai è beneficienza. Senza diritti politici, non c’è niente.”

La famiglia di Ruchama è arrivata in Israele da una regione rurale della Polonia. Entrambi i suoi genitori sono cresciuti in famiglie religiose, come la maggioranza degli ebrei in quei tempi, sicuramente quelli che vivevano fuori dalle grandi città. Dice che suo padre era così affascinato dalle idee comuniste che per mesi risparmiò segretamente denaro per poter andare in Russia negli anni ’20.

La notte prima che se ne andasse,” racconta, “suo padre entrò nella sua stanza e disse: ‘So che hai risparmiato denaro e so per fare cosa. Voglio chiederti che tu mi prometta una cosa. Vuoi andartene? Vai. Vai in America, vai in Palestina. Promettimi solo che non andrai in Russia. Ti uccideranno.’ Mio padre fece la promessa e la mantenne.”

I suoi genitori si sono stabiliti nel quartiere di Geula a Gerusalemme. Lei è nata nel 1937. Si ricorda il Mandato britannico a Gerusalemme?

Certo. Ricordo i soldati australiani che pattugliavano le strade, e che camminavo verso il “Muro del Pianto” con mia nonna. Avremmo camminato attraverso la Città Vecchia, oltre il mercato arabo; non avevamo paura. Non c’era neanche una grande amicizia, ma non c’era paura.

A Gerusalemme ogni notte c’era il coprifuoco. Ricordo una notte in cui rimasi a dormire da un’amica fin dopo il coprifuoco, scesi in strada e iniziai a camminare verso casa. Un soldato australiano mi chiamò, ma non capii quello che mi stava dicendo, in quanto non parlavo inglese. Mi raggiunse e cercò di capire cosa stessi facendo là, dove stessi andando.

Era un gigante, probabilmente alto 2 metri. Non so come successe, ma mi prese per mano e mi accompagnò a casa. Una ragazzina con un gigantesco soldato australiano.

La nonna che soleva portarmi con sé verso il Muro del Pianto venne uccisa da una bomba all’inizio della Guerra di Indipendenza. Uscì per prendere acqua con un secchio da un vicino che aveva bambini piccoli e venne colpita da una bomba sparata dagli arabi. Poco dopo ci spostammo a Tel Aviv, che era un mondo totalmente diverso.

Tel Aviv era molto diversa da Gerusalemme. Aveva un’atmosfera di stravaganza e di sfrenatezza. Vivevamo in una zona ai confini della città: c’erano pochissime case là. Era circondata da orti, da giardini arabi e da campi di canna da zucchero che crescevano lungo il fiume Yarkon [in arabo El-Auja, il “sinuoso”, ndt.]. Era un altro mondo.”

Aveva degli amici a Tel Aviv? Non deve essere stato facile.

Io non conoscevo nessuno lì, ovviamente. E genitori e figli di quella generazione difficilmente parlavano tra loro. Ma nella casa di fronte a noi, l’unica casa vicina, c’era una famiglia araba. Avevano un orto, un giardino e un piccolo gregge di pecore e capre.

Avevano due bambini, Zeidin, che aveva circa un anno meno di me, e Fatima, che era un po’ più grande di me. Erano i miei migliori amici. Eravamo soliti giocare insieme, passare insieme le giornate negli orti e in mezzo alla natura. Gli volevo bene.

Alla fine del 1947 arrivarono dei soldati e cacciarono la famiglia. Mi ricordo che stavo lì a guardare svolgersi quella scena. Caricarono i loro pochi averi e la vecchia nonna su un asino e partirono verso l’est. La loro casa esiste ancora – è stata trasformata in una sinagoga.”

Anche durante la guerra del Sinai del 1956 [combattuta da Francia, Inghilterra ed Israele contro l’Egitto di Nasser, che aveva nazionalizzato il canale di Suez, ndt.] lei ha assistito a scene che l’hanno profondamente segnata.

L’assassinio di prigionieri da parte dei soldati della mia unità, la ‘Givati’.”

Cosa successe lì?

Nei giorni che seguirono l’invasione israeliana della penisola del Sinai, i soldati egiziani continuavano ad arrendersi. Venivano fuori dalle dune di sabbia, a volte a piedi nudi, bruciati dal sole del deserto, sporchi e sudati, con le mani in alto.

I nostri soldati gli sparavano. A decine di loro, forse più. E’ proprio quello che ho visto. Scendevano dalle dune e i soldati prendevano i fucili e li uccidevano.”

E cosa ne facevano? Li lasciavano semplicemente lì sulla sabbia?

Sì. Questo mi fece stare male. Fisicamente male. Vomitai ed ero in uno stato terribile. Andai dal mio comandante e gli chiesi di andarmene. Gli raccontai che era a causa di quello che era successo. Non c’è bisogno di dirlo, lui “non sapeva” assolutamente di cosa stessi parlando. Ma mi autorizzò ad andarmene e chiesi un passaggio per tornare a casa.

Volevo parlare di quello che era successo. Volevo pubblicarlo, ma nessuno accettò. Mi dissero di lasciar perdere. Avevo amici che lavoravano per dei giornali, e pensai, ingenuamente, che avrebbero voluto pubblicarlo. Nessuno accettò di occuparsene. Quando avevo 19 anni sapevo già che quello che mi dicevano del sionismo e dell’esercito era un sacco di menzogne.”

Una ricerca su internet sull’uccisione di prigionieri durante la guerra del Sinai porta a una serie di siti, compresa un’intervista al generale Arieh Biro, che ammise che lui e i suoi soldati uccisero prigionieri egiziani durante la guerra. Posso solo presumere che le uccisioni che ebbero luogo furono molto più frequenti e gravi di quelle scoperte dall’ “inchiesta” ordinata da Shimon Peres nel 1995.

Dopo l’esercito lei è andata alla facoltà di medicina. All’epoca c’erano quote per le donne. 

Sì. C’era un numero stabilito e non volevano che molte donne diventassero medico. Per cui le limitavano a una quota del 10%. Ho condotto una lotta contro ciò insieme ad altri studenti e membri della facoltà, che portò alla cancellazione della quota. Da allora le donne sono ammesse alla facoltà di medicina in Israele in base ai loro titoli, proprio come gli uomini.”

Dopo tutti i suoi anni di lavoro con la psicologia umana e il conflitto, vede qualche cambiamento? Se ho capito bene [quello che lei ha detto], nonostante tutte le notevoli capacità propagandistiche che Israele ha sviluppato, nonostante il continuo lavaggio del cervello, da quanto sta dicendo sembra che fosse lo stesso negli anni ’50.

In primo luogo il sionismo e quello che un essere umano è sono due cose che non si incontrano. Ma qui non c’è stato un cambiamento essenziale. E’ sempre lo stesso. E’ vero che la macchina della propaganda sionista renderebbe orgogliosi i sovietici, ma l’essenza delle convinzioni su questioni fondamentali, sul trattamento degli arabi e sul loro posto – queste convinzioni non sono cambiate.”

Una salute mentale rivoluzionaria

A 80 anni Marton è ancora una psichiatra in attività. Nei suoi molti anni di professione ha sostenuto e fatto campagna per portare la cura della salute mentale fuori dagli ospedali psichiatrici e all’interno della società.

Sono rimasto molto sorpreso che ci fosse qualcuno in Israele che parlasse di cure psichiatriche come parte della comunità. Ciò significa davvero normalizzare la salute mentale.

Perché non ci dovrebbe essere un consultorio psichiatrico all’interno degli ambulatori di quartiere? Ci dovrebbero essere un optometrista, un otorinolaringoiatra e uno psichiatra. Esattamente nello stesso posto, allo stesso piano, nello stesso corridoio, in base allo stesso concetto.”

Lei ha creduto in questo fin dall’inizio della sua carriera e ha fatto passi concreti per realizzarlo.

Sono stata la prima persona in Israele che ha fatto una proposta al sistema sanitario – sono andata fin da Shimon Peres e da altri, ho detto loro che i consultori psichiatrici non devono essere all’interno degli ospedali psichiatrici. Non è altro che un disastro. Le persone hanno un terribile stigma che le scoraggia dall’entrare in un ospedale psichiatrico.

C’era un direttore, Davidson (il prof. Shamai Davidson, direttore dell’ospedale “Shalvata” dal 1973 al 1986. Arrivò in Israele da Dublino nel 1955), era veramente un santo, comprese veramente e appoggiò l’idea di cure psichiatriche inserite nella comunità. Il concetto di comunità è una cosa che si era portato dalla diaspora. Mi stette ad ascoltare con il cuore aperto e fu colui che portò avanti quella rivoluzione e che portò all’apertura di un ambulatorio per il trattamento psichiatrico a Morasha, e poi a Ramat Hasharon, e da lì si è diffuso.

A tutt’oggi il progetto non è stato completato. Ma abbiamo rotto quel muro iniziale.

Sa quante persone non chiedono un aiuto perché l’ambulatorio è situato all’interno di un ospedale psichiatrico? E quindi cosa succede? Crollano e vengono ospedalizzate. Grandioso! Abbiamo ottenuto quello che volevamo.”

Sto ascoltando quello che dice, e penso: c’è qualcosa di giustificato in merito al timore della gente nei confronti del sistema psichiatrico. Qualcosa riguardo alla percezione di se stesso e del paziente da parte del sistema – è qualcosa di insano.

E’ verissimo. Quello era ciò per cui stavo lottando. Ma oggi i miei giorni di lotta sono passati. Dopo 30 o 40 anni ne ho avuto abbastanza. Forse non sono riuscita in tutto, ma in alcune cose sì. Sono molto orgogliosa di questo.”

Lei pensa al conflitto israelo-palestinese o alla storia del sionismo in termini psicologici? La storia dell’uccisione di prigionieri, per esempio, simile a quello che ho sentito da persone a me vicine, mi riempie di profonda vergogna.

Sono affascinata dall’argomento della vergogna. E’ un sentimento su cui ho lavorato per la maggior parte degli anni. Credo che senza vergogna non ci sia speranza per il mondo – non ci sia essere umano. Senza vergogna una persona può fare qualunque cosa. Una delle cose che ci sono successe è che abbiamo perso ogni vergogna. I soldati che sparavano ai prigionieri non si vergognavano. E’ per questo che fecero quello che fecero.”

In quale altro posto lei vede esempi di questa mancanza di vergogna?

Nella mia professione. I palestinesi coinvolti nel terrorismo, o quanto meno accusati di questo, sono mandati ad un esame psichiatrico. Si sorprenderà di saperlo, ma semplicemente non ci sono palestinesi con problemi mentali – almeno non del tipo che gli impedisca di essere giudicati da Israele. I palestinesi non hanno il diritto di essere pazzi.”

Psichiatri israeliani esaminano imputati palestinesi e sanno che soffrono di vari problemi psichiatrici, eppure li dichiarano in grado di essere processati?

