Perché l’opposizione israeliana non vuole parlare del vero obiettivo della riforma giudiziaria

Michael Schaeffer Omer-Man

21 febbraio 2023 – +972 Magazine

Politici del governo hanno esplicitamente affermato che la riforma giudiziaria riguarda l’annessione. Gli oppositori non vogliono ammetterlo perché condividono lo stesso progetto.

Quasi esattamente 10 anni fa il ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin, allora giovane stella nascente nel partito di Netanyahu, il Likud, parlò a una conferenza organizzata dal Movimento Israeliano per la Sovranità, sostenitore della totale annessione da parte di Israele dei territori palestinesi occupati. Prima di esporre un piano di quattro fasi per quello che molti hanno definito una “annessione strisciante” attraverso piccoli passi successivi nell’applicare la legge israeliana alla Cisgiordania, Levin mise in guardia il suo pubblico di ideologi.

Non ho dubbi che tra non molto riusciremo ad estendere la sovranità su tutta la Terra di Israele,” rassicurò i presenti. “È importante avere questo progetto perché a volte esso contrasta con le tattiche e i compromessi che devono essere fatti lungo il percorso. Dobbiamo attenerci a questo obiettivo in modo intelligente giorno dopo giorno, potrei persino dire talvolta con raffinatezza, per raggiungere alla fine il nostro obiettivo.”

Un anno dopo Levin parlò di nuovo alla conferenza. Oltre ai passi discreti e implacabili che aveva presentato nella sua precedente apparizione, il politico del Likud aggiunse due importanti prerequisiti per una totale annessione. Il primo, ammonì, era una lenta e paziente campagna per cambiare il modo in cui l’opinione pubblica israeliana, compresa la destra annessionista, pensava e parlava della questione palestinese dopo decenni in cui gli Accordi di Oslo e la soluzione a due Stati avevano caratterizzato il discorso.

La seconda condizione imprescindibile per l’annessione di cui parlò fu molto più audace: una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario israeliano. “Non possiamo accettare l’attuale situazione in cui il sistema giudiziario è controllato da estremisti di sinistra, una minoranza post-sionista che si auto-nomina a porte chiuse, imponendoci i suoi valori, non solo sull’(annessione), ma anche su altre questioni,” spiegò Levin. “Un cambiamento del sistema giudiziario è essenziale perché ci consentirà e ci faciliterà il fatto di intraprendere passi concreti sul terreno che rafforzino il processo di promozione della sovranità.”

Molti nella destra israeliana vedono il sistema giudiziario del Paese, che in realtà ha appoggiato e consentito l’esistenza stessa e l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati, come ostile al movimento dei coloni. Vedono gli occasionali vincoli che la Corte ha introdotto, in particolare il fatto che essa abbia bocciato una legge che avrebbe legalizzato colonie costruite su proprietà privata palestinese rubata, come il principale impedimento alla possibilità di realizzare i sogni annessionisti, che per loro sono una combinazione di imperativi messianici e ideologici.

Passano 10 anni e Levin diventa il nuovo ministro della Giustizia di Israele, accelerando una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario del Paese, in un processo che molti all’interno di Israele definiscono un tentativo di colpo di stato. La proposta di legge ha scatenato in Israele un massiccio movimento di protesta che ha visto manifestazioni settimanali, scioperi generali, minacce di fuga di capitali e importanti personalità che invocano la disobbedienza civile.

Nonostante la crescente rivolta, lunedì notte la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato in prima lettura una legge che darebbe al governo un notevole controllo sulla commissione per la selezione dei giudici israeliani e impedirebbe alla Corte Suprema di esercitare il controllo giudiziario sulle Leggi Fondamentali del Paese. La proposta richiede altre due letture perché venga convertita in legge.

In un Paese con un ordine costituzionale caratterizzato dalle innumerevoli decisioni dei suoi leader di non prendere decisioni, la prospettiva di un risoluto governo di estrema destra che consolidi il potere e sovverta l’unico controllo istituzionale sulle sue pretese è indubbiamente terrificante. Quindi molti israeliani pensano di lottare per salvare la democrazia, le libertà e i diritti che hanno sperimentato nel loro Paese per più di 70 anni.

Ma ciò sollecita una domanda cruciale: perché il latente obiettivo ideologico e politico che promuove questa riforma dell’intero sistema di governo israeliano da parte dell’estrema destra, cioè l’annessione unilaterale dei territori occupati, è così assente dal discorso pubblico e dalle proteste nelle piazze?

Non è un progetto degli estremisti

Non c’è bisogno di vedere i video di 10 anni fa su YouTube per capire l’ossessione fanatica che la destra israeliana ha riguardo all’annessione. Solo qualche anno fa, in un governo non diverso da quello di oggi, Netanyahu disse che entro breve avrebbe ufficialmente annesso vaste aree della Cisgiordania occupata, un piano poi congelato in cambio della normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, seguiti dal Bahrein, dal Marocco e dal Sudan.

In seguito a quel disastro per la destra annessionista, nel 2020 l’allora presidente della Knesset Yariv Levin, insieme all’attuale ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, fondò il “Comitato per la Terra di Israele”. Pur mettendo in guardia i suoi sodali ideologici che come presidente della Knesset avrebbe dovuto parlare in “termini istituzionali”, durante il primo incontro Levin rassicurò i suoi alleati del comitato che avrebbe comunque lavorato per procedere verso l’annessione. “La sovranità su tutta la terra di Israele,” affermò, “è l’irrevocabile diritto del popolo ebraico. È nostro dovere, e non una questione di scelta, realizzarlo.”

È importante analizzare la leadership di Levin a favore dell’annessione per due ragioni. La prima è che egli si trova ora nella posizione di mettere le basi giuridiche per la sua realizzazione. La seconda è che i progetti annessionisti di questo governo, sia all’interno di Israele che a livello internazionale, tendono ad essere liquidati come un progetto di politici e partiti dei coloni estremisti che sono arrivati al governo e grazie ai quali Netanyahu è stato in grado di riprendere il potere dopo quattro elezioni inconcludenti e un breve periodo all’opposizione.

Il Comitato per la Terra di Israele, che Levin ha co-fondato per portare avanti strategie legislative e alleanze trasversali tra i partiti finalizzate all’annessione, è sempre stato dominato dal Likud. Nella 23esima Knesset, quando il comitato è stato fondato, i parlamentari del Likud rappresentavano il 44% dei membri, più di metà degli eletti del partito. Da allora nella 24esima Knesset, sciolta lo scorso novembre, l’87% dei deputati del Likud faceva parte del comitato ed essi rappresentavano il 57% di esso. Pochi anni prima il comitato centrale del Likud aveva votato per sostenere l’annessione come parte del proprio programma.

Nonostante la loro esplicita agenda, nel più vasto dibattito pubblico Netanyahu e il Likud sono percepiti come intenzionati a riformare il sistema di governo israeliano per ragioni diverse, di megalomania e corruzione. Il primo ministro, si afferma, attualmente è sotto processo per corruzione, la principale ragione citata dai suoi alleati storici per abbandonarlo, e l’unico modo per lui di garantirsi di non finire in galera è attraverso il controllo del potere giudiziario. All’interno di questa narrazione la riforma governativa è stata definita semplicemente come un abuso di potere, benché con conseguenze di vasta portata per l’economia, la posizione diplomatica, i diritti civili e per una delle linee di faglia più spinose di Israele: i rapporti tra Stato e religione.

Generalmente si attribuisce ai partiti più piccoli e radicali dell’ultimo governo Netanyahu, guidati da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, l’uso della riforma giudiziaria per raggiungere finalmente il loro sogno di annessione, sfrenata espansione delle colonie ed espulsione del maggior numero possibile di palestinesi. Per gran parte dell’opposizione essi sono tutt’al più degli opportunisti che hanno individuato il momento in cui le loro fantasie messianiche convergono con gli interessi personali di Netanyahu e in cui finalmente hanno influenza perché senza di loro il governo crollerebbe.

Di conseguenza la lotta per salvare la democrazia israeliana dipinge la propria distopia in parallelo con la caduta nell’autoritarismo vista in Ungheria e in Polonia nello scorso decennio. Quindi bloccare l’“orbanizzazione” di Israele è diventata una sorta di parola d’ordine dell’opposizione.

Un ethos colonialista unificante

La ragione di questa dissonanza tra la narrazione dell’opposizione e il vero progetto del Likud è duplice. Primo, perché in parte è vera: in effetti Netanyahu ha bisogno di questi alleati di coalizione proprio per la sua stessa sopravvivenza politica e la sua libertà personale. La seconda ragione si riduce al fatto che l’opposizione israeliana e Netanyahu condividono la stessa ideologia, il sionismo, il cui fondamento è la convinzione che dio abbia dato la Terra di Israele al popolo ebraico, che gli ebrei abbiano il diritto di stanziarsi su ogni parte di quella terra e che la sopravvivenza del popolo ebraico dipenda dalla estrinsecazione fisica e politica di tale dottrina.

L’unica seria sfida a questo progetto, il fallito processo di Oslo che prevedeva la partizione e diversi livelli di limitata autonomia palestinese, non ha mai contrastato la fondamentale convinzione sionista che tutta la Terra di Israele sia del popolo ebraico. Quello su cui leader come Yitzhak Rabin e Ariel Sharon dissentivano riguardava il compromesso strategico, non l’ideologia. Loro e gli israeliani che ne seguivano i rispettivi percorsi non hanno mai visto la rinuncia alla piena applicazione di quello che è noto come sionismo massimalista o espansionista come una sua negazione.

Questo caposaldo del sionismo è la ragione per cui Rabin, Sharon, Shimon Peres, Ehud Olmert, Tzipi Livni e qualunque altro importante politico israeliano che ha proposto o inteso fare concessioni territoriali non si è mai sognato di rinunciare a tutte le colonie israeliane al di là della Linea Verde. A un decennio dall’ultimo processo di pace credibile, in Israele il sostegno persino a una limitata concessione territoriale è praticamente sparito.

A prescindere dalla sua veridicità storica, l’idea della sinistra israeliana di terra in cambio di pace è stata screditata dalla maggioranza degli israeliani sionisti come un errore comprovato. Persino quei partiti politici che ancora sostengono una soluzione a due Stati, anche solo in teoria, hanno interiorizzato da molto tempo l’inutilità di perseguirla. Un recente sondaggio ha rilevato che il sostegno degli ebrei israeliani a un regime di apartheid permanente, in cui Israele controlli tutto il territorio dal fiume Giordano al Mediterraneo ma non conceda pari diritti ai palestinesi, è raddoppiato negli ultimi due anni dal 15 al 29%. Nello stesso periodo il numero di ebrei israeliani che appoggiano i due Stati è sceso dal 43 al 34 %.

Cosa ancora più grave, una significativa sezione trasversale di quanti protestano contro il piano Netanyahu-Levin-Smotrich-Ben Gvir, e stanno anche avvertendo di un possibile spargimento di sangue nelle piazze, condivide il latente insieme di principi ideologici e obiettivi politici che il quel progetto intende raggiungere.

Per alcuni israeliani l’opposizione è personale: aborrono l’idea che governi il loro Paese qualcuno sotto processo per corruzione. Per altri, come Avigdor Lieberman [leader di un partito ultranazionalista laico, ndt.] e molti israeliani laici preoccupati dalle imposizioni religiose, si tratta dell’alleanza di Netanyahu con partiti religiosi ebraici. Per quanti sono più vicini al centro-sinistra, le differenze riguardano il prezzo per il vissuto ebraico democratico e quasi liberale di Israele.

Molti economisti e importanti uomini d’affari sono semplicemente terrorizzati dai previsti danni per l’economia israeliana derivanti dall’erosione dello stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.

Il problema con la “democrazia israeliana”

Dato che queste differenze non sono ideologiche, praticamente nessuno sta facendo i conti con la dissonanza tra la propria concezione della democrazia israeliana che starebbe cercando di salvare e l’intrinsecamente antidemocratico e illiberale regime di apartheid su cui la “sovranità ebraica” si è sempre fondata.

Il centro e buona parte della destra israeliani si oppongono all’annessione a breve termine della Cisgiordania perché pensano che in base alle attuali circostanze lo status quo di una “temporanea” occupazione militare di più di 55 anni sia più prudente dal punto di vista strategico. Secondo loro cancellare formalmente la distinzione tra i territori occupati e il vero e proprio territorio riconosciuto di Israele renderebbe troppo difficile convincere il mondo che Israele non è un regime di apartheid in cui a metà della popolazione, palestinese, vengono negati fondamentali diritti democratici, civili e umani.

Tale dissonanza risulta evidente se si considera che l’opposizione al piano di Netanyahu non sta offrendo un progetto alternativo. Non stanno suggerendo che Israele adotti una costituzione con garanzie formali di uguaglianza, diritti civili, democrazia o chiarezza sulla questione dei rapporti tra Stato e religione. Non hanno intenzione di denunciare le mire espansionistiche di Levin, Smotrich e Ben Gvir perché tali mire e la convinzione che la Terra di Israele sia del popolo ebraico è intrinseca all’ethos sionista. Non sono in grado di definire cosa effettivamente ne sia della democrazia israeliana se continua a governare in modo antidemocratico milioni di palestinesi senza concedere loro pari diritti.

Tuttavia il baratro che, come avvertono alcuni, potrebbe portare Israele a una guerra civile non riguarda visioni contrapposte del Paese. Il fatto è che un gruppo non si accontenta più di aspettare le “giuste condizioni” per realizzare il sogno sionista della sovranità ebraica su tutta la Terra di Israele, mentre l’altro preferisce attenersi alla tradizione politica di guadagnare tempo decidendo di non decidere.

Per Netanyahu, Levin, Smotrich e Ben Gvir le conseguenze della formalizzazione di un regime di apartheid che mini la nozione di Israele come una democrazia, e alcuni dei privilegi e vantaggi che questa definizione offre loro, valgono il costo, se pure il mondo è intenzionato a imporne uno. E proporre una vera visione alternativa richiederebbe all’opposizione un livello di riflessione su se stessa e una sfida a convinzioni fondamentali che praticamente nessuno intraprenderebbe volontariamente.

Michael Schaeffer Omer-Man è direttore di ricerca per Israele-Palestina al DAWN [Democracy for the Arab World Now, istituto di ricerca statunitense, ndt.]. Fino al 2019 è stato direttore di +972 Magazine. Ha lavorato anche con agenzie internazionali umanitarie e per i rifugiati nel contesto Israele/Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La bolla dell’hasbara israeliana sta per scoppiare? [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt]

Meron Rapoport

13 febbraio 2023 – +972 Magazine

Per decenni gli alleati occidentali di Israele hanno hanno annuito quando si autodefiniva “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Cosa succederà se ci ripensano?

“Perché le nostre nazioni condividono un’alleanza così stretta?” si è chiesto ad alta voce il primo ministro Benjamin Netanyahu davanti al presidente francese Emmanuel Macron a Parigi nel 2018, durante un evento in occasione dei 70 anni dalla fondazione di Israele. “Suppongo che la risposta possa essere riassunta in tre parole – parole che tutti voi conoscete: Libertè, egalitè, fraternitè!” Netanyahu ha continuato. Come la Francia, Israele è una democrazia orgogliosa, orgogliosa del nostro primato nel preservare la libertà nel cuore del Medio Oriente. Questo è davvero un risultato notevole perché in questi 70 anni non c’è stato un solo momento, nemmeno un secondo, in cui la democrazia di Israele sia stata messa in discussione».

Eppure per Macron sembra essere arrivato il momento in cui potrebbe porre in discussione la democrazia di Israele. Secondo “Le Monde”, durante il loro ultimo incontro a Parigi all’inizio di questo mese Macron ha detto a Netanyahu che se il programma del governo di estrema destra sulla revisione del sistema giudiziario andrà a buon fine la Francia sarà “costretta a concludere che Israele ha abbandonato il concetto dominante di democrazia”. Cioè, se Netanyahu ha propagandato Israele come un bastione della “libertà in Medio Oriente” per dimostrare a Paesi come la Francia di avere “valori condivisi”, sembra che oggi meno persone stiano abboccando a quanto il primo ministro sta spacciando.

Naturalmente, per quanto riguarda i palestinesi Israele non è mai stato una democrazia – dall’espulsione di 750.000 palestinesi durante la Nakba e la negazione del loro diritto al ritorno, attraverso il governo militare sui cittadini palestinesi di Israele durato fino al 1966, all’occupazione del 1967 e la sua sistematica violazione dei diritti dei palestinesi fino ad oggi. Macron, come altri leader mondiali, ne è sicuramente consapevole. Ma fintanto che lo Stato di Israele operava più o meno con tutti gli orpelli della democrazia era conveniente per il leader francese e altri nel cosiddetto mondo occidentale chiudere un occhio su ciò che stava accadendo oltre la Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 ndt] e vedere l’occupazione israeliana e l’apartheid nei territori come un’anomalia, piuttosto che una caratteristica della democrazia israeliana.

La sua sedicente immagine di “unica democrazia in Medio Oriente” è stata per decenni, non solo durante l’era Netanyahu, la risorsa strategica di Israele, ed è una delle numerose ragioni che spiegano come Israele abbia goduto dell’immunità internazionale rispetto all’occupazione. Il suo sistema giudiziario relativamente indipendente, l’immagine di una stampa libera, le politiche apparentemente liberali nei confronti della sua comunità LGBTQ e il marketing aggressivo di Tel Aviv come una delle città più alla moda del mondo sono tutti serviti a questa immagine. Anche il concetto di “Start-Up Nation” ha contribuito a dipingere Israele come un Paese libero e creativo, parte integrante dell’Occidente.

Subito dopo il rapporto di Le Monde una fonte vicina a Netanyahu si è affrettata a chiarire ai giornalisti israeliani che Netanyahu ha avuto l’impressione che Macron non conoscesse tutti i dettagli della riforma. Ma si tratta di un’affermazione discutibile, dato che la riforma – la cui prima parte è stata approvata lunedì dalla Commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [parlamento israeliano, ndt.] e la prossima settimana potrebbe approdare alla Knesset in seduta plenaria per un voto preliminare – non è così complessa.

Quando un mese fa il ministro della Giustizia Yariv Levin l’ha annunciata ha impiegato esattamente tre minuti e mezzo per spiegarla: una clausola di annullamento che consentirebbe a 61 membri della Knesset di ribaltare le sentenze della Corte Suprema, accentuando il ruolo dei membri della Knesset nella proclamazione dei giudici della Corte Suprema, in modo tale che sia il governo a nominare i giudici, e rendendo le nomine dei consulenti legali “ad personam”. Sono convinto che la riforma avrebbe potuto essere spiegata a Macron in ancor meno tempo con una semplice frase: d’ora in poi il governo israeliano farà quello che vuole e nessun tribunale potrà fermarlo.

Macron è stato uno dei leader europei più importanti a parlare contro la rivoluzione antidemocratica di Viktor Orbán in Ungheria. Quando la Francia ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione europea nel 2022 Macron ha spiegato che il suo compito principale sarebbe stato promuovere lo “stato di diritto” in Europa. “Siamo una generazione che sta scoprendo di nuovo come la democrazia e lo stato di diritto possono essere resi fragili”, ha affermato. Lo stato di diritto, ha aggiunto Macron, non è una “invenzione di Bruxelles”, ma parte della storia europea. “La fine dello stato di diritto è l’inizio dell’autoritarismo”.

Sebbene non esplicitamente menzionato, il governo ungherese ha capito molto bene di chi stesse parlando il presidente. “Ci aspettiamo che la presidenza francese di turno del Consiglio (europeo) smetta di applicare doppi standard e ricatti politici”, ha dichiarato Tamás Deutsch, membro del Parlamento europeo per il partito Fidesz di Orbán, in risposta al blocco dell’UE sul trasferimento di miliardi di euro all’Ungheria, non essendo riuscita ad attuare le riforme democratiche. Nel dicembre 2022 l’UE ha accettato di sbloccare parte del denaro, ma questi pagamenti sono ancora subordinati a ulteriori riforme.

Israele non è un membro dell’UE, e quindi Macron non può esercitare su Netanyahu lo stesso tipo di pressione che esercita su Orbán. Ma questo confronto in corso tra Macron in particolare, e l’Unione Europea in generale, da un lato, e l’Ungheria dall’altro, mostra l’importanza di quelli che un tempo erano considerati affari strettamente interni, come lo stato di diritto o la qualità della democrazia in un determinato Paese, in Paesi che apparentemente hanno “valori condivisi”.

“La prima linea dell’Occidente in Oriente”

Come altre colonie di insediamento, come gli Stati Uniti, il Canada e il Sud Africa, il sionismo si è vantata di aver stabilito in Palestina una “società modello” – per i coloni, ovviamente, non per la popolazione indigena. Una delle manifestazioni di questa società modello” è stata la democrazia interna che il movimento sionista ha stabilito tra il fiume e il mare [tra il Giordano e il Mediterraneo, ndt.]. Incluse procedure democratiche all’interno dei partiti sionisti, elezioni per l’Assemblea dei rappresentanti, l’organo legislativo che ha preceduto la Knesset e ha rappresentato la comunità dei coloni ebrei in Palestina durante il mandato britannico, elezioni nell’Organizzazione sionista mondiale e, naturalmente, elezioni per la Knesset dopo il 1948. Lo Stato di dirittoe l’indipendenza della corte erano, e sono rimaste, parte di questo pacchettodemocratico per gli ebrei.

Questa “società modello” è stata uno strumento importante per creare una coesione tra i coloni ebrei sotto il mandato britannico, e successivamente in Israele. Ma fin dal primo momento fu di enorme importanza anche per le relazioni tra la comunità ebraica in Israele e l'”Occidente”. Il fatto che il sionismo abbia stabilito una società libera e democratica nella Terra d’Israele è servito come prova che essa fa parte dell’Occidente, che rappresenta l’Occidente e che è portatrice di “libertà, uguaglianza, fratellanza” nel selvaggio e pericoloso Medio Oriente, come ha spiegato Netanyahu a Macron.

Questa visione è particolarmente profonda nella famiglia Netanayhu. Il sionismo è sempre stato la prima linea dell’Occidente in Oriente, ha detto Benzion Netanyahu, padre del primo ministro, in un’intervista ad Haaretz nel 1998. “Oggi è lo stesso: ha contrastato le tendenze naturali dell’Est a penetrare l’Occidente e schiavizzarlo”. Suo figlio Benjamin ha detto cose sorprendentemente simili nel 2017 durante un incontro con i capi del Gruppo Visegrád: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. L’Europa finisce in Israele. A est di Israele, non c’è più Europa”, avrebbe detto Netanyahu durante una conversazione a porte chiuse con i leader.

Una delle affermazioni centrali degli oppositori dell’attuale tentativo di riforma giudiziaria è che la comunità degli affari non può operare in un Paese in cui il governo è forte e i tribunali sono deboli, e quindi le società lasceranno Israele e gli investitori saranno cauti nel mettere i loro soldi nell’economia israeliana. D’altra parte, i sostenitori della riforma affermano che in realtà essa incoraggerà la “libertà economica” – e non hanno necessariamente torto; in Cile il capitalismo è fiorito dopo che la democrazia è stata uccisa dal regime di Pinochet, mentre in Cina il capitalismo prospera anche in mancanza di un minimo di democrazia. Quando il governo non ha limiti può sopprimere i sindacati e far prosperare il capitale senza fastidiose questioni come i diritti umani o la libertà di sciopero.

Ma i valori condivisi, in nome dei quali Paesi come Francia e Stati Uniti hanno chiuso un occhio davanti all’occupazione israeliana e alla sistematica violazione dei diritti dei palestinesi, vanno ben oltre il liberalismo economico. Riguardano la capacità stessa dei Paesi occidentali di vedere Israele come uno di loro. Quando il Segretario di Stato americano Anthony Blinken ha incontrato Netanyahu durante la sua visita nel Paese a fine gennaio ha spiegato quali sono gli interessi e valori condivisidi Israele e Stati Uniti: Il rispetto dei diritti umani, l’eguale amministrazione della giustizia per tutti, la parità di diritti delle minoranze, lo stato di diritto, la libertà di stampa e una solida società civile”.

È vero che sia le osservazioni di Blinken che quelle di Macron dovrebbero essere prese con le pinze. Gli Stati Uniti mantengono la loro “relazione speciale” con Israele, anche se non c’è stato quasi un solo giorno nella storia di Israele in cui abbia rispettato i diritti dei palestinesi. Netanyahu è stato anche citato dopo l’incontro con Macron per aver detto che le lamentele sulla mancanza di democrazia in Israele diventeranno un “mantra” come le lamentele su Israele che non riesce a portare avanti una soluzione a due Stati.

Ci troviamo in un momento senza precedenti, in cui Levin, Netanyahu e il Presidente del Comitato per la costituzione, il diritto e la giustizia della Knesset, Simcha Rothman, sono determinati ad approvare la riforma ad ogni costo, mentre centinaia di migliaia di manifestanti, il procuratore generale, il presidente e [tutta, ndt.] la Corte Suprema sono determinati a opporsi. Se la Corte Suprema dovesse dichiarare incostituzionali le riforme potremmo andare incontro a uno scontro violento con dichiarazione di uno stato di emergenza, chiusura per decreto della Corte Suprema e arresto in massa dei leader della protesta.

Se questo accadesse, e il governo andasse contro i tribunali e i pochi rimasugli di valori liberali che ancora esistono in Israele, forse allora i Paesi occidentali farebbero un ulteriore passo avanti nelle loro critiche. E se lo facessero anche l’immunità dalle critiche all’occupazione di cui Israele ha goduto per decenni potrebbe cominciare a incrinarsi. Dopodiché, si giocherebbe una partita completamente nuova.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Inventare il nuovo antisemitismo

Em Hilton

16 gennaio 2023+972 magazine

Israele ei suoi sostenitori hanno a lungo promosso l’agenda secondo cui l’antisionismo è una forma di razzismo antiebraico. Un nuovo libro mostra come questo sforzo sia avvenuto a spese sia dei palestinesi che degli ebrei della diaspora.

Whatever Happened to Antisemitism?: Redefinition and the Myth of the ‘Collective Jew,’” by Antony Lerman, Pluto Press, June 2022, pp. 336.

Antony Lerman, “Cosa accidenti è successo alll’antisemitismo? Ridefinizione e mito dell’ebreo collettivo’”, Pluto Press, giugno 2022, pp. 336.

Stiamo vivendo un momento particolarmente preoccupante nella lotta globale contro l’antisemitismo. In mezzo al risorgente autoritarismo di destra, le teorie antisemite del complotto vengono poste alla base delle campagne elettorali in tutto il mondo; gli attacchi violenti agli ebrei in Europa  sembrano in aumento e vanno di pari passo con gli attacchi ad altre minoranze; negli Stati Uniti i politici nazionalisti bianchi continuano a gettare la maschera, mentre personaggi pubblici con numeri enormi di follower professano il loro sostegno al nazismo.

Eppure nel frattempo la comprensione pubblica di ciò che costituisce antisemitismo è più confusa che mai. Le accuse di antisemitismo vengono regolarmente lanciate – molto spesso da Israele stesso – per mettere a tacere chi critica Israele  e per attaccare qualsiasi forma di difesa della Palestina come se fosse motivata esclusivamente dal razzismo antiebraico. Nel Regno Unito questa politicizzazione della questione dell’antisemitismo, che si esprime in gran parte come una battaglia di definizioni, ha ridotto a una partita di calcio politica e a stucchevoli politiche sull’identità la un tempo intellettualmente rigorosa ricerca per comprendere come si manifesti l’antisemitismo.

È in questo contesto che dobbiamo esaminare il nuovo libro dello scrittore britannico Antony Lerman, “Whatever Happened to Antisemitism?”. Offrendo un’esplorazione storica e analitica dei tentativi di ridefinire l’antisemitismo nel contesto moderno, il libro si concentra in particolare sullo sviluppo negli ultimi decenni del concetto di “nuovo antisemitismo” – un approccio politicizzato che mira a fondere le critiche a Israele e al sionismo con precedenti interpretazioni dell’antisemitismo che cercavano di fare una distinzione tra i due.

Il saggio di Lerman è completo e ben documentato. Il libro inizia con un riepilogo dei principali eventi relativi all’imbroglio dell’antisemitismo nel Partito Laburista durante tutto il periodo in cui Jeremy Corbyn ne fu il leader (2015-20): la confusione sulle definizioni di antisemitismo e l’uso e l’abuso della nozione di stereotipi antisemiti. Mentre i lettori potrebbero essere riluttanti a immergersi ancora una volta nei vari attacchi [all’interno del Labour, ndt.] di quella stagione politica – dall’evento di lancio del Rapporto Chakrabarti sull’antisemitismo, che l’ex deputata laburista ebrea Ruth Smeeth lasciò in lacrime, al commento di Corbyn, secondo cui i sionisti britannici  “non capiscono l’ironia inglese” –, il libro mostra l’acume dell’analisi di Lerman nel collocare quella che è nota come la “crisi dell’antisemitismo laburista” all’interno della più ampia strategia internazionale della destra per ridefinire l’antisemitismo in funzione della propria agenda politica piuttosto che lanciarsi in una nuova controversia autonoma su un terreno già battuto.

Il libro quindi passa a una rivisitazione storica della costruzione del “nuovo antisemitismo” da parte delle organizzazioni sioniste e dei successivi governi israeliani. Ciò è avvenuto in gran parte come risposta al cambiamento del clima politico seguito all’inizio dell’occupazione israeliana nel 1967, e in particolare all’ormai famosa risoluzione 3379 delle Nazioni Unite, approvata nel novembre 1975 e poi revocata, che dichiara che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. Come sostiene Lerman, la mossa simboleggiava una crescente ostilità verso Israele sulla scena internazionale, che costrinse il governo israeliano e gli accademici sionisti a elaborare una nuova strategia per puntellare la legittimità dello Stato.

La loro soluzione fu cercare di dimostrare come la critica a Israele sia, di fatto, un attacco al popolo ebraico in tutto il mondo, sostenendo che lo Stato [di Israele] rappresenta “l’ebreo collettivo” nella famiglia delle Nazioni. I fautori di questo “nuovo antisemitismo”, spiega Lerman, hanno suggerito che [secondo gli oppositori di Israele, ndt] “il diritto di stabilire e conservare uno Stato sovrano e indipendente è prerogativa di tutte le Nazioni, tranne che di quella ebraica”.

Lerman si affretta a sottolineare che l’intervento di Israele nei tentativi precedentemente condotti da organizzazioni ebraiche di tutto il mondo per affrontare l’antisemitismo nei propri Paesi non ha tenuto molto conto della sicurezza degli ebrei che vi vivono; l’esempio di Israele che vende armi alla giunta militare argentina che ha fatto sparire 20.000 dissidenti politici – 2.000 dei quali ebrei – tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 chiarisce bene questo punto.

Sancire che la critica a Israele è antisemitismo

In questo contesto Lerman esamina lo sviluppo della miriade di organizzazioni, istituzioni e organizzazioni no-profit dedicate all’identificazione e alla risposta all’antisemitismo contemporaneo che hanno adottato la premessa del “nuovo antisemitismo” e l’hanno incorporata nella loro difesa [degli ebrei, ndt.] e nei loro sforzi educativi. Questi organismi, sostiene, hanno compiuto un notevole sforzo, spesso in collaborazione con il governo israeliano o istituzioni affiliate, per ridefinire il modo in cui il fanatismo antiebraico è inteso a livello politico e socioculturale, lavorando per sancire fermamente che la critica a Israele o al sionismo è la versione moderna di un odio classico.

Questo era e continua ad essere chiaramente un progetto internazionale: gruppi come l’Anti-Defamation League e l’American Jewish Committee negli Stati Uniti, il World Jewish Congress (precedentemente con sede a Ginevra, ora a New York) e il Community Security Trust nel Regno Unito hanno convogliato e sviluppato risorse e analisi dell’antisemitismo che hanno spinto per il riconoscimento del “nuovo antisemitismo”. Altre organizzazioni, come il Britain Israel Communications and Research Center e il Canadian Institute for the Study of Antisemitism, sono state istituite sulla scia della Seconda Intifada e, secondo Lerman, si sono “concentrate su ‘nuovo antisemitismo’ e ‘antisionismo antisemitico.'”

Sebbene sia importante comprendere la natura interconnessa di questi problemi, Lerman entra nel merito con una quantità estremamente densa di informazioni sulle discussioni tra i vari gruppi ebraici storici, il che rischia di enfatizzare eccessivamente la rilevanza di dibattiti che potrebbero non aver avuto un impatto oltre la ristretta cerchia della politica o del discorso intracomunitario. Si potrebbe anche sostenere che a volte Lerman insiste troppo sull’idea che le organizzazioni ebraiche britanniche abbiano scarso interesse per il benessere e la sicurezza delle comunità che servono, e siano puramente motivate dal loro rapporto con Israele. È forse più giusto suggerire che il loro desiderio di sostenere Israele e il sionismo come pilastro cruciale dell’identità ebraico-britannica abbia avuto la priorità rispetto alle minacce materiali contro le comunità che vivono nel Regno Unito.

Tuttavia il livello di approfondimento di questa sezione del libro mette in evidenza gli ampi sforzi delle istituzioni accademiche israeliane e delle istituzioni governative – come il Ministero degli Affari Strategici, recentemente rimesso in funzione, responsabile della campagna internazionale di Israele contro il movimento BDS – per distogliere l’attenzione dall’ antisemitismo che colpisce principalmente le comunità ebraiche al di fuori di Israele e concentrarsi sul presunto pericolo che la delegittimazione di Israele rappresenterebbe per l’ebraismo globale. Lerman non sottovaluta l’impatto di questo sforzo e le considerevoli risorse che Israele vi ha riversato: non solo ha generato confusione nell’opinione pubblica su cosa sia l’antisemitismo, ma è anche servito a restringere la discussione pubblica su come comprenderlo e, cosa più importante, su come affrontarlo quando si presenta.

E’ inquietante l’ipotesi che la lotta contro l’antisemitismo dalla fine del XX secolo fosse invischiata con e subordinata agli interessi del sionismo in modo tale che le interpretazioni contrastanti dell’antisemitismo contrapponessero la sicurezza e il benessere degli ebrei in tutto il mondo alla forza di uno Stato-Nazione. Ma, come mostra Lerman, queste sono le inevitabili conseguenze della politicizzazione della lotta all’antisemitismo.

Abbiamo visto questa competizione manifestarsi in modo più netto dall’inizio del nuovo secolo: dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che afferma abitualmente di parlare a nome di tutto il popolo ebraico mentre si allinea con alcuni dei leader più antisemiti del mondo; all’ex primo ministro Naftali Bennett, che sfrutta l’orribile sparatoria nella sinagoga di Pittsburgh per giustificare l’aggressione israeliana contro i palestinesi a Gaza; a Yair Lapid, che critica come antisemita il rapporto, sostenuto da prove inequivocabili, di Amnesty International sull’apartheid israeliano. Interventi come questi da parte dei leader israeliani hanno ulteriormente alimentato la confusione e lo scetticismo sull’antisemitismo come fenomeno reale, distogliendo l’attenzione e le risorse dall’effettivo antisemitismo che si manifesta ovunque. Lerman mostra come, anteponendo gli interessi del suo progetto nazionale agli interessi degli ebrei di tutto il mondo,  i tentativi di Israele di ridefinire l’antisemitismo per adattarlo ai suoi obiettivi politici stiano attivamente rendendo gli ebrei meno sicuri.

IHRA: Il nuovo gold standard sull’antisemitismo

Negli ultimi anni la guerra sulle definizioni di antisemitismo ha portato questo tema al centro del dibattito pubblico. Lo sviluppo della definizione operativa dell’Osservatorio dell’Unione europea sul razzismo e la xenofobia nei primi anni 2000, che in seguito si è trasformata nella definizione operativa dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto] (IHRA), è stato un tentativo di generare una definizione unificante di antisemitismo, ma così facendo ha incluso varie critiche a Israele come esempi di tale sentimento antiebraico.

La definizione dell’IHRA è stata propagandata come il gold standard sull’antisemitismo, consentendo ai suoi sostenitori di screditare e respingere qualsiasi comprensione alternativa di come funziona l’antisemitismo. Il successo del sostegno all’IHRA è evidente nel contesto britannico: quasi tutti i principali partiti politici del Regno Unito l’hanno adottata, insieme a numerosi istituti di istruzione superiore e persino organizzazioni sportive come la Football Association. Eppure la definizione dell’IHRA è stata assente dalle risposte a incidenti antisemiti di alto profilo nella vita pubblica del Regno Unito, come il licenziamento dell’ex accademico dell’Università di Bristol David Miller [sociologo cacciato per aver sostenuto che Israele cerca di imporre la propria volontà al resto del mondo, ndt.]. Con questo in mente Lerman vuole che comprendiamo non solo l’inutilità del tentativo di creare una definizione universalmente accettata di antisemitismo, ma anche che i tentativi dei sostenitori dell’IHRA di espandere la comprensione del razzismo antiebraico per includervi le critiche a Israele o al sionismo in realtà rende gli ebrei più vulnerabili.

Negli ultimi due anni gruppi di studiosi hanno tentato di combattere l’influenza dell’IHRA producendo definizioni alternative di antisemitismo, tra cui la Definizione Nexus e la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo (JDA), che non vedono l’antisionismo come necessariamente equivalente all’antisemitismo. Per Lerman, tuttavia, queste non sono riuscite a rappresentare una “sfida decisiva” all’IHRA, proprio perché tali iniziative sono viste come un tentativo politico piuttosto che accademico.

In questo contesto, Lerman descrive come parti dell’accademia che si dedicano allo studio degli ebrei, dell’antisemitismo e del razzismo siano state a volte reclute volontarie nella battaglia per difendere il sionismo e proteggere Israele dalle critiche. “Non esento lo studio accademico dell’antisemitismo contemporaneo dall’essere afflitto e dal contribuire allo stato di confusione intorno alla comprensione dell’antisemitismo… e dal ridurre tutte le critiche a Israele all’antisionismo antisemita”, scrive. L’impatto di questo sviluppo è stato duplice.

In primo luogo, è sempre più ovvio, in particolare nel contesto britannico, come il manto della ricerca accademica sia utilizzato per legittimare le motivazioni politiche alla base della definizione dell’IHRA. In effetti, gli sviluppi successivi alla pubblicazione di “Whatever Happened” hanno ulteriormente esemplificato le intenzioni di coloro che insistono, attraverso studi accademici, sul fatto che l’antisionismo è antisemitismo.

L’istituzione, alla fine del 2022, del London Centre for the Study of Contemporary Antisemitism (LCSCA) illustra il punto di vista di Lerman. Sul suo sito web la LCSCA dichiara sua missione “sfidare le basi intellettuali dell’antisemitismo nella vita pubblica e affrontare l’ambiente ostile per gli ebrei nelle università”. Tuttavia uno sguardo più attento rivela ciò che sta alla base di questa missione, poiché l’organizzazione definisce esplicitamente l’antisionismo come “un’ideologia antiebraica”. Oltre a fornire credenziali accademiche per il perseguimento della ridefinizione dell’antisemitismo per includervi la critica a Israele, iniziative come queste promuovono anche l’idea che l’antisemitismo sia un’ideologia radicata nella politica di sinistra (molti degli oratori invitati all’evento di lancio dell’LCSCA, che è stato rinviato in seguito alla morte della regina Elisabetta II, erano accaniti critici del partito laburista di Corbyn).

Questi sforzi ad ampio raggio per politicizzare la lotta all’antisemitismo nel discorso pubblico britannico hanno avuto conseguenze significative. Lerman si concentra sul trattamento degli ebrei di sinistra nel partito laburista – alcuni dei quali sono stati espulsi per il loro sostegno a figure laburiste accusate di antisemitismo – da quando Keir Starmer ha sostituito Corbyn, e li cita come i principali obiettivi di questa strategia nel Regno Unito. Ma questi sforzi vanno oltre le fazioni del Labour. Stimati studiosi dell’antisemitismo che non aderiscono alla politica del “nuovo antisemitismo”, come il professor David Feldman, direttore del Birkbeck Institute for the Study of Antisemitism di Londra, sono stati ampiamente attaccati dall’establishment ebraico-britannico per aver criticato la definizione dell’IHRA e la strategia che la guida e sottolineato come pregiudichi la nostra comprensione e capacità di affrontare l’antisemitismo. (Feldman è uno dei firmatari della JDA.)

Allo stesso modo, i sostenitori della definizione dell’IHRA hanno preso di mira gli accademici il cui lavoro riguarda la Palestina, tentando di restringere ulteriormente i parametri del legittimo discorso accademico. Alla fine del 2021, Somdeep Sen, autore di diversi libri sulla politica palestinese, si è ritirato da un seminario all’Università di Glasgow dato che gli era stato ordinato di divulgare in anticipo il materiale delle sue lezioni ed era stato ammonito di non violare le leggi nazionali antiterrorismo dopo che l’Associazione Ebraica dell’università aveva espresso preoccupazione per il suo invito. E l’anno scorso, l’accademica palestinese residente nel Regno Unito Shahd Abusalama è stata sospesa dalla sua posizione di docente presso la Sheffield Hallam University dopo che sono emersi post sui social media in cui difendeva uno studente che aveva fatto un cartello con scritto “Ferma l’Olocausto palestinese” – il che, secondo il suo datore di lavoro, violava l’IHRA.

Come attesta Lerman, questa repressione dei discorsi critici nei confronti di Israele nel mondo accademico sono possibili grazie all’ambiguità della definizione dell’IHRA sull’identificazione dell’antisemitismo, che alla fine crea un effetto intimidatorio. In effetti l’ambiguità è il punto che fa leva sul desiderio delle persone più ragionevoli di non essere percepite come antisemite. Questa indeterminatezza è ciò che rende la definizione dell’IHRA così efficace non solo nel generare confusione su cosa sia l’antisemitismo, ma anche nel deviare il discorso dal danno che Israele perpetra quotidianamente contro i palestinesi. La decisione del Tower Hamlets Council [consiglio distrettuale di quartiere, ndt.] di Londra di cancellare “The Great Bike Ride for Palestine” nel 2019 per paura di essere considerato antisemita ne è un esempio.

Il secondo impatto che Lerman identifica sottolinea ulteriormente come la politicizzazione della lotta all’antisemitismo diminuisca e cancelli le esperienze vissute di molti ebrei, compresi quelli che hanno effettivamente sperimentato l’antisemitismo. Espandere la definizione di ciò che costituisce l’antisemitismo rischia di indebolirla, rendendo in ultima analisi inutili questi tentativi. Citando il filosofo ebreo britannico Brian Klug, Lerman sostiene: “Se tutto è antisemitismo, allora niente è antisemitismo”.

Lerman dà il meglio di sé nel capitolo sul mito dell'”ebreo collettivo”, che analizza come il tentativo di ritrarre Israele come l’ebreo nella famiglia delle Nazioni abbia alla fine minato la lotta per smantellare l’attuale antisemitismo. Sostiene che questa distorsione dell’antisemitismo per consentire a Israele di agire impunemente è avvenuta non solo (e in modo più pertinente) a scapito dei diritti umani e delle libertà dei palestinesi, ma anche  della sicurezza e del benessere del popolo ebraico in tutto il mondo.

Le affermazioni di Lerman sono viscerali e piuttosto caustiche. Dissezionare questo processo alla fine mette a nudo l’assurdità quasi comica dell’attuale clima politico, e come la cinica strumentalizzazione dell’antisemitismo da parte di Israele e della sua industria dell’hasbara [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt.] significhi che la sicurezza ebraica è passata in secondo piano rispetto al desiderio di affermare un progetto di supremazia etnica tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Forse il punto più prezioso di questo libro per gli attivisti progressisti è lo studio di come il nazionalismo ci renda tutti meno sicuri, sostenendo con vigore l’importanza di proteggere i valori universali e di incrementare la solidarietà collettiva di fronte all’eccezionalismo e all’ipernazionalismo

Respingere la definizione di “nuovo antisemitismo”

Il problema che Lerman identifica in “Whatever Happened” è enorme nella misura in cui può sembrare insormontabile. La diffusione del concetto di “nuovo antisemitismo” è sofisticata e dotata di adeguate risorse. È comprensibile che quando si tratta di tentare di sfidare l’identificazione tra Israele ed ebrei – e tra antisemitismo e antisionismo – Lerman sia deluso, come quando descrive gli accenni di resistenza ebraica dopo l’Operazione Piombo Fuso, l’attacco di Israele a Gaza nel 2008 -2009, come “di breve durata”. Sebbene Lerman comprenda l’urgenza e la necessità di respingere queste tendenze, rimane chiaramente scettico sulla nostra capacità collettiva di farlo. Ma gli ostacoli alle lotte di liberazione sono stati quasi sempre percepiti come insormontabili, finché non lo sono più stati.

Anche se Lerman forse non vede come suo compito offrire una visione di ciò che potrebbe essere, il suo libro è anche un intervento contro lo status quo, benché ridotto rispetto a quanto descrive. Ora c’è un’opportunità per valutare le prove presentate da Lerman e invitare coloro che lavorano per combattere il concetto di “nuovo antisemitismo” a riunirsi e identificare ulteriori punti con cui respingerla.

Quindi il valore fondamentale di questo libro per la comprensione del dibattito politico del nostro tempo è il fatto che dimostra non solo che lo sviluppo del progetto del “nuovo antisemitismo” è essenzialmente una questione politica piuttosto che accademica, ma anche che Israele, i suoi sostenitori e altre figure politiche di destra al fine di servire la propria agenda politica hanno sfruttato i timori delle comunità ebraiche di tutto il mondo per confondere le acque rispetto al compito vitale di smantellare l’antisemitismo. “Whatever Happened” fornisce una storia e un contesto di valore inestimabile per coloro che cercano di dare un senso a come la battaglia sulle definizioni di antisemitismo sia stata al centro di un processo per tentare di legare l’identità ebraica a un progetto nazionalista, sia tra gli ebrei che nella società in generale.

Em Hilton è una scrittrice e attivista ebrea che vive tra Tel Aviv e Londra. È la co-fondatrice di Na’amod: British Jews Against Occupation e fa parte del comitato direttivo del Center for Jewish Non-Violence.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Un altro eminente sionista ammette che il progetto è fallito

Philip Weiss

9 gennaio 2023 – Mondoweiss

Hillel Halkin si è trasferito in Israele dagli Stati Uniti 50 anni fa come sionista convinto. Ora lo scrittore confessa che il progetto è fallito perché non poteva far fronte alle richieste palestinesi, e che è stato ingenuo.

Abbiamo seguito con attenzione indizi sul fatto che la comunità ebraica si stia rivoltando contro Israele in seguito allo shock per il nuovo governo fascista, e questa è un altra testimonianza.

Hillel Halkin, un sionista convinto di 83 anni trasferitosi dagli Stati Uniti in Israele nel 1970, scrive su Jewish Review of Books che Israele è condannato. “Siamo sull’orlo di un baratro e stiamo precipitando.” E nulla salverà Israele dall’abissodella politica messianica di destra.

I leader israeliani hanno evitato la questione centrale dei diritti dei palestinesi, spiega Halkin, scrittore e traduttore. Quindi il problema è cresciuto e Israele è diventato sempre più di destra. E non solo di destra, ma di un estremismo religioso. Quando l’intero scopo del sionismo era quello di svezzare il popolo ebraico dalla religione e produrre una democrazia laica.

Così Jeremy Pressman [docente in Scienze Politiche presso l’Università del Connecticut ed esperto della questione israelo-palestinese, ndt.] si prende gioco su Twitter della rivelazione di Halkin: “‘Non avrei mai pensato che i leopardi mi avrebbero divorato la faccia’, singhiozza la donna che ha votato per il Leopards Eating People’s Faces Party [partito dei leopardi divoratori di facce umane]”. Molto arguto. Ma io faccio i complimenti ad Halkin. Ci sono molti sionisti che sono stati attratti dall’ideologia per un senso di idealismo/liberazione ebraica/chiusura mentale; e sebbene quasi tutti per decenni non si siano curati delle notizie dalla Palestina, almeno Halkin ammette umilmente di aver sbagliato.

Halkin inizia il suo racconto descrivendo un amico israeliano che dopo l’elezione di Begin nel 1977 percepì dei segnali di pericolo e iniziò a votare per i partiti palestinesi prima di trasferirsi in Portogallo 10 anni fa: “un antisionista dichiarato le cui terribili previsioni per il futuro di Israele ci hanno portato ad accese discussioni”. Quell’amico ha recentemente scritto ad Halkin per dirgli: te l’avevo detto. Halkin ha risposto:

Hai vinto. Da anni ormai Israele mi sembra un sonnambulo che cammina verso un baratro. In quel baratro ora stiamo precipitando.

Halkin nutre la speranza che Israele possa riprendersi, ma afferma che il nuovo governo radicale fa presagire “un caos politico”. E quando “i consolatori” dicono: “Questa è solo un’elezione, tra due anni tornerà il blocco centrista”, dice che è un pio desiderio. , ci saranno altre elezioni. E i mascalzoni probabilmente le vinceranno con margini maggiori di quelli con cui hanno vinto queste.

I dati demografici mostrano che Israele sta solo peggiorando. Ci sono sempre più giovani elettori ultraortodossi. “La politica israeliana è ora talmente consolidata intorno a linee identitarie di gruppo che i blocchi elettorali sono estremamente stabili… le correnti che spingono Israele costantemente verso destra persisteranno”.

La confisca senza fine della terra palestinese e l’espansione degli insediamenti coloniali spinge l’opinione pubblica israeliana sempre più a destra. Più questo conflitto diventa senza speranza, più guadagna la destra e i suoi alleati religiosi e perde il centro-sinistra”.

Il razzismo domina la cultura politica israeliana:

Secondo un sondaggio dello scorso anno un quarto di tutti gli israeliani non religiosi di età compresa tra i diciotto e i ventiquattro anni e la metà di tutti i credenti pensano che i cittadini arabi di Israele debbano essere privati del diritto di voto!

Questa è la popolazione votante nel futuro di Israele – ed è un futuro in cui è esclusa qualsiasi alleanza tra il centrosinistra e i partiti arabi di Israele che possa bilanciare il blocco religioso di destra. Lo stato di cronica esacerbazione delle relazioni arabo-ebraiche lo garantisce, dal momento che nessun partito ebraico può permettersi di essere visto come “amante degli arabi”…

La soluzione dei due Stati è fallita nel 2009, ma su questo tutti mentono. “Sebbene le sue virtù continuino a essere decantate da tutti, tale soluzione è irrealizzabile, resa tale dall’attuale presenza di centinaia di migliaia di coloni israeliani in Giudea e Samaria”. Tutti i principali partiti in Israele hanno adottato la politica di “gestione del conflitto”. Come se ciò fosse realizzabile, tanto meno auspicabile.

E ora Israele “va verso un disastro… un Israele bi-nazionale che inevitabilmente imploderebbe dall’interno o un Israele moralmente ripugnante ostracizzato dal mondo e abbandonato da molti dei suoi stessi cittadini”. Sì, ben un milione di laici vivono già all’estero. Altri se ne andranno.

Halkin dice che Israele sparirà entro 30 anni, se annetterà la terra – qualcosa che il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich vuole fare “con l’aiuto di Dio”. Sia i palestinesi che gli israeliani sono diventati più religiosi e il conflitto distrugge ogni speranza. “La costante deriva verso la religione nella vita israeliana degli ultimi decenni, così opposta alla tendenza nei paesi occidentali, è direttamente correlata all’impasse israelo-palestinese”.

Halkin spiega che il sionismo doveva essere antimessianico:

Il sionismo aspirava a svezzare il popolo ebraico dalla convinzione che Dio fosse dalla sua parte e che a lui si potesse affidare per essere salvato dalle situazioni difficili, che avrebbe dovuto fare affidamento su Dio piuttosto che su se stesso perché ciò era stato stabilito da Dio. Fu proprio per questo che la maggior parte dei rabbini d’Europa, dove sorse il sionismo, e specialmente dell’Europa orientale, dove trovò le sue radici più profonde, lo combatterono con le unghie e con i denti. La maggior parte dell’ultra-ortodossia è rimasta aspramente antisionista fino alla dichiarazione dello Stato di Israele…

E ora, con il traino di Benjamin Netanyahu, queste sono le forze che ci trascinano nell’abisso. [Gli antisionisti] hanno dato la colpa al sionismo, e io l’ho data all’ebraismo, delle cui fantasie e delusioni il sionismo ha cercato di curarci solo per esserne esso stesso infettato. Il sionismo voleva renderci un popolo normale. Ha fallito e si è snaturato nel processo.

Halkin ha la bontà di ammettere che altri lo avevano già previsto molto tempo fa.

Non ho mai creduto agli avvertimenti, lanciati da molti nel corso degli anni, che l’espansione delle colonie avrebbe portato Israele al punto di non ritorno. Credevo che alla fine, prima o poi, per quanto tempo ci fosse voluto, l’unica soluzione praticabile, l’unica soluzione ancora da provare, sarebbe stata colta [la soluzione dei due Stati]…

Sono stato (come spesso mi è stato detto) ingenuo. Siamo oltre il dirupo e stiamo precipitando, e nessuno sa quanto il baratro sia profondo.

Halkin ha 83 anni e devo credere che sia un esponente rappresentativo dei sionisti laici che cominciano ad avere terribili dubbi su una filosofia che hanno abbracciato. Il governo Netanyahu-Ben-Gvir-Smotrich offre loro l’opportunità di distaccarsene.

Non analizzerò qui l’argomentazione di Halkin (le sue giustificazioni per la Giudea e la Samaria, il suo biasimare i palestinesi, la sua incapacità nell’attribuire da subito ai palestinesi una comprensione del sionismo). Penso che abbiamo bisogno che più ebrei sionisti divengano ex sionisti e decolonizzino la mente ebraica e l’establishment statunitense, per aprire la strada alla democrazia. Quindi plaudo al coraggio e onestà di Halkin e al suo cambiamento.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ben Gvir entra ad Al-Aqsa: perché è considerata una provocazione?

Redazione

3 gennaio 2023 – Al Jazeera

Il ministro della sicurezza nazionale israeliano di estrema destra era stato avvertito dall’ex primo ministro israeliano che la sua mossa avrebbe scatenato la violenza

Il ministro della Sicurezza Nazionale israeliano di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, è entrato nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata con una mossa che i palestinesi hanno definito una “provocazione deliberata”, ignorando gli avvertimenti dei politici israeliani che la sua apparizione nel luogo sacro avrebbe infiammato le tensioni.

Ben-Gvir ha detto che non “si sarebbe arreso alle minacce di Hamas” dopo che il gruppo palestinese ha avvertito che il suo ingresso nel sito martedì avrebbe oltrepassato una “linea rossa”.

Il ministro, ampiamente considerato un provocatore, ha già chiesto l’espulsione dei palestinesi .

Vediamo perché il suo ingresso nel complesso della moschea di Al-Aqsa è così controverso:

Qual è lo status di Al-Aqsa?

  • Il complesso della Moschea Al-Aqsa (noto anche come al-Haram al-Sharif per i musulmani e Monte del Tempio per gli ebrei) è un’ampia piazza cinta da mura nel cuore della Città Vecchia nella Gerusalemme Est occupata. Include la Moschea Al-Aqsa e la Cupola della Roccia.

  • È considerato sacro sia dai musulmani che dagli ebrei ed è un simbolo nazionale palestinese.

  • Una delle mura del complesso, il Muro Occidentale, chiamato anche Muro del Pianto o Muro di Buraq [dal nome del cavallo che avrebbe portato in volo il profesta, ndt.], è un luogo sacro per la preghiera ebraica. Gli ebrei pregano indisturbati sul lato del muro che si trova all’esterno del recinto.

  • Israele occupa Gerusalemme Est dal 1967. L’occupazione è illegale secondo il diritto internazionale.

  • Il complesso è stato gestito ininterrottamente da musulmani, sotto un waqf (fondazione religiosa) da centinaia di anni.

  • Il waqf, finanziato dalla Giordania, ha continuato a gestire il sito dal 1967, mentre Israele ha il controllo della sicurezza. In base a un accordo di lunga data lo status quo del sito consente solo la preghiera musulmana e le visite di non musulmani sono consentite solo in orari specifici.

Perché il sito è così importante per i palestinesi?

  • I palestinesi sono attenti a qualsiasi tentativo di cambiare lo status quo di Al-Aqsa in quanto sito dal significato sia religioso che nazionale.

  • L’aumento del numero di ebrei ultranazionalisti che entrano nel complesso e i frequenti assalti al sito da parte delle forze di sicurezza israeliane, anche all’interno della sala di preghiera della moschea di Al-Aqsa, hanno aumentato la rabbia palestinese.

  • Scontri tra le forze di sicurezza israeliane e gruppi di coloni da una parte e palestinesi dall’altra si sono verificati numerose volte negli ultimi due anni, in particolare a seguito delle incursioni [dei coloni e dell’esercito, ndt.] ad Al-Aqsa.

  • I palestinesi vedono Al-Aqsa come uno dei pochi simboli nazionali su cui conservano un certo controllo. Ma temono una lenta invasione da parte di gruppi ebraici simile a quanto accaduto alla Moschea Ibrahimi [Abramo, ndt.] (Grotta dei Patriarchi) a Hebron, dove dopo il 1967 metà della moschea è stata trasformata in una sinagoga che è stata progressivamente ingrandita.

  • I palestinesi sono anche preoccupati perché i movimenti israeliani di estrema destra cercano di demolire le strutture islamiche nel complesso della moschea di Al-Aqsa e costruire un tempio ebraico al loro posto.

Gli ebrei pregano ad Al-Aqsa?

  • Tradizionalmente, gli ebrei ultraortodossi, comprese le autorità religiose di alto livello, hanno considerato inammissibile per ragioni religiose entrare nel complesso della moschea di Al-Aqsa, tanto meno pregarvi. Questo perché considerano il sito troppo sacro perché le persone possano calpestarlo.

  • Gli ebrei ultranazionalisti hanno cercato di pregare nel complesso con sempre maggiore insistenza, nonostante sia proibito dalle autorità israeliane.

  • Lo scorso maggio, un tribunale israeliano ha confermato il divieto dopo che era stato contestato da tre giovani ebrei che avevano ricevuto un’ordinanza restrittiva dopo aver pregato sul posto.

  • Tuttavia le forze di sicurezza israeliane hanno spesso chiuso un occhio davanti alla preghiera “silenziosa” degli ebrei scortati dalla polizia ad Al-Aqsa.

Cosa vuole Ben-Gvir?

  • Ben-Gvir fa parte del movimento ideologico israeliano del “sionismo religioso” nato per cercare di riconciliare gli ebrei religiosi e il sionismo. Molti ebrei religiosi erano sospettosi delle influenze secolari del sionismo.

  • Fa anche parte di un movimento in crescita in Israele, che ha sfidato le tradizionali restrizioni ebraiche sulla preghiera ad Al-Aqsa e invece vuole incoraggiarle.

  • In quanto membro dell’estrema destra israeliana, Ben-Gvir era visto da molti politici israeliani come troppo estremista per collaborare con lui, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato costretto a cercare alleati dell’estrema destra, tra cui Ben-Gvir, quando le forze più “rispettabili” della politica israeliana gli si sono opposte.

  • La posizione di Ben-Gvir nel governo, che include il controllo sulla polizia [di frontiera, che pattuglia i territori occupati, ndt.] israeliana, evidenzia la forza del movimento “religioso sionista” che vuole mantenere ed espandere il controllo israeliano sul territorio palestinese occupato.

  • Ben-Gvir è stato condannato per istigazione razzista contro gli arabi e sostegno al “terrorismo”. Ha anche manifestato favore nei confronti di Baruch Goldstein, un israeliano americano che ha ucciso 29 palestinesi nella moschea di Ibrahimi nel 1994.

Quale sarà la reazione palestinese?

  • Il portavoce di Hamas, Hazem Qassem, ha dichiarato ad Al Jazeera che l'”assalto” di Ben-Gvir ad Al-Aqsa è stato “una continuazione dell’aggressione dell’occupazione sionista contro i nostri luoghi santi e della sua guerra alla loro identità araba”.

  • Mentre sono stati fatti appelli generici per una risposta palestinese, nessun gruppo ha ancora chiesto specificamente attacchi contro obiettivi israeliani.

  • Gli analisti ritengono che, con Netanyahu in una posizione simile, Hamas e Fatah siano interessati ad evitare uno scontro armato con Israele.

  • Tuttavia, le tensioni, nella Cisgiordania occupata in particolare, potrebbero intensificarsi, tra i continui rastrellamenti israeliani, che hanno reso il 2022 l’anno più letale per i palestinesi nel territorio dal 2006, e la crescita di nuovi gruppi armati palestinesi.

  • Lunedì il leader dell’opposizione israeliana ed ex primo ministro Yair Lapid aveva avvertito che l’ingresso programmato di Ben-Gvir nel complesso avrebbe portato a violenze, definendola una “provocazione deliberata che metterà in pericolo vite”.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Un testo indispensabile per affrontare la ‘guerra delle narrazioni’

Recensione di Romana Rubeo

Dicembre 2022,

Le Parole Divise, Israele/Palestina: Narrazioni, a Confronto. Di Amedeo Rossi, Edizioni Q, Roma, 2022

In “Le Parole Divise, Israele/Palestina: Narrazioni, a Confronto” Amedeo Rossi compie un’operazione tanto mirabile quanto delicata: l’autore stila una sorta di glossario della causa israelo-palestinese, fornendo spiegazioni accurate dei concetti chiave che ne plasmano la narrazione.

Nel condurre questa operazione l’autore non parte da un terreno di assoluta neutralità, ma dalla analisi di testi fortemente filosionisti, che contengono miti e narrazioni da sfatare e scardinare, al fine di riportare la discussione su un terreno di confronto che sia scevro da fanatismi di sorta.

Ormai non esistono più ambiti in cui sia possibile affrontare una discussione pacata tra le due parti,” scrive infatti Rossi nell’introduzione, ponendo tra gli obiettivi del testo proprio “l’ambizione di mettere alcuni punti fermi (…) nel contesto italiano”.

Il testo ha un primo, importantissimo merito: capire che il cosiddetto “conflitto” israelo-palestinese è anche una guerra di narrazioni, di linguaggi, di quelle parole, appunto, evocate già nel titolo.

Da sempre i sostenitori dello stato di Israele pongono molta attenzione a tutto il corredo concettuale e linguistico che ha accompagnato l’impresa coloniale sionista.

Utilizzare un linguaggio che vada a edulcorare le efferatezze della storia non è, d’altra parte, un elemento di novità: ogni narrazione coloniale o neocoloniale ha fatto abbondante uso di questa pratica. Basti pensare ai racconti tesi a dipingere ogni azione coloniale come un’impresa di civilizzazione di popoli altresì “selvaggi” e “barbari”; ma anche, per fornire un esempio più recente, al linguaggio strumentale impiegato durante l’invasione statunitense dell’Afghanistan o dell’Iraq, in cui i concetti di “esportazione della democrazia” e “guerra al terrorismo” servivano a presentare una ricostruzione degli eventi falsata e fortemente manipolata.

L’ideologia sionista si pone in questo solco e ha il merito (se di merito si può parlare) di perfezionare questa manipolazione a livelli estremi. Lo stato di Israele, ben consapevole dell’importanza di tale aspetto del cosiddetto conflitto, impiega fondi ingenti per il mantenimento di un apparato istituzionale teso a perfezionare la hasbara, la propaganda israeliana funzionale a presentare all’esterno un’immagine assolutamente positiva dello stato sionista.

Tutti i miti fondanti di Israele, anche quello del “deserto da far fiorire” che Rossi ricorda nell’incipit del suo volume, sono parte integrante di questa vasta operazione, che può essere immaginata come un’appendice delle azioni militari e politico-istituzionali intraprese nel corso della storia dal regime di Tel Aviv.

Se sul piano militare la buona riuscita di qualsiasi operazione ha bisogno di un esercito strutturato, anche sul piano retorico questa guerra di narrazioni necessita di veri e propri soldati che la portino avanti con risolutezza.

È su questo terreno, che non concede spazi alla dialettica, ma che si presenta, appunto, con i ranghi ben serrati, che vanno interpretati gli scritti dei tre autori magistralmente analizzati da Rossi nel suo volume: Fiamma Nirenstein, Pierluigi Battista e Claudio Vercelli.

“Quasi nessuna delle molte affermazioni fatte da questi autori riguardo a questioni fondamentali della storia e dell’attualità di cui parlano”, si sorprende Rossi, “viene accompagnata da citazioni di testi autorevoli che le possano confermare”. Questo perché, appunto, non è la veridicità della storia a contare, bensì la narrazione edulcorata che, di quella storia, si deve fornire.

Diverso è l’approccio di Amedeo Rossi che, spogliandosi di ogni velleità orientalista e spinto invece da un profondo amore per la verità e la ricerca, elenca ben ventotto concetti chiave, da “Acqua” o “Aliyah”, passando per “Apartheid”, “Intifada”, “Nakba”, “Profughi”, “Shoa” e persino “Terrorismo”.

Pur nella sinteticità richiesta dalla natura di questo testo, a ogni significante viene attribuito un significato che è frutto di approfondite e validissime ricerche. Basterà, al lettore, sfogliare la bibliografia pregevole di questo testo per comprendere che l’autore non si è limitato a fornire ‘opinioni’ sulla base delle sue aprioristiche convinzioni personali – esercizio che ben riesce a chi, in questo libro, viene contestato – ma ha scavato a fondo per corredare le sue dichiarazioni da fonti autorevolissime.

Un esempio lampante della contrapposizione tra una narrazione che muove da fonti fortemente pregiudizievoli e una ricostruzione basata su fonti storiche e di diritto internazionale è il capitolo dedicato a Gerusalemme.

Per spiegare la connessione tra popolo ebraico e Gerusalemme – che nessuno, per inciso, intende negare – Battista si avvale del “puntiglio filologico” di Elie Wiesel, il quale afferma che la città sia citata una sola volta nel Corano e ben 600 volte nelle Sacre Scritture.

Al di là della fallacia lapalissiana di un’argomentazione di tipo spirituale-religioso per difendere pratiche di occupazione contrarie al diritto internazionale, fa riflettere che Battista scelga, come sua fonte Wiesel, per quella che lui definisce una “mitezza universalmente riconosciuta”.

Il “mite” Wiesel era, in realtà, un negazionista delle efferatezze compiute dall’esercito israeliano su Gaza, al punto che nel 2008 persino il Times si rifiutò di pubblicare un suo annuncio (finanziato dall’associazione ‘This World: The Values Network’) in cui si attribuiva la responsabilità della morte dei bambini palestinesi ad Hamas. Vale la pena ricordare che durante quel sanguinoso eccidio almeno 2.000 palestinesi furono trucidati dall’esercito israeliano, e tra loro centinaia di bambini.

Anche sui media israeliani Wiesel viene ricordato per aver deliberatamente scelto di negare, con fermezza, le sofferenze del popolo palestinese, disumanizzandolo oltre ogni limite accettabile.

Fiamma Nirenstein, dal canto suo, non si cura nemmeno di trovare una fonte autorevole e fornisce mere opinioni basate su sue personalissime convinzioni. A partire dall’assunto secondo cui agli ebrei è impedito professare la loro fede, fino ad arrivare a sostenere che Israele non ha alcuna intenzione di “cambiare lo status quo che vige sui luoghi santi di Gerusalemme”.
Rossi controbatte argomentando che, in realtà, era una disposizione rabbinica a vietare agli ebrei, “almeno fino al 1967 (…), di recarsi a pregare sul ‘Monte del Tempio’”: inoltre, l’autore fornisce una dettagliata ricostruzione delle operazioni di ‘ebraicizzazione’ della città, che sono messe nero su bianco da varie organizzazioni sioniste e che vengono denunciate a più riprese non solo dagli islamisti, tanto temuti da Nierenstein, ma anche dai cristiani in terra di Palestina.

Nel 2019, ad esempio, il capo della Chiesa greco-ortodossa a Gerusalemme, l’arcivescovo Atallah Hanna, ebbe a dire, durante una riunione con Médecins Sans Frontières, che “tutto è in pericolo, a Gerusalemme. I siti islamici e cristiani sono sotto attacco perché si vuole cambiare la nostra città, nascondere la sua identità, e marginalizzare l’esistenza degli arabi e dei palestinesi.”

Così come per quello dedicato alla Città Santa, ogni capitolo di questo libro contiene riflessioni autorevoli per smentire e scardinare le posizioni ultrasioniste che, soprattutto nel dibattito italiano, vengono fatte passare per “senso comune”, spesso senza alcun contraddittorio.

“Le parole divise” è, in conclusione, un testo importante, sia per coloro che si avvicinano per la prima volta allo studio di questa annosa questione, sia per chi, pur avendo già adeguati strumenti di analisi, voglia approfondirne i vari aspetti e trovare spunti di riflessione ben esporti e articolati.

Se è vero che esiste una vera e propria guerra delle narrazioni, questo libro è fondamentale per non entrare in un terreno tanto spinoso completamente disarmati.

– Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del “The Palestine Chronicle”. I suoi articoli appaiono in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.




Quale ruolo avrà Sionismo Religioso nel prossimo governo israeliano?

Redazione di Al Jazeera

22 dicembre 2022 – Redazione Al Jazeera

Sionismo Religioso è una forza in crescita in Israele e godrà di una forte presenza nel prossimo governo israeliano.

La formazione del governo più di destra di Israele è stata annunciata dopo che il Primo Ministro incaricato del Paese, Benjamin Netanyahu, ha chiamato il Presidente Isaac Herzog per informarlo.

Se il partito Likud di Netanyahu costituisce il cuore del nuovo governo, gli alleati di estrema destra che fanno parte del movimento ideologico Sionismo Religioso, dopo i buoni risultati ottenuti a novembre nelle elezioni della Knesset, il Parlamento, occuperanno posizioni di rilievo che influenzeranno la politica nei confronti dei palestinesi che vivono nei territori occupati.

La presenza di questi politici ai vertici di Israele sarebbe stata impensabile solo alcuni anni fa, ma il loro emergere è indicativo della crescita del movimento Sionismo Religioso in Israele.

Facciamo un’analisi più puntuale.

Che cosa è Sionismo Religioso?

  • Costituitosi come un’ideologia nazionalista laica, il Sionismo fu inizialmente contrastato da molti ebrei ortodossi. Una parte significativa di ebrei continuò ad opporsi al Sionismo anche dopo la nascita di Israele nel 1948, considerandolo non conforme alla legge ebraica.

  • Il movimento ideologico Sionismo Religioso emerse come modo per avvicinare gli ebrei religiosi al Sionismo, staccato dalle sue influenze secolari. Mentre la rivendicazione nazionalista del popolo ebraico nei confronti della Palestina storica era al centro del pensiero del Sionismo tradizionale, per i Sionisti religiosi era centrale il concetto della terra di Israele “promessa da Dio” al popolo ebraico.

  • Il movimento è cresciuto solo quando la comunità ortodossa è diventata più numerosa in Israele e il Paese è diventato più di destra.

Quali risultati hanno avuto nelle elezioni israeliane i partiti di Sionismo Religioso?

Secondo i media israeliani dovrebbero entrare nel nuovo Parlamento israeliano nove coloni che vivono nella Cisgiordania occupata, sei dei quali fanno parte di una coalizione di partiti che si è presentata unitamente sotto il simbolo di Sionismo Religioso alle elezioni parlamentari.

. L’alleanza di Sionismo Religioso si è affermata come principale partner della coalizione di Netanyahu ed è il terzo gruppo alla Knesset.

  • L’alleanza è composta principalmente dal partito Sionismo Religioso di Bezalel Smotrich e dal partito Potere Ebraico di Itamar Ben-Gvir. Netanyahu li aveva incoraggiati a formare una lista unica alle elezioni per superare la soglia di ingresso alla Knesset. Il gruppo ha ottenuto 14 seggi prima di separarsi nuovamente, ma i partiti restano ideologicamente simili.

Che posizioni hanno i partiti di Sionismo Religioso nei confronti dei palestinesi?

  • Sia Smotrich che Ben-Gvir sono espliciti circa la loro intenzione di espandere gli insediamenti illegali nella Cisgiordania occupata e di annettere la terra palestinese e sono tristemente noti per incitare alla violenza contro i palestinesi. Entrambi sono coloni che vivono all’interno della Cisgiordania.

  • Smotrich ha chiesto pubblicamente l’annessione della Cisgiordania occupata, mentre Ben-Gvir afferma di opporsi ad uno Stato palestinese ed ha guidato incursioni di coloni sulla spianata della moschea di Al Aqsa e nel quartiere di Sheikh Jarrah nella Gerusalemme est occupata.

  • Il curriculum di Ben-Gvir include anche una condanna nel 2007 per incitamento razziale contro gli arabi e sostegno al “terrorismo”, nonché attivismo anti-LGBTQ.

  • All’inizio del mese Ben-Gvir ha richiesto l’espulsione da Israele dei giornalisti di Al Jazeera subito dopo che la rete aveva inoltrato richiesta formale alla Corte Penale Internazionale (CPI) di indagare e perseguire gli assassini della sua giornalista Shireen Abu Akleh, uccisa a maggio.

Quali ruoli si prevedono nel prossimo governo per gli esponenti di Sionismo Religioso?

  • Il 16 dicembre la coalizione del governo entrante ha approvato in prima lettura la normativa che consentirà a Smotrich di diventare “ministro indipendente” incaricato della costruzione delle colonie nella Cisgiordania occupata, attraverso la più influente autorità in quei luoghi – il Ministero della Difesa – che comprende l’esercito israeliano.

Se approvata, sarebbe la prima volta che viene creata una simile posizione e darebbe a Smotrich il potere di portare avanti i suoi obbiettivi di impedire le costruzioni palestinesi nell’ Area C – il 60% della Cisgiordania sotto il diretto controllo dell’esercito israeliano – espandendovi la costruzione delle colonie israeliane illegali.

  • Intanto Ben-Gvir è pronto a ricoprire il ruolo chiave di Ministro della Sicurezza Interna, che soprassiederà non solo alle operazioni di polizia, ma anche alla polizia israeliana di frontiera. Quest’ultima è parte delle forze che gestiscono l’occupazione sui palestinesi a Gerusalemme est e controllano i posti di blocco militari in Cisgiordania.

  • Attraverso il Ministero Ben-Gvir avrà anche il controllo del sistema penitenziario israeliano.

Con le tensioni che si sono accese nella Cisgiordania occupata lo scorso anno, l’effetto di simili personaggi in importanti posizioni chiave probabilmente non farà che infiammare ulteriormente la situazione sul campo.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Un esperto di antisemitismo sostiene che i progressisti “hanno il diritto di escludere i sionisti”

Nasim Ahmed

7 settembre 2022-Middle East Monitor

 

Un importante esperto di antisemitismo ha affermato che i gruppi dei campus universitari “hanno il diritto di escludere i sionisti”. Scrivendo sul Times of Israel, Kenneth Stern ha affermato che, sebbene possa essere “offensivo” e controproducente, il diritto dei gruppi progressisti di escludere i sostenitori dello stato di occupazione deve essere rispettato. Stern è un avvocato statunitense che ha avuto un ruolo chiave nella stesura della controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).

Il suo intervento fa seguito al crescente dibattito sull’esclusione degli studenti sionisti dagli spazi progressisti. Fondato sugli ideali etno-nazionalisti del sionismo, Israele è visto da lungo tempo nei circoli progressisti come un paese razzista che sostiene il colonialismo di insediamento e la pulizia etnica. Questo punto di vista si è progressivamente diffuso negli ultimi tempi dopo che importanti gruppi per i diritti umani hanno accusato Israele di commettere il crimine di apartheid.

Con il sionismo sempre più visto come un’ideologia razzista e imperialista, i gruppi che sostengono l’uguaglianza, i diritti umani, i diritti delle minoranze e i valori progressisti in generale, escludono sempre più spesso i sostenitori di Israele dai loro spazi. Ciò è accaduto nonostante le affermazioni che il sionismo e l’affinità elettiva con lo stato dell’apartheid siano parti intrinseche dell’identità ebraica. I critici, tuttavia, hanno a lungo messo in discussione questa argomentazione e hanno respinto l’affermazione che un’ideologia politica dovrebbe essere trattata come una “categoria da proteggere [dalle discriminazioni, ndt.]” allo stesso modo del genere, della religione e della razza.

La recente polemica sulla definizione dell’IHRA è in gran parte una richiesta da parte di gruppi filo-israeliani di un consenso più ampio nel sostenere la loro affermazione che il sionismo e il sostegno allo Stato di Israele siano accettati come una categoria del genere. È una forma di difesa eccezionalista che viene respinta in blocco quando altri gruppi nella società fanno richieste simili. Ad esempio, l’ideologia politica dell'”islamismo” o il desiderio di creare uno “Stato islamico” non solo sono violentemente contrastati e condannati, ma anche qualsiasi musulmano che insista affinché le proprie opinioni politiche e la propria religione ricevano una protezione speciale viene prontamente e giustamente respinto.

Un esempio simile sarebbe se il governo indiano del BJP di estrema destra sotto il primo ministro Narendra Modi e i sostenitori di Hindutva [forma predominante di nazionalismo indù, ndt.] affermassero che è razzista e anti-indù mettere in discussione la loro richiesta di creare uno Stato esclusivamente indù. Come sta diventando sempre più chiaro, nella loro ricerca di rimodellare l’India come Stato indù, gli estremisti Hindutva si sono messi in rotta di collisione con la costituzione laica del Paese. L’istanza che l’India sia l’unico stato indù al mondo non dovrebbe fare la differenza, ma l’obiettivo è comunque la riforma dell’India come Stato etno-religioso che offre diritti e privilegi speciali agli indù all’interno di un sistema di cittadinanza a più livelli [di diritti, ndt] Lo stato modello che questi indù aspirano a replicare è Israele. Il parallelo tra le due ideologie è un potente esempio dello status speciale concesso al sionismo.

A Israele e ai suoi sostenitori viene concesso un privilegio che non è esteso a nessun’altra comunità politica. Gli enti pubblici e le istituzioni private in tutto il mondo occidentale non solo hanno acconsentito alla loro richiesta, ma hanno anche adottato la presunta “definizione funzionale” di antisemitismo prodotta dall’IHRA che confonde le legittime critiche a Israele e al sionismo con il razzismo antiebraico.

Stern non compara il sionismo a ideologie simili nel resto del mondo, ma insiste nel trattare Israele e la sua ideologia fondante allo stesso modo di qualsiasi altra ideologia politica e dei suoi seguaci. Il diritto di criticare liberamente senza essere etichettato come razzista dovrebbe essere salvaguardato, sostiene. Ammette che il sionismo stesso è termine controverso ma, tuttavia, i sentimenti su ciò che il sionismo significa personalmente per alcuni ebrei non dovrebbero essere una scusa per reprimere la libertà di parola etichettando le persone come “antisemiti” per aver criticato l’ideologia fondatrice di Israele.

Commentando le diverse percezioni del sionismo e le ragioni per cui i progressisti escludono i sostenitori di Israele, Stern ha detto: “Alcuni studenti progressisti possono interpretare il sionismo come un termine per il trattamento riservato da Israele ai palestinesi; altri possono comprendere il sionismo come la maggior parte degli studenti ebrei: il diritto degli ebrei all’autodeterminazione nella loro patria storica”.

Ha spiegato che un numero significativo e crescente di ebrei è “agnostico” riguardo al sionismo o è antisionista, il che sembra suggerire che il sionismo e l’affinità con Israele non sono così rilevanti per l’identità ebraica come affermano i gruppi filo-israeliani.

“Gli studenti antisionisti possono pensare che lasciare che un sionista lavori tra loro equivalga a non considerare se qualcuno sia nazista”, ha detto Stern, “proprio come alcune organizzazioni ebraiche potrebbero ritenere che ammettere ebrei che sostengono il Boicottaggio/Disinvestimento/Sanzioni (Il movimento BDS) contro Israele sia sottovalutarne l’antisemitismo”. Stern non è d’accordo con entrambe le posizioni ma gli studenti del campus devono poter scegliere la loro politica.”

Alle prese con la questione centrale del pezzo sul Times of Israel — se sia antisemita escludere i sionisti dagli spazi progressisti — Stern difende il diritto dei gruppi progressisti ad essere selettivi. “Se un gruppo decide che per essere un membro bisogna avere una visione particolare di Israele e del sionismo, il diritto a prendere tale decisione deve essere rispettato. Chi non è ammesso, anche se l’esclusione fa male, può trovare altri modi per esprimersi, anche creando nuovi gruppi e coalizioni”.

Stern ha criticato il modo in cui la definizione IHRA di antisemitismo è stata utilizzata da gruppi filo-israeliani contro i critici dello Stato di apartheid. Il suo ultimo intervento è un’altra difesa della libertà di associazione e di parola contro ciò che molti dicono essere una repressione delle voci pro-palestinesi e contro i pericoli di sovrapporre antisionismo ad antisemitismo.

“I gruppi ebraici hanno usato la definizione come arma per affermare che le espressioni antisioniste sono intrinsecamente antisemite e devono essere soppresse”, aveva scritto Stern sul Times of Israel due anni fa. Le preoccupazioni da lui sollevate rafforzano l’affermazione che la lotta contro l’antisemitismo, come sostiene il commentatore ebreo americano Peter Beinart, ha “perso la strada”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Storia della Brigata ebraica. Gli ebrei della Palestina che combatterono in Italia nella Seconda guerra mondiale,

G.Fantoni 

Einaudi, Torino, 2022.

25 aprile 2022, Recensione di Amedeo Rossi

Dopo la pausa forzata dovuta all’epidemia di COVID-19, è ripresa come ogni anno la polemica relativa alla presenza di bandiere palestinesi e di quelle israeliane durante le commemorazioni del 25 aprile, anche se questa volta messe in ombra dalle contestazioni dalle bandiere NATO.

Pubblicato nel gennaio scorso, questo libro rappresenta probabilmente il saggio più completo ed aggiornato sull’argomento e aiuta a fare chiarezza su una serie di questioni non esclusivamente accademiche. Il saggio è diviso in due parti: la prima ricostruisce le varie vicende che portarono alla costituzione della brigata e partecipazione ad alcuni eventi bellici in Italia, nonché le sue attività successive nel nostro Paese e in Austria e Belgio; la seconda si occupa delle ragioni per cui in Italia questa vicenda ha provocato un accanito dibattito e tante polemiche.

Uno dei motivi del lungo oblio che ne ha oscurato la memoria è dovuto alla consistenza numerica (4.000 militari) e il fatto che partecipò alla campagna d’Italia quando ormai le truppe tedesche erano in ritirata. Essa combatté sostanzialmente in due scontri, in Romagna e poi in Emilia, mentre per il resto il suo apporto fu assolutamente trascurabile. Dopo la fine della guerra si dedicò all’assistenza ai profughi ebrei sopravvissuti alle persecuzioni e al tentativo di portare quelli atti alle armi in Palestina per ridurre il divario demografico rispetto alla popolazione arabo-palestinese. Alcuni componenti della brigata furono protagonisti di vendette contro ex-SS e anche civili tedeschi per le terribili sofferenze e le stragi perpetrate dai nazisti a danno degli ebrei.

La parte più interessante e significativa del libro è però la seconda. A parere di Fantoni si tratta di un tipico caso di uso politico della storia: “La Brigata ebraica serviva infatti a rilanciare la storiografia israeliana classica, essenzialmente basata su una lettura sionista della storia del mandato [britannico] palestinese e della fondazione di Israele.”

Questo recupero della memoria della Brigata, ricorda l’autore, è avvenuto prima in area anglosassone, tuttavia è in Italia che ha avuto le maggiori ripercussioni nel dibattito pubblico, in primo luogo per ragioni interne. La fine della Prima Repubblica ha dato il via ad un “uso sfacciato della storia nell’agone politico” sottolinea. Basti pensare alle varie commemorazioni che hanno ridefinito le occasioni di celebrazione ridefinendo il nostro passato, ultima ma non meno problematica l’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino”, il 26 gennaio di ogni anno, in ricordo della battaglia di Nikolajewka.

Le polemiche sulla Brigata ebraica si inquadrano in questo contesto. La destra, vecchia e nuova, intende evitare le accuse di antisemitismo legate alla storia del fascismo e indicare come suo principale, se non esclusivo, torto le leggi razziali. La “sinistra” vede nell’appoggio a Israele e alla sua narrazione l’opportunità di ribadire l’appartenenza al blocco occidentale.

Anche Israele ha tutto l’interesse a utilizzare la memoria della Brigata ebraica. Sottolineando la partecipazione sionista alla lotta contro il nazi-fascismo ribadisce la propria collocazione nel campo delle democrazie occidentali, e nel contempo intende sottolineare il presunto filo-fascismo e filo-nazismo degli arabi in generale e dei palestinesi in particolare.

In Italia, ricorda Fantoni, la questione della Brigata ebraica è diventata fonte di polemiche a partire dal 2004, quando era ormai evidente il fallimento del cosiddetto processo di pace (gli accordi di Oslo) Era necessario far dimenticare alla comunità internazionale il fatto che in quei 10 anni la colonizzazione dei territori occupati, la ragione principale del fallimento di Oslo, era continuata. Nel contempo le opere dei nuovi storici israeliani avevano iniziato a demolire tutti i miti fondativi del cosiddetto Stato ebraico costruiti dalla narrazione sionista. Sostenere che l’avversione degli arabi, e dei palestinesi in particolare, non era dovuta alla pulizia etnica, alla colonizzazione, all’oppressione ma all’antisemitismo intrinseco alla loro mentalità e alla religione islamica era funzionale a ribaltare le possibili critiche. Ciò sollevava Israele da ogni responsabilità, ed anzi lo legittimava a resistere. Da qui l’insistenza di storici e politici sionisti sul legame tra Hitler e Mohammed Amin al-Husseini, il Gran Muftí di Gerusalemme, indicato come l’unico rappresentante politico dei palestinesi.

Il libro di Fantoni confuta in modo dettagliato non solo queste affermazioni palesemente false, ma anche l’effettiva rappresentatività di Husseini rispetto al mondo politico palestinese dell’epoca, ricordando anche che molti arabo-palestinesi combatterono nelle file degli eserciti alleati. Lo stesso Ben-Gurion ebbe il coraggio di ammettere: “Ci sono stati l’antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro [i palestinesi] in questo cosa c’entravano? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro paese. Perché dovrebbero accettarlo?” Un altro elemento che viene sollevato a sfavore dei palestinesi, afferma giustamente l’autore, è il fatto che sono in maggioranza musulmani, e quindi stigmatizzati in quanto tali.

Oltre a ribadire la scarsa importanza di un personaggio ambiguo e screditato come il Gran Muftí, Fantoni accenna alle simpatie di Jabotinsky e di altri dirigenti della destra sionista nei confronti di Mussolini. È un riferimento che sarebbe stato utile approfondire, in quanto i rapporti tra i capi sionisti sia di destra che di “sinistra” con fascismo e nazismo furono tutt’altro che cristallini. Ad esempio essi non interruppero mai i rapporti economici con la Germania nazista, e Jabotinsky non si limitò a “esprimere in alcune lettere ammirazione per il fascismo italiano”, ma arrivò ad incolpare delle leggi razziali le attività degli ebrei antifascisti.

In conclusione, riguardo allo specifico problema delle polemiche che accompagnano le celebrazioni del 25 aprile, Fantoni sostiene una posizione in parte condivisibile: da anni si assiste ad un attacco condotto sia dalla destra che dal centro-sinistra nei confronti di questa ricorrenza e dell’ANPI. A suo parere la soluzione sarebbe non alimentare ulteriori polemiche, limitandosi a salvaguardare la memoria dei combattenti che liberarono il nostro Paese dalla dittatura, per “disinnescare una polemica che contribuisce a danneggiare un fronte antifascista già parecchio indebolito”. Quindi niente bandiere palestinesi o israeliane, ma neppure di altri Paesi che sono stati o sono protagonisti di una coraggiosa resistenza all’oppressione? Il punto m) dell’articolo 2 dello Statuto dell’ANPI cita tra gli scopi dell’associazione “dare aiuto e appoggio a tutti coloro che si battono, singolarmente o in associazione, per quei valori di libertà e di democrazia che sono stati fondamento della guerra partigiana e in essa hanno trovato la loro più alta espressione.” Se quella dei partigiani è una memoria viva è perché si perpetua in chi oggi combatte la stessa battaglia ovunque nel mondo e in chi con queste lotte solidarizza, non perché si rinnova con una ritualità puramente celebrativa. Per questo pare scontata quanto consolatoria la conclusione del libro: “Gli storici […] possono avere un ruolo importante per costruire un futuro di comprensione e di pace, in Palestina come altrove. Questo libro vuole essere un contributo in tale direzione.” Proprio la ricerca storica, compresi i nuovi storici israeliani, spesso citati nel libro, ha indicato chiaramente le responsabilità nel conflitto. Una parte sempre più consistente dell’ebraismo, soprattutto negli USA, le sta riconoscendo. La differenza tra chi difende senza distinguo Israele e chi propugna invece gli ideali universalistici incarnati nella Resistenza italiana è stata a suo tempo sintetizzata efficacemente da Philip Wohlstetter, intellettuale ebreo statunitense: “Per [Elie] Wiesel era ‘mai più a noi’; per [Primo] Levi ‘mai più a nessuno’.”

Chi celebra insieme alla Liberazione le lotte attuali degli altri popoli non può che concordare con Primo Levi. Ed è su questa contrapposizione che si giocano le polemiche sulla presenza delle bandiere palestinesi o su quelle della Brigata ebraica alle manifestazioni del 25 aprile.




GERUSALEMME. Re Davide contro gli abitanti di Silwan

GERUSALEMME. Re Davide contro gli abitanti di Silwan

Michele Giorgio

Novembre 2021 – Pagine Esteri

«La storia di re Davide e le radici della sua dinastia sono qui, tra questi scavi, tra queste pietre. La storia di re Davide è quella di Gerusalemme e di Israele, da tremila anni fa fino ai nostri giorni». La guida, un giovane sulla trentina, sorride, accompagna la sua narrazione con movimenti lenti della testa e delle mani rivolgendosi a un gruppo di turisti seduti sugli spalti che si affacciano sugli scavi. La vista dal “Parco archeologico della Città di Davide” è mozzafiato. In alto si scorgono le mura antiche di Gerusalemme con le cupole delle moschee di Al Aqsa e della Roccia, il terzo luogo santo dell’Islam e, secondo la tradizione ebraica, l’area del biblico Tempio. Di fronte, ad est, dominano il Monte degli Ulivi e l’antico cimitero ebraico. In basso c’è la piscina di Shiloah. La giovane guida, come i suoi colleghi, abbina costantemente archeologia e narrazione delle gesta di re Davide e di eroici combattenti ebrei lanciati alla conquista di Gerusalemme e poi nella difesa della città. Un mix che si può ascoltare anche nei filmati descrittivi disponibili nel parco, visitato ogni anno prima della pandemia da mezzo milione di turisti e gestito interamente, con l’approvazione delle autorità comunali e governative, dalla Elad, società del movimento dei coloni israeliani insediati nella zona araba di Gerusalemme, occupata nel 1967. Guide turistiche e filmati rendono invisibile una presenza ben evidente ma che “stona” all’interno della narrazione ufficiale del luogo: le centinaia e centinaia di case palestinesi del quartiere di Silwan, che avvolgono il “sito archeologico”. Abitazioni che a decine rischiano di essere demolite o confiscate ai loro proprietari palestinesi per far posto ai coloni israeliani.

Nella “Città di Davide” non c’è spazio per una storia più articolata. Il resoconto offerto tra leggenda e storia è dominante. Qui il racconto biblico è una verità assoluta, guai a sollevare dubbi perché è considerato una sorta trattato di politica internazionale, di fatto accreditato e firmato anche dagli Stati uniti. L’ex ambasciatore Usa in Israele, David Friedman, partecipando nell’estate di due anni fa alla cerimonia di inaugurazione, nell’area della “Città di Davide”, quella della cosiddetta Via del Pellegrinaggio, il percorso che anticamente avrebbe collegato la piscina di Siloam al Monte del Tempio, ha dichiarato perentorio che «Essa porta alla luce la verità storica di quel periodo cruciale della storia ebraica. La pace tra Israele e palestinesi deve basarsi su un fondamento di verità. La Città di David contribuisce al nostro obiettivo collettivo di perseguire una soluzione fondata sulla verità. È importante per tutte le parti coinvolte nel conflitto». Friedman vuole che «la verità» emerga. La sua verità ovviamente, che è quella dei coloni e di coloro che usano l’archeologia biblica per fini politici e per negare i diritti dei palestinesi.

Sul racconto biblico si fonda il programma politico di diversi partiti israeliani sionisti religiosi. Come Yemina, guidato dal primo ministro Naftali Bennett e dalla sua fedele scudiera e ministra dell’interno Ayelet Shaked. Occorre ricordare che non pochi dei laici fondatori di Israele e alcuni dei primi leader dello Stato ebraico sono stati archeologi con evidenti finalità politiche. Il più noto di una lunga lista di nomi è quello di Moshe Dayan.

Ma re Davide è davvero esistito, le vicende che gli vengono attribuite sono realmente avvenute? E più di tutto, ha davvero vissuto ed esercitato il suo potere nell’area del quartiere di Silwan, tra le pietre della “Città di Davide” allestita dai coloni? «In quell’area hanno scavato famosi archeologi del passato e scavano quelli del presente ma la prova della presenza di re Davide non è mai stata trovata», spiega l’archeologo Yonathan Mizrachi, di Emek Shaveh, una ong israeliana che si oppone a chi usa le rovine del passato come uno strumento politico e per confiscare case palestinesi. «Per prove – aggiunge Mizrachi – intendiamo ritrovamenti materiali e iscrizioni che attestino l’esistenza della tomba o del palazzo di re Davide o che siano inequivocabilmente riconducibili a lui. L’era di re Davide, sulla base della Bibbia, è indicata nel X secolo a.C. ma non si è trovato molto di quell’epoca (nel sito della “Città di Davide”). I ritrovamenti annunciati da alcuni archeologi sono controversi. Un interrogativo grava su tutto ciò che riguarda Gerusalemme ai tempi di re Davide. Quanto fosse grande e quale funzione avesse la città in quel periodo da un punto di archeologico e dei fondamentali di storia, è un’area grigia che non ci permette di affermare nulla con certezza».

Profondi dubbi sulla credibilità storica del racconto biblico vengano sollevati da anni dal professore Israel Finkelstein, archeologo israeliano di fama mondiale (alcuni dei suoi libri sono stati tradotti in italiano). Pur non facendo parte della corrente minimalista, che colloca la composizione della Bibbia nel periodo del rientro degli ebrei dalla Babilonia, il docente sostiene che gran parte di ciò che si legge nel testo sacro è stato scritto tra il VII e il V secolo a.C. e che Gerusalemme nel X secolo a.C. era solo un villaggio o un centro tribale. Non solo. Finkelstein afferma che Davide e Salomone, considerati il seme della civiltà occidentale e spina dorsale della storia antica ebraica, se sono realmente esistiti dovevano essere ben diversi dai personaggi che hanno ispirato scultori, pittori, scrittori, poeti. Davide, sostiene Finkelstein, era a capo di una minuscola e invivibile Gerusalemme. Lui e il suo successore furono trasformati in potenti re e simboli di speranza dagli ebrei nei secoli successivi. «La loro storia è stata scritta in Giudea – ha dichiarato il docente in una intervista di qualche anno fa al quotidiano Yediot Ahronot – per giustificare il dominio su un gran numero di rifugiati arrivati lì dopo la distruzione del Tempio».

Tesi respinta dai coloni e dal faro dell’archeologia biblica Eilat Mazar (deceduta di recente). Il 4 agosto 2005 Mazar, per la gioia degli ultranazionalisti, annunciò di aver scoperto nel sito di Silwan il presunto palazzo del re Davide, un edificio, disse, risalente al X secolo a.C. Nel 2010 proclamò di aver individuato le presunte antiche mura della città di Davide. Scoperte smentite, per scarsità di prove, da specialisti israeliani e stranieri che accusavano la Mazar di credere che la Bibbia sia storia vera dalla prima all’ultima parola. Per la Elad e il movimento dei coloni invece quelle scoperte legittimano le occupazioni di case palestinesi a Silwan cominciate all’inizio degli anni ’90 e l’espansione continua del sito archeologico e il proseguimento degli scavi. Lavori in gran parte sotterranei che, denunciano i palestinesi, mettono a rischio la stabilità delle loro case. Ma le loro voci restano inascoltate.

«Il momento è delicato – spiega Yonathan Mizrachi –  determinate forze politiche spingono per accelerare i progetti di esproprio e di demolizione di case palestinesi nelle aree archeologiche e con essi i piani per una possibile futura spartizione con i musulmani della Spianata delle moschee di Gerusalemme, allo scopo di ricostruire il Tempio ebraico».