Come Israele insegna ai suoi figli a odiare

Asa Winstanley

26 luglio 2019 – Middle East Monitor

Proprio come i bianchi sudafricani, gli ebrei israeliani non rinunceranno mai volontariamente alla loro condizione privilegiata di coloni

L’importante studio accademico dell’intellettuale dissidente Nurit Peled-Elhanan, La Palestina nei libri di scuola israeliani,[vedi la recensione su zeitun.info]  è una lettura essenziale per chiunque voglia comprendere alcune importanti realtà dello Stato e della società israeliani.

In quanto entità di insediamento coloniale, un vero cambiamento della società israeliana non potrà mai provenire dall’interno. Deve essere imposto dall’esterno. Proprio come i bianchi sudafricani, gli ebrei israeliani non rinunceranno mai volontariamente alla loro privilegiata condizione di coloni.

L’apartheid sudafricano è stato sconfitto dalle masse del Sudafrica (con il sostegno di alcuni dissidenti bianchi) e dai loro leader politici, col sostegno di una campagna di solidarietà globale.

Allo stesso modo, l’apartheid israeliano sarà sconfitto dalla lotta palestinese. Questa lotta è sostenuta da una minoranza di dissidenti israeliani e dal movimento internazionale di solidarietà – in particolare dal movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS).

Il libro di Peled-Elhanan è un importante saggio su 17 libri di testo di storia, geografia ed educazione civica adottati nelle scuole israeliane. Come dice nell’intervista che si può vedere in rete (https://youtu.be/pWKPRC-_oSg), la studiosa è arrivata ad alcune nette conclusioni.

Se mai menzionano i palestinesi, i libri di testo ufficiali di Israele danno come insegnamento un “discorso razzista”, che cancella letteralmente la Palestina dalla mappa. Le mappe nei libri di scuola mostrano sempre e soltanto “la terra di Israele”, dal fiume [Giordano, ndtr.] al mare [Mediterraneo, ndtr.].

Spiega come nessuno dei libri di scuola includa “un qualsiasi aspetto culturale o sociale positivo del vitale mondo palestinese: né la letteratura né la poesia, né la storia né l’agricoltura, né l’arte né l’architettura, né i costumi né le tradizioni sono mai menzionati”.

Le rare volte in cui vengono menzionati i palestinesi è in modo straordinariamente negativo e stereotipato: “Tutti [i libri] rappresentano [i palestinesi] secondo icone razziste o in immagini umilianti che li classificano come terroristi, rifugiati o agricoltori arretrati – i tre ‘problemi’ che essi rappresentano per Israele”.

Ne conclude che i libri di testo per bambini “presentano la cultura ebraico-israeliana come superiore a quella arabo-palestinese, la concezione del progressso ebraico-israeliana superiore allo stile di vita arabo-palestinese e il comportamento israeliano-ebraico in linea con i valori universali”.

Il tutto contrapposto ad un racconto stereotipato e fuorviante in merito ai libri di scuola per bambini in Palestina. I libri stampati dall’Autorità Nazionale Palestinese dagli anni ’90 sono spesso dipinti nella demonizzazione anti-palestinese come contenenti le peggiori calunnie antisemite sul popolo ebraico.

Nel complesso, questa narrazione è una oscena montatura istigata da gruppi di propaganda anti-palestinese, come quella gestita dal colono israeliano Itamar Marcus e dal suo “Palestinian Media Watch”.

Il libro di Peled-Elhanan ha demolito in modo esauriente un secondo e complementare mito israeliano: che gli israeliani – in contrasto con i diabolici palestinesi – invece “insegnano ad amare il tuo vicino”, per citare l’ex ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni, criminale di guerra.

Sette anni fa, quando fu pubblicato il suo libro, Peled-Elhanan avvertì che, contrariamente alle speranze liberali di cambiamento dall’interno della società israeliana, le cose si stavano muovendo “sempre più indietro” e che all’epoca i libri di testo erano poco più che “manifesti militaristi”.

Abbiamo tre generazioni di studenti che non sanno nemmeno dove siano i confini” tra la Cisgiordania e il resto della Palestina storica, dice angosciata nella suddetta intervista, filmata nel 2011.

A sette anni dalla pubblicazione del libro le cose sono solo ulteriormente peggiorate.

Lo si può vedere nel video, circolato sui social media questa settimana, dei giovani soldati israeliani che festeggiavano e applaudivano dopo aver fatto saltare le case palestinesi a est di Gerusalemme. Quei soldati sono proprio il prodotto del sistema educativo israeliano.

Poiché la violenta oppressione israeliana di un intero popolo indigeno diventa sempre più evidente nel mondo, l’opinione pubblica si sta progressivamente spostando contro Israele, anche negli Stati Uniti tra gli elettori già sostenitori e la base attivista del Partito Democratico.

Dato che Israele può contare sempre meno sull’appoggio esterno, diventa sempre più importante che lo Stato dell’apartheid si prepari a difendersi e si assicuri che nella prossima generazione di coloni e soldati sia inculcata l’ideologia ufficiale dello stato israeliano: il sionismo.

Il mese scorso è emerso che Israele ha iniziato a richiedere a tutti gli studenti delle scuole superiori – compresi quei palestinesi che sono “cittadini” di seconda classe di Israele – di superare un corso online di propaganda governativa prima di poter partecipare a viaggi all’estero.

Secondo il gruppo palestinese per i diritti umani Adalah, il corso “promuove l’ideologia razzista”, facendo il lavaggio del cervello agli studenti con la leggenda che i palestinesi sono dei selvaggi intrinsecamente violenti.

Adalah riporta una domanda che chiede: “In che modo le organizzazioni palestinesi utilizzano i social network digitali?” La risposta richiesta è “incoraggiando la violenza”.

“Un’altra domanda chiede agli studenti di identificare le origini dell’antisemitismo moderno”, spiega Adalah. “La risposta corretta per l’esame è ‘le organizzazioni musulmane’ e il movimento BDS.”

In questo modo, Israele sta insegnando ai suoi figli a odiare: odiare i palestinesi, odiare i musulmani, odiare gli arabi in generale e odiare chiunque sostenga o si schieri solidale con loro contro l’oppressione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduz. di Luciana Galliano)




Gli accademici israeliani e l’emigrazione

Edo Konrad

24 giugno 2019 972.com

da Nena News

Alcuni documenti appena scoperti rivelano che, nei giorni immediatamente successivi all’occupazione, Israele istituì una “Commissione dei Cattedratici” con il compito di elaborare politiche volte a tenere calmi i palestinesi e a indurli ad abbandonare definitivamente la Cisgiordania e Gaza

Poche settimane dopo aver quasi triplicato la dimensione del territorio sotto controllo israeliano, con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele reclutò squadre di accademici perché individuassero un modo per  indurre i palestinesi ad emigrare dai territori appena occupati.

Secondo i documenti appena scoperti da Omru Shafer Raviv, dottorando del Dipartimento di Storia Ebraica dell’Università Ebraica, nel luglio del 1967 l’allora primo ministro Levi Eshkol riunì una commissione di accademici, tra cui l’illustre sociologo Shmuel Noah Eisenstadt, l’economista Michael Bruno, il demografo Roberto Bachi e il matematico Aryeh Dvoretzky – tutti  caratterizzati da legami con le alte sfere – e li spedì nei territori per analizzare la popolazione appena messa sotto occupazione.

In teoria, l’obiettivo della “Commissione per lo Sviluppo dei Territori Amministrati”, anche detta “Commissione dei Cattedratici”, era quello di creare un ente responsabile della “pianificazione a lungo termine” nei territori occupati. I professori, insieme alle loro squadre di ricercatori, vennero spediti nei villaggi, nelle città e nei campi profughi per intervistare i palestinesi sulle loro vite, bisogni e desideri.

Il secondo obiettivo, spiega Shafer Raviv, doveva essere una miglior comprensione dei palestinesi dei territori occupati, per poter capire come evitare che facessero resistenza al regime militare loro imposto da Israele – che ancora oggi li domina – mentre si cercava il modo di indurli ad andarsene. “Quei primi anni hanno dato forma alle odierne politiche israeliane”, sostiene Raviv.

La minaccia della modernità

Alla fine della guerra, il governo israeliano si era posto obiettivi di ogni sorta nei confronti della popolazione palestinese, primo fra tutti la riduzione del numero di coloro che vivevano nei territori occupati. “Lo si è visto soprattutto a Gaza, dove le autorità credevano di poter dimezzare la popolazione da 400mila a 200mila per far fronte al nuovo problema demografico”.

I palestinesi di Gaza erano per la maggior parte profughi: il governo voleva smantellare i campi profughi, inducendo (i profughi) a lasciare il Paese e a farsi “assorbire” – o a integrarsi – altrove, spiega Raviv. “Questo è il quadro in cui si inserisce la decisione di Eshkol di creare la Commissione dei Cattedratici”.

Nei primi anni dopo l’inizio dell’occupazione, ci fu un’ondata di resistenza popolare, per lo più nonviolenta, con diversi scioperi generali. Esisteva anche una resistenza armata, di gruppi come Fatah, che tentò di suscitare contro Israele una guerriglia in stile vietcong. Un altra missione che il governo israeliano affidò alla Commissione dei Cattedratici fu quella di capire come circoscrivere la resistenza popolare contro il dominio israeliano e scoprire in che misura idee rivoluzionarie come il comunismo o il nazionalismo palestinese  avrebbero potuto diffondersi nei territori occupati.

Per analizzare le loro scoperte empiriche e formulare linee guida politiche, gli accademici facevano riferimento a un quadro teorico chiamato “teoria della modernizzazione”. Tale teoria, secondo cui le società cambiano seguendo un andamento lineare, da “tradizionali” a “moderne”, divenne molto popolare tra gli scienziati sociali in Occidente, ma non ha superato adeguatamente la prova del tempo. I critici la accusano di essere troppo focalizzata sull’Occidente e fondamentalmente incapace di calcolare i complessi cambiamenti interni ed esterni che caratterizzano gruppi e società. Questi punti deboli teoretici avrebbero pregiudicato tutto il lavoro della Commissione.

“I ricercatori fecero una distinzione tra la popolazione giovanile urbana – più orientata al laicismo e all’istruzione e più incline a partecipare alle attività politiche – e la popolazione anziana, molto meno interessata alla politica, più tradizionalista, religiosa e rurale. La prima era considerata una minaccia, mentre lo stile di vita depoliticizzato di quest’ultima andava incoraggiato”, spiega Raviv.

Mentre gli scienziati sociali occidentali utilizzavano la teoria della modernizzazione nel tentativo di modernizzare le società come parte dello sforzo per evitare il comunismo, gli accademici e le autorità israeliane adottarono un approccio inverso.

“Quando si trattò di mettere una popolazione civile sotto controllo militare, la modernizzazione della società palestinese diventò un elemento avverso agli interessi israeliani”, aggiunge Raviv. “Il governo israeliano voleva mantenere tranquilla la popolazione occupata, e pensava che quanto più questa fosse stata modernizzata, tanto maggiore sarebbe stata la minaccia della resistenza”.

Tra i quesiti posti dai ricercatori israeliani ai palestinesi, c’erano anche domande su cosa mangiassero a cena, per capire se classificarli come “moderni” o “tradizionalisti”. Le cene di famiglia con molti commensali, per esempio, erano considerate tradizionali, mentre quelle più intime, con meno persone, erano considerate sintomo di modernità. Tutto ciò aveva delle conseguenze. Chi veniva considerato più “moderno” veniva più facilmente sospettato di essere laico, e quindi più incline a sostenere politiche nazionaliste o rivoluzionarie.

C’erano poi altre domande politiche, soprattutto nei campi profughi: “Vuoi trasferirti in un nuovo Paese? Perché no? Cosa ti convincerebbe a trasferirti? Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione alla questione profughi?”.

Nell’ottobre del 1967, un ricercatore, scienziato politico, si recò al confine di Allenby Bridge per intervistare i palestinesi diretti in Giordania. Molti palestinesi attraversavano sistematicamente il confine tra i territori palestinesi occupati e la Giordania, per lavoro o perché la loro famiglia viveva all’estero.

“Chiese a 500 persone per quale motivo avevano scelto di andarsene – spiega Raviv – e le risposte sarebbero poi state consegnate al governo, in modo da poter meglio comprendere le ragioni per cui la gente se ne andava”.

L’accademico israeliano, che lavorava con l’autorizzazione dell’esercito israeliano, concluse che i palestinesi se ne andavano in Giordania con l’obiettivo di trovare lavoro, o per motivi di ricongiungimento familiare.

”Sotto il dominio giordano c’erano stati pochissimi investimenti in Cisgiordania, così, quando gli israeliani la occuparono, semplicemente non c’era abbastanza lavoro” spiega Raviv. “Dopo la guerra, in Cisgiordania la situazione era ulteriormente peggiorata. Il governo israeliano preferì mantenere alta la disoccupazione, perché si rese conto che questo avrebbe spinto la gente ad emigrare verso posti come la Giordania o il Kuwait”.

Esperti colti alla sprovvista

Shafer Raviv fa parte di un gruppo di accademici israeliani che hanno deciso di focalizzare la loro ricerca sull’occupazione. Mentre i Nuovi Storici, come Benny Morris e Tom Segev, hanno scoperto dettagli della guerra del ’48 e degli anni successivi alla fondazione di Israele che contraddicevano direttamente la narrativa sionista, questo nuovo gruppo di ricercatori si è concentrato sul regime israeliano nei territori occupati.

Lo studio di Raviv è il primo di questo genere, dato che utilizza documenti governativi ufficiali risalenti alla guerra del 1967 e al periodo immediatamente successivo, che solo recentemente sono stati desecretati dall’Archivio Nazionale di Israele e dagli Archivi delle forze armate israeliane.

Fino alla guerra del 1967, la questione centrale del conflitto israelo-palestinese era quella dei profughi palestinesi, che erano stati deportati e fatti fuggire dal territorio poi divenuto Israele, e ai quali Israele impedì il ritorno alle proprie case dopo la guerra del 1948. Con la fine della guerra del 1967, Israele si ritrovò a spadroneggiare sulla maggior parte di quegli stessi profughi, che si erano rifugiati in Cisgiordania e Gaza da ormai quasi vent’anni.

Il governo israeliano, racconta Raviv, considerò l’occupazione del 1967 come un’opportunità per risolvere alle proprie condizioni il problema dei profughi, inducendoli ad andarsene di propria volontà o tramite un accordo con altri Stati arabi. Ma quando iniziarono la loro ricerca sui profughi, gli accademici scoprirono qualcosa che li colse alla sprovvista: ai profughi non interessavano soluzioni politiche che non comprendessero il loro ritorno alla terra d’origine.

“I ricercatori erano convinti che, se i profughi avessero potuto vivere tranquilli in qualche posto come il Kuwait, non avrebbero avuto alcun motivo per preferire una vita di patimenti in un campo profughi di Gaza”, spiega Raviv. “Ora, invece, la maggioranza dei profughi stava rispondendo che “No, noi vogliamo tornare in quella che è diventata Israele”. Il che, ovviamente, era fuori discussione per le autorità israeliane.

Gli accademici si stupirono ancor di più quando scoprirono che i profughi avevano più caratteristiche “moderne” rispetto alla maggior parte della restante società palestinese. “Quando erano stati costretti nei campi, i profughi avevano dovuto abbandonare le loro terre, il che significava che non c’era motivo che i loro figli imparassero a lavorare la terra”, spiega Raviv.

Costretti ad abbandonare lo stile di vita, i costumi e le economie agrarie della “vita rurale”, i profughi avevano iniziato ad investire nell’educazione dei figli, come fece l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di gestire i campi profughi. “Tutto ciò – dice Raviv – ebbe conseguenze a lungo termine: la percentuale di analfabetismo, nei profughi di prima generazione, si aggirava intorno al 70%, ma scese a circa il 7% con la seconda generazione, cresciuta nei campi profughi”.

La Commissione dei Cattedratici si augurò un rafforzamento di questa “tendenza alla modernizzazione” tra i profughi. Credeva che indurre i profughi di seconda generazione a ricevere un’istruzione e a spostarsi in città, luogo in cui poter realizzare i propri sogni, avrebbe forse portato allo smantellamento dei campi. Avevano capito che, con il semplice smantellamento dei campi profughi e spingendo la gente andarsene, si sarebbe arrivati a quella che battezzarono ”resistenza collettiva”.

”Gli accademici compresero che, per risolvere il problema dei profughi, non si poteva dire apertamente ‘risolvere il problema dei profughi’ ”, spiega Raviv. “Bisognava farlo sottovoce, e cos’è di più discreto che la ricerca di opportunità di studio o lavoro all’estero?”.

Lo spirito della Commissione è ancora vivo

Tra le altre indicazioni della Commissione dei Cattedratici, alcune furono inizialmente contro-intuitive nel loro scopo di incoraggiare l’emigrazione e ridurre il numero di palestinesi che vivevano sotto il controllo israeliano.

”Uno dei suggerimenti, adottato dal governo israeliano nel dicembre del 1967, era di permettere che chiunque volesse lasciare i territori occupati potesse tornarci – racconta Raviv – Era qualcosa di rivoluzionario; andava contro la posizione generale israeliana adottata nel 1948, che proibiva il ritorno delle persone che avevano lasciato il Paese. Se gli si dice in anticipo che non possono tornare, non se ne andranno mai, perché farlo significherebbe perdere qualsiasi legame con la loro famiglia e la loro terra”.

La Commissione dei Cattedratici pubblicò le prime anticipazioni nel settembre del 1967, anche se la prima parte della ricerca fu completata in febbraio del 1968, quando le conclusioni vennero consegnate al primo ministro Eshkol e la Commissione tenne un certo numero di consultazioni con i funzionari del governo militare.

In un documento di parecchi anni dopo, sono elencate almeno 30 ricerche su una gamma di tematiche come ad esempio la popolazione cristiana nei territori occupati, l’economia di Nablus e l’ipotesi di esportazione di beni israeliani in Libano. Questi progetti di ricerca continuarono per un bel po’, fino alla metà degli anni ‘70: a quel punto, la traccia cartacea si perde.

Shafer Raviv sostiene che, anche se non possiamo avere la certezza che le raccomandazioni della Commissione dei Cattedratici siano mai state trasformate direttamente in politiche di governo – dal momento che le autorità tennero in considerazione anche altre osservazioni, come per esempio le opinioni dello Shin Bet e dell’esercito – lo spirito della loro ricerca ha sicuramente influenzato chi aveva il potere decisionale.

Secondo lui, “non c’è prova che le raccomandazioni siano state adottate unicamente sulla base di ciò che la Commissione aveva proposto. Ma è evidente il legame tra raccomandazioni e politiche di governo. Se ne può notare un primo esempio nella decisione del governo di incentivare l’emigrazione palestinese”.

(Traduzione di Elena Bellini)




Il prezzo pagato dai mizrahim per fare il militare nell’esercito israeliano

Orly Noy

29 maggio 2019 – +972 Magazine

I mizrahim sono costretti a fare il lavoro sporco dell’occupazione, scontrandosi faccia a faccia con i loro sottoposti palestinesi in Cisgiordania. Le cose non dovrebbero andare per forza così.

È difficile sapere con certezza che tipo di considerazioni siano alla base della crisi crescente tra il primo ministro Benjamin Ntanyahu e Avigdor Liberman. Una crisi che potrebbe portare alle elezioni anticipate se i due non dovessero riuscire a formare una coalizione insieme.

Ma c’è qualcosa di quasi ridicolo nel fatto che i due non riescano a trovare un accordo su un problema che, sotto tutti i punti di vista, è uno dei più grandi inganni collettivi del nostro dibattito pubblico: la coscrizione forzata degli israeliani ultraortodossi.

La truffa parte dal concetto che si possa persino avere il coraggio di definire quello israeliano come un “esercito del popolo” grazie alla coscrizione forzata dei suoi cittadini. La parola “popolo” naturalmente si riferisce ai soli cittadini ebrei di Israele: i palestinesi cittadini di Israele non vengono comunque presi in considerazione.

Ma persino tra gli israeliani ebrei la coscrizione forzata è lungi dall’attirare consensi. Come afferma il professor Yagil Levy nei suoi studi sulla relazione tra esercito, politica e società israeliani, l’obbligo all’arruolamento degli ultraortodossi, la maggioranza dei quali si rifiuta di servire le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.], rappresenta il crollo della definizione stessa di “armata del popolo”. E mentre tale termine si svuota sempre più di ogni significato reale, la pretesa incessante di arruolare tutti gli ebrei israeliani ha fatto fare carriera a una quantità di politici cinici e opportunisti.

Non c’è motivo dunque per non estendere il discorso anche al tema della coscrizione forzata degli altri gruppi della società israeliana, inclusi i mizrahim (ebrei provenienti dai paesi arabi e/o musulmani).

Assieme alla menzogna dell’“armata del popolo”, l’etica militaristica di Israele ha aiutato a rafforzare l’illusione del ruolo dell’esercito come grande strumento livellatore della società israeliana, come un vero e proprio biglietto d’ingresso all’israelianità. Ma l’inseguimento costante dei mizrahim – che comincia nei quartieri dimenticati e nelle città in sviluppo nella periferia del paese e continua con il fatto che molti adolescenti mizhrai vengano mandati a studiare negli istituti professionali – prosegue anche nelle IDF.

Lì, molti vengono mandati a prendere parte alle operazioni di polizia e ai combattimenti contro i palestinesi nei territori occupati, mentre gli israeliani di classe medio-alta tendono più a servire negli ospedali o nelle unità speciali. Così come per le opportunità di istruzione, nell’esercito i mizrahim vengono inviati nelle zone periferiche a fungere da forza lavoro in nero, agli ultimi posti della gerarchia. Tutto ciò si è solo intensificato con il blitz organizzato dalla comunità nazional-religiosa per la conquista delle più alte cariche dell’esercito.

È vero che nelle IDF i mizrahim hanno una maggiore possibilità di mobilità sociale che consente loro di salire la scala sociale fino ai vertici, se confrontato ad altre istituzioni legali o politiche di Israele, ma questa è solo l’altra faccia della stessa tragica medaglia: è un sistema in cui possibilità di ascesa sociale sono inestricabilmente legate alla de-arabizzazione dell’identità mizrahi, adottando nel frattempo come modello l’immagine del mista’arev (soldati travestiti da arabi). Questa è in parole povere la storia dei mizrahi vis a vis con il sionismo da almeno settant’anni: oppressione e discriminazione a causa della componente araba dell’identità mizrahi, con la promessa che, disfacendosi di ogni traccia di arabicità fino a sviluppare un ardente odio verso gli arabi, le loro chance di entrare nel giro dei privilegiati aumentino.
Questa dinamica distruttiva è stata una parte significativa del processo grazie al quale un’ampia fetta della comunità mizrahi ha abbracciato politiche aggressivamente di destra (
a cui hanno contribuito anche i disastri commessi dalla sinistra israeliana). Ma nell’esercito, questa dinamica prende una piega ancora più tragica: l’arruolamento come arma di autodistruzione dell’identità mizrahi. Per esempio, tale tattica si riscontra nella adozione dei mizrahi come mita’arevim, militari che vengono spediti nei territori occupati e usano il loro aspetto di arabi per fare la guerra agli arabi, usati dunque contro la loro stessa arabicità.

Questa tendenza può essere anche vista nell’uso della lingua araba nell’esercito. Come sottolineato dal dott. Yoni Mendel in una petizione degli israeliani mizrahi contro la legge “Israele Stato-Nazione degli Ebrei”, l’arabo in Israele è stato sottoposto a un processo di “trasformazione in questione di sicurezza”: deprivandolo della sua legittimità culturale, l’arabo è stato portato via a tutti quegli ebrei mizrahi che desideravano distinguersi dalle connotazioni negative che erano state cucite loro addosso. Nel frattempo, all’arabo era stata conferita legittimità solo in contesti di “sicurezza nazionale” – come i problemi di intelligence o di hasbara. Ovvero, i mizrahim distruggono la loro stessa identità araba utilizzando l’arabo allo scopo di combattere “l’altro arabo”.

L’attacco all’identità mizrahi all’interno dell’esercito è ormai un processo inevitabile nell’ambito di quel sistema. Il tentativo di provare e mettere in pratica un cambiamento dall’interno dell’esercito stesso significherebbe lavorare per assicurare ai soldati mizrahi di poter fare la scalata sociale fino a sedere in quelle stanze con l’aria condizionata da cui si inviano a fare il lavoro sporco coloro che si trovano in una posizione inferiore nella piramide sociale. Gli ultraortodossi capiscono bene che l’arruolamento corromperà l’identità e i valori fondamentali della loro comunità, e stanno quindi conducendo una strenua battaglia contro questo. Non c’è alcun motivo per cui i mizrahim non dovrebbero pensarla allo stesso modo su cosa la coscrizione provochi sulla loro comunità.

Questo articolo è stato inizialmente pubblicato in lingua ebraica su Local Call.

(Traduzione di Maria Monno)




Israele dipende dall’antisemitismo

Asa Winstanley

1 giugno, 2019 – Middle East Monitor

Mentre scrivo, l’ultimo episodio della “crisi laburista legata all’antisemitismo” sta innestando un prevedibile effetto negativo sui social e sui mezzi di informazione.

Pete Willsman, un membro dell’ala sinistra dell’Esecutivo nazionale per la gestione corrente del Partito Laburista, secondo alcune testimonianze, si è visto sospendere l’iscrizione al partito dopo che una registrazione audio segreta -apparentemente della sua voce- era stata realizzata da radio LBC [radio commerciale con sede a Londra, ndtr.].

Nella registrazione, Willsman sembra affermare la verità banale e ovvia che l’ambasciata di Israele sia stata coinvolta nel diffondere la favola dell’”antisemitismo laburista” come un’arma contro Jeremy Corbyn e più in generale contro il partito laburista.

L’ultima testimonianza del triste stato della “sinistra moderata” del Partito Laburista è il fatto che alcune delle sue più influenti giovani voci abbiano ripetutamente messo in pericolo veterani come Willsman per placare la lobby israeliana e la destra interna. Ma naturalmente tentativi del genere sono destinati a fallire.

Ogni volta che questo succede, io lo condanno su Twitter. Una delle reazioni che leggo da qualcuno nelle risposte, in tempi come questi, è che le bugie e le esagerazioni di Israele e dei filoisraeliani relativamente all’antisemitismo siano un gridare al lupo e che un giorno, quando il vero “lupo dell’antisemitismo” busserà alla porta, nessuno ci baderà.

C’è molta verità in questa affermazione. Credo che la campagna di calunnie, lanciata da tempo, relativamente a un’inesistente “crisi” di antisemitismo nel Partito Laburista abbia condotto a qualche effettivo caso di antisemitismo, come ha ripetutamente denunciato il gruppo Voce ebraica [gruppo di ebrei iscritti al partito e contrari alla criminalizzazione della solidarietà con i palestinesi, ndtr.], ala sinistra del Partito.

D’altronde, secondo me, questa reazione fraintende fondamentalmente una cosa – suppone che le preoccupazioni espresse dal governo israeliano per l’antisemitismo siano reali e sincere. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Israele, infatti, così come sull’inganno dell’anti-semitismo dove esso non c’è, fa sempre di più affidamento su casi reali di antisemitismo e dipende da ciò per consolidare il sostegno politico internazionale. Questa dinamica, apparentemente un controsenso, riguarda più lo scorso decennio che prima, ma ha una lunga storia.

Come ha spiegato Joseph Massad, un importante intellettuale e accademico palestinese, il sionismo – l’ideologia ufficiale di colonialismo d’insediamento dello Stato di Israele- è, per sua stessa definizione, un’ideologia fondamentalmente anti-semita: “Se ci fosse una definizione di anti-semitismo da adottare da parte del Partito Laburista (o di qualche altro partito o istituzione) nel Regno Unito oggi, essa dovrebbe includere la condanna di espressioni anti-semite e colonialiste come: ‘Israele è uno Stato ebraico’ o ‘Israele è