Certo che lo sanno. E come so che loro lo sanno? Perché dopo che sono stati giudicati e mandati in carcere, ricevono medicine per la schizofrenia. E non si tratta di errori dovuti all’ignoranza. Sto parlando di bravi medici. Ciononostante fanno diagnosi ridicole e sbagliate.

Ci sono andata ed ho visto con i miei occhi. Ho parlato ai prigionieri. All’epoca ho scritto di questo sul giornale. Sono stata sanzionata dall’ordine dei medici israeliani per aver fatto i nomi dei medici coinvolti in queste diagnosi. Avevano intenzione di denunciarmi, ma hanno deciso di lasciar perdere per non rendere noti tutti gli sporchi trucchi che si svolgono a porte chiuse. Allora sono stata obbligata a scrivere una lettera di scuse. Ho scritto la lettera, che includeva due righe di scuse, seguite da un resoconto completo delle cose che ho saputo, comprese le diagnosi sbagliate e quello che c’era dietro. Finora quella lettera non è mai stata pubblicata.”

Quella non è stata la fine dei problemi di Marton e “Physicians for Human Rights-Israel” (PHRI) con l’ordine dei medici israeliani e con le istituzioni israeliane. Nel 2009 l’ordine ha annunciato che avrebbe rotto i rapporti con “PHRI” dopo che l’organizzazione ha accusato dottori israeliani di partecipare alle torture. Inoltre l’amministrazione tributaria ha rifiutato di rinnovare lo status come associazione pubblica dell’organizzazione per fini fiscali, da quando ha pubblicato una dichiarazione secondo la quale l’occupazione è una violazione dei diritti umani – compreso il diritto alla salute. Secondo l’amministrazione tributaria, queste affermazioni sono ritenute “politiche”.

La medicina è una questione politica

Com’è nato “Medici per i Diritti Umani – Israele”?

Quando ho deciso di fare qualcosa di concreto, qualcosa di politico, ho utilizzato quello che avevo a disposizione: la medicina. Ho contattato un’organizzazione di medici palestinesi. Volontari palestinesi andavano sul terreno a curare le persone, e mi sono unita a loro.

In seguito ho iniziato ad organizzare volontari israeliani. Ho dovuto pregare persone di venire con me il sabato mattina. All’inizio sono riuscita a trovare due persone, che sembravano un grande risultato. Ora vanno (in Cisgiordania) circa 30 volontari con un ambulatorio mobile.

Ho stabilito io le regole dell’organizzazione: siamo sempre insieme noi e i palestinesi. Non è mai una delegazione di bianchi colonialisti che vanno a salvare i nativi. Lavoriamo insieme in pieno accordo con i nostri colleghi palestinesi: sono loro a dire dove hanno bisogno di noi e nell’assoluta maggioranza dei casi è lì che andiamo.”

E dove lavorate? Non è che abbiano ambulatori organizzati.

Ambulatori? C’è a malapena qualche ambulatorio in quei villaggi, e quelli che ci sono sono piccoli e inutilizzabili per gruppi numerosi come il nostro. Utilizziamo scuole e uffici delle amministrazioni locali. E non c’è bisogno di fare grandi annunci – la voce gira nel villaggio e in quelli vicini. La prima cosa il sabato mattina è che c’è già troppa gente.”

Che tipo di cure fornite?

Tutto quello che si può fare sul campo, compresi interventi chirurgici relativamente semplici. Portiamo con noi medicine regalate, e scriviamo prescrizioni per quelle che non abbiamo. Quando c’è la necessità di esami complicati li inviamo a diversi ospedali dell’Autorità Nazionale Palestinese e in Israele. Anche ciò ha implicato molti anni di lotta.”

Lo Stato di Israele non si è mai ritenuto responsabile della salute di quelli che occupa.

E’ vero. Ma fino a Oslo, o alla Prima Intifada, c’erano ospedali palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, che dopo il 1967 erano diventati ospedali pubblici israeliani. C’era un bilancio molto ridotto per la salute, niente a che vedere con un Paese normale. Ma, per esempio, c’era uno stanziamento di fondi per le vaccinazioni. Paradossalmente nei campi dei rifugiati la situazione era molto migliore, dato che erano sotto la responsabilità dell’UNRWA [l’agenzia ONU per i profughi palestinesi, ndt.].

Quando scoppiò la Prima Intifada una delle decisioni prese dall’allora ministro della Difesa Yitzhak Rabin fu di bloccare il bilancio dei servizi medici palestinesi. Quando lo venni a sapere mi precipitai a Londra e mi presentai agli uffici della BBC. Parlai loro della situazione nei territori occupati e inviarono un’equipe per fare un breve servizio sulla decisione e sulle sue conseguenze, ossia gente che moriva in casa per la mancanza di cure mediche. Il clamore convinse Rabin a ripristinare almeno una parte degli stanziamenti.”

Vai a casa, vestiti

Pochi giorni fa sul giornale c’era una foto del capo del Mossad che visitava la casa del consigliere per la sicurezza nazionale degli USA. Nella foto tutte le persone erano uomini. Sono molto contento di dire che una simile foto oggi mi sembra strana.

Ciò mi riporta all’argomento della segregazione. E’ così che alle persone si insegna a pensare di se stesse. Quella separazione, il fatto che ci sia una tribuna per le donne (nella sinagoga) ed ora vogliano la separazione [tra i sessi] anche nell’esercito e nelle università. La segregazione è la radice di ogni male.

Le mie prime battaglie non sono state sul problema palestinese. Sono state femministe, anche se all’epoca non le chiamavo così.

Lei è una donna orgogliosa.

Non abbastanza. Sono troppo orgogliosa per chiedere un riconoscimento e a volte sono piena di risentimento per non averlo ottenuto. Per esempio, sono stata la prima ad introdurre il concetto di “diritti umani” nel dibattito israeliano. Prima c’erano i “diritti civili”, ma i diritti umani come concetto politico sono stati merito mio.”

Eppure lei ancora non se la sente di chiedere che le venga riconosciuto.

E’ vero. Forse è il risultato della mia educazione femminile. Non femminista, femminile. Quella che insegna alle donne a non farsi notare. Ad essere gentili, a sorridere, a non essere arrabbiate. A non iniziare mai una frase con la parola “Io”. E’ così che sono educate le donne.”

Lei è indignata dallo sciovinismo [maschile]. Non è molto diverso dalla sua indignazione contro l’occupazione.

Per tutta la mia vita ho dovuto lottare contro stigmi e norme separate per le donne. Con il fatto che alle donne non fosse permesso mettersi i pantaloni nella facoltà di medicina nella fredda Gerusalemme. Quando mi sono presentata con i pantaloni una docente mi ha detto: ‘Tu, signorina, vai a casa, vestiti come si deve e torna indietro.’ Sono andata a casa e non sono tornata. Ho scatenato un putiferio ed alla fine ho vinto.”

Critiche a ogni parte

Lei è molto critica con la Sinistra israeliana e con il modo in cui si oppone all’occupazione.

Non c’è una Sinistra israeliana. Quello che dobbiamo fare è ricostruire da zero le organizzazioni dei diritti umani israeliane in modo che siano disposte a lottare per porre fine all’apartheid. Apartheid che distingue tra quelli che hanno tutto e quelli che non hanno niente. Quelli a cui è consentito tutto e quelli a cui tutto è proibito. Se non vogliono intraprendere questa lotta, per cosa stanno lottando? Per la loro stessa immagine.

Non puoi combattere contro il colonialismo, l’occupazione, l’apartheid – chiamalo come vuoi- avendo un ruolo alla corte del governo, in base al programma del governo. Devi rompere questi confini.”

Effettivamente il partito Laburista ha mantenuto l’occupazione per ben 10 anni e non ha fatto niente a questo proposito.

Non dica che il Mapai [il predecessore del partito Laburista, in cui è confluito nel 1968, ndt.] non ha fatto niente. Sono stati quelli che hanno fondato le colonie. Begin [fondatore del Likud e dal 1977 al 1983 primo capo del governo israeliano di destra, ndt.] è stato l’unico leader giusto che abbiamo avuto. Dico sul serio. Sotto il suo governo la tortura è stata totalmente vietata. Quando il capo dello Shin Bet andò da lui e gli chiese: ‘Signore, neanche uno schiaffo?’ disse: ‘No, neanche uno schiaffo.’”

Begin vietò di demolire case, vietò le espulsioni. E’ stato l’unico uomo giusto a Sodoma. Non c’è mai stato un solo uomo giusto né prima né dopo di lui.”

Ho sempre pensato, ed ancora penso, che la normale Destra revisionista [i seguaci della corrente di destra del sionismo, ndt.] moderata sia il campo con le migliori possibilità di trattare gli arabi in modo umano.

Non voglio un trattamento umano degli arabi. Voglio diritti politici. Poi puoi essere umano o quello che vuoi. Senza diritti politici continui ad essere un colonialista, un occupante, un sostenitore dell’apartheid.

Un’organizzazione dei diritti umani che non voglia lottare per questo sta ululando alla luna. E’ priva di senso.”

In un certo senso lei sta parlando anche di se stessa. E’ una resa dei conti personale.

E’ vero. Le sto parlando dopo 30 o forse 50 anni di lotta contro l’occupazione. Abbiamo bisogno di aiuto esterno. E sto parlando soprattutto di una cosa: il BDS [il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.].”

Lavorare per questa causa in Israele non è facile.

Ride. “E’ una questione che riguarda i traditori, e i traditori di oggi sono gli eroi di domani. Chiunque non voglia pagare quel prezzo non sa come lottare. Se non paghi un prezzo tu stai lottando solo per la tua bella immagine. Finché l’occupazione continuerà, finché continuerà l’apartheid, non importa se tu sei un po’ più o un po’ meno bello.”

Si ferma un momento a pensare.

Dobbiamo lottare contro l’idea della segregazione, perché è una separazione tra me e la politica, tra gli arabi e la loro terra, tra gli arabi e la loro dignità umana. La segregazione è la ferita. E’ l’asse attorno al quale girano le cose.”

Anche se gli ebrei portarono qui con sé l’idea della segregazione. In fin dei conti, c’è ogni sorta di segregazione tra gli stessi ebrei, in base a divisioni etniche, religiose e politiche.

Sicuramente qui c’è segregazione a tutti i livelli. Dopotutto, qui siamo divisi tra ebrei di prima e di seconda categoria, e sotto di loro ci sono i palestinesi cittadini di Israele, e i palestinesi in Cisgiordania sono ancora più in basso. E proprio in fondo alla scala ci sono i richiedenti asilo e i rifugiati (“Medici per i Diritti Umani” ha una “clinica aperta” che fornisce cure mediche ai rifugiati e ai richiedenti asilo).

La segregazione esiste all’interno della nostra società come un principio politico fondamentale. Se cancelliamo la segregazione, poi che succede? Sarà un disastro politico per il regime – non solo per la Destra.

Se penso a quello che la mia organizzazione ha fatto – ai viaggi a Gaza, alla distribuzione di medicinali per la solidarietà, al tentativo di infrangere la segregazione – quello è stato il nostro maggior risultato.”

Alon Mizrahi è uno scrittore e un blogger presso “Local Call” [“Chiamata locale, sito in ebraico di +972, ndt.], dove il suo articolo è stato per la prima volta pubblicato in ebraico. E’ stato tradotto dall’originale in ebraico da Shoshana London Sappir.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Perché l’ONU ha partecipato ad una conferenza israeliana con un simpatizzante del nazismo?

 

Maureen Clare Murphy -14 September 2017, Electronic Intifada

Che cosa ci faceva il coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente in una conferenza sull’antiterrorismo insieme a sostenitori del genocidio e ideologi di destra che vedono il mondo come un conflitto tra la civiltà giudaico-cristiana e i suoi nemici?

Di per sé la presenza di Nickolay Mladenov alla conferenza annuale dell’Istituto Internazionale per l’Antiterrorismo ad Herzliya [sede di un’università privata che ha stretti rapporti con i servizi di sicurezza e l’esercito israeliani, ndt.] è sconvolgente, così come le sue affermazioni come oratore principale.
 
Durante una parte improvvisata prima di esporre le sue osservazioni scritte, Mladenov ha affermato che in futuro l’Europa, come Israele, dovrà sempre più discutere dell’“equilibrio tra diritti umani individuali e sicurezza, tra lo Stato e l’individuo e tra quello che si può e si deve fare e quello che non si può e non si deve fare, in base alle leggi dello Stato e al diritto internazionale nella lotta contro il terrorismo.”
 
Che i diritti non si possano negoziare, ma siano da “bilanciare”, è una strana nozione da suggerire da parte di un importante funzionario dell’ONU.
 
Il discorso di Mladenov è stato esposto alla presenza della ministra della Giustizia israeliana, Ayelet Shaked, che a suo tempo ha promosso un appello genocida a favore del massacro delle madri palestinesi “che fanno nascere piccoli serpenti.”
Ha condiviso questo appello sulla sua pagina Facebook nel 2014, poco prima dell’attacco israeliano contro Gaza che ha ucciso più di uno ogni 1.000 palestinesi che vivono lì.
 
Diritti individuali versus sionismo
 
Shaked più di recente ha denigrato il sistema giudiziario che lei stessa dirige, per quello che ha definito il suo rispetto dei diritti umani a spese del sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele.
 
Il sionismo non può continuare, e, lo affermo in questa sede, non continuerà ad inchinarsi al sistema dei diritti individuali intesi in modo universalistico che li separa dalla storia della Knesset (il parlamento israeliano) e dalla storia del diritto che tutti noi conosciamo,“ ha dichiarato Shaked.
 
Ha descritto la cosiddetta “Legge sullo Stato-Nazione” di Israele – che impone all’Alta Corte israeliana di favorire il “carattere ebraico” dello Stato rispetto a quello “democratico” – come una “rivoluzione morale e politica.”
E’ stato in presenza di estremisti etnocratici come Shaked, che rifiutano il concetto di diritti universali, che Mladenov ha affermato che “resistere fermamente contro il terrorismo deve essere parte integrante di ogni processo di pace,” e che “dobbiamo opporci al terrorismo ogniqualvolta e ovunque si manifesti.”
 
Uno dei co-relatori di Mladenov alla conferenza è stato Gilad Erdan, ministro israeliano degli Affari Strategici che supervisiona un programma di “attività segrete” per combattere il movimento non violento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) in appoggio ai diritti dei palestinesi.
 
Secondo un importante analista israeliano, queste attività possono riguardare “campagne diffamatorie, persecuzione e minacce alla vita degli attivisti” così come “infrangere e violare la loro privacy.”
 
Minacce contro i difensori dei diritti umani
 
Erdan ha promesso che gli attivisti del BDS “sapranno che pagheranno un prezzo per questo,” minacciando esplicitamente il difensore dei diritti umani e co-fondatore del movimento BDS Omar Barghouti.
Erdan ha anche dichiarato che “ogni terrorista dovrebbe sapere che non sopravviverà agli attacchi che sta per perpetrare,” una politica di “sparare a vista” messa in atto contro decine di presunti assalitori palestinesi, compresi bambini, che corrisponde di fatto ad una sentenza di morte – nonostante il bando alla pena capitale in Israele.
 
Mladenov concorda con la politica israeliana secondo cui il “bilanciamento” tra diritti individuali e sicurezza necessita di un compromesso persino riguardo al diritto alla vita di un individuo?
 
In ogni caso sembra che Mladenov pensi che i palestinesi non abbiano il diritto all’autodifesa o alla resistenza.
 
Durante il suo discorso si è vantato di un rapporto redatto lo scorso anno dal cosiddetto “Quartetto per la Pace in Medio Oriente” (cioè l’ONU, l’UE, gli USA e la Russia) che identifica “l’incremento della militanza” da parte di gruppi palestinesi e, con le parole di Mladenov, “quello che sta succedendo a Gaza”, come un ostacolo alla pace.
 
Le sue osservazioni fanno eco alla posizione presa dal suo collega Robert Piper, il capo coordinatore delle questioni umanitarie dell’ONU in Palestina. L’ufficio di Piper quest’anno ha pubblicato un rapporto segnalando l’allineamento dell’organizzazione mondiale con Israele ed i suoi sostenitori internazionali nello spingere per la resa totale di Gaza.
 
Quel rapporto reputa illegittimo il governo di Hamas lì – nonostante la vittoria del partito nelle ultime elezioni legislative palestinesi – a causa del suo rifiuto di ottemperare alla richiesta del Quartetto di “riconoscere il diritto di Israele ad esistere e di rinunciare alla violenza.” Una richiesta simile di rinunciare alla violenza e di riconoscere il diritto all’esistenza dei palestinesi non è stata fatta ad Israele .
 
 
Resistenza al terrorismo di Stato
 
Alla conferenza di Herzliya Mladenov ha detto che Israele ha “convissuto per decenni con il terrorismo”, ma non ha ricordato che lo Stato stesso [di Israele] è stato fondato sul terrorismo e sulla pulizia etnica.
 
Né ha riconosciuto che i palestinesi, come qualunque altro popolo occupato, hanno il diritto all’autodifesa – un diritto riconosciuto dalle leggi internazionali.
 
Ma l’antiterrorismo è il paradigma attraverso il quale Stati come gli USA ed Israele – utilizzando una violenza massiccia e indiscriminata contro civili, di cui non sono mai stati chiamati a rispondere – portano avanti i propri interessi egemonici.
 
Un’occupazione militare infinita e bellicosa consente inoltre ad Israele di vendere la sua esperienza “antiterroristica” e i suoi armamenti come “collaudati in battaglia” – sulla pelle dei palestinesi.
 
L’antiterrorismo è il ringhioso smalto del “marchio Israele” e sembra che l’ONU se lo sia comprato.
 
Durante il suo discorso Mladenov ha ricordato che il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha recentemente formato un ufficio per l’antiterrorismo – un impegno che ha comportato “approfondite discussioni” con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e con esponenti dell’esercito israeliano.
 
Mladenov ha solo accennato alla necessità di un orizzonte politico che conservi la speranza di un futuro migliore in Medio Oriente.
 
 “Sacrifici umani”
 
Non ha evocato uno scontro di civiltà come David Friedman, il curatore fallimentare [di un casinò di Trump, ndt.] e finanziatore delle colonie, che funge da inviato di Trump in Israele.
 
Durante il suo discorso alla conferenza Friedman ha ripetutamente fatto riferimento al “terrorismo islamista radicale.”
 
Friedman che, come Mladenov, ha espresso le proprie opinioni nell’anniversario degli attacchi dell’11 settembre negli USA, ha affermato: “Sappiamo che gli israeliani non solo condividono il nostro lutto di fronte al terrorismo, ma anche la nostra determinazione a colpire i terroristi islamici radicali ovunque siano e di garantire che le loro tattiche non diventino mai dei successi politici.”
 
Ha letto un elenco di attacchi condotti da palestinesi contro israeliani, e di telefonate di condoglianze che ha recentemente fatto alle famiglie di israeliani uccisi da aggressori palestinesi, compresi due poliziotti che, ha detto, sono stati accoltellati da “terroristi islamisti radicali” – confondendo i palestinesi che resistono all’occupazione militare israeliana con i combattenti dello Stato Islamico in Siria. Friedman ha sostenuto che gli israeliani non sono i soli nella regione a soffrire in conseguenza del terrorismo, ma non si riferiva ai palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliane.
 
Riprendendo l’ormai sfatato argomento secondo cui le scuole palestinesi insegnano “l’istigazione” [alla violenza contro gli israeliani, ndt.], Friedman ha affermato: “I ragazzi palestinesi che imparano a odiare gli ebrei invece di imparare matematica e scienze sono i sacrifici umani della causa dell’estremismo radicale.”
 
Non importa che le forze israeliane abbiano ucciso più di trenta bambini palestinesi nel 2016 – facendone così l’anno più sanguinoso per i bambini palestinesi in Cisgiordania da più di un decennio – ed ucciso decine di bambini nelle loro case a Gaza nell’estate del 2014.
 
La maggiore attenzione dei media nei confronti della conferenza sull’antiterrorismo a Herzliya ha riguardato la partecipazione di Sebastian Gorka, il consigliere di Donald Trump recentemente destituito e pseudo-intellettuale con legami con gruppi nazisti e violentemente anti-semiti in Europa.
 
Gorka ha ricevuto una calda accoglienza quando ha assicurato ad un pubblico che  ne ha condiviso il discorso che “America ed Israele sono Stati fondatori della civilizzazione giudaico-cristiana e insieme sfideremo i nostri comuni nemici.”
Che cosa ha a che vedere un inviato ONU per la pace con una simile compagnia?
 
(traduzione di Amedeo Rossi)
 



La polemica su Shaked e sul sionismo

Nota redazionale: le dichiarazioni della ministra della Giustizia Ayelet Shaked hanno innescato una dura polemica sul giornale israeliano di centro-sinistra “Haaretz” tra le posizioni espresse dallo storico israeliano Daniel Blatman, da Gideon Levy, una delle firme più note del quotidiano, e dalla sua collega Ravit Hecht.

Riteniamo interessante per il lettore riportare lo scambio di opinioni tra gli editorialisti non solo per la questione specifica del giudizio sulle esternazioni di Shaked, quanto soprattutto perché evidenziano una visione radicalmente diversa del sionismo e della sua natura, sintetizzata in questi articoli di fondo e rappresentativa della divisione all’interno della sinistra israeliana. Blatman ritiene che la visione di Shaked rappresenti una novità nel campo sionista, Levy che si tratti di una manifestazione esplicita di quello che il sionismo è sempre stato come ideologia razzista basata su criteri etnico-religiosi, Hecht invece ritiene che si tratti di una sua degenerazione ideologica e politica propugnata dall’estrema destra israeliana. Infine Levy ribadisce la sua opinione, sostenendo che tra le posizioni di Hecht e di Shaked c’è una differenza di forma ma non di sostanza.

  1. Il nuovo sionismo nazionalista

La visione del mondo della ministra della Giustizia Shaked ricorda la xenofobia razzista degli Stati del sud degli USA dagli anni ’30 in poi

 Daniel Blatman, 1 settembre 2017 , Haaretz

La ministra della Giustizia Ayelet Shaked si pone sempre più come leader del nuovo sionismo. Ciò non è solo la conseguenza della rivoluzione costituzionale che sta conducendo, cercando di cambiare l’immagine della Corte Suprema, o della serie di proposte di legge che sta promuovendo, compresa la legge sullo Stato-Nazione. Queste sono solo manifestazioni concrete di una coerente e consolidata visione del mondo, incentrata sull’attuazione di una trasformazione ad ampio raggio delle fondamenta ideologiche su cui è stato fondato lo Stato di Israele.

Il sionismo di Shaked non è solo un’ulteriore variazione ebraica dell’idea liberale nazionalista europea della seconda metà del XX secolo, della scuola di Theodor Herzl, Chaim Weizmann, Ze’ev Jabotinsky ed altri. Il nuovo sionismo di Shaked è una sintesi rivoluzionaria dell’etica colonialista del movimento laburista e delle componenti ebree etnocentriche-razziste, che insieme portarono ad un’importante revisione delle definizioni fondamentali dello Stato ebraico. Shaked sta essenzialmente cercando di sostituire l’idea sionista – la quale, al di là delle dispute che si sono create tra le sue varie componenti, era incentrata sulla sovranità ebraica come necessità esistenziale di un popolo perseguitato – con una basilare consapevolezza che definisce lo Stato di Israele come uno Stato uni-etnico, che attuerà la visione ebraica antiliberale del colonialismo. Le sue dichiarazioni di questa settimana alla conferenza dell’ordine degli avvocati israeliani [Israel Bar Association] a Tel Aviv sono state un’altra tappa della messa a punto di questa ideologia.

Shaked ha già pubblicato recentemente i principi della sua visione del mondo in un articolo della rivista “Hashiloach”, e questo è anche il concetto centrale della proposta di legge sullo Stato-Nazione che sta promuovendo.

Lo Stato ebraico perciò è lo Stato del popolo ebreo. E’ diritto naturale del popolo ebreo vivere come ogni altra nazione,” scrive. “Uno Stato ebraico è uno Stato la cui storia è intrecciata e intessuta nella storia del popolo ebreo, la cui lingua è l’ebraico e le cui principali festività rappresentano la sua rinascita nazionale. Uno Stato ebraico è uno Stato per il quale l’insediamento di ebrei nei suoi campi, città e villaggi è una preoccupazione di primaria importanza. Uno Stato ebraico è uno Stato che favorisce la cultura ebraica, l’educazione ebraica e l’amore per il popolo ebreo. Uno Stato ebraico è la realizzazione di generazioni di aspirazioni per il riscatto ebreo. Uno Stato ebraico è uno Stato i cui valori derivano dalla sua tradizione religiosa, in cui la bibbia è il libro fondamentale ed i profeti di Israele il fondamento morale. Uno Stato ebraico è uno Stato in cui la legge ebraica riveste un ruolo importante. Uno Stato ebraico è uno Stato per il quale i valori della Torah di Israele, i valori della tradizione ebraica ed i valori della legge ebraica sono tra i suoi valori fondamentali.”

Nonostante Shaked si sforzi di presentare la sua visione del mondo come fondata sui principi classici neoconservatori e tenda ad usare citazioni di Milton Friedman [economista e teorico ultraliberista, ndt.], la sua visione del mondo proviene da zone molto più oscure. Più che il conservatorismo americano della fine del XX secolo, la sua visione del mondo ricorda la xenofobia razzista del sud degli Stati Uniti dagli anni ’30 in poi, e la destra razzista ostile all’immigrazione, che prospera oggi nei Paesi creati dal colonialismo europeo. La sua dichiarazione secondo cui “il sionismo non deve continuare, e non continuerà, a chinare la testa di fronte ad un sistema di diritti individuali interpretati in termini universalistici”, lo testimonia chiaramente.

Negli anni ’30, quelli della grande depressione e della nascita dei regimi totalitari in Europa, l’idea universalistica di diritti individuali affrontò una grave crisi negli Stati Uniti. Il rischio di guerra e di tensioni interrazziali creò difficoltà per gli attivisti dei diritti umani, soprattutto visti gli appelli a ridefinire l’essenza dell’ “americanismo” e lo status delle minoranze del Paese, definito attraverso la razza, il colore della pelle, la religione o la provenienza etnica. L’attacco ai diritti di queste minoranze si intensificò anche a causa della crescente popolarità del fascismo europeo, che propugnava la definizione di Stato come una comunità selettiva e collettiva, che escludeva chiunque non appartenesse alla collettività. Questo valeva specialmente negli Stati del sud dell’America e si manifestava attraverso le leggi a favore della segregazione razziale della regione.

La visione di Shaked dello Stato ebraico è parallela a ciò che i sudisti negli anni ’30 chiamavano “preservare lo stile di vita americano”. Per preservare questo concetto, non solo si potevano emanare leggi che lo sostenessero e lo difendessero dal doversi inchinare ai diritti umani; si poteva anche difenderlo con la violenza. Centinaia di casi di linciaggi e violenze contro i neri sono la prova più lampante di quanto fossero profondamente radicate queste concezioni. Israele non è così distante da fenomeni simili di violenza aggressiva non statale, per esempio contro i richiedenti asilo o contro i palestinesi. Ma ciò che caratterizzava in ultima istanza il sud americano era il suo sistema legale di segregazione razziale unico. A questo punta Shaked.

Tuttavia bisogna ricordare che la separazione geografica non è mai stata il principale obiettivo dei bianchi nel sud americano. Certamente essi accettavano la realtà, forse anche la necessità, che i bianchi e i neri vivessero gli uni accanto agli altri, interagendo tra loro e mantenendo relazioni basate su interessi economici o esigenze occupazionali. Tutto era soggetto ai dettami della gerarchia razziale, o ciò che un ricercatore ha definito “l’era del capitalismo razzista.”

A questo conduce la visione sionista di Shaked. Invece della supremazia bianca, avremo la supremazia ebraica, insieme ad una visione etnocentrica-razzista che consentirà alcune prassi economiche vitali. Dopotutto, lo Stato ebraico di Shaked non intende separarsi dai palestinesi e certamente non vuole renderli cittadini. Proprio come nel sud americano la segregazione e la discriminazione politica contro i neri ha creato un ordine sociale e politico brutale e razzista, così sarà nel nuovo Stato nazional-sionista di Shaked, che non accetterà di inchinarsi alle definizioni universali dei diritti individuali e continuerà ad opprimere brutalmente le minoranze, la cui unica difesa contro la tirannia ideologica che lei propugna sono proprio quelle definizioni universali.

All’interno di questa visione dobbiamo inserire anche la paura dei rifugiati e il desiderio di espellerli dal Paese ad ogni costo. L’atteggiamento razzista nei loro confronti è un fenomeno familiare nelle società con un passato ed una tradizione coloniali, di cui Israele fa parte. Dietro all’approccio che considera i rifugiati una minaccia c’è la necessità di preservare la superiorità etnica della maggioranza coloniale, la cui presa sul territorio in cui vive non ha ancora superato l’esame della legittimazione storica a lungo termine. Ecco perché la necessità di controllare rigidamente le frontiere – quelle territoriali, ma soprattutto quelle etniche e razziali – è così cruciale. I migranti e i rifugiati spezzano questi confini; sono diversi per colore, per religione e stile di vita e quindi non solo recano danno all’egemonia etnica, ma potrebbero anche annacquare le caratteristiche umane della maggioranza della società e trasformarla in un’entità etnica e culturale differente da quella originaria.

Si tratta di un concetto nuovo dello Stato di Israele. Il concetto di Shaked di superiorità etnica ebrea poggia non solo su un’ideologia rigidamente chiusa, ma sulle politiche della paura. L’arena politica israeliana è oggi controllata da partiti che propugnano una politica della paura e Shaked vi ricopre un ruolo importante. Il messaggio principale di questa politica della paura è la necessità di mantenere l’identità ebraica dello Stato contro il mondo minaccioso che potrebbe sopraffarla ed eliminarla. Le componenti arabe, islamiche ed africane che circondano lo Stato ebraico da ogni lato potrebbero spazzarla via se essa non si rafforzerà per impedire una simile tremenda invasione.

Proprio come l’estrema destra in Australia o negli Stati Uniti cerca di erigere un muro di leggi, supportato da una potente flotta o da veri e propri muri lungo i confini a protezione della patria (quella coloniale, ricordiamoci) da ogni parte dalle infiltrazioni dal Messico o dall’Afghanistan, allo stesso modo Shaked ed i suoi colleghi stanno promuovendo una legislazione supportata da barriere, checkpoint e da un potente esercito che blinda i confini israeliani dalle orde minacciose delle masse nere. Questa combinazione di superiorità etnico-razziale, legislazione apposita e castrazione del sistema giudiziario in modo che non possa proteggere ciò che Shaked disprezza tanto – le definizioni universalistiche dei diritti universali – sta dando luogo al nuovo nazional-sionismo, il successore del sionismo storico.

Il professor Blatman è uno storico dell’università ebraica di Gerusalemme.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

  1. La ministra israeliana della verità

    La ministra israeliana della Giustizia ha detto chiara e forte la verità: il sionismo si contrappone ai diritti umani, e quindi è proprio un movimento ultranazionalista, colonialista e forse razzista

 Gideon Levy, 1 settembre 2017,Haaretz

Grazie, Ayelet Shaked, per aver detto la verità. Grazie per aver parlato onestamente. La ministra della Giustizia ha dimostrato ancora una volta che l’estrema destra israeliana è meglio degli impostori del centrosinistra: parla con sincerità.

Se nel 1975 Chaim Herzog [all’epoca ambasciatore israeliano all’ONU, ndt.] stracciò platealmente una copia della Risoluzione 3379 dell’Assemblea Generale dell’ONU che metteva sullo stesso piano sionismo e razzismo, la ministra della Giustizia ha ora ammesso la veridicità di quella risoluzione (che venne in seguito revocata). Shaked ha detto, forte e chiaro: il sionismo è in contrasto con i diritti umani e quindi è in realtà un movimento ultranazionalista, colonialista e forse anche razzista, come i fautori della giustizia sostengono in tutto il mondo.

Shaked predilige il sionismo rispetto ai diritti umani, la suprema giustizia universale. Crede che noi abbiamo un diverso tipo di giustizia, superiore a quella universale. Il sionismo al di sopra di tutto. E’ già stato detto prima, in altre lingue e da altri movimenti nazionalisti.

Se Shaked non avesse contrapposto tra loro questi due principi, avremmo continuato a credere ciò che ci è stato inculcato fin dall’infanzia: il sionismo è un movimento giusto e moralmente ineccepibile. Santifica l’uguaglianza e la giustizia: basta vedere la nostra dichiarazione d’indipendenza. Abbiamo imparato a memoria: “l’unica democrazia del Medio Oriente”, “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, “tutti sono uguali nello Stato ebraico”; abbiamo appreso della giustizia della Corte Suprema araba e del ministro del governo druso. Che cosa possiamo volere di più? E’ tutto così giusto, così equo, potremmo esclamare.

Se tutto ciò fosse vero, Shaked non avrebbe motivo di ergersi a difesa del sionismo nei confronti dei diritti umani. Per lei e per la destra, la discussione sui diritti umani e civili è antisionista, addirittura antisemita. Mira a indebolire e a distruggere lo Stato ebraico.

Quindi Shaked crede, come tanti in tutto il mondo, che Israele sia edificato su fondamenta di ingiustizia e che perciò debba essere difeso dal discorso ostile sulla giustizia. In quale altro modo si potrebbe spiegare il rifiuto di discutere sui diritti? I diritti individuali sono importanti, lei dice, ma non quando sono slegati dall’ “impresa sionista”. E nuovamente: l’impresa sionista è in realtà in contraddizione con i diritti umani.

Quali sono oggi le sfide sioniste? “Giudaizzare” il Negev e la Galilea, eliminare gli “infiltrati”, coltivare il carattere ebraico di Israele e preservare la sua maggioranza ebraica. L’occupazione, le colonie, il culto della sicurezza, l’esercito – che è essenzialmente un esercito d’occupazione – questo è il sionismo nel 2017 circa. Tutti i suoi elementi sono il contrario della giustizia. Dopo che ci è stato detto che sionismo e giustizia sono fratelli gemelli, che nessun movimento nazionale è più giusto del sionismo, arriva Shaked e dice: è proprio il contrario. Il sionismo non è giusto, è contrario alla giustizia, ma noi dobbiamo stringerci ad esso e preferirlo alla giustizia, perché è la nostra identità, la nostra storia e la nostra missione nazionale. Nessun militante del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni potrebbe dirlo più nettamente. Ma nessuna Nazione ha il diritto di rifiutare i principi universali e di inventarsi i propri principi, che chiamano giorno la notte, definiscono l’occupazione giusta e la discriminazione uguaglianza.

Il sionismo è la religione fondamentalista di Israele e, come in ogni religione, è proibito negarla. In Israele, “non sionista” o “antisionista” non sono insulti, sono ordini sociali di espulsione. Non c’è niente del genere in nessuna società libera. Ma adesso che Shaked ha messo a nudo il sionismo, ha messo la mano sul fuoco ed ha ammesso la verità, possiamo finalmente pensare al sionismo in modo più libero. Possiamo ammettere che il diritto degli ebrei ad uno Stato è in contraddizione con il diritto dei palestinesi alla propria terra, e che il sionismo di destra ha dato origine ad un terribile errore nazionale che non è mai stato sanato; che ci sono modi per risolvere e riparare a questa contraddizione, ma gli israeliani sionisti non saranno d’accordo.

Adesso quindi è tempo per una nuova divisione, più coraggiosa e più onesta, tra gli israeliani che sono d’accordo con le affermazioni di Shaked e quelli che non lo sono. Tra i sostenitori del sionismo ed i sostenitori della giustizia. Tra i sionisti ed i giusti. Shaked non ha contemplato una terza opzione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Quando Gideon Levy si è innamorato di Ayelet Shaked

Il mio collega Gideon Levy preferisce gli estremisti di destra alla sinistra perché dicono la verità; cioè, esprimono sinceramente opinioni pericolose ma popolari tra la gente

 Ravit Hecht – 1 settembre 2017, Haaretz

 

Nel suo pezzo di ieri [in realtà del 1 settembre, ndt.], Gideon Levy ha ringraziato la ministra della Giustizia Ayelet Shaked per aver detto la verità; Shaked ha detto che il sionismo non si inchinerà più alla Corte Suprema. La ministra sta quindi continuando con la sua campagna di provocazione contro la Corte, una campagna che sta prosperando in tutta la destra.

Dal testo di Levy emana un aroma di amore vero per la sua onesta ed audace principessa. Il suo editoriale trasmette un messaggio di ammirazione tra  radicali che dicono le cose come stanno nella loro corsa a fare danni.

E danni sono stati fatti. Che rivoluzione. Apocalypse now. La corte aggressivamente intimidita, e presto i media saranno finalmente addomesticati e messi a tacere. Il razzismo sta avendo un’impennata con l’incoraggiamento dei dirigenti e la corruzione dilaga, senza bisogno di travestirsi, per la semplice ragione che nessuno se ne vergogna più.

Tutto ciò si aggiunge alla calamità dell’occupazione – effettivamente una grande calamità –, che è l’unica cosa che Levy vede. Per quanto lo riguarda, senza risolvere questo disastro, ogni altra cosa potrebbe essere e sarà distrutta. Ciò include, per esempio, il suo diritto fondamentale di dire la sua opinione su Israele, o semplicemente di vivere qui senza essere spedito in un campo di rieducazione se rifiuta di giurare fedeltà al capo della coalizione David Bitan [della destra del Likud, ndt.].

Il danno dell’alleanza di Levy con gente come Shaked è la sua opinione secondo cui quello che Shaked, il ministro del Turismo Yariv Levin e quelli come loro stanno proponendo è il sionismo. Non lo è. E’ una sadica distorsione che interpreta la giustificata difesa degli ebrei attraverso la fondazione di una patria come una selvaggia aggressione verso l’esterno (contro i palestinesi) e verso l’interno (contro chi critica il governo). Chaim Herzog [all’epoca dell’episodio citato ambasciatore di Israele all’ONU, ndt.] aveva ragione a stracciare la risoluzione ONU che sosteneva che il sionismo era una forma di razzismo, perché il sionismo è stato una risposta al razzismo, alla persecuzione degli ebrei ovunque nel mondo e alla reale minaccia alla loro esistenza.

Senza sminuire la tragedia del popolo palestinese nel 1948, senza discolpare il partito Mapai, il predecessore del partito Laburista, per i suoi errori storici, e senza nulla togliere al ruolo del Likud nel fomentare le colonie e nell’accentuare la divisione tra israeliani, la disastrosa destra che è cresciuta negli ultimi anni è una questione completamente diversa. Non è un’evoluzione inevitabile del sionismo o una sua veritiera manifestazione, come sostiene Levy, ma un’espressione di pulsioni malefiche e pericolose – parte di un contesto globale avvelenato – che dirigenti normali ed accettabili hanno l’obbligo di frenare.

Levy preferisce la leadership di Shaked, di Miki Zohar [dirigente della destra del Likud, ndt.] e di Bezalel Smotrich [del partito di estrema destra “Casa ebraica”, ndt.] ai dirigenti del Likud liberali, sicuramente agli abominevoli dirigenti del Mapai, perché essi dicono la verità; cioè, esprimono sinceramente sentimenti popolari tra la gente. Non per fare un paragone diretto, ma anche Hitler diceva la verità, esprimendo i desideri segreti di molti, tedeschi e non solo. Né si faceva molti scrupoli nel metterli in pratica. Nei testi di storia era meglio lui dei dirigenti del suo tempo che dimostravano moderazione?

E’difficile ignorare il tango perfetto danzato da Shaked e Levy. Lei vuole un Israele più grande come parte della fantasia di una dominazione ebraica sancita dalla Bibbia, e lui vuole uno Stato binazionale come parte di un’esotica incursione nel campo del radicalismo selvaggio. Lei vede gli ebrei come una razza dominatrice con privilegi e gli arabi come una spina nel nostro fianco, mentre lui vede gli ebrei come i cattivi e gli arabi come carini Tamagogi senza responsabilità storiche per la loro difficile situazione.

Adesso quindi è tempo per una nuova divisione, più coraggiosa e più onesta, tra gli israeliani che concordano con le affermazioni di Shaked, e quelli che discordano. Tra i sostenitori del sionismo ed i sostenitori della giustizia. Tra i sionisti ed i giusti. Shaked non ha contemplato una terza opzione,” sintetizza Levy .

Ci sono ancora alcuni fautori della giustizia in Israele che credono nel principio fondamentale del sionismo del diritto degli ebrei ad avere una patria in Israele e al contempo aborrono nel profondo l’affermazione di Shaked. Né lei né Gideon Levy li faranno scomparire.

(traduzione di Amedeo Rossi)

Il tango sionista

Perché l’onesto razzismo del ministro della Giustizia Ayelet Shaked è preferibile alle false opinioni della sinistra israeliana.

 Gideon Levy – 3 settembre 2017, Haaretz

Ravit Hecht , nel suo editoriale “Quando Gideon Levy si è innamorato di Ayelet Shaked”, mi attribuisce un “aroma di amore vero” per la mia “onesta ed audace principessa”, la ministra della Giustizia Shaked. Hecht sa che i miei gusti in fatto di donne sono leggermente diversi, e che, nonostante quello che lei scrive, non so ballare il tango. Ma il mio apprezzamento per Shaked e per gente come lei è che non deludono: riconoscono apertamente il loro nazionalismo ed il loro razzismo. 

Non nascondono le loro opinioni secondo cui i palestinesi sono un popolo inferiore, abitanti indigeni che non si guadagneranno mai i diritti che gli ebrei hanno sulla terra di Israele-Palestina; che nessuno Stato palestinese vi sarà mai fondato; che Israele alla fine si annetterà tutti i territori occupati, come ha già fatto nella pratica; che gli ebrei sono il popolo eletto; che il sionismo è in contraddizione con i diritti umani ed è superiore a essi; che la spoliazione è redenzione; che i diritti biblici di proprietà sono eterni; che non esiste un popolo palestinese e non vi è un’occupazione; che l’attuale situazione durerà  per sempre.

Molte di queste opinioni sono diffuse anche tra la sinistra sionista, il campo ideologico di Hecht. L’unica differenza è che la sinistra sionista non le ha mai ammesse. Sviluppa le proprie opinioni nella luccicante carta da regalo dei colloqui di pace, della separazione e nel vuoto discorso dei due Stati, parole che non ha realmente inteso dire e che ha fatto ben poco per realizzare.

Questa è la ragione per cui preferisco Shaked. Con lei, quello che vedi è quello che hai – razzismo. Nelle sue azioni e nei suoi fatti, la sinistra sionista ha fatto di tutto per mettere in pratica le opinioni di Shaked, solo con parole ben educate e senza ammetterlo. La sinistra sionista è in imbarazzo per le cose di cui Shaked e i suoi colleghi non si vergognano. Ciò non rende la sinistra più morale o giusta. Nelle sue azioni è semplicemente stata quasi come Shaked.

L’occupazione non è stata meno crudele sotto i governi della sinistra israeliana, che è stata il padre fondatore dell’impresa di colonizzazione. Questi prìncipi della pace, Shimon Peres e Yitzhak Rabin, hanno fondato più colonie di Shaked e provocato la morte di più arabi. La sinistra ha entusiasticamente difeso ogni operazione militare che Israele ha condotto e ogni azione brutale commessa dall’esercito israeliano. Non è semplicemente rimasta in silenzio di fronte a queste azioni, le ha appoggiate. Sempre.

Le operazioni “Piombo fuso “ e “Margine protettivo” contro Gaza (nel 2008-09 e nel 2014, rispettivamente) hanno implicato migliaia di morti senza senso, e la maggioranza della sinistra sionista le ha appoggiate. La maggioranza di quelli di sinistra ha appoggiato l’assedio di Gaza, le esecuzioni ai posti di blocco, i rapimenti notturni, le detenzioni amministrative, gli abusi, la spoliazione e l’oppressione – durante questi fatti la sinistra è rimasta totalmente silenziosa.

Ma la verità è che non si tratta di Shaked e non si tratta della sinistra. E’ il sionismo. Danni sono stati fatti, come ha scritto la stessa Hecht. Ma invece di cercare di riparare le fondamenta instabili, tutto Israele – e non solo la destra – ha fatto il possibile per indebolirle ancor di più.

Sì, questo riguarda la guerra d’indipendenza del 1948 [definizione israeliana della guerra contro i palestinesi ed i Paesi arabi da cui è nato Israele, ndt.], di cui bisogna discutere anche se è imbarazzante. Lo spirito del 1948 non ha mai smesso di soffiare qui e, a questo proposito, Shaked e Hecht sono dalla stessa parte. Secondo il loro punto di vista c’è solo un popolo qui che deve essere preso in considerazione, solo una vittima, e ha il diritto di fare tutto il danno che vuole all’altro popolo. Questa è l’evoluzione sostanziale del sionismo.

Ciò avrebbe potuto e dovuto essere modificato, senza venir meno al diritto degli ebrei ad avere uno Stato. Ma la sinistra sionista non lo ha mai fatto. Non ha mai riconosciuto la Nakba [l’espulsione dei palestinesi nel 1947-48 dal territorio che sarebbe diventato Israele, ndt.] patita dai palestinesi, e non ha mai fatto niente per espiare i propri crimini. Ciò non è mai avvenuto perché la sinistra sionista crede esattamente in quello in cui crede Shaked.

E’ vero, ci sono molte altri problemi per cui la destra provoca disastri nazionali che la sinistra non avrebbe mai creato. Ma dall’altra parte della frontiera vive un popolo che negli ultimi 50 anni – in realtà negli ultimi 100 – ha sofferto ed è stato oppresso. Non passa un giorno senza che crimini orrendi vengano commessi contro di lui. Non possiamo dire: “Abbiate pazienza. Al momento siamo impegnati con lo status della Corte Suprema.”

E sul problema veramente fondamentale che oscura tutti gli altri, Shaked e Hecht stanno danzando un tango perfetto insieme, con un aroma di vero amore che emana da entrambe – un tango sionista.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il ministro della Giustizia critica l’Alta Corte israeliana, dice che ignora il sionismo e la difesa della maggioranza ebraica

Revital Hovel

29 agosto 2017, Haaretz

Ayelet Shaked sostiene che il sistema giuridico israeliano assegna un’importanza eccessiva ai diritti individuali, definendo la legge sullo Stato-Nazione una “rivoluzione morale e politica”.

Martedì il ministro della Giustizia Ayelet Shaked ha criticato la Corte Suprema, affermando che il sistema giudiziario non prende sufficientemente in considerazione il sionismo e la maggioranza ebraica del Paese.

Parlando durante una conferenza dell’ordine degli avvocati israeliani a Tel Aviv, Shaked ha detto che il sionismo e “le sfide nazionali sono diventati una zona d’ombra legale” che non hanno un peso determinante rispetto alle questioni dei diritti individuali. Ha aggiunto che le decisioni della corte non prendono in considerazione la questione demografica e che la maggioranza ebraica “ha un valore che dovrebbe essere tenuto in conto.”

Le osservazioni di Shaked sono arrivate il giorno dopo che la Corte Suprema, nelle vesti di Alta Corte di Giustizia, ha deciso che i richiedenti asilo possono essere deportati in Rwanda e in Uganda, ma non possono essere incarcerati per più di due mesi se rifiutano di andarsene.

Il sionismo non può continuare, e lo affermo in questa sede, non continuerà ad inchinarsi al sistema dei diritti individuali interpretati in un modo universalistico che li separa dalla storia della Knesset [il parlamento israeliano. Ndt.] e dalla storia della legislazione che tutti noi conosciamo,“ ha detto Shaked al suo pubblico, che includeva il procuratore generale Avichai Mendelblit, la presidentessa della Corte Suprema Miriam Maor, il procuratore di Stato Shai Nitzan e l’avvocato generale militare, generale Sharon Afek.

Il discorso di Shaked è stato momentaneamente interrotto quando alcuni avvocati tra il pubblico hanno urlato che quello israeliano è uno Stato dell’apartheid.

Il ministro ha detto anche che la legge sullo Stato-Nazione presentata ora dal governo sarà una “rivoluzione morale e politica”. La controversa legge sostiene che Israele è “la patria del popolo ebraico” e che il diritto a realizzare l’autodeterminazione nello Stato è solo suo [del popolo ebraico].

Shaked ha detto che le sentenze della corte riflettono un atteggiamento secondo il quale “la questione della maggioranza ebraica non è comunque rilevante.” Riguardo alla decisione dell’Alta Corte ha aggiunto: “Non è importante quando stiamo parlando di infiltrati dall’Africa che si sono stabiliti nel sud di Tel Aviv ed hanno formato una città nella città, espellendo gli abitanti dai quartieri e la risposta del sistema giudiziario in Israele è di bocciare in continuazione la legge che intende affrontare la questione.”

Riguardo alla maggioranza ebraica, Shaked ha anche citato l’aumento della popolazione ebraica in Galilea.

Shaked ha detto di considerare importante il sistema dei diritti individuali ma “non quando è slegato dal contesto, dai nostri compiti nazionali, dalla nostra identità, dalla nostra storia, dalle nostre sfide sioniste.”

Ha aggiunto che “a partire dalla rivoluzione dei diritti abbiamo smesso di vedere noi stessi come una comunità.”

Riguardo alla legge sullo Stato-Nazione, Shaked ha detto che quelli che vi si oppongono “credono che una Legge fondamentale che dia la preminenza ai nostri valori nazionali e sionisti ci renderà meno democratici. Io, al contrario, vedo i diritti individuali che la Knesset ha riconosciuto come una verità assoluta, così come anche i nostri valori nazionali e sionisti.”

Ha aggiunto: “Solo una rivoluzione morale e politica, sulla linea di quella che abbiamo sperimentato negli anni ’90, che riconfermerà i principali risultati del sionismo fin dalla sua concezione, cambierà questa tendenza problematica.” Il ministro ha affermato che questa tendenza ha portato ad una “interpretazione giuridica che ha trasformato la nostra unicità nazionale in un simbolo e un vascello vuoti.”

Rispondendo alle affermazioni di Shaked, il leader dell’opposizione nella Knesset, il parlamentare dell’ “Unione sionista” Isaac Herzog ha detto: “Di fronte ad un governo che sta ignorando gli orfani, i disabili, gli stranieri e le vedove, abbiamo bisogno di un forte sistema giudiziario che non si mostri di parte. I partiti della coalizione [di governo] dovrebbero togliersi dalla testa la rivoluzione di Shaked, per il bene del popolo nel suo complesso.”

La dirigente della corrente “Hatnuah” dell’ “Unione sionista”, Tzipi Livni, ha detto: “Il sionismo non si sta inchinando ai diritti umani. Sta tenendo orgogliosamente la testa alta, perché la protezione (dei diritti umani) è anche l’essenza dell’ebraismo e parte dei valori di Israele in quanto Stato ebraico e democratico.”

In risposta alla decisione di lunedì sui richiedenti asilo, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro dell’Interno Arye Dery, insieme a Shaked, hanno chiesto norme che consentano la deportazione dei richiedenti asilo contro la loro volontà. Il ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan ha criticato la sentenza della Corte Suprema, affermando che rende nulla la sua decisione, quando era ministro dell’Interno, “di mettere in pratica la politica di espulsione verso un Paese terzo e priva lo Stato di un efficace strumento per espellere infiltrati.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La dichiarazione Balfour: uno studio sulla doppiezza britannica

Avi Shlaim

Venerdì 25 agosto 2017, Middle East Eye

Sono passati quasi 100 anni da quando questo documento ha cambiato il corso della storia, eppure la Gran Bretagna non ha ancora riconosciuto il rifiuto da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione nazionale dei palestinesi– e la sua stessa complicità.

La Dichiarazione Balfour, emanata il 2 novembre 1917, è stato un breve documento che ha cambiato il corso della storia. Ha impegnato il governo britannico ad appoggiare la fondazione di un focolare per il popolo ebraico in Palestina, disponendo che non fosse fatto niente “per pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina.”

A quel tempo gli ebrei rappresentavano il 10% della popolazione della Palestina: 60.000 ebrei e poco più di 600.000 arabi. Eppure la Gran Bretagna scelse di riconoscere il diritto all’autodeterminazione nazionale della ridotta minoranza e di negarla recisamente all’incontestabile maggioranza. Nelle parole dello scrittore ebreo Arthur Koestler: c’era una Nazione che promise a un’altra Nazione la terra di una terza Nazione.

Alcuni resoconti contemporanei presentarono la Dichiarazione Balfour come un gesto disinteressato e come un nobile progetto cristiano per aiutare un antico popolo a ricostituire la propria vita nazionale nella sua patria ancestrale. Questi resoconti sgorgavano dal romanticismo biblico di alcuni funzionari britannici e dalla loro simpatia per la condizione degli ebrei nell’Europa orientale.

Studi successivi suggeriscono che il principale motivo dell’emanazione della dichiarazione era il freddo calcolo degli interessi imperiali britannici. Si credeva erroneamente, come è risultato in seguito, che gli interessi britannici sarebbero stati meglio tutelati da un’alleanza con il movimento sionista in Palestina.

La Palestina controllava le vie di comunicazione dell’impero britannico con l’Estremo Oriente. La Francia, il principale alleato della Gran Bretagna nella guerra contro la Germania, era al contempo una rivale nell’influenza sulla Palestina.

In base all’accordo segreto Sykes-Picot del 1916, i due Paesi si divisero il Medio Oriente in zone di influenza, ma vennero a un compromesso su un’amministrazione internazionale per la Palestina. Aiutando i sionisti ad occupare la Palestina, i britannici speravano di garantirsi una presenza preponderante nella zona e di escludere i francesi. I francesi definirono i britannici “perfida Albione”. La Dichiarazione Balfour era un esempio lampante di questa perenne perfidia.

Le principali vittime di Balfour

Le principali vittime della Dichiarazione Balfour, tuttavia, non furono i francesi ma gli arabi della Palestina. La dichiarazione era un classico documento coloniale europeo messo assieme da un piccolo gruppo di uomini con una mentalità totalmente colonialista. Venne formulato con assoluto spregio per i diritti politici della maggioranza della popolazione indigena.

Il ministro degli Esteri Arthur Balfour non fece nessuno sforzo per mascherare il proprio disprezzo per gli arabi.

Il sionismo, che sia giusto o sbagliato, buono o cattivo,” scrisse nel 1922, era “radicato in una tradizione di lungo periodo, nelle necessità presenti e nelle speranze future di importanza molto maggiore dei desideri e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che ora abitano quella terra antica.” Difficilmente ci potrebbe essere una illustrazione più evidente di quello che Edward Said ha definito “l’epistemologia morale dell’imperialismo.”

Balfour era solo un languido aristocratico inglese. La vera forza motrice dietro la dichiarazione non era Balfour ma David Lloyd George, un impetuoso radicale gallese che guidava il governo. In politica estera Lloyd George era un imperialista britannico alla vecchia maniera e un usurpatore di terre. Il suo appoggio al sionismo, tuttavia, era basato non sulla corretta valutazione degli interessi britannici, ma sull’ignoranza: egli ammirava gli ebrei ma al contempo li temeva e non comprese che i sionisti erano la minoranza di una minoranza.

Schierando la Gran Bretagna con il movimento sionista, agì con l’opinione sbagliata – e antisemita – secondo cui gli ebrei erano straordinariamente influenti e che avrebbero accelerato un cambiamento storico. In effetti, il popolo ebraico era indifeso, senza nessun’altra influenza se non attraverso il mito di un potere occulto.

In breve, l’appoggio britannico al sionismo durante la guerra era radicato in un arrogante atteggiamento colonialista nei confronti degli arabi e nell’opinione sbagliata sul potere globale degli ebrei.

Un duplice obbligo

La Gran Bretagna aggravò il proprio errore originario inserendo i termini della Dichiarazione Balfour nel mandato della Società delle Nazioni per la Palestina. Quella che era stata una semplice promessa da parte di un grande potere a un alleato minore divenne a quel punto uno strumento internazionale legalmente vincolante.

Per essere più precisi, la Gran Bretagna in quanto potere mandatario assunse un duplice obbligo: di aiutare gli ebrei a costituire un focolare in tutta la Palestina mandataria e, allo stesso tempo, di proteggere i diritti civili e religiosi degli arabi. La Gran Bretagna rispettò il primo obbligo, ma mancò di onorare persino questo secondo, pur misero, impegno.

Che la Gran Bretagna fosse colpevole di doppiezza e facesse il doppio gioco è fuori discussione. Perciò la vera domanda da porsi è: questa politica immorale ha portato alla Gran Bretagna qualche vantaggio concreto? La mia risposta a questa domanda è che non ne ha portato nessuno.

La Dichiarazione Balfour è stata una palla al piede della Gran Bretagna dall’inizio del mandato [sulla Palestina] fino alla sua ingloriosa fine nel maggio 1948.

I sionisti sostennero che ogni cosa che la Gran Bretagna faceva per loro nel periodo tra le due guerre era molto lontano da quanto originariamente aveva promesso. Sostenevano che la dichiarazione implicava un appoggio ad uno Stato ebraico indipendente; i funzionari britannici ribattevano che avevano promesso solo un territorio nazionale, che non è lo stesso di uno Stato. Al contempo la Gran Bretagna subì l’ostilità non solo dei palestinesi, ma di milioni di arabi e musulmani in tutto il mondo.

Elizabeth Monroe, nel suo classico saggio Britain’s Moment in the Middle East [“Il periodo della Gran Bretagna in Medio Oriente”], fornisce un giudizio equilibrato su questa vicenda. “Valutato in base ai soli interessi britannici,” scrive Monroe, “ciò è uno dei più grandi errori della storia del nostro impero.”

Con il senno di poi, la Dichiarazione Balfour appare come un colossale abbaglio strategico.

Il risultato finale fu di permettere ai sionisti di occupare la Palestina, un’occupazione che continua fino ai nostri giorni nella forma di una espansione delle colonie, illegale ma senza sosta, in Cisgiordania a spese dei palestinesi.

Mentalità radicata

Data questa documentazione storica, ci si potrebbe aspettare che i dirigenti britannici abbassino il capo per la vergogna e rinneghino questa velenosa eredità del loro passato coloniale. Ma gli ultimi tre primi ministri britannici dei due principali partiti politici – Tony Blair, Gordon Brown e David Cameron – hanno dimostrato uno strenuo appoggio ad Israele e un’assoluta indifferenza per i diritti dei palestinesi.

L’attuale primo ministro Theresa May è uno dei leader più filo-israeliani d’Europa. In un discorso del dicembre 2016 agli “Amici conservatori di Israele”, che includono oltre l’80% dei parlamentari conservatori e tutto il governo, ha osannato Israele come “un Paese eccezionale” e “un faro di tolleranza”.

Spargendo sale sulle ferite palestinesi, ha definito la Dichiarazione Balfour “una delle più importanti lettere della storia,” ed ha promesso di festeggiarne l’anniversario.

Una petizione che chiede al governo di scusarsi per la Dichiarazione Balfour è stata firmata da 13.637 persone, compreso chi scrive. Il governo ha risposto come segue:

La Dichiarazione Balfour è una affermazione storica per la quale il governo di Sua Maestà non intende chiedere scusa. Siamo orgogliosi del nostro ruolo nella creazione dello Stato di Israele.

La dichiarazione è stata scritta in un mondo di poteri imperialisti in competizione tra loro, nel mezzo della Prima guerra mondiale e del tramonto dell’impero ottomano. In quel contesto, fondare una patria per il popolo ebraico sulla terra con cui ha legami storici e religiosi così forti era la cosa giusta e morale da fare, soprattutto di fronte a una storia di plurisecolari persecuzioni.

Molte cose sono successe dal 1917. Riconosciamo che la dichiarazione avrebbe dovuto chiedere la protezione dei diritti politici delle comunità non ebraiche in Palestina, in particolare il loro diritto all’autodeterminazione. Tuttavia la cosa importante ora è guardare avanti e garantire la sicurezza e la giustizia sia agli israeliani che ai palestinesi attraverso una pace duratura.”

Sembrerebbe che, nonostante sia passato un secolo, la mentalità colonialista dell’élite politica britannica sia ancora profondamente radicata. I dirigenti britannici dei nostri giorni, come i loro predecessori della Prima guerra mondiale, fanno ancora riferimento agli arabi come alle “comunità non ebraiche in Palestina.”

E’ vero, il governo riconosce che la dichiarazione avrebbe dovuto proteggere i diritti politici degli arabi di Palestina. Ma non riconosce l’ostinata negazione da parte di Israele del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione nazionale e la complicità della Gran Bretagna in questa costante negazione. I dirigenti britannici, come i Borboni, re di Francia, a quanto pare non hanno imparato niente e niente hanno dimenticato nei 100 anni trascorsi [dalla Dichiarazione Balfour].

Avi Shlaim è professore emerito in Relazioni internazionali all’università di Oxford e autore di The Iron Wall: Israel and the Arab World (2014) [ed. italiana:“Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo”, Il Ponte editrice] e di Israel and Palestine: Reappraisals, Revisions, Refutations (2009) [“Israele e Palestina: riesami, revisioni, confutazioni”].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’alleanza tra i sionisti ed i suprematisti bianchi nella Casa Bianca di Trump

Ali Abunimah Lobby Watch

15 agosto 2017, Electronic Intifada

Un articolo molto discusso del New York Times sulle pressioni sul presidente Donald Trump perché licenzi il suo consigliere Steve Bannon contiene questa affermazione intrigante:

La capacità del signor Bannon di inserirsi come populista all’interno dell’amministrazione Trump è in parte dovuta ai suoi collegamenti con un pugno di ricchissimi padrini politici, compreso Sheldon G. Adelson, il magnate filo-israeliano dei casinò di Las Vegas.

Come presidente esecutivo di Breitbart News prima di unirsi alla campagna elettorale di Trump, Bannon ha trasformato il sito informativo di estrema destra in quello che ha definito come la “piattaforma per l’alt-right” – l’insieme di neonazisti, suprematisti bianchi e razzisti che sabato sono stati la nuova causa di indignazione dopo la loro violenta aggressione a Charlottesville, in Virginia.

Il silenzio di Israele

Bannon è universalmente visto come il campione dei suprematisti bianchi – alcuni dei quali hanno sfilato apertamente con bandiere naziste – e la ragione per cui Trump non li ha esplicitamente condannati immediatamente dopo che uno di loro, a quanto pare James Alex Field, di 20 anni, ha lanciato la sua macchina contro i manifestanti contrari, uccidendo la 32enne Heather Hever e ne ha ferito più di una dozzina di altri.

Da qui le rinnovate pressioni su Trump perché licenzi Bannon. Ma se Bannon appoggia i suprematisti bianchi e la far-right chiaramente antisemita, perché gode del sostegno di Adelson? Il miliardario di Las Vegas, com’è ben noto, è un importante finanziatore del partito Repubblicano USA e uno dei maggior donatori delle organizzazioni filo-israeliane negli Stati Uniti. Adelson ha affermato di essere dispiaciuto per aver fatto il servizio militare nell’esercito USA invece che in quello israeliano.

E’ anche uno stretto alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu – ed è qui che si può trovare la risposta.

I leader israeliani, compreso Netanyahu, sono rimasti in silenzio in maniera molto evidente riguardo ai nazisti che si sono scatenati a Charlottesville – cosa particolarmente strana dato che Israele è in genere molto lesto nello sfruttare avvenimenti internazionali a proprio vantaggio. (Dopo tre giorni di silenzio alla fine Netanyahu, martedì, ha twittato una condanna generica dell’ “antisemitismo, neonazismo e razzismo” senza citare specificamente Charlottesville).

Perché lo “Stato ebraico” è apparentemente così riluttante ad esprimersi contro i nazisti?

Le alleanze antisemite di Israele

Mentre Israele pretende di essere il protettore degli ebrei di tutto il mondo, storicamente i sionisti hanno stretto alleanza con i più letali antisemiti del mondo. Sionisti e antisemiti, dopo tutto, condividono l’analisi che gli ebrei non appartengono all’Europa, quindi perché non collaborare per trasportarli da qualche altra parte – in Palestina?

Questa odiosa alleanza continua in forme attuali, come ha osservato [in alcuni tweet] il giornalista Max Blumenthal il 14 agosto:

Un ‘liberal’ israeliano incita gli ebrei a lasciare l’America. E’ quello che vogliono che facciamo anche i nazisti che hanno marciato a Charlottesville. Che vadano entrambi al diavolo.”

Ma questa è l’essenza del Sionismo ed è la ragione per cui è stato accolto in modo così accondiscendente dai fascisti gentili [cioè non ebrei, ndt.] che vogliono anche loro che gli ebrei se ne vadano.”

Una pietra miliare della politica israeliana di oggi è rafforzare i legami con altre forze ultranazionaliste, razziste ed islamofobe in tutto il mondo – persino se sono anche anti-semite.

Un esempio lampante è l’abbraccio dello stesso di Netanyahu con il primo ministro ungherese Viktor Orban, nonostante il recente elogio di quest’ultimo a Viktor Horthy, l’alleato di Hitler durante la guerra che diresse l’uccisione di 500.000 vittime dell’Olocausto.

Gli interessi di Israele hanno assunto priorità rispetto alla preoccupazione per la sicurezza degli ebrei ungheresi, dato che Netanyahu ha ordinato al suo ministro degli Esteri di soffocare le critiche contro i richiami antisemiti di Orban.

In modo significativo Richard Spencer, l’ideologo neonazista che vuole creare una patria ariana in Nord America, ha definito la sua missione “una specie di sionismo bianco”. Spencer ha rapporti con un altro consulente importante della Casa Bianca, Stephen Miller.

Una simile alleanza ideologica prevale all’interno della Casa Bianca. E Israele l’ha protetta: Ron Dermer, l’ambasciatore israeliano a Washington, ha difeso pubblicamente Bannon nei giorni che hanno seguito le elezioni di novembre, dopo che gruppi di ebrei americani hanno duramente criticato la nomina di Bannon a posizioni di vertice.

Ideologia e convenienza

Ma l’alleanza Adelson-Bannon è anche di convenienza. L’ “Organizzazione Sionista d’America”, sostenuta da Adelson, sta conducendo una campagna contro il consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump H. R. McMaster, che intende presentare il generale dell’esercito come “ostile ad Israele”.

McMaster sembra anche essere uno dei principali oppositori di Bannon all’interno della Casa Bianca. Figure dell’establishment della lobby israeliana, come l’ambasciatore dell’amministrazione Obama in Israele Daniel Shapiro, sono insorte a difesa di Mc Master:

Due figure importanti della sicurezza israeliana smentiscono la frottola assurda ed offensiva che McMaster sia ostile ad Israele.”

Scegli la tua guerra

Ci sono diverse questioni in gioco. Parte dell’agenda dell’ultranazionalista “Prima l’America” di Bannon è l’opposizione ad alcuni interventi militari USA, in particolare a un rinnovato “slancio” in Afghanistan ,che è appoggiato da McMaster e dal ministro della Difesa USA James Mattis.

Tuttavia ciò non è interesse né di Adelson né di Netanyahu. Bannon ed altre figure dell’estrema destra, compreso il consigliere della Casa Bianca Sebastian Gorka, sono stati gli oppositori principali dell’accordo internazionale con l’Iran sul suo programma per l’energia nucleare. Per anni bloccare o indebolire l’accordo con l’Iran è stata una delle preoccupazioni di Netanyahu.

Bannon e Gorka si sono opposti furiosamente alla recente certificazione da parte del dipartimento di Stato che l’Iran sta rispettando i termini dell’accordo.

L’accusa fondamentale dell’ “Organizzazione Sionista d’America” contro McMaster è che è troppo comprensivo con l’Iran.

Informazioni riportate da “The Forward” [storica rivista ebreo-statunitense, ndt.] hanno rivelato che Gorka è membro del gruppo ungherese di estrema destra che era controllato dai nazisti durante la guerra ed ha fornito appoggio ad una milizia antisemita.

Per chi sostiene la giustizia e si oppone alla guerra e al razzismo non c’è una “parte” da scegliere in questa battaglia. Da una parte c’è la fazione di Bannon-Adelson che sostiene il sionismo estremista, l’antisemitismo, la supremazia bianca e la possibile guerra contro l’Iran. Dall’altra, c’è quella di McMaster, appoggiata dall’apparato di Washington, che vuole perpetuare le attuali guerre imperialiste dell’America, a cominciare da un’escalation in Afghanistan.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’innamoramento di Israele per gli antisemiti ungheresi mette in luce l’orribile essenza del sionismo

Asa Winstanley – 26 luglio 2017,Middle East Monitor

Il sionismo, l’ideologia ufficiale dello Stato di Israele, è sempre stato un progetto politico antisemita. Benché il sionismo si sia presentato come una soluzione all’antisemitismo europeo, in realtà ha significato una sua continuazione nello spirito e nella pratica.

La premessa di base che sta dietro al sionismo è sempre stata fondamentalmente anti-ebraica. L’idea che gli ebrei non siano autentici cittadini dei loro Paesi d’origine in Europa ed altrove e che dovrebbero andarsene per diventare coloni in un Paese straniero – Israele – è tale che la sinistra politica non ha problemi a riconoscerla come antisemita quando è sostenuta dalla destra politica. Quando la stessa menzogna esce dalla bocca dei sionisti, allora (compreso qualche qualche gruppo progressista e di sinistra) viene accettata perché appoggiano Israele. E’ ora di porre fine a questa ipocrisia e di ammettere che il sionismo è antisemitismo.

Un’ulteriore prova di ciò è risultata evidente all’inizio di questo mese con la questione di George Soros in Ungheria. Il governo di destra ha lanciato una campagna di manifesti esplicitamente anti-semiti che ha preso di mira gli immigrati; i manifesti mostravano il volto sorridente di Soros e una didascalia: “Non lasciamo che Soros abbia l’ultima parola [letteralmente: che rida per ultimo, ndt.]!”

Nato ebreo ungherese, Soros è un finanziere miliardario e finanziatore di cause progressiste attraverso le sue “Fondazioni per una Società Aperta”. I beneficiari della sua generosità includono gruppi che promuovono politiche immigratorie più aperte.

Il messaggio chiaramente insito nei manifesti era che ricchi ebrei stanno dietro una trama per inondare l’Ungheria di immigrati, una tipica menzogna della propaganda fascista. “Human Rights Watch”, un’organizzazione in parte finanziata da Soros, ha condannato la campagna, affermando che “evoca ricordi dei manifesti nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.”

Anche la comunità ebraica ungherese ha manifestato preoccupazione, e l’ambasciata israeliana a Budapest inizialmente ha fatto lo stesso. Tuttavia, ore dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu – che è anche il ministro degli Esteri – in un comunicato rilasciato dal ministero degli Esteri ha scavalcato l’ambasciata. Il “chiarimento” ha sostenuto che George Soros “minaccia continuamente i governi israeliani democraticamente eletti” ed ha affermato che finanzia organizzazioni “che diffamano lo Stato ebraico e cercano di negargli il diritto di difendersi.”

B’tselem, il gruppo per i diritti umani israeliano che si dedica a documentare le violazioni a danno dei palestinesi da parte di Israele, è un altro gruppo sostenuto dalle fondazioni di Soros.

Il “chiarimento” di Netanyahu è molto significativo in quanto ha offerto un appoggio al primo ministro ungherese Viktor Orban. Lo scorso mese Orban ha elogiato il leader ungherese della Seconda Guerra Mondiale Miklos Horthy, definendolo uno “statista eccezionale”. Horthy fu un alleato di Adolf Hitler e il suo regime collaborò con i nazisti nella deportazione degli ebrei. Mezzo milione di ebrei ungheresi furono uccisi durante l’Olocausto nazista.

Ciononostante Netanyahu ha dato il proprio sostegno al leader ungherese alla vigilia della sua visita a Budapest all’inizio del mese, durante la quale ha lodato le credenziali filo-israeliane di Orban. “C’è un nuovo antisemitismo che è rappresentato dall’anti-sionismo e che consiste nel delegittimare l’unico Stato ebraico,” ha detto Netanyahu dopo colloqui con Orban. “L’Ungheria è, in molti modi, all’avanguardia degli Stati che vi si oppongono.”

Questa è in sintesi la politica israeliana: l’antisemitismo è ridefinito da “odio degli ebrei in quanto tali” a “critiche contro Israele”. Ciò ha raggiunto un culmine talmente estremo che persino ai sionisti non ebrei è consentito di uscirsene con i giudizi anti-ebraici più stravaganti finché appoggiano Israele sempre e comunque.

La faccenda ci ricorda un cartone animato orribilmente antisemita creato nel 2015 da un’organizzazione di coloni israeliani che riceve finanziamenti pubblici. Il grottesco esempio di propaganda era un attacco generalizzato contro B’tselem, Yesh Din e altri gruppi israeliani per i diritti umani. In esso un personaggio losco, con il naso grande definito come “Lo ebreo” [nel testo inglese “Ze Jew”], ha delle monete europee lanciategli in cambio di bugie propagandistiche inventate contro Israele. Classico esempio antisemita di incitamento contro gli ebrei critici di Israele, era persino intitolato “L’ebreo eterno”, come un film di propaganda nazista del 1940.

Come ha scritto recentemente Haaretz in un editoriale sulla faccenda di Soros, “Chi sostiene progetti universalisti e lotta per i diritti umani, compresi i diritti delle minoranze e degli stranieri, in Israele è denunciato come nemico.”

Attivisti ebrei nei movimenti di solidarietà con la Palestina in Gran Bretagna raccontano sistematicamente di essere vittime delle denunce più ferocemente antisemite da parte dei sionisti, che spesso esprimono l’auspicio che gli attivisti o le loro famiglie fossero stati uccisi durante l’Olocausto.

Riguardo a Soros, la destra ungherese e quella israeliana sembrano aver trovato una causa comune. Poco dopo che Netanyahu ha appoggiato la campagna di odio anti-semita di Orban, un parlamentare del suo partito di estrema destra, il Likud, ha proposto quella che ha chiamato la “Legge Soros”, per bloccare le donazioni ai gruppi di sinistra che godono di finanziamenti stranieri.

L’innamoramento di Israele per gli antisemiti ungheresi mette in luce l’orribile essenza del sionismo. La sua china verso il fascismo sempre più esplicito continua a ritmo sostenuto.

(traduzione di Amedeo Rossi)