Eurovision e hasbara

Sole, gay, misoginia e shawarma: la promozione dell’Eurovision ancora un altro fallito tentativo israeliano di legittimazione

Denijal Jegić

13 maggio 2019- Mondoweiss

 

La competizione musicale dell’Eurovision di quest’anno avrà luogo a Tel Aviv. L’evento di musica pop potrebbe essere una grande opportunità propagandistica per l’ultima colonia europea. Gli ultimi tentativi di Israele di promuovere se stesso rivelano tuttavia ancora una volta la sua convulsa lotta per legittimarsi. L’hasbara [propaganda, ndtr.] finanziata dal governo continua a riciclare gli stessi miti colonialisti, cercando di nascondere l’appartenenza al colonialismo d’insediamento e la cancellazione degli indigeni dietro a immagini colorate di sole, mare, bandiere arcobaleno e shawarma [kebab, ndtr.].

L’emittente televisiva pubblica KAN ha diffuso un video sulle reti sociali, con l’intento scontato di pubblicizzare la  competizione canora dell’Eurovision e di promuovere Israele come destinazione turistica.

Il filmato è tristemente emblematico del più generale approccio di Israele verso il pubblico occidentale. Mostra Lucy Ayoub, una degli ospiti dell’Eurovision, ed Elia Grinfeld, un dipendente di KAN, che cantano e ballano, cercando disperatamente di attirare l’attenzione di due turisti europei bianchi che sembrano scettici. Lucy ed Elia guidano i due turisti in un teatro, obbligandoli a “unirsi a questo rapido indottrinamento”, in modo che possano aiutarli “ad avere delle fantastiche vacanze”. Quel momento potrebbe implicare che i creatori del video siano consapevoli di quanto possa essere estenuante per il mondo esterno il carattere ridicolo dell’hasbara.

“So proprio quello che avete sentito, che questa è una terra di guerra e occupazione,” dichiara Elia. “Ma abbiamo molto più di quello,” aggiunge Lucy. Riflettendo le pratiche del governo israeliano di perpetuare fisicamente la guerra e l’occupazione cercando al contempo di nascondere a parole quella politica, il video sostituisce in modo sonoro e visivo la situazione palestinese con il benessere sionista.

Quello che segue è un riciclaggio dei noti argomenti dell’hasbara, di “un piccolo Paese con un grande orgoglio” e della “Nazione delle start-up” altamente tecnologica. L’orrore delle gerarchie in base alla razza è celato, in quanto Israele viene presentato come un mosaico multietnico. Lucy, figlia di madre ebrea israeliana e di padre palestinese cristiano, usa le sue origini “arabe” per mascherare i soprusi di Israele contro i palestinesi, proclamando: “Sono araba, sì, alcuni di noi vivono qui,” senza menzionare che la maggior parte di loro è stata espulsa. Quando Elia aggiunge che è scappato dalla Russia, Israele appare come un rifugio per le minoranze perseguitate. Dopo tutto, come propagandano Lucy ed Elia, Israele è “la terra del miele”, “la terra del latte”, e “sempre soleggiato.”

Nessuna propaganda israeliana sarebbe completa senza utilizzare il pinkwashing [il ricorso alla presunta tolleranza verso gli omosessuali per mascherare l’oppressione dei palestinesi, ndtr.], ovvero l’occultamento retorico da parte di Israele della violenza del colonialismo di insediamento dietro l’auto-glorificazione per il suo presunto progresso riguardo ai diritti LGBT+.

In generale l’hasbara si affretta a mostrare una coppia di uomini gay che si baciano in pubblico, per far pensare al proprio pubblico che include le minoranze e, al contempo, dipingere gli arabi e i musulmani come intrinsecamente omofobi (ciò è in linea con il luogo comune orientalista secondo cui i palestinesi non meritano la libertà perché Hamas ha ucciso omosessuali). Quindi è assolutamente prevedibile che nel video di KAN due uomini dimostrino affetto in pubblico davanti a una bandiera arcobaleno a Tel Aviv. Elia canta che “i gay si abbracciano per strada”, nel caso ciò non fosse ovvio. La prassi israeliana di pinkwashing appare notevolmente omofobica. Poiché la popolazione LGBT+ sta lottando per uguali diritti ed è ancora perseguitata in molte parti del mondo, è a dir poco offensivo esibire gay e utilizzarli come una copertura per la persecuzione dei palestinesi. Anche il fatto che Israele abbia preso di mira in modo strategico palestinesi

non–eterosessuali è stato ben documentato.

Il video include anche stereotipi antisemiti: “Molti di noi sono ebrei, ma solo alcuni sono taccagni.” Fa riferimenti misogeni umilianti per le donne, quando Elia chiede ai turisti di “godersi le nostre care bitches [puttane, ndtr.]” invece delle beaches [spiagge, ndtr.].

Il video promuove il furto coloniale di cucina, cultura, storia e geografia palestinesi. Allo spettatore viene detto che c’è “buon shawarma” in tutto Israele, e il Mar Morto diventa israeliano in un luogo di villeggiatura orientalista, quando  Lucy sta seduta su un cammello coperto da stoffe colorate.

Gerusalemme viene definita “la nostra amata capitale” che, come apprende lo spettatore, è la sede dello “Yad Vashem” [il museo dell’Olocausto, ndtr.] e dei luoghi santi. Lucy ed Elia camminano per la Città Vecchia, che è sottoposta a un’occupazione illegale da oltre mezzo secolo. Infine, mentre Lucy ed Elia stanno ballando e dicendo agli spettatori “Vi stiamo aspettando”, Elia indossa una maglietta che dice “Amo Iron Dome” [il sistema antimissile israeliano, ndtr.], in supporto al complesso militare-industriale di Israele.

È come se i palestinesi e la Palestina non fossero mai esistiti. Non solo non sono nominati neanche una volta, la loro storia e la loro cultura sono sostituiti da una fragile narrazione della comunità dei coloni basata su un esclusivismo genocida.

Questo scopo di indottrinamento degli stranieri con miti colonialisti è centrale anche in un sito web che è stato messo in piedi dal governo israeliano. Intitolata boycotteurovision.net, la pagina è un ovvio tentativo di prendere di mira i sostenitori del movimento BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndtr.]. Descrivendo Israele come “Bellissimo. Diverso. Sensazionale” (BDS), il sito consiste in testi e video di propaganda, comprese immagini di coppie gay, luoghi sacri di Gerusalemme e turisti bianchi. Come una guida di viaggio poetica, la pagina rende romantico Israele come un “Paese incantevole”, che “offre magnifiche vedute, spiagge dorate, panorami verdeggianti, vasti deserti, cime innevate e città dinamiche immerse nel valore millenario di straordinari siti storici e culturali.”

Il lettore apprende inoltre che “in Israele tutta la gente, ebrei e arabi, musulmani e cristiani, religiosi e laici, così come LGBT, vive insieme in un bastione di coesistenza nel cuore del Medio Oriente.” Tuttavia la realtà è l’apartheid e un’oppressione strutturale dei palestinesi musulmani e cristiani, delle persone di colore ebree e non e dei dissidenti politici indipendentemente dalla loro identificazione etnico-nazionale o religiosa. Ciò non ha niente a che vedere con la coesistenza.

Il “bastione” di pace e coesistenza è un tipico mito orientalista che sfrutta le convinzioni degli occidentali sull’inferiorità culturale delle civiltà islamica e araba. Nel luogo comune di un Medio Oriente presuntamene pericoloso, Israele, in quanto colonia europea, serve come simbolo di una libertà continuamente minacciata che deve essere salvaguardata.

Il sito web fa ricorso anche al mito orientalista di Israele “che fa fiorire il deserto e lo trasforma in un’oasi di tolleranza.” Questo argomento sionista non solo ignora la presenza storica dei palestinesi. Negandone completamente l’esistenza, la fantasia di un deserto vuoto è servita come una fondamentale giustificazione per la colonizzazione della Palestina.

La riscrittura nel sito web della storia palestinese include l’affermazione che “Israele, nella sua breve storia, ha assorbito più immigrati di qualunque altro Paese, con nuovi arrivati da più di cento Paesi.” La Nakba, la distruzione dei villaggi palestinesi e la violenta espulsione della maggioranza della sua popolazione rimangono assenti. Invece al lettore viene detto che “la vita in Israele è innovativa, e allo stesso tempo ancora legata alla sua ricca storia. Israele è una destinazione piena di cordialità, disponibilità e amore che lascerà a chiunque la visiti ricordi (e amici!) per tutta la vita.”

Ovviamente ciò non riguarda i milioni di rifugiati palestinesi della diaspora, i palestinesi profughi interni a Gaza, o i palestinesi della Cisgiordania che non hanno il permesso di tornare nel territorio da cui sono stati espulsi nel 1948, mentre Israele continua a violare numerose risoluzioni ONU.

I tentativi propagandistici di Israele riguardo all’Eurovision sono parte integrante della sua cancellazione discorsiva di ogni cosa palestinese. E mentre la parola “Palestina” non viene pronunciata in nessuno dei colorati video e immagini, il linguaggio iperbolico, la necessità di verbalizzare le cose più semplici e di pregare letteralmente i turisti a visitarlo rivela che c’è qualcosa di inquietante dietro la facciata colorata dell’hasbara.

L’Eurovision è un semplice esempio di come Israele stia disperatamente cercando di guadagnarsi legittimità attraverso un’ostinata insistenza su vecchi miti e il quasi comico esaurimento degli stessi argomenti.  Poiché il sionismo è un moderno movimento colonialista che è incompatibile con i diritti umani universali e con le leggi internazionali e Israele non ha alcuna giustificazione morale o giuridica per la colonizzazione della Palestina e per i soprusi genocidari contro i palestinesi, il regime israeliano continuerà a avere disperatamente bisogno di una propaganda assurda nei suoi sforzi di raccontare al mondo esterno, e probabilmente a se stesso, una versione modificata della storia, cercando di dimostrare di avere una qualche legittimità.

 

Su Denijal Jegić

Denijal Jegić è uno studioso con un post-dottorato. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Istituto di Studi Americani Transnazionali all’università Johannes Gutenberg di Magonza.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un Stato democratico e laico

Ofra Yeshua-Lyth: “La sola soluzione in Medio Oriente è uno Stato democratico e laico”

La giornalista rilascia a MEE le sue riflessioni sul sionismo e sulla società israeliana, che secondo lei non troverà la propria salvezza che in uno Stato unico ed egualitario per tutti i suoi cittadini

 

Di Hassina Mechaï

Martedì 7 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Perché uno Stato ebraico non è una buona idea? La tesi sottesa al libro di Ofra Yeshua-Lyth, giornalista e scrittrice israeliana, è semplice: la situazione attuale in Israele – occupazione, militarizzazione della società, mescolanza di nazionalismo e religione – non è affatto una rottura con il sionismo o una deviazione dalla sua dinamica.

Nel suo libro, con prefazione dello storico israeliano Ilan Pappé, l’autrice, che è stata corrispondente a Washington e in Germania di “Maariv”, uno dei principali quotidiani israeliani, ne deduce che la sola soluzione a quello che viene definito (in modo errato, secondo lei) il “conflitto israelo-palestinese” è uno Stato unico laico e democratico. Un incontro.

 

Deviazione dal sionismo o logica intrinseca

Durante gli anni di militanza in “Shalom Arshav” (Pace Ora [movimento pacifista israeliano contrario all’occupazione, ndtr.]), Ofra Yeshua-Lyth ha osservato una sinistra invischiata in illusioni pericolose. Questa sinistra, al potere dal 1948 al 1977, ha potuto credere e far credere che sionismo, ebraismo e democrazia potessero stare insieme in un vero Stato di diritto. E che il solo ostacolo fosse l’occupazione.

La soluzione sarebbe dunque stata la pace in cambio della restituzione di questi territori occupati. Un’equazione semplice, ovvero semplicistica per l’autrice, che pensa che l’occupazione sia la conseguenza e non la causa della situazione.

“La sinistra israeliana crede che il solo problema sia l’occupazione, che sia sufficiente mettervi fine e che tutto si sistemerà. Che Israele diventerà un “buon piccolo Israele”, un piccolo Stato per gli ebrei. Ma il problema è più profondo e riguarda l’idea stessa di sionismo.” Il fallimento di quello che è comunemente chiamato “il campo della pace” sarebbe dunque ineluttabile. “La sinistra illuminata vorrebbe togliere gli ebrei dalle zone abitate in maggioranza da non ebrei, mentre la destra nazionalista spera di cacciare i non ebrei dai territori che brama”, riassume l’autrice.

Per lei e per molti israeliani la vera rottura c’è stata con la seconda Intifada. “Confesso di aver creduto ad Oslo. Anche degli amici palestinesi. Ma altri, molto pochi, hanno visto che quegli accordi non erano che menzogne. Tuttavia la seconda Intifada ha scosso le due società. Israele è diventato antipalestinese in misura senza precedenti.

Gli israeliani rifiutavano di vedere e di capire la collera dei palestinesi. Per loro ciò significava che non avevano interlocutori. Per altri, ciò ha giustificato sempre più l’idea di uno Stato ebraico da una riva all’altra [dal Mediterraneo al Giordano, ndtr.]”, aggiunge.

Secondo Ofra Yeshua-Lyth la soluzione dei due Stati ha lasciato la società israeliana indifesa davanti alle proprie contraddizioni, alle sue linee di frattura. Gli strati di immigrazioni successive coesistono più di quanto non vivano insieme. Il sionismo non sarebbe dunque riuscito a unire la società?

“Ciò che minaccia il sionismo non è l’esplosione, ma l’implosione. Il sionismo non è riuscito a costruire una società unificata. La sola cosa che la rende coesa è la paura, l’idea che Israele sia sempre minacciato e che lo Stato e l’esercito debbano essere forti. L’odio e la paura sono delle emozioni molto forti che fanno da collante.”

Ofra Yeshua-Lyth, lei che è nata da quella che potrebbe essere definita una “coppia mista”, lo può testimoniare. Sua madre era un’ebrea russa e suo padre un ebreo yemenita. Se “gli ebrei askenaziti [dell’Europa centro- orientale, ndtr.] hanno imparato a dissimulare – ed alcuni sono realmente riusciti a superare – la ripugnanza per l’atmosfera araba e medio-orientale”, la realtà del razzismo subito dagli ebrei arabi emigrati in Israele rimane concreta.

“Questa cultura doppia mi ha resa sensibile alla questione dei diritti dei palestinesi. Negli anni ’80 il molto influente movimento “Shalom Archav” sosteneva che la democrazia israeliana non potesse essere perfetta perché gli ebrei mizrahim (orientali) lo impedivano. Si diceva di loro che non capissero la democrazia. Anche se tutti erano ebrei, le classi sociali continuavano a essere divise tra ashkenaziti e mizrahi,” spiega a MEE.

 

La società israeliana tra religione e nazionalismo

Il movimento sionista si iscrive nella dinamica nazionalista laica del diritto dei popoli a disporre di se stessi. Theodore Herzl voleva lasciare i rabbini nelle sinagoghe e confinare i militari nelle caserme.

“Herzl non era credente. Ben Gurion, Sharon e Netanyahu non mangiano kosher [cibo ammesso dalla religione ebraica, ndtr.]. Si ignora che Ben Gurion ha potuto sostenere l’idea che i palestinesi attuali discendano dagli ebrei convertiti al cristianesimo o all’islam”, sottolinea Ofra Yeshua-Lyth, che non è cresciuta in una famiglia religiosa e ha sposato un non ebreo.

Eppure l’attuale situazione israeliana è l’esatto contrario: i militari e i religiosi fanno parte del potere e plasmano la vita degli israeliani fin nell’intimità. “La società cosiddetta laica nella quale sono cresciuta non si è mai separata davvero dal passato religioso tradizionale,” nota Ofra Yeshua-Lyth. Fin dalle origini del sionismo si sono dovute tenere insieme le diverse stratificazioni d’immigrazione. La soluzione è stata trovata in questa religione che è servita, secondo l’autrice, da “collante” nazionale.

Così in Israele i problemi familiari sono discussi davanti ai tribunali rabbinici. “La religione ha generato un groviglio ideologico, civico e teologico a spese del buon senso. Milioni di israeliani vi sono rimasti intrappolati e non osano liberarsene”, osserva la scrittrice. Secondo lei aver fatto della religione il criterio dell’identità nazionale fa naufragare “qualunque possibilità di creare una vera nuova Nazione.”

 

Un uomo, una voce, una cittadinanza

Ofra Yeshua-Lyth se la prende anche con il mito della ‘sola democrazia del Medio Oriente’. “Quando i principi della democrazia entrano in conflitto con quanto prescrive l’ebraismo, questa democrazia cede il passo alla religione”, deplora. “L’unità nazionale” e “gli imperativi securitari” sono le “scuse abituali”, scrive.

È esattamente in nome di questa mescolanza di religione e nazionalismo che “gli arabi devono essere descritti soprattutto come crudeli, dei nemici che non transigono sulla messa in discussione dello Stato ebraico”, analizza Ofra Yeshua Lyth. “Che gli arabi possano essere non violenti e privi di qualunque forma di odio ‘innato’ verso gli ebrei è così poco accettabile che qualunque fiero nazionalista israeliano lo nega quasi in preda al panico.”

L’occupazione è quindi sia quello che paralizza la società israeliana che ciò che la fa stare insieme, in una volontà di vivere che si costruisce “contro”. Perché, come dice giustamente la giornalista, “nel registro dei media israeliani, solo i ragazzini che lanciano pietre sono dei ribelli violenti. I criminali che li picchiano sono i nostri cari ragazzi.”

Partendo da questa cruda realtà Ofra Yeshua-Lyth osserva con distacco la dichiarazione di Emmanuel Macron che mette in relazione antisemitismo e antisionismo. “Trovo molto sorprendente che la critica alle politiche, alle azioni e alle leggi israeliane sia definita come ‘antisemitismo’”. Bisogna parlare della discriminazione a danno della popolazione autoctona non ebraica della Palestina in virtù delle leggi israeliane e dell’occupazione militare di vaste zone popolate.

I sionisti farebbero bene a prendere in considerazione la situazione del nostro regime invece di mascherarla con false grida, con la pretesa di essere vittime perseguitate. È vero che l’antisemitismo è vivo e vegeto. Deve essere condannato – così come tutte le altre forme di razzismo, compresa la retorica antiaraba e antimusulmana che è molto presente e aggressiva, nello spazio pubblico israeliano come altrove.”

Ofra Yeshua-Lyth propone uno Stato laico e democratico per tutti quelli che vivono tra il Giordano e il Mediterraneo, per il 20% di popolazione israeliana che è palestinese come per i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.

“Ciò che mi lega ai palestinesi laici è più importante dell’affinità che potrei avere con gli israeliani religiosi o di destra. Si parla della dimensione patriarcale dell’islam, ma l’ebraismo lo è altrettanto. Sono per uno Stato laico. Non sono ottimista, tuttavia è la sola soluzione, o meglio la sola soluzione logica: uno Stato democratico e laico. Sono per il principio di una persona un voto”, dichiara a MEE.

L’altra rivoluzione da compiere sarebbe accettare che la popolazione ebraica non sia maggioritaria nello Stato così creato. Allora si prospetta lo spettro della questione demografica che tormenta tanti dirigenti israeliani: “La politica deve essere definita dall’ideologia, dalla religione. Gli israeliani hanno paura di essere controllati dai palestinesi. I palestinesi sono persone moderne e laiche. Penso che siano alcuni israeliani che non vorrei veder arrivare al potere.”

Infine, questa ipotesi di uno Stato laico presuppone anche un diritto al ritorno per i palestinesi rifugiati in altri Paesi. “Bisogna ammettere la realtà della Nakba. Non tutti i palestinesi della diaspora vogliono necessariamente tornare. Ma bisogna riconoscere loro questo diritto al ritorno.”

La creazione di una cittadinanza sui generis nello Stato unico sarebbe dunque la panacea? “Non sono ottimista. Il fanatismo religioso è talmente grande, il nazionalismo è così forte che persino i palestinesi di cittadinanza israeliana sono minacciati. Ormai in Israele addirittura le parole ‘sinistra’ e ‘diritti dell’uomo’ sono diventate dei dispregiativi, delle parole estranee,” conclude Ofra Yeshua-Lyth.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Da Israele al Brasile: dichiarazione di guerra alle popolazioni indigene

Ahmad Moussa

28 aprile 2019, Middle East Eye

Sotto la presidenza Bolsonaro, il Brasile sta perpetuando il razzismo e l’oppressione sionista-colonialista

Le recenti affermazioni del presidente brasiliano Jair Bolsonaro sul “perdonare l’Olocausto” hanno innescato le critiche da parte di Israele, ma ciò che non bisogna dimenticare sono i rapporti e l’identità sionisti del Brasile.

Gli osservatori internazionali sono rimasti turbati dalle recenti vittorie elettorali, in Brasile e Israele, dei candidati di estrema destra Bolsonaro e Benjamin Netanyahu, che hanno entrambi sostenuto e messo in atto apertamente politiche genocide contro le popolazioni indigene.

Il Brasile ha rivelato la propria anima nera, riflettendo l’israelizzazione del Paese ai giorni nostri.

La recente dichiarazione di Bolsonaro, secondo cui l’Olocausto può essere “perdonato ma mai dimenticato”, potrebbe sembrare una rottura nell’orientamento sionista, ma ciò è tutt’altro che vero.

Favoreggiamento della Nakba

Al di là della decisione di Bolsonaro di trasferire l’ambasciata brasiliana a Gerusalemme, e delle foto dei suoi due figli che indossano magliette dell’esercito israeliano e del Mossad – facendo pubblicità ai servizi segreti israeliani, noti per terrorizzare i palestinesi – la storia politica del Brasile dimostra una profonda lealtà all’ideologia sionista.

Il Brasile porta avanti il razzismo colonialista e l’oppressione sionista attraverso l’annichilimento della cultura indigena. È stato uno dei primi Paesi a riconoscere lo Stato di Israele, contribuendo e collaborando quindi alla Nakba – o “catastrofe”, l’espulsione, nel 1948, dei palestinesi dalle loro case – e alla pulizia etnica della Palestina tutt’ora in corso.

Il diplomatico brasiliano Ozvaldo Aranha, ex presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 1947 è stato determinante nel garantire la creazione di Israele.

Aranha promosse la divisione della Palestina in favore del movimento sionista e contro la volontà del popolo palestinese, rinviando per tre giorni la votazione per far sì che si arrivasse all’approvazione con il sostegno della maggioranza.

Vinse poi il Nobel per la Pace per il suo impegno a sostegno degli interessi sionisti.

Il Piano di Partizione dell’ONU ha fornito il precedente giuridico per giustificare la pulizia etnica della Palestina nel 1948, cioè la Nakba, che continua ancora oggi.

Questa procedura irregolare riecheggia oggi in Brasile, con gli attacchi alla popolazione indigena del Paese.


Occultamento di atrocità

La condivisione della linea contro gli indigeni tra Israele e il Brasile ha iniziato ad emergere più chiaramente negli ultimi anni, con la cooperazione per la sicurezza di alto livello durante i Mondiali di calcio in Brasile nel 2014 e le Olimpiadi del 2016.

Il Brasile ha realizzato questi due grandi eventi mondiali a spese della propria popolazione emarginata.

Ha voluto garantire sicurezza e protezione da un potenziale “terrorismo” nascondendo le atrocità e le conseguenze della repressione di stato e della violenza contro i brasiliani emarginati, soprattutto persone indigene nelle favelas ghettizzate e sovrappopolate, simili ai bantustan palestinesi creati da Israele.

Gli attivisti hanno lanciato l’allarme: Israele sta esportando il “modello di sicurezza a Gaza” in Brasile, dove la popolazione indigena è sotto costante minaccia di furto e sfruttamento dei propri territori tradizionali per fini politici ed economici.

Il motivo di questa relazione speciale è che il Brasile vuole imparare dalle tattiche israeliane contro i palestinesi. Tattiche che Israele sta esportando in tutto il mondo.

Campagna memoricida

Il “risanamento”, o “pulizia”, delle aree da parte della polizia brasiliana attraverso meccanismi repressivi è una strategia insegnata dagli agenti della sicurezza israeliani. Promuovere la colonizzazione e la cancellazione delle aree indigene è particolarmente interessante per il Brasile, nello stesso modo in cui Israele opprime la propria popolazione palestinese.

Questi eventi recenti sono utili a ricordarci l’inquietante identità del Brasile e quale strada sta imboccando il Paese.

Con i proclami fermamente pro-israeliani e anti-indigeni di Bolsonaro sull’appropriazione della terra, l’assimilazione e lo sterminio, in Brasile continua l’esportazione israeliana della cancellazione degli indigeni.

Le popolazioni indigene dei due Stati stanno fronteggiando una campagna di cancellazione della memoria; un tentativo di far loro dimenticare il passato, cosicché non possano avere un futuro.

È questo che non può essere perdonato né dimenticato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa


Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, nonché collaboratore fisso ed editorialista freelance per varie agenzie stampa internazionali. È docente di questioni indigene e mediorientali e attivista per i diritti umani con un Master in Diritto Internazionale e Diritti Umani. Moussa è attualmente impegnato in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Elena Bellini)




I problemi dei sionisti con l’intersezionalità

Denijal Jegic

24 aprile 2019, Palestine Chronicle

La lotta dei palestinesi per i diritti umani e per la liberazione fa parte di un conflitto globale contro le strutture razziste. Le attuali proteste inclusive, come il movimento “Black Lives Matter” [“Le vite dei neri importano”, movimento USA contro le uccisioni di persone di colore, ndt.] o l’iniziativa per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro Israele hanno spesso utilizzato approcci transnazionali e intersezionali, sottolineando la molteplicità di esempi di oppressione che un individuo può sperimentare.

Il riconoscimento dei legami tra l’oppressione israeliana dei palestinesi e altre manifestazioni di razzismo è stato individuato come una minaccia strategica da Israele, il cui governo si è basato sull’esclusione dei palestinesi dall’umanità e sulla divulgazione di un’opposizione binaria tra civiltà. Come dimostrano la continua denigrazione della deputata del Congresso Ilhan Omar e i recenti attacchi a studiosi come Michelle Alexander, Marc Lamont Hill e Angela Davis, i sionisti stanno cercando di arginare le analisi degli afroamericani che protestano riguardo alle sofferenze dei palestinesi.

Cos’è l’intersezionalità?

La teoria dell’intersezionalità è sorta dalla frustrazione riguardo alla riproposizione del patriarcato etero normato da parte delle femministe bianche. Kimberlé Crenshaw ha coniato il termine quando ha teorizzato che le donne di colore sono oppresse in quanto donne e in quanto persone di colore. Gli approcci intersezionali sottolineano la pluralità di fattori di identità che sono presi di mira da politiche oppressive, come la marginalizzazione di fattori razziali, etnici, religiosi, di genere, sessuali ed altri dell’identità di un individuo.

Quindi non c’è da sorprendersi che, nel discorso sionista, l’intersezionalità sia stata recentemente demonizzata in quanto “ipocrisia”, “strumento politico”, “l’ultima strategia degli odiatori di Israele,” o, secondo Alan Dershowitz [docente statunitense di diritto internazionale e accanito difensore di Israele, ndt.], “una parola in codice per antisemitismo”.

La fandonia della “fine di Israele”

In un articolo per “The Observer” [quotidiano inglese indipendente, ndt.] Ziva Dahi ha chiesto: “Gli odiatori di Israele prima o poi si sveglieranno dalla fantasia dell’intersezionalità, dalla loro ossessione per la vittimizzazione, dall’adorazione dei palestinesi e dalla demonizzazione degli israeliani?”

Bret Stephens sul New York Times si è lamentato di un presunto attacco progressista contro Israele. I sionisti hanno impiegato tentativi retorici per sminuire l’intersezionalità al fine di proteggere Israele dalle critiche. Tuttavia ogni punto proposto dai sostenitori di Israele sfrutta tradizionali miti colonialisti e un palese razzismo antipalestinese.

La libertà per i palestinesi è semplicemente incompatibile con l’espansione del sionismo che – in quanto movimento basato sull’esclusione dei palestinesi – è l’opposto dei diritti umani universali. Di conseguenza, i sostenitori del sionismo continuano a descrivere i palestinesi come una peste e una bomba demografica a orologeria, la cui sopravvivenza minaccia l’esistenza di Israele.

Stephens identifica lo slogan di protesta “dal fiume al mare” [dal Giordano al Mediterraneo, ossia il territorio della Palestina storica, ndt.] come una “richiesta noiosamente malevola per la fine di Israele come Stato ebraico.” Come ha correttamente capito, Israele, in quanto “Stato ebraico”, può esistere solo finché esclude i palestinesi.

Allo stesso modo in un attacco contro l’intersezionalità, la collaboratrice dell’ADL [Anti Difamation League, organizzazione della lobby filoisraeliana USA, ndt.] Sharon Nazarian su “The Forward” [storico giornale della comunità ebraica USA, ndt.] ha chiesto la spoliazione dei palestinesi. Ha demonizzato il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, concesso dall’ONU, in quanto “la fine di fatto dello Stato ebraico”.

La fine apocalittica di Israele è un luogo comune sionista che rivela i fondamenti razzisti del sionismo, ossia che i palestinesi non debbono tornare alla loro patria semplicemente perché non sono ebrei, e che la messa in pratica dei diritti umani e delle leggi internazionali significherebbe la fine di Israele.

La fandonia de “gli ebrei sono sionisti”

Il sionismo è nato nel XIX° secolo, non dall’ebraismo ma da un movimento europeo di colonialismo d’insediamento che soddisfaceva le necessità dell’antisemitismo cristiano dominante all’epoca e ha prosperato sullo sfruttamento delle strutture orientaliste presenti nella cultura occidentale. I sionisti hanno abusato dell’ebraismo come scudo retorico per presentare una critica intersezionale e anticolonialista del sionismo come razzismo antisemita.

Nel suo commento sull’intersezionalità, Stephens dipinge le politiche sioniste come caratteristiche etnico-nazionali dell’ebraismo, liquidando quindi in quanto antisemiti i discorsi sulla colonizzazione, l’apartheid e il genocidio. Paradossalmente lo stesso Stephens attribuisce una connotazione politica ad ogni ebreo come sionista per giustificare il suo appoggio al sionismo e per presentare Israele come vulnerabile in un “Medio Oriente saturato di antisemitismo genocida.”

Nazarian tenta di includere il sionismo nel femminismo, dipingendo quest’ultimo come un movimento ebraico. Sostiene che “escludere le donne ebree dal (femminismo)” è “inquietante”. Tuttavia il sionismo è antitetico al femminismo. Mentre il femminismo svela l’ingiustizia e sostiene l’uguaglianza, il sionismo perpetua l’ingiustizia sulla base dell’ideale di supremazia e si fonda strutturalmente sull’oppressione delle donne palestinesi.

La fandonia del “conflitto complicato e complesso”

I sionisti respingono l’analisi intersezionale, in quanto insistono sul fatto che la situazione in Palestina/Israele è un caso storicamente e geograficamente isolato che non ha niente a che vedere con il resto del mondo e sarebbe troppo complesso da capire per la gente comune o, come afferma Stephens, “molto più complicato del quadro in bianco e nero disegnato dai critici progressisti di Israele.”

Dahi lamenta che i sostenitori dell’intersezionalità riconoscano diverse forme di oppressione come costitutive di un sistema intersezionale “anche se avvengono in contesti geografici, culturali e politici non connessi tra loro.” Tuttavia l’autrice tenta di isolare la lotta palestinese nel tempo e nello spazio.

L’eccezionalità israeliana necessita proprio di questo approccio. I miti sionisti seguono la narrazione secondo cui i palestinesi non meritano la simpatia di nessuno perché sono terroristi, il terrorismo è geneticamente e culturalmente intrinseco alla palestinità, nessuno è pericoloso come i palestinesi e di conseguenza Israele, in quanto ultima e più vulnerabile colonia europea, ha il diritto di “difendersi”. I sionisti temono che i non palestinesi, invece di aderire alla narrazione israeliana, possano al contrario provare empatia per i palestinesi. È quindi semplicemente logico che gli opinionisti sionisti attacchino “Black Lives Matter”, la “National Women’s Studies Association” [Associazione Nazionale per gli Studi sulle Donne], Jewish Voice for Peace [Voce ebraica per la pace, associazione di ebrei contrari all’occupazione e al sionismo] e Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina].

La fandonia orientalista ed islamofobica

Poi Dahi giustifica l’oppressione dei palestinesi evocando luoghi comuni orientalisti, quando afferma che i palestinesi giustiziano i gay e praticano il delitto d’onore.

Propagandare che i palestinesi meritano di soffrire a causa della loro arretratezza senza pari e che la loro lotta non può essere messa in relazione con nessun’altra lotta è parte integrante dell’ eliminazione del colonizzato da parte del colonizzatore.

La resistenza palestinese è dunque dipinta come fanatismo islamico. Sostenendo che “i nemici di Israele erano impegnati nella sua distruzione molto prima che occupasse un solo centimetro di Gaza o della Cisgiordania,” Stephens presenta Israele come sotto costante minaccia alla sua esistenza e scredita la resistenza palestinese come odio pre-politico. Sottintendere che l’occupazione israeliana del 1967 sia la causa del problema attuale è un errore dei sionisti liberali, mentre in realtà la colonizzazione della Palestina è iniziata alla fine del XIX° secolo.

Dare la colpa alle vittime

Sfruttando questa vera eccezionalità israeliana, i sostenitori del sionismo si affrettano ad accusare i palestinesi per la loro disgrazia, occultando al contempo i diseguali rapporti di potere coloniali.

Nazarian sostiene che i palestinesi “hanno ripetutamente fallito nel dimostrare un impegno per la pace” e respinge la “ben radicata delegittimazione di Israele e del sionismo” da parte della narrazione palestinese.

Incolpare i palestinesi è coerente con gli scritti di Stephens. In precedenza aveva appoggiato il colonialismo ed ha parlato di “infermità” della “mente araba”. Stephens ha difeso il massacro di palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno ed ha dato la colpa ai palestinesi.

Nella sua presa di posizione sull’intersezionalità, era scandalizzato che i progressisti non avessero condannato in modo sufficientemente duro i palestinesi. Assolvendo Israele dalle sue responsabilità per le sofferenze dei palestinesi, Stephens si riferisce a loro (disumanizzati con l’uso del termine “Hamas”) come “assassini”, “misogeni” e “omofobi”, che, secondo lui, non hanno futuro a causa della loro “cultura di vittimizzazione, violenza e fatalismo.”

Il mito del sionismo come liberazione

A volte il sionismo è persino presentato come un movimento progressista. In un articolo su “Tablet” [rivista ebraico-americana on line, ndt.], Benjamin Gladstone ha sostenuto l’inclusione degli ebrei nell’intersezionalità. Mentre l’autore sembra comprendere la teoria di Crenshaw, non vede gli ebrei al di fuori della cornice sionista. La sua argomentazione, secondo cui “la questione ebraica fa parte del movimento intersezionale per la giustizia” è ovviamente corretta.

Tuttavia, equiparando antisemitismo e antisionismo, postula entrambi come “gravi problemi intersezionali” e quindi ne deduce che il razzismo antiebraico è una caratteristica dell’intersezionalità. Ancor peggio, l’autore dipinge il sionismo come un “movimento di liberazione” che “ha la potenzialità non solo di coesistere, ma anche di appoggiare e dare forza ad altri movimenti di liberazione, da quello delle donne al nazionalismo palestinese.” Questo tentativo di rendere romantico un movimento colonialista di insediamento genocida cancella la difficile situazione dei palestinesi e marginalizza l’opposizione ebraica al sionismo.

Perchè l’intersezionalità è antisionista

Ci si deve chiedere se i sionisti, come esemplificato da questi autori, siano consapevoli di quello che significa il sionismo – soprattutto per le sue vittime. Nel caso in cui non fosse evidente che il sionismo si basa sulla continua esclusione e cancellazione dei palestinesi, questi testi lo rendono assolutamente chiaro. Gli autori rivelano che il sionismo crea gerarchie razziali e contrapposizione binaria tra civiltà in base a un nucleo eurocentrico. Quindi l’autore dimostra precisamente perché l’intersezionalità è antisionista.

L’analisi intersezionale insisterebbe sulle differenze tra ebrei e sionismo come ideologia politica. In effetti decostruirebbe i molteplici modi in cui gli ebrei sono oppressi all’interno e al di fuori del contesto sionista. Per esempio, il “Jews of Color and Sephardi/Mizrahi Caucus” [Assemblea degli ebrei di colore e dei sefarditi / mizrahi] ha definito come analisi intersezionale un’“organizzazione antirazzista e anticolonialista e una solidarietà per abbattere le barriere che sistemi di dominazione legati tra loro pongono tra comunità oppresse e che intendono dividerci e conquistarci.”

Mentre i sostenitori del sionismo tendono a sostenere che gli attivisti intersezionali prendono di mira esclusivamente Israele, sono gli stessi sionisti che dipendono dall’eccezionalità israeliana, presentando la libertà dei palestinesi come un genocidio per gli ebrei.

Ma, al di là di questi miti, non esiste una base etica né giuridica per difendere il trattamento strutturalmente razzista dei palestinesi da parte di Israele.

Come dimostrano i testi citati, i sionisti hanno difficoltà a proporre un argomento valido senza respingere le leggi internazionali e i diritti umani. In quanto movimento eurocentrico e orientalista, il sionismo si alimenta, retoricamente e letteralmente, di un’opposizione binaria razzista/di civiltà.

L’analisi intersezionale aiuta ad identificare l’emarginazione razziale, socio-economica, classista e sessista degli ebrei neri, dei rifugiati africani, dei palestinesi e di altri gruppi sottoposti al dominio israeliano. Può potenzialmente rafforzare una collaborazione tra le molte vittime di Israele. Ma proprio questo potenziale di decolonizzazione è molto problematico per il sionismo – un’ideologia colonialista d’insediamento che ha adottato gerarchie razziali.

Denijal Jegić è un ricercatore di post-dottorato, attualmente a Beirut, Libano. E’ l’autore di “Trans/Intifada – The Politics and Poetics of Intersectional Resistance.” [“Trans/Intifada – la politica e la poetica della resistenza intersezionale.”] (Heidelberg: Universitätsverlag Winter, 2019). Ha inviato quest’articolo a “ The Palestine Chronicle”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




due articoli sul futuro dell’opposizione israeliana con proposte diametralmente opposte

Nota redazionale: riteniamo interessante presentare questi due articoli che affrontano il problema cruciale della ricerca strategica di un’alleanza tra le classi popolari del gruppo maggioritario e dominante e di quelle dominate e oppresse in un contesto coloniale. I due articoli che seguono propongono prospettive opposte.

Smettiamola di parlare di una “collaborazione tra ebrei e arabi” falsa

Rami Younis e Orly Noy 

17 aprile 2019, +972

Creando una simmetria tra israeliani e arabi, gli ebrei di sinistra non hanno solo perso di vista l’intero quadro, ma stanno contribuendo attivamente a cancellare la lotta palestinese.

Il triste stato del “campo della sinistra” era già chiaro molto prima che la scorsa settimana venissero resi pubblici i risultati finali delle elezioni israeliane. Come se niente fosse, è iniziato il rituale delle dichiarazioni su cosa ci sia di sbagliato nella sinistra e su come rimediare.

La pozione utile per tutti i mali “collaborazione tra ebrei e arabi” è stata tra le suggestioni più diffuse. La prescrizione sembra così ideologicamente corretta e politicamente necessaria che ogni critica è spesso interpretata quanto meno come cinica pedanteria. Eppure vale la pena di dare uno sguardo approfondito all’essenza di questa collaborazione.

Invisibile egemonia ebraica

Più che manifestare un’aspirazione all’uguaglianza, l’idea della collaborazione tra ebrei ed arabi presuppone una condizione simmetrica. In questo senso, si tratta di una versione leggermente aggiornata del concetto di “coesistenza”, che negli ultimi anni si è trasformato in una sorta di parolaccia nel campo pacifista, e per buone ragioni. Non è che ci opponiamo all’idea di coesistenza, ma siamo piuttosto arrivati alla convinzione che la coesistenza non riflette i rapporti di potere distorti tra gli ebrei israeliani e i palestinesi. È diventato un modo di dire troppo comodo da utilizzare per coloro i quali conoscono come unica coesistenza quella tra un cavallo e il suo cavaliere.

Possiamo presumere che quanti invocano una “collaborazione tra ebrei e arabi” non vogliano quella stupida forma di coesistenza, eppure si avvalgono dello stesso pericoloso senso di simmetria immaginario. Non è casuale che siano i maschi ebrei askenaziti [cioè originari dell’Europa centro-orientale, ndt.] che in genere guidano questi appelli alla collaborazione. Analogamente non è semplicemente simbolico che discorsi sulla collaborazione tra ebrei e arabi antepongano quasi sempre gli ebrei agli arabi, riflettendo l’invisibile egemonia ebraica che fa da base al concetto concreto.

Si può riscontrare la stessa asimmetria nello slogan non ufficiale delle persone e dei movimenti che sostengono che la risposta sia la collaborazione: “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”. L’importanza dell’oppresso che rifiuta di essere nemico del proprio oppressore non dovrebbe essere sottovalutata. Ma all’oppressore bisognerebbe chiedere qualcosa di completamente diverso: lui o lei devono rifiutarsi di dominare l’oppresso. Ciò non può essere ottenuto in una situazione di falsa simmetria.

Ciò è vero non solo per ragioni etiche, ma anche perché una lotta prigioniera di una realtà opposta, per quanto questa prospettiva possa essere valida, non potrà mai essere efficace. Finché l’egemonia ebraica resta invisibile, i vari modi in cui decide come sarà questa collaborazione, rimangono invisibili anch’essi in virtù dello stesso linguaggio di simmetria. Si prenda ad esempio il manifesto pubblicato da “Standing Together”, il principale movimento per la collaborazione tra ebrei e arabi, che afferma che non crede nello sventolio di nessuna bandiera nazionale.

Nella nostra situazione la bandiera ebrea-israeliana è ovviamente parte del panorama, mentre quella palestinese, e peraltro l’esistenza del popolo palestinese, è rifiutata, umiliata e cancellata. Quindi togliere di mezzo entrambe le bandiere non fa progredire l’uguaglianza, approfondisce la disuguaglianza. Nel mondo reale, la bandiera blu e bianca non ha bisogno di legittimazione, quella palestinese sì. Dire che le bandiere possono essere escluse simmetricamente significa negare che qui il destino di una persona sia determinato dalla propria affiliazione nazionale. Questa non è collaborazione, è partecipazione attiva all’oppressione.

La stessa invisibile egemonia ebraica sta anche dietro a varie proposte di fondere o unificare i partiti politici Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndt.], laburista [partito sionista dominatore della politica israeliana fino agli anni ’70, ndt.] e Hadash [partito non sionista a maggioranza arabo-israeliana, ndt.]. Questa fusione significherebbe ancora una volta che gli ebrei scelgono con quali “arabi buoni” possono costruire una “collaborazione”. Così facendo inoltre definiscono e delegittimano gli “arabi cattivi” che non sono degni di questa collaborazione.

Ricordate la Nakba?

La falsa simmetria sostenuta da quanti credono che “ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” è quantomeno pericolosa. Un’intera costruzione basata su un’ideologia razzista, il sionismo, ha lavorato senza sosta durante 71 anni per cancellare sia la narrazione che l’identità palestinesi. Intere generazioni di palestinesi cittadini di Israele sono cresciute qui senza sapere di essere palestinesi – senza conoscere le ingiustizie perpetrate contro il loro stesso popolo. Com’è possibile che queste stesse persone che rivendicano giustizia e uguaglianza contribuiscano solo a perpetuare questa situazione?

E se molti palestinesi non sanno da dove vengono, come potranno sapere dove devono andare?

Abolire l’identità nazionale è anche funzionale a uno dei più ripetuti cliché della destra contro i palestinesi. A ogni palestinese che osi parlare della Nakba, la più grande ingiustizia perpetrata qui – e che la classe dirigente sionista rifiuta di riconoscere – viene immediatamente detto dal simbolico fascista di turno di andarsene e di smetterla di piagnucolare. Questi stessi fascisti rifiutano di capire, o forse scelgono di ignorare, la ferita sanguinante del 1948 e il grande problema storico del popolo palestinese.

Quelli che insistono per una collaborazione tra ebrei e arabi preferiscono concentrarsi sul 1967 [cioè nell’occupazione di Cisgiordania e Gaza, ndt.] come l’anno della grande ingiustizia. Ma non è così. Nella migliore delle ipotesi, non vedono la realtà, se non altro per il fatto che la maggioranza dei palestinesi (soprattutto a Gaza e in Cisgiordania) si concentra sul 1948. Se tutti i tuoi amici arabi parlano del ’67, probabilmente non hai un numero sufficiente di amici arabi.

Sventolare la bandiera palestinese ed essere orgogliosi di questa identità non è una provocazione, è il dovere di ogni palestinese con una coscienza politica, in modo che per le future generazioni la lotta non scompaia. Quelli che sostengono la coesistenza, che si oppongono a questi indicatori di orgoglio e identità, non sono veri alleati politici, stanno lavorando attivamente contro i palestinesi, che sostengono di proteggere in modo paternalistico e arrogante.

Ci si deve quindi chiedere chi sono gli arabi che si uniscono a questa “collaborazione”. Si deve ricordare che la tendenza dei gruppi indigeni che vivono sotto l’oppressione ad entrare in contatto con il proprio oppressore – anche solo per impedire a quest’ultimo di distruggere le loro vite – è naturale. Ora pensate a quanto sia naturale per i palestinesi dire “sì” ai cosiddetti ebrei illuminati e progressisti che offrono loro la cooperazione. Sentiamo spesso che molti palestinesi scelgono di autocensurarsi in presenza dei loro partner per non far arrabbiare quelli che tendono ad avere privilegi, contatti e, molto spesso, finanziamenti.

I gruppi per la coesistenza ignorano inoltre i palestinesi che vivono nei territori occupati. È probabile che molti ebrei israeliani, anche di sinistra, non abbiano mai visitato la Cisgiordania né abbiano rapporti con abitanti palestinesi locali in un modo che consenta loro di comprendere quello per cui molti palestinesi stanno lottando. Sanno, ad esempio, che molti sostengono il diritto al ritorno? Se dipendesse solo dai palestinesi, invece di gridare “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”, preferirebbero scandire “Palestinesi ed ebrei appoggiano il diritto al ritorno”. Perché in realtà questo slogan non esiste? Perché questa “collaborazione” deve rimanere accettabile per gli ebrei.

Le decine di palestinesi che gridano lo stesso slogan insieme a voi nelle manifestazioni non hanno il diritto di parlare in nome dei palestinesi, così come gli autori di questo articolo non hanno mai ricevuto il diritto di parlare a nome dei rifugiati di Gaza. Eppure ciò non significa che non dobbiamo lottare per i loro diritti.

Questa è una lotta nazionale tra una Nazione indigena e una maggioranza violenta. Quelli che fanno parte della maggioranza non possono guidare e nemmeno pretendere di far parte della dirigenza della lotta contro l’oppressione. La prima cosa che devono fare è essere consapevoli della propria posizione in quanto membri del gruppo oppressore, per quanto possa essere difficile e spiacevole. Quello che possono e devono fare è solidarizzare con le lotte guidate dagli oppressi. Questa è un’idea rivoluzionaria per molti ebrei di buona volontà. Ovviamente si tratta di una posizione più difficile da prendere, in quanto richiede pazienza e ascolto dei problemi che i palestinesi devono affrontare.

All’inizio di questa settimana prigionieri palestinesi, che per anni sono stati privati dei propri diritti ed hanno sopportato maltrattamenti nelle prigioni israeliane, hanno posto fine a uno sciopero della fame. Non c’è niente di “simmetrico” riguardo al loro problema. I prigionieri palestinesi che fanno parte della lotta nazionale sono perseguitati e obbligati a pagarne il prezzo. È anche difficile per l’opinione pubblica ebraica accettarlo. Quale posto potrebbe mai avere la lotta dei prigionieri nella cosiddetta collaborazione con l’egemonia ebraica che spera di vincere i cuori e le menti di più persone possibile?

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

Rinunciare alla collaborazione tra ebrei e arabi vorrebbe dire rinunciare alla speranza

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green

23 aprile 2019, +972

La maggior parte delle persone di questa terra è vittima del governo Netanyahu. La collaborazione tra loro è l’unico modo per lottare contro le sue diverse forme di oppressione – compresa l’occupazione.

È molto facile per chi si trova in una situazione privilegiata criticare qualunque azione intrapresa da persone che fanno lavoro di base come “non abbastanza radicale” e guardare al mondo attraverso lenti ciniche e negative. Non c’è da stupirsi che, dalla loro comoda posizione, nel loro recente articolo “Smettiamo di parlare di una falsa ‘collaborazione tra ebrei e arabi’”, Rami Younis e Orly Noy abbiano scelto di non vederne le opportunità concrete e di non credere nel cambiamento.

Noi, al contrario, sappiamo che c’è speranza. Non abbiamo abbandonato questo luogo e non disperiamo nelle persone che vivono qui. L’ottimismo è una posizione politica.

Ci sono due aspetti dell’articolo di Younis e Noy che meritano un apprezzamento. Il primo è che in questi giorni è lodevole quanto meno parlare della collaborazione tra ebrei e arabi, uno degli argomenti politici più importanti da prendere in considerazione. In secondo luogo, insistendo sulla separazione tra arabi ed ebrei, involontariamente dimostrano esattamente come la destra in Israele abbia conservato il suo potere con la sua strategia di divide et impera, mettendo una contro l’altra le lotte sociali di arabi ed ebrei. Il loro punto di partenza elude la questione di come riuscire ad ottenere un cambiamento in questa terra – e di chi abbia interesse a raggiungerlo – e ciò li porta alla conclusione errata che la collaborazione tra ebrei e arabi sia inutile.

In fondo all’articolo originale in ebraico, Rami Younis descrive se stesso come un “arabo per niente simpatico che crede che gli ebrei debbano appoggiare le lotte dei palestinesi” e Orly Noy si descrive come “un’ebrea che odia se stessa e crede che i palestinesi debbano condurre da sé la propria lotta.” Al di là del tentativo di essere spiritosi, le acide note biografiche rivelano gli assunti impliciti: gli arabo-palestinesi che vivono qui lottano legittimamente, ma gli ebrei israeliani no (e se lo fanno, non sono abbastanza importanti o abbastanza radicali). Ma non puoi mettere da parte le legittime lotte di quartieri e città con servizi inadeguati, di donne, di ebrei mizrahi [cioè di origine araba, ndt.], dei disabili, per le case di edilizia pubblica, della comunità etiope, dei richiedenti asilo e di altri. Non puoi cancellare intere comunità e dichiarare semplicemente che sono parte di una “maggioranza distruttiva e violenta”.

Per di più, cancellando tutte le lotte di quelle comunità e paragonandole a una “maggioranza distruttiva e violenta”, Younis e Noy stanno suggerendo che la maggioranza degli ebrei israeliani vota per la destra semplicemente perché è razzista e cerca di proteggere i propri privilegi. In breve, Younis e Noy pensano che gli ebrei israeliani siano degli stronzi. Noi di “Standing Together” [organizzazione ebreo-araba israeliana di sinistra, ndt.] pensiamo che l’attuale governo di destra e la gente che vive in questa terra abbiano interessi diametralmente opposti, e che sia compito della sinistra mostrare semplicemente quanto siano dannose le politiche del governo e organizzare le lotte contro quelle istituzioni e le loro politiche.

Le politiche economiche della destra danneggiano seriamente i lavoratori e i settori deboli della popolazione, come dimostrato almeno in parte da una serie di proteste sociali in Israele nel corso degli anni. Le politiche sociali della destra trascurano i punti di vista della maggioranza dell’opinione pubblica; solo nell’ultimo anno queste politiche hanno portato a proteste di massa contro le violenze a danno di donne e contro i diritti LGBTQ. La destra cerca di rimanere al potere non migliorando le vite dei suoi elettori, ma attaccando la minoranza nazionale arabo-palestinese di Israele. Tra le altre cose, l’istigazione al razzismo è il modo della destra per nascondere il fatto che essa non ha migliorato le vite di quanti la votano.

Il modo per lottare contro Netanyahu è duplice: mostrare come le sue politiche economiche danneggino la grande maggioranza dell’opinione pubblica e lottare sia contro il suo incitamento al razzismo nei confronti dei palestinesi in Israele che contro il costante controllo militare di Israele sui territori palestinesi. Dall’articolo di Younis e Noy si può presumere che essi ritengano che le lotte per alloggi a prezzi accessibili, delle femministe, per i diritti dei lavoratori e l’uguaglianza per i palestinesi all’interno di Israele siano tutte secondarie rispetto alla lotta per porre fine all’occupazione. Noi La pensiamo in modo diverso.

La maggior parte della gente di questa terra è danneggiata dalle politiche del governo. La collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare contro queste varie forme di oppressione, compresa la fine dell’occupazione. Dalla sua fondazione noi di “Standing Together” abbiamo sempre creduto che sia possibile quanto necessario lavorare per la pace tra israeliani e palestinesi insieme alle lotte per la giustizia sociale e per uguali diritti civili e nazionali. Su ogni fronte di questa lotta insistiamo per lavorare insieme sulla base di interessi condivisi.

Adottiamo questo approccio con la piena consapevolezza del fatto che diversi gruppi della società israeliana sono vittime in modi diversi di sfruttamento, discriminazione e oppressione. I cittadini arabo-palestinesi non sono solo maggiormente danneggiati dalle politiche socioeconomiche della destra, ma sono anche discriminati sulla base della loro identità nazionale: le leggi razziste prendono specificatamente di mira la lingua e la cultura arabe e la legittimità della partecipazione politica araba. Ciò è stato strutturato in modo più rivelatore dalla legge sullo Stato-Nazione ebraico, che sovverte il principio di uguaglianza e stabilisce per legge lo status di cittadini di seconda classe dei palestinesi con cittadinanza israeliana.

Non c’è nessuna simmetria tra la situazione che vivono ebrei e arabi in Israele. Ma la destra israeliana sopravvive proprio trasformando questa asimmetria in una barriera per chiunque intenda cambiare. Ciò diventa particolarmente efficace quando la destra alimenta sistematicamente i timori degli ebrei israeliani, suggerendo che i simboli nazionali e culturali palestinesi incarnino un desiderio di “buttare a mare gli ebrei”. È così che la destra manipola i simboli nazionali palestinesi, soprattutto la bandiera palestinese e il Giorno della Nakba [commemorazione dell’espulsione dei palestinesi dal territorio poi diventato lo Stato di Israele nel 1948, ndt.].

Ferme restando le complicazioni intrinseche e i rapporti di potere di ogni collaborazione tra ebrei ed arabi in una società tanto segregata e polarizzata come la nostra, crediamo che questa collaborazione sia l’unico modo per far progredire un’alternativa e cambiare la nostra situazione. Sì, è una sfida. Come ha scritto Noam Shizaf [giornalista israeliano di +972, ndt.], non è facile raggiungere l’uguaglianza all’interno di una cornice politica comune. Ma noi di “Standing Together” abbiamo scelto di affrontare queste sfide ogni giorno della settimana. A volte abbiamo successo, a volte non molto, ma noi non rinunciamo, non ci disperiamo e non smettiamo di provarci.

Nel loro articolo Younis e Noy scrivono che i membri arabi di “Standing Together” non credono realmente nella collaborazione tra ebrei e arabi – che dicono che ci credono solo per tranquillizzare gli ebrei privilegiati nelle loro fila. Scrivendo ciò, riducono il contributo dei membri palestinesi di “Standing Together” – membri della dirigenza del movimento che definiscono il programma, lavorano per promuovere gli interessi degli arabo-palestinesi in Israele e che a volte pagano di persona per il fatto di essere dirigenti. Più tragicamente, attaccando “Standing Together”, Younis e Noy non fanno che rafforzare gli argomenti della destra, secondo cui i palestinesi che dicono di voler vivere pacificamente accanto agli ebrei israeliani in realtà stanno mentendo.

Queste sono le nostre convinzioni e ci crediamo davvero. Siamo convinti che le politiche della destra danneggino le famiglie arabe più di quelle ebraiche e che questi danni abbiano una radice storica. Sappiamo anche che la collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare per i diritti di tutte quelle famiglie, sia ebree che arabe, e per garantire che tutti possano vivere insieme in questa terra. Questi sono in nostri valori. Questa è la nostra teoria per il cambiamento. Questa è la fonte della nostra speranza. Crediamo nel cammino che abbiamo scelto e stiamo costruendo un ampio movimento – ebrei, arabi e socialisti – per realizzare un cambiamento fondamentale nella società, nell’economia e nella politica di Israele.

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green sono membri della direzione di “Standing Together”. La versione originale di questo articolo in ebraico è già comparsa su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché il sionismo è sempre stato un’ideologia razzista

Asa Winstanley

20 aprile 2019, Middle East Monitor

Questa settimana il ministro ombra laburista della Giustizia Richard Burgon si è rammaricato per aver affermato qualche anno fa in un discorso che il sionismo è il “nemico della pace”. Non avrebbe dovuto scusarsi. Le sue considerazioni del 2014 erano un semplice dato di fatto storico, ed avrebbe dovuto difenderle.

I sionisti liberal e “di sinistra” affermano che il governo sempre più di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è una “degenerazione” del cosiddetto sogno sionista. Ci viene detto che questa progetto rappresenta un paradiso egualitario per i popoli ebraici oppressi del mondo.

Si tratta di una fantasia antistorica.

Il movimento per creare uno “Stato ebraico” in Palestina – un Paese per la stragrande maggioranza non ebreo – fu, fin dalla sua ideazione, un progetto esclusivista e razzista. Dai suoi primi giorni il sionismo è stato permeato degli stessi atteggiamenti razzisti di altri movimenti europei di colonialismo di insediamento. In realtà la concezione progressista sionista di eguaglianza all’interno della Palestina esclude gli arabi palestinesi, il popolo indigeno del territorio. Una simile cecità intenzionale è una caratteristica comune dei movimenti colonialisti. Come l’illustre studioso palestinese Nur Masalha ha spiegato decenni fa nel suo studio magistrale “Espulsione dei palestinesi”, in realtà il movimento sionista ha compreso che effettivamente c’era già una popolazione che viveva in Palestina. Tuttavia scelse di non vedere queste persone come esseri umani a pieno titolo degni degli stessi diritti dei coloni ebrei.

Masalha ha scritto che l’ignobile slogan del sionista dei primordi Israel Zangwill “una terra senza popolo per un popolo senza terra” non era inteso come un giudizio demografico letterale. I sionisti “non intendevano dire che non ci fosse un popolo in Palestina, ma che non c’era un popolo degno di essere preso in considerazione all’interno del quadro di concezioni della supremazia europea che all’epoca dominavano incontrastate.”

Questi concetti di suprematismo bianco, che in quel periodo per le élite europee erano indiscutibili, erano una caratteristica comune dei progetti colonialisti di ogni tipo. Come avrebbe quindi potuto essere diverso per il sionismo?

La risposta è che non lo era, indipendentemente da quanta immagine “di sinistra” i sionisti laburisti abbiano inserito nel loro movimento colonialista. Dopo tutto i movimenti laburisti dell’Europa occidentale nelle metropoli coloniali erano spesso esplicitamente di orientamento favorevole all’impero; probabilmente nessuno più del partito laburista britannico. In realtà la storia dell’appoggio ad alcuni dei fondamentali diritti umani dei palestinesi da parte di Jeremy Corbyn rappresenta una rottura storica con la lunga serie praticamente ininterrotta di virulente politiche anti-palestinesi del partito laburista.

Prendete per esempio Richard Crossman, ministro del governo di Harold Wilson negli anni ’60 e in seguito editorialista del “New Statesman” [rivista politica inglese di sinistra, ndt.]. All’epoca era una figura di spicco della sinistra laburista, eppure in tutto il partito era uno dei più fanatici tra i sionisti. Nel 1959, in una conferenza in Israele, affermò che “nessuno, fino al XX° secolo, aveva seriamente messo in dubbio” il “diritto” o il “dovere” di quello che definì “l’uomo bianco” in Africa e nelle Americhe “di civilizzare questi continenti con la loro occupazione fisica, anche a costo di spazzare via la popolazione nativa.”

In altre parole, il genocidio.

Crossman lamentò inoltre che “i coloni ebrei” in Palestina non avessero “raggiunto la maggioranza prima del 1914,” e che i palestinesi “li vedessero come ‘coloni bianchi’, venuti ad occupare il Medio Oriente.” Si noti che questo decano della sinistra laburista non condannava “i coloni bianchi” che di fatto avevano occupato la Palestina con la forza cacciando la popolazione indigena. Si rammaricava solo che i palestinesi avessero riconosciuto il movimento sionista per quello che realmente era e quindi vi si fossero opposti.

Non c’è quindi da stupirsi che il governo laburista del 1945 avesse, come parte del proprio programma elettorale, un punto che chiedeva esplicitamente la pulizia etnica dei palestinesi dalla Palestina per far posto a uno “Stato ebraico”. Il documento sosteneva che in Palestina “il trasferimento di popolazione è una necessità. Che gli arabi siano incoraggiati ad andarsene, e che vi entrino gli ebrei.”

Il documento andò persino oltre, invocando la futura espansione dei confini del previsto “Stato ebraico” con l’annessione di parti della Transgiordania, dell’Egitto o della Siria “attraverso un accordo”. In realtà, l’Egitto e il futuro Stato di Giordania all’epoca erano regimi fantoccio della Gran Bretagna.

Ben Pimlott, biografo dell’ex-ministro delle Finanze Hugh Dalton, descrisse questa posizione come “ultra sionismo” – moderato rispetto a un progetto ancora più estremista che lo stesso Dalton avrebbe preferito e che chiedeva di “aprire la Libia o l’Eritrea alla colonizzazione ebraica, come satelliti o colonie della Palestina.”

Non dovrebbe quindi sorprendere che Dalton fosse, come molti colonialisti, un razzista esplicito. Utilizzò un linguaggio apertamente segnato dall’odio nei confronti delle persone di colore e degli ebrei, deridendo un deputato del partito Laburista che era ebreo per la sua presunta “ideologia”.

Allora come adesso il sionismo spesso e volentieri è andato mano nella mano con l’antisemitismo. Molti razzisti bianchi che detestano gli ebrei spesso non hanno avuto nessun problema con il concetto di “Stato ebraico” in Palestina – dopotutto esso prospetta la cancellazione degli ebrei dall’Europa.

Come ha scritto, pur negando di essere un antisemita, il presunto autore dei massacri nella moschea di Christchurch nel suo “manifesto”: “Un ebreo che vive in Israele non è un mio nemico, finché non cerca di sovvertire o danneggiare il mio popolo (bianco).”

Per tutte queste ed altre ragioni, il sionismo è sempre stato un movimento razzista – e non lo è stato meno nella sua versione “sionista laburista”.

Oggi il sionismo laburista è morto come forza politica all’interno della Palestina occupata. Il partito Laburista – i cui predecessori politici fondarono lo Stato di Israele e nel 1948 perpetrarono la Nakba, in cui 750.000 palestinesi vennero espulsi con la forza – ora è relegato a una manciata di sei seggi nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.].

La principale utilità del laburismo sionista per il complessivo movimento sionista è in quanto arma ideologica contro la sinistra globale e il movimento di solidarietà con la Palestina in tutto il mondo, come si vede nel ruolo divisivo che gruppi come il “Jewish Labour Movement” [Movimento Ebraico Laburista] (JLM) e i “Labour Friends of Israel” [Amici Laburisti di Israele] hanno giocato nella lunga campagna contro Jeremy Corbyn.

Come ha spiegato un importante leader di JLM lo stesso mese in cui Corbyn è stato eletto per la prima volta segretario del partito Laburista britannico nel 2015: “Abbiamo costruito un forte discorso politico, radicato nella politica della sinistra e utilizzato nel suo stesso cortile di casa.” Questo progetto è stato messo in atto in modo che “la questione di Israele” non fosse “persa per definizione”. La crisi dell’“antisemitismo” nel partito Laburista è, in realtà, una campagna di razzisti per diffamare in quanto “razzisti” gli anti-razzisti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il ‘kahanismo’: la logica conclusione del sionismo

Asa Winstanley

2 aprile 2019, Middle East Monitor

Tutti sanno che Kahane aveva ragione’

Nelle elezioni israeliane che si terranno questo mese una coalizione di estrema destra, guidata dall’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, sarà probabilmente vincente.

L’attuale compagine di parlamentari probabilmente includerà i kahanisti del partito ‘Otzma Yehudit’ (Potere Ebraico).

Il rabbino Meir Kahane era un fanatico razzista antiarabo e antipalestinese. Chiedeva esplicitamente che i palestinesi fossero espulsi dalla Palestina storica – che definiva la “terra di Israele”, dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo).

Il suo libro del 1981 era un sermone diretto e vero e proprio che sosteneva la pulizia etnica esplicitamente razzista della Palestina. Si intitolava “Devono andarsene”.

Kahane, come molti sionisti, era talmente razzista che si rifiutava di usare il termine “palestinesi”, sostenendo che essi non esistevano realmente ed erano semplicemente “arabi” che erano arrivati nella terra di Israele in periodi successivi – un comune mito sionista.

“Gli ebrei e gli arabi della terra di Israele sostanzialmente non possono coesistere”, ha scritto. “Per noi c’è solo una strada percorribile: il trasferimento immediato degli arabi da Eretz Yisrael, la Terra di Israele, verso le loro terre.”

A New York nel 1968 aveva fondato la cosiddetta “Jewish Defence League” [Lega di Difesa Ebraica] (JDL). Questo gruppo di estremisti sionisti era violentemente razzista nei confronti degli afro-americani, dei palestinesi e degli altri arabi.

Per anni ha condotto una campagna interna di terrore contro obbiettivi civili – soprattutto palestinesi, altri arabi e sovietici – ma a volte anche contro altri ebrei e addirittura sionisti, quando doveva risolvere conflitti intestini.

Furono presi di mira gli uffici del famoso intellettuale palestinese Edward Said. E’ stata messa una bomba nell’ufficio dell’attivista palestinese-americano per i diritti civili Alex Odeh, provocando l’uccisione di Odeh.

I principali sospettati dall’FBI fuggirono in Israele, dove alcuni di loro sono tuttora nascosti.

Nel 1971 Kahane si trasferì in Israele, dove fondò il partito Kach ed iniziò a partecipare alle elezioni. Kahane affermò che il Kach era la sezione israeliana della JDL. Questa venne infine giudicata un’organizzazione terroristica dall’FBI e il Kach venne messo fuorilegge persino da Israele.

Alla fine nel 1984 Kahane entrò alla Knesset, il parlamento israeliano. Probabilmente il suo partito avrebbe guadagnato più seggi nelle elezioni del 1988, ma gli fu proibito di presentarsi dopo essere stato messo fuorilegge.

Kahane fu assassinato a New York nel 1990, ma il suo pensiero politico sopravvive oggi in molti partiti politici israeliani. Non si tratta solo di ‘Potere ebraico’, benché sia già abbastanza cattivo.

I capi di ‘Potere ebraico’ sono Michael Ben-Ari e Baruch Marzel.

Marzel è uno dei coloni israeliani più violentemente radicali della Cisgiordania. Vive nella colonia di Tel Rumeida, nella città occupata di Hebron, ed ha partecipato alla creazione di molte colonie simili, espellendo con la violenza i palestinesi e colonizzando la loro terra.

I sostenitori di Marzel hanno scritto che lui è stato, per 25 anni, “la mano destra del rabbino Meir Kahane”, entrando nel Kach quando era giovane e fungendo da suo portavoce per un decennio.

Ha anche “guidato il fronte militare in Giudea e Samaria (la Cisgiordania), agendo con mano ferma e senza compromessi contro il nemico arabo”, come si è vantato un tempo in un “Curriculum Vitae ed esposizione delle attività pubbliche”, ora cancellato.

Marzel per decenni ha celebrato una commemorazione presso la tomba di Baruch Goldstein – un noto seguace americano di Kahane, che massacrò 29 civili palestinesi nel 1994 nella moschea di Ibrahim a Hebron.

Questi sono i sionisti estremisti che adesso pare che Netanyahu farà entrare nel governo. Netanyahu ha spinto perché ‘Potere ebraico’ venisse integrato in un’ampia coalizione di estrema destra, rendendone molto più probabile la partecipazione nel suo governo di coalizione.

Le lobby israeliane negli Stati Uniti hanno stranamente condannato ‘Potere ebraico’. Per esempio, l’“American Jewish Committee” [Commissione Ebraica Americana] ha affermato che “le opinioni di ‘Potere ebraico’ sono deplorevoli. Non rispecchiano i valori fondamentali che stanno alla base della creazione dello Stato di Israele.”

Quest’ultima affermazione è tuttavia palesemente falsa, considerando il fatto che lo Stato di Israele è stato fondato sulla pulizia etnica di oltre 750.000 palestinesi espulsi dalla Palestina.

A quanto pare, solo la “Zionist Organisation of America” [Organizzazione Sionista Americana] (ZOA) di Morton Klein, apertamente razzista nei confronti dei palestinesi, ha spalleggiato Netanyahu sulla questione di ‘Potere ebraico’.

Secondo il quotidiano liberale israeliano Haaretz, questo è dovuto al fatto che la ZOA ha rapporti finanziari più stretti e diretti con il donatore miliardario sionista americano di estrema destra antipalestinese Sheldon Adelson.

Benché la dichiarazione di ZOA – che di per sé è palesemente razzista– non vada presa del tutto sul serio, bisogna riconoscere che il presidente di ZOA Morton Klein ha ragione quando afferma che la condanna da parte di AIPAC, ADL, AJC e delle altre lobby filoisraeliane è “ipocrita”.

Assomiglia alla condanna fatta a marzo nei confronti di Netanyahu per aver detto che Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini, ma solo per gli ebrei. In entrambi i casi, l’indignazione non si riferisce alla sostanza del razzismo israeliano, ma al fatto che i leader dell’estrema destra israeliana accampano la pretesa e la finzione che Israele non sia uno Stato razzista e che il sionismo non sia razzismo.

Sono menzogne difficili da sostenere quando i tuoi politici seguono come un guru l’uomo che ha asserito che gli arabi se ne debbano andare.

Uno degli slogan popolari tra i coloni israeliani è “Oggi tutti sanno che Kahane aveva ragione”. Non c’era bisogno che Netanyahu togliesse il bando sul partito Kach, perché la maggior parte di ciò che Kahane sosteneva è stata adottata in toto dai principali partiti politici israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Le contraddizioni di una religione atea

Rabkin Y. M., Capire lo Stato di Israele. Ideologia, religione e società, Zambon, Francoforte, 2018.

Recensione di Amedeo Rossi

“Dio non esiste e ci ha promesso questa terra”: con questa caustica citazione di un intellettuale israeliano l’autore, docente di storia all’università di Montreal, in Canada, sintetizza il rapporto contraddittorio tra ideologia e religione che caratterizza il sionismo e l’attuale società israeliana.

Rabkin inizia la sua analisi presentando un’interpretazione che smentisce le basi teologiche su cui si fonda la rivendicazione della conquista della Palestina da parte del popolo ebraico. A differenza di quanto è stato e viene tuttora affermato dai leader sionisti e dai coloni fondamentalisti religiosi, la tradizionale posizione dei rabbini nei confronti della “terra di Israele” è stata a lungo caratterizzata da una sostanziale indifferenza nei confronti di qualunque tipo di rivendicazione territoriale. Anzi, l’idea di riunificare il popolo ebraico in Palestina è stata considerata empia e combattuta. Lo stesso termine “antisionista” è nato tra gli ebrei, sia religiosi che laici. Su questo punto Rabkin insiste con un’analisi approfondita e ricca di citazioni ricavate da testi per lo più religiosi. “Vi era ben poco spazio per la tradizione ebraica nel progetto sionista, che non soltanto aveva avuto origine in ambienti protestanti, ma era appoggiato da individui di origini ebraiche che si professavano atei o agnostici,” ricorda Rabkin nella nota introduttiva. Infatti, il concetto stesso di “esilio”, centrale nell’ideologia sionista, nella fede ebraica “è innanzitutto uno stato di incompletezza spirituale, una perdita di contatto con la presenza divina, più che un allontanamento da un luogo fisico concreto.” Addirittura, la nascita dello Stato di Israele, che per i sionisti è considerata la redenzione dallo sterminio e dalle persecuzioni, per i rabbini è stata e sarà la causa del processo di distruzione del popolo ebraico per aver violato i precetti divini. Alcuni rabbini, come Elhanan Wasserman, erano convinti che la Shoà “non potesse essere altro che un castigo per l’abbandono della Torah così a lungo incoraggiato e praticato dai sionisti.”

Secondo l’autore il movimento sionista, pur facendo frequente ricorso a citazioni bibliche, avrebbe operato una separazione tra il giudaismo (inteso come identità spirituale e religiosa peculiare del popolo ebraico) ed ebraismo, concetto etnico- razziale prima ancora che culturale. Nel libro questo processo di allontanamento viene attribuito storicamente a due processi fondamentali: l’influenza tra gli intellettuali laici assimilati del millenarismo protestante, che già nel 1621 avrebbe preconizzato il ritorno degli ebrei in Terrasanta come propedeutico al ritorno di Cristo sulla terra; il processo di emancipazione fallita degli intellettuali ebrei, che sarebbero stati frustrati dalle politiche restrittive e discriminatorie messe in atto soprattutto nei Paesi dell’Europa centro orientale. Ciò li avrebbe portati ad accogliere il nazionalismo tipico dell’epoca e a considerarlo l’unica soluzione contro le persecuzioni, in particolare nell’impero zarista. Sviluppatosi in un contesto politico autocratico, lontano dal liberalismo che stava conquistando l’egemonia politica nei Paesi occidentali, il sionismo laico avrebbe aderito ad un nazionalismo “Sangue e suolo” con forti connotati autoritari.

Per sostenere quest’ultima tesi Rabkin tratta con maggiore approfondimento la corrente “revisionista” del sionismo (Jabotinsky e Nordau) e ricorda anche le simpatie per i regimi di destra, compreso il nazismo, e per l’URSS di Stalin che hanno caratterizzato le vicende storiche nel sionismo fino alla creazione dello Stato di Israele. Oltre al volontarismo, che ha caratterizzato sia il marxismo-leninismo che fascismo e nazismo, l’autore sostiene ad esempio che “tra il movimento sionista e il nazionalsocialismo esisteva un’affinità concettuale, anche se non politica: entrambi consideravano gli ebrei come un popolo straniero che non si sarebbe mai assimilato e per il quale non vi era posto in Europa.” Nel libro si insiste molto sulla dicotomia tra gli ebrei originari dei Paesi dell’Est Europa, che avrebbero dato vita ad un movimento politico fortemente caratterizzato da autoritarismo e cinismo, e il contesto liberale in cui al contrario si sarebbe sviluppata l’opposizione a questo progetto.

Il libro cita anche vari esempi di opposizione, o quanto meno di critica, al sionismo da parte di intellettuali laici, come Arendt, Freud, Buber, Einstein (che definì Jabotinsky “un pericolo per la nostra gioventù quanto l’hitlerismo lo è per la gioventù tedesca”), oltre naturalmente ai comunisti ed ai socialisti ebrei, come i militanti del Bund, su cui però l’autore ricorda lo sprezzante giudizio di Plechanov, il padre del marxismo in Russia, che definiva i bundisti “sionisti con il mal di mare”. Ma Rabkin si concentra in particolare sull’opposizione religiosa, tra gli haredi (ortodossi e ultraortodossi) e gli ebrei riformati in Europa e negli USA, ricordando ad esempio la tragica vicenda dell’avvocato e giornalista olandese Jacob de Haan. Pur essendo un haredi, aderì al sionismo e nel 1919 si stabilì a Gerusalemme. Resosi conto della situazione, cercò di arrivare a un accordo tra il potere mandatario inglese, i notabili arabi e i coloni ebrei. La sua influenza a Londra e i buoni rapporti con il figlio del re di Giordania potevano minacciare i progetti sionisti, e venne ucciso da sicari dell’Haganah, la milizia armata dei laburisti. Un complice dell’omicidio dopo anni ammise che venne eliminato perché l’eventuale accordo avrebbe minacciato i progetti sionisti.

Oltre alla creazione dello Stato di Israele nel 1948, la guerra dei Sei Giorni del 1967 rappresenta l’altro punto di svolta nei rapporti tra progetto sionista e opposizione religiosa. La vittoria sui nemici arabi “era stata l’opera della divina provvidenza, oppure l’opera di Satana, che crea miraggi di redenzione per fuorviare gli innocenti […] costituiva parte di un susseguirsi ininterrotto di distruzioni originatosi con l’ascesa del sionismo, proseguito con le stragi naziste e destinato inevitabilmente a concludersi con il declino e la caduta.” Questa posizione radicalmente critica è diventata progressivamente sempre più marginale, ed anzi dal ’67 molti gruppi integralisti religiosi si sono sempre più schierati a sostegno di Israele e del processo di colonizzazione dei territori palestinesi occupati. Sono stati quelli che Rabkin chiama i “fautori del nazional-giudaismo” (mentre il sociologo delle religioni Renzo Guolo usa il termine “fondamentalisti nazional-religiosi”) ad essere i primi a fondare colonie e ad essere i più fanatici e violenti contro i palestinesi. Il libro ricorda in particolare l’assassinio di Rabin e l’attentato di Baruch Goldstein a Hebron.

Nonostante questo rapporto contraddittorio e spesso conflittuale con il sionismo, l’autore ammette che le comunità ebraiche del resto del mondo si sono schierate in modo incondizionato dalla parte di Israele. Rabkin spiega questo dato affermando che “per molti, la fedeltà a Israele ha da lungo tempo sostituito il giudaismo come principio cardine dell’identità ebraica. Me nella diaspora, questa fedeltà si indirizza ad uno Stato ideale, persino immaginario, più che allo Stato di Israele esistente.” Questa visione idealizzata non ammette critiche e non dà ascolto neanche alle voci degli israeliani dissidenti. Tuttavia, ricorda l’autore, da sondaggi effettuati sull’argomento risulta che negli USA solo il 40% degli ebrei ritiene che Israele incarni la promessa di dio al popolo ebraico, contro l’82% degli evangelici bianchi. Con questo dato coerente con le argomentazioni del libro, a conferma dell’importanza, anche numerica (Rabkin parla di 50 milioni di “cristiani sionisti” negli USA), delle sette protestanti nel sostegno incondizionato a Israele, si chiude il libro.

In conclusione, si tratta di un lavoro molto approfondito e complesso, in cui la religione e la teologia ebraiche si ripercuotono sulle questioni politiche che segnano le vicende dello Stato di Israele e dell’ideologia da cui è nato. È un saggio che richiede una lettura attenta e competente, molto ricco di spunti di discussione (peccato che delle molte fonti riportate in nota nella bibliografia finale vengano citati solo i libri editi in italiano). Come ha scritto lo storico israeliano Shlomo Sand in una frase citata all’inizio del volume: “Chi crede che il sionismo sia una prosecuzione del giudaismo farà bene a leggere questo libro; e chi crede che Israele sia uno Stato ebraico deve leggerlo assolutamente.”




A proposito di semiti e antisemiti, sionisti e antisionisti

Shlomo Sand

28 febbraio 2019, Investig’action

Se qualsiasi discorso antiebraico nel mondo continua a preoccuparmi, avverto una certa repulsione contro il diluvio di ipocrisia e manipolazione orchestrata da tutti quelli che ora vogliono incriminare chiunque critichi il sionismo.

Sebbene residente in Israele, “Stato del popolo ebraico”, ho seguito da vicino il dibattito in Francia su antisemitismo e antisionismo. Se qualsiasi discorso antiebraico nel mondo continua a preoccuparmi, avverto una certa repulsione contro il diluvio di ipocrisia e manipolazione orchestrata da tutti quelli che ora vogliono incriminare chiunque critichi il sionismo.

Iniziamo con i problemi di definizione. Già da molto tempo mi sento a disagio, non solo per la recente formula in voga: “civiltà giudaico-cristiana”, ma anche davanti all’uso tradizionale del vocabolo “antisemitismo”. Questo termine, come sappiamo, è stato inventato nella seconda metà del 19° secolo da Wilhelm Marr, nazional-populista tedesco che detestava gli ebrei. Nello spirito di quel tempo, coloro che usavano quel termine avevano come presupposto fondamentale l’esistenza di una gerarchia di razze in cima alla quale si trova l’uomo bianco europeo, mentre la razza semita occupa un rango inferiore. Uno dei fondatori della “scienza della razza” fu, come sappiamo, il francese Arthur Gobineau.

Ai nostri giorni, la Storia un pochino più seria non conosce altro che delle lingue semitiche (l’aramaico, l’ebraico e l’arabo, che si sono diffuse nel Vicino Oriente), mentre, al contrario, non conosce nessuna razza semitica. Sapendo che gli ebrei d’Europa non parlavano correntemente l’ebraico, che era utilizzato solo per la preghiera (come i cristiani usavano il latino), è difficile considerarli come semiti.

Bisogna forse ricordare che il moderno odio razziale contro gli ebrei è, soprattutto, un’eredità delle chiese cristiane? Dal quarto secolo, il cristianesimo si è rifiutato considerare l’ebraismo come una religione legittima concorrente, e da lì, ha creato il famoso mito dell’esilio: gli ebrei sono stati esiliati dalla Palestina per avere partecipato all’omicidio del figlio di Dio – pertanto, è opportuno umiliarli per dimostrare la loro inferiorità. Ma occorre sapere che non c’è mai stato un esilio degli ebrei di Palestina, e, fino ad oggi, non troveremo alcun testo di ricerca storica sul tema!

Personalmente, faccio parte di quella scuola di pensiero tradizionale che rifiuta di vedere gli ebrei come un popolo-razza estraneo all’Europa. Già nel 19° secolo, Ernest Renan, dopo essersi liberato del suo razzismo, aveva affermato che: “L’ebreo delle Gallie … era, molto spesso, solo un gallo che professava la religione israelita.” Lo storico Marc Bloch ha specificato che gli ebrei sono: “Un gruppo di credenti reclutati precedentemente in tutto il mondo mediterraneo, turco-cazaro e slavo”. E Raymond Aron aggiunge: “I cosiddetti ebrei, per la maggior parte, non sono biologicamente dei discendenti delle tribù semitiche …”. La giudeofobia, tuttavia, si è sempre ostinata a vedere gli ebrei non come un’importante fede, ma come una nazione straniera.

Il lento declino del cristianesimo come credo egemonico in Europa, purtroppo non è stato accompagnato da un declino della forte tradizione giudeofobica. I nuovi “laici” hanno trasformato l’odio e la paura ancestrale in moderne ideologie “razionaliste”. Possiamo quindi trovare pregiudizi sugli ebrei e sull’ebraismo non solo in Shakespeare o Voltaire, ma anche in Hegel e Marx. Il nodo gordiano tra ebrei, ebraismo e denaro sembrava ovvio tra le élite istruite. Il fatto che la stragrande maggioranza dei milioni di ebrei nell’Europa orientale abbiano sofferto di fame e vissuto in povertà non ha avuto assolutamente alcun effetto su Charles Dickens, Fiodor Dostoevskij, né su una larga parte della sinistra europea. Nella Francia moderna la giudeofobia ha conosciuto bei giorni non solo con Alphonse Toussenel, Maurice Barrès e Edouard Drumont, ma anche con Charles Fourier, Pierre-Joseph Proudhon e anche, per un certo tempo, con Jean Jaures e Georges Sorel.

Con il processo di democratizzazione la giudeofobia ha costituito un elemento immanente tra i pregiudizi delle masse europee: l’affair Dreyfus si è dimostrato un evento “emblematico”, in attesa di essere superato, e di gran lunga, dallo sterminio di ebrei durante la seconda guerra mondiale. È tra questi due avvenimenti storici che il sionismo è nato come idea e movimento.

Va ricordato, tuttavia, che fino alla seconda guerra mondiale, la stragrande maggioranza degli ebrei e dei loro discendenti laici erano antisionisti. Non c’era solo l’ortodossia, forte e organizzata, ad indignarsi all’idea di accorciare i tempi della redenzione emigrando in Terra Santa; anche le correnti religiose più moderniste (riformatori o conservatori) erano fortemente contrarie al sionismo. Il Bund, partito laico dell’Impero russo e poi della Polonia indipendente in cui la maggior parte dei socialisti era di madre lingua yddish, considerava i sionisti come alleati naturali dei giudeofobi. I comunisti di origine ebraica non perdevano occasione di condannare il sionismo come complice del colonialismo britannico.

Dopo lo sterminio degli ebrei d’Europa, i sopravvissuti che non erano riusciti a trovare in tempo rifugio nell’America del Nord, o nell’URSS, addolcirono la loro relazione ostile al sionismo, anche perché la maggior parte dei paesi occidentali e del mondo comunista avevano riconosciuto lo stato di Israele. Il fatto che la creazione di questo stato sia stata effettuata nel 1948 a spese della popolazione araba indigena non disturbò granché. L’ondata della decolonizzazione era ancora agli inizi e non era un dato da prendere in considerazione. Israele fu quindi percepito come uno stato-rifugio per gli ebrei erranti, senza ricovero né focolare.

Il fatto che il sionismo non sia riuscito a salvare gli ebrei d’Europa e che i sopravvissuti desiderassero emigrare in America, e nonostante la percezione del sionismo come un’impresa coloniale nel pieno senso del termine, non altera un dato significativo: la diagnosi sionista riguardante il pericolo che incombeva sulla vita degli ebrei nella civiltà europea del ventesimo secolo (non affatto giudeo-cristiana!), si era rivelata corretta. Theodore Herzl, il pensatore dell’idea sionista, aveva, meglio dei liberali e dei marxisti, compreso i giudeofobi del suo tempo.

Ciò non giustifica, tuttavia, la definizione sionista secondo cui gli ebrei formano un popolo-razza. Né giustifica la visione dei sionisti che la Terra Santa è la patria nazionale sulla quale avrebbero diritti storici. I sionisti hanno tuttavia creato un fatto politico compiuto e qualsiasi tentativo di cancellarlo si tradurrebbe in nuove tragedie di cui sarebbero vittime le due popolazioni che ne sono risultate: israeliana e palestinese.

Allo stesso tempo bisogna ricordarsi e ricordarlo: se non tutti i sionisti rivendicano la continuazione del dominio sui territori conquistati nel 1967, e se molti di loro non si sentono a proprio agio con il regime di apartheid che Israele vi esercita da 52 anni, tutti quelli che si definiscono sionisti continuano a vedere in Israele, almeno nei suoi confini del 1967, lo stato degli ebrei del mondo intero e non una Repubblica per tutti gli israeliani, un quarto dei quali non sono considerati ebrei, di cui il 21% sono arabi.

Se una democrazia è fondamentalmente uno stato che aspira al benessere di tutti i suoi cittadini, di tutti i suoi contribuenti, di tutti i bambini che vi nascono, Israele, al di là del pluralismo politico esistente, è, in realtà, una vera e propria etnocrazia come erano la Polonia, l’Ungheria e altri stati dell’Europa orientale, prima della seconda guerra mondiale.

Il tentativo del presidente francese Emmanuel Macron e del suo partito di criminalizzare oggi l’anti-sionismo come una forma di antisemitismo mostra di essere una manovra cinica e manipolatoria. Se l’antisionismo diventa un crimine, mi sento di raccomandare a Emmanuel Macron di far condannare con effetto retroattivo, il bundista Marek Edelman, che fu uno dei leader del ghetto di Varsavia e totalmente anti-sionista. Si potrebbe anche inviare a processo i comunisti anti-sionisti che, piuttosto che emigrare in Palestina, scelsero di combattere, armi in pugno, contro il nazismo, cosa che ha loro conquistato un posto sul “manifesto rosso” [stampato dai nazisti contro gruppi della resistenza antinazista in Francia composti da persone senza cittadinanza francese, ndt.].

Se intende essere coerente nella condanna retroattiva di tutti i critici del sionismo, Emmanuel Macron dovrà aggiungere la mia insegnante Madeleine Rebérioux, che ha presieduto la Lega dei diritti umani, l’altro mio insegnante e amico Pierre Vidal-Naquet e, naturalmente, anche Eric Hobsbawm, Edward Saïd e molte altre eminenti figure, ora scomparse, ma i cui scritti sono ancora autorevoli.

Se Emmanuel Macron desidera attenersi a una legge che reprime gli anti-sionisti ancora viventi, la cosiddetta futura legge dovrà applicarsi anche agli ebrei ortodossi di Parigi e New York che rifiutano il sionismo, a Naomi Klein, Judith Butler, Noam Chomsky e molti altri umanisti universalisti, in Francia e in Europa, che si autoidentificano come ebrei pur dichiarandosi anti-sionisti.

Si troveranno, naturalmente, molti idioti antisionisti e giudeofobi, come non mancano dei pro-sionisti imbecilli, pure giudeofobi, ad augurare che gli ebrei lascino la Francia e emigrino nello Stato di Israele. Li includerà in questa grande impennata giudiziaria? Stia attento, signor Presidente, a non lasciarsi trascinare in questo ciclo infernale, proprio quando la popolarità è in declino!

Per concludere, non penso ci sia un aumento significativo dell’antigiudaismo in Francia. Questo è sempre esistito, e temo, purtroppo, che abbia davanti a sé ancora giorni buoni. Non ho dubbi, tuttavia, che uno dei fattori che gli impedisce di regredire, in particolare in alcuni quartieri in cui vivono persone immigrate, è precisamente la politica praticata da Israele contro dei palestinesi: quelli che vivono come cittadini di seconda classe all’interno dello “stato ebraico” e quelli che, da 52 anni, subiscono un’occupazione militare e una colonizzazione brutali.

Facendo parte di coloro che protestano contro questa tragica situazione, sostengo con tutte le mie forze il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi e sono favorevole alla “desionizzazione” dello Stato di Israele. Dovrò, in questo caso, temere che la mia prossima visita in Francia mi porti davanti a un tribunale?

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org




Luoghi comuni antipalestinesi

Donald Johnson

10 marzo 2019,MondoWeiss

Ho cercato con Google la frase “luoghi comuni anti-palestinesi”. Quasi tutti gli articoli riguardavano il presunto antisemitismo di Omar [deputata USA di origine somala accusata di antisemitismo per le sue affermazioni contro la lobby filoisraeliana, ndt.].

Allora ho utilizzato la funzione di ricerca avanzata ed ho trovato una conversazione di Yousef Munayyer [scrittore a analista politico palestinese con cittadinanza israeliana e statunitense, ndt.] su “luoghi comuni antipalestinesi”.

Si può affermare con certezza che la preoccupazione per il razzismo contro i palestinesi e per i luoghi comuni antipalestinesi è praticamente inesistente nel dibattito politico prevalente e nei media statunitensi. In quei contesti le persone sembrano inconsapevoli che tali concetti possano esistere, figuriamoci [se hanno] il dubbio che loro stessi possano esserne influenzati. La maggior parte delle persone che scrive o legge giornali come il NYT [New York Times] è probabilmente della classe medio-alta o anche più in alto e vede se stessa come progressista e raffinata. Giudica gli altri in base ai propri standard e non gli viene in mente di poter avere propri punti deboli etici o tabù, alcuni giustificabili e altri no.

Ilhan Omar non fa parte della loro cerchia. Ha detto cose che li hanno turbati, per cui per loro il problema è se lo ha fatto per deliberata cattiveria o si è sbagliata a questo proposito per ignoranza. Il fatto che li abbia turbati due volte in un mese ha provocato un certo scompiglio.

Si trovano progressisti che hanno difeso Omar trattandola come un’immigrata sempliciotta che non sa che questo argomento rappresenta un campo minato. Ciò da parte di persone che vedono se stesse come suoi difensori critici frustrati con molte sfumature, come Michelle Goldberg [editorialista del NYT critica nei confronti di Israele, ndt.].

Anche Nancy Pelosi [presidentessa democratica della Camera dei Rappresentanti USA, ndt.] ha adottato questo atteggiamento.

Potrebbe essere utile pensare a cosa dire agli opinionisti e ai progressisti americani in generale che vivono all’interno di questa campana di vetro, che in modo compiacente presumono di avere la comprensione e l’autorità morale di decidere come dovrebbe essere discussa la questione israelo-palestinese. Anch’io mi trovo in questa campana di vetro e potrei ancora essere sotto la sua influenza. Comunque ecco i miei suggerimenti agli americani riguardo ai luoghi comuni antipalestinesi da evitare quando si scrive dei luoghi comuni antisemiti da evitare. Se uno cade in questi luoghi comuni, corre il rischio di incoraggiare il razzismo antipalestinese. Un sincero progressista non dovrebbe volerlo fare. Potrebbe cadere nell’uso di luoghi comuni antipalestinesi quando pensa che la gente meno colta possa fare una gaffe dicendo qualcosa di antisemita, ma dovrebbe evitare di dirlo. Ovviamente qualcuno o molti dei critici di Omar sono fanatici antipalestinesi che non vogliono cambiare, ma questo articolo è scritto per progressisti che non seminerebbero razzismo se fossero consapevoli di quanto probabilmente lo stiano facendo.

Dovreste leggere la lista di argomenti di Munayyer citata sopra. Poi c’è la mia, senza un ordine particolare.

Luogo comune 1. “Israele ha il diritto di esistere”.

Boom. Siete appena saltati su una mina. È possibile dire ciò senza intendere niente di antipalestinese. Potreste sostenere, come ha fatto qualcuno, che Israele ha il diritto giuridico (come qualunque altra Nazione, indipendentemente dalle sue violazioni dei diritti umani) di esistere all’interno di confini ben definiti senza essere invaso, sebbene potremmo allora continuare su questo argomento delle violazioni dei diritti umani. Ci sarebbe da discutere su tutto questo. Sembra bizzarro, detto da un qualunque americano, parlare della natura inviolabile dei confini, considerando quanto spesso invadiamo o bombardiamo o appoggiamo attacchi terroristici contro altri, e considerando anche la vaga definizione dei confini israeliani. Ma non c’è bisogno di discuterne, perché poche persone la pensano in questo modo.

Quello che la frase effettivamente significa in molti casi è che i palestinesi non hanno il diritto di esistere nella propria patria, quindi non tirate fuori questo argomento o siete antisemiti. La frase intende bloccare qualunque giudizio etico riguardo alla Nakba, o, meglio ancora, non citarla affatto. Si può ricorrere al concetto senza utilizzare proprio questa frase. Si veda, per esempio, il recente attacco di Roger Cohen [opinionista del New York Times, ndt.] contro Jeremy Corbyn, in cui Cohen ha detto di essere orgogliosamente sionista e propone una storia unilaterale del 1948, con tanto di frase tra parentesi sull’invasione degli eserciti arabi (Gli eserciti arabi fecero la guerra contro il compromesso territoriale – dell’ONU – tra palestinesi ed ebrei e persero).

Si dovrebbe dire qualcosa su questa invasione, che avvenne settimane dopo il massacro del 9 aprile [1948] a Deir Yassin e la creazione di 300.000 rifugiati palestinesi, e che nel caso della Transgiordania fu un’invasione di terre che dovevano essere concesse allo Stato palestinese – ma lasciamo perdere.

Qui il vero problema è che Roger Cohen esclude la Nakba [la catastrofe, cioè l’espulsione di buona parte della popolazione palestinese da territorio che diventò lo Stato di Israele, ndt.]. Cohen vuole perorare la causa del sionismo sulla base della minaccia dell’antisemitismo. Se mi chiedesse cosa avrebbero dovuto fare gli ebrei negli anni ’30 di fronte alla minaccia nazista, non saprei cosa rispondergli. La minaccia era reale e divenne un genocidio. Persino i Paesi che si opponevano al nazismo erano permeati in vario grado di antisemitismo. In quel periodo c’era chiaramente una necessità estremamente urgente di un rifugio per gli ebrei.

Ma so che la Nakba è stato un crimine gravissimo, due cose sbagliate non fanno una cosa giusta, ed è impossibile avere una seria discussione sul sionismo senza nemmeno menzionare la Nakba. Qualcuno potrebbe cercare di giustificarla. Il signor Cohen, suppongo, capisce di non poter arrivare fino a questo punto, per cui risolve il problema non menzionandola.

A un certo livello gli argomenti sionisti sono convincenti per i cristiani occidentali a causa del senso di colpa dei cristiani. I cristiani sanno che gli ebrei furono perseguitati per secoli a causa dell’antisemitismo cristiano. Appoggiare il sionismo e ignorare i crimini commessi da Israele rappresenta un modo a buon mercato per fare ammenda. I palestinesi sono diventati i capri espiatori dei crimini altrui. Ovviamente, dato che non sono disposti ad essere capri espiatori, devono essere demonizzati per giustificare il modo in cui sono trattati.

Luogo comune 2. “Israele ha il diritto di difendersi”.

Ciò viene sempre affermato dopo che Israele ha commesso qualche crimine di guerra. I politici americani citano questo come una sorta di mantra. È immorale utilizzare questo luogo comune per giustificare crimini di guerra. Ma invariabilmente, ogniqualvolta Israele uccide civili, si troveranno politici americani dire che Israele ha il diritto di difendersi. Obama lo disse durante la guerra a Gaza nel 2014, in cui Israele si difese uccidendo circa 1.500 civili, compresi 500 minorenni. Morì qualche decina di israeliani, tra cui sei civili. I più importanti politici USA sembrano non avere problemi a chiamare tutto ciò “autodifesa”.

Israele continua a sparare contro manifestanti palestinesi disarmati. Lo scorso anno il New York Times ha pubblicato quattro articoli per difendere questo modo di agire ed ha dato tutta la colpa delle morti ad Hamas.

Due di questi opinionisti, Bret Stephens e Tom Friedman [entrambi noti giornalisti filoisraeliani, ndt.], ora condannano [Ilhan] Omar.

Ci si potrebbe mai immaginare il New York Times che pubblica un articolo che difenda come giustificabile un attacco terroristico palestinese contro civili perché i palestinesi hanno il diritto di difendersi, che dica che la colpa debba cadere interamente su Israele? Quale sarebbe la reazione se lo facesse?

Ci sarebbe una rivolta in tutto il Paese, perché la difesa dell’uccisione di civili israeliani ebrei sarebbe giustamente vista come una vergogna morale, ma l’uccisione di palestinesi è solo un problema di immagine per Israele e in nessun modo una vergogna morale. Se qualcuno lo difende, ha lo spazio sul New York Times per farlo e ciò non desta assolutamente alcun clamore.

Cohen e Goldberg lavorano lì. Ne deduco che a quanto pare è in atto una politica che proibisce agli editorialisti del New York Times di criticarsi a vicenda per nome, o di criticare i direttori.

Ma potrebbero scrivere articoli criticando il cinico disprezzo di alcuni dei sostenitori americani di Israele senza nominare i loro colleghi. Lo faranno? Non lo so.

Luogo comune 3. “Si può criticare Israele duramente quanto si vuole, ma nel farlo bisogna evitare luoghi comuni antisemiti.”

Sono d’accordo. Ma per la maggior parte di quelli che lo dicono, si tratta di vuota retorica. Quante delle persone che lo affermano riguardo ad Omar scrivono effettivamente articoli che condannano l’apartheid o i crimini di guerra di Israele e l’oscenità di quanti li difendono? E cos’ha esattamente detto Omar che sia scorretto riguardo alla lobby [Omar ha detto che la lobby israeliana paga deputati per avere l’appoggio USA, ndt.]? È praticamente certo che parte del delitto di Omar sia stato di criticare la lobby essendo lei musulmana. Ma persino Bret Stephens condanna l’islamofobia.

Bret Stephens, l’onesto critico di Israele e avversario dell’islamofobia, di fatto si spinge ad attaccare quella posizione sullo stesso giornale che pubblica la sua difesa dell’uccisione di manifestanti:

Kamala Harris, Bernie Sanders e Warren [tutti e tre candidati alle primarie democratiche per le elezioni del 2020, ndtr.] hanno espresso la loro posizione con dichiarazioni che hanno dipinto Omar come vittima di islamofobia – cosa che è vera – senza menzionare che anche lei è dispensatrice di fanatismo antisemita – che lei allo stesso modo sicuramente è.

E si noti che nel momento in cui viene fatta un’accusa di antisemitismo, questa prende immediatamente il centro della scena, mentre i diritti dei palestinesi, che già in partenza non sono mai molto importanti, scompaiono a livello di argomento secondario, sempre che vengano citati. Sì, ci viene detto in teoria, si può esprimere qualche critica sulle colonie e su Netanyahu. Non farebbe nessuna differenza per il nostro appoggio verso Israele se semplicemente Israele se ne liberasse, ovviamente. Non lo ha mai fatto. Le persone hanno criticato Israele per decenni e continuiamo ad appoggiarle. É teatro kabuki. Andiamo avanti. Goldberg è arrabbiata per il fatto che repubblicani, che sono molto più intolleranti di Omar (secondo lei Omar un po’ intollerante lo è), possano farla franca.

Questo è il modo sicuro per difendere Omar. Per Goldberg, gli altri democratici, che cercano di scoprire come punire Omar per il suo “antisemitismo morbido” (parole di Goldberg, non la mia opinione), non lasciando che i fanatici repubblicani la passino liscia, sono gli eroi della vicenda. Ci potrebbe essere fanatismo antipalestinese tra i parlamentari di entrambi i partiti che ogni anno elargiscono miliardi a Israele, a prescindere da quanto Israele tratti male i palestinesi? Queste persone dovrebbero essere criticate per la loro ignavia o apatia o fanatismo? Non sembra essere una domanda che qualcuno dei critici di Omar intenda porre. Omar non fa parte del ‘club’, quindi può essere definita fanatica.

A quanto pare, lei [Goldstein, ndt.] ha sostenitori nel Congresso, per cui il Congresso ha deciso di condannare ogni forma di intolleranza tranne quella che quasi tutti praticano, che è essere contro i palestinesi. Qui sembro sarcastico, eppure che lo crediate o no sto cercando di evitare ogni ironia a buon mercato. Molte delle nostre discussioni politiche in America hanno senso se le pensate come il comportamento di gruppi di liceali. Ciò va ben oltre questo argomento, ma sto divagando.

Luogo comune 4. “Cosa dite di X? Come potete essere spinti da altro che non sia l’intolleranza se vi concentrate solo su Israele e ignorate X?”

Non ho obiezioni riguardo al “benaltrismo” in generale. Lo uso anch’io. “Quando è onesto il “benaltrismo” mette in evidenza l’ipocrisia. Uno dei primi esempi noti viene dalla Bibbia quando il profeta Nathan affronta re David a causa del suo complotto per uccidere Uriah e coprire l’adulterio di David con Betsabea.

(É affascinante e toccante attraversare millenni e vedere che David sente una sincera vergogna in nome del povero il cui cucciolo è stato trucidato dal ricco. Il “benaltrismo” funziona meglio con le persone che hanno una coscienza).

Ma quando lo si usa, il “benaltrismo” deve essere appropriato.

Il “benaltrismo” è stato utilizzato parecchie volte contro Omar. In un tweet cancellato e per cui si è scusata, Julia Ioffe [nota giornalista ebrea statunitense di origine russa, ndt.] ha detto che Omar avrebbe dovuto criticare i sauditi. La gente che usa questo argomento sta facendo una supposizione inconsciamente intollerante secondo cui, poiché Omar è musulmana, deve essere un’ipocrita fanatica antisemita che non critica nessuno Stato musulmano.

Tom Friedman ha fatto ricorso a questo argomento, anche se ha utilizzato invece la Siria.

Quando vedo l’accusa di doppia lealtà che arriva da una deputata che sembra essere ossessionata dalle malefatte di Israele come il principale problema del Medio Oriente – non l’occupazione di fatto di quattro capitali arabe da parte dell’Iran, il suo appoggio alla pulizia etnica e il suo uso di gas velenosi in Siria e il fatto che stia distruggendo la democrazia libanese – mi fa sospettare delle sue motivazioni.”

Non poteva citare i sauditi, perché Friedman è stato uno dei maggiori sostenitori in circolazione di bin Salman [principe saudita che di fatto governa il Paese, ndt.] e dopo l’uccisione del suo amico Khashoggi ha detto che il suo assassinio, in linea di principio se non come numeri, è stato peggio della guerra in Yemen, una guerra che ha in grande misura ignorato. Il “benaltrismo” è anche utilizzato in modo singolare con i palestinesi. Non ci sono altri gruppi per i quali, se si sostengono i loro diritti, puoi star sicuro che qualche progressista dirà che dovresti guardare prima ad altri cinquanta gruppi. Il presupposto implicito, in molti casi probabilmente a livello inconscio, è che i palestinesi non contano niente e quindi l’unica ragione per cui a qualcuno possono importare debba essere l’antisemitismo.

Luogo comune 5. “Pioggia di razzi”

Nessuno con un minimo senso di correttezza potrebbe confrontare il lancio di razzi di Hamas con quello che Israele fa a Gaza. Ma non c’è nessun altro cliché più ampiamente utilizzato per descrivere le azioni molto più distruttive di Israele che “Israele ha il diritto di difendersi”.

Non importa neanche chi abbia sparato per primo o se il blocco di Gaza in sé sia una guerra contro la popolazione. Il lancio di razzi di Hamas è per definizione la giustificazione della brutalità di Israele, non importa quale sia stato l’ordine degli avvenimenti.

Luogo comune 6. Apologia di piccoli Hitler.

Ciò in realtà non riguarda la questione dei palestinesi, ma qualche settimana fa Ilhan Omar si è scontrata con Elliot Abrams [attuale consigliere di Trump per l’America latina, ndt.], un noto difensore di alleati centroamericani omicidi e persino genocidi negli anni ’80. Parecchi membri della “comunità” della politica estera sono corsi in difesa di Abrams, compresi alcuni progressisti. È interessante vedere lo scarso interesse che ciò ha creato tra la maggior parte di quanti ora criticano Omar. Se uno fa parte della banda, può in realtà avere una storia di apologia di piccoli Hitler, e ciò non importa.

Si può continuare. Il punto è che abbiamo disumanizzato i luoghi comuni antipalestinesi che sono utilizzati in continuazione e, per quanto ne so, a nessuno dei progressisti più in voga che criticano Omar non è mai avvenuto di scrivere di questi.

Devono uscire dalla loro campana di vetro, voltarsi e vedere come appare da fuori. Secondo me sembra un gruppo di liceali, ma con un potere enormemente amplificato di ostracizzare e intimorire e mettere all’indice, così come di bombardare, invadere, bloccare e occupare. Se fai parte dell’impero americano, forse puoi imparare qualcosa da Ilhan Omar, nata in Somalia, su come questo appare a qualcuno che è nato all’estero.

Intendo questo come una sorta di colpo basso melodrammatico? No. I membri dell’istruita classe di professionisti americani (di ogni religione o di nessuna) devono smettere di pensare a se stessi come gli arbitri morali finali di cosa è giusto o sbagliato.

Guardate cosa ha fatto l’America in Medio Oriente negli ultimi decenni sotto [i governi di] entrambi i partiti. Sembriamo persone che possano dare lezioni a qualcuno?

Donald Johnson è un commentatore fisso di questo sito come “Donald”.

(traduzione di Amedeo Rossi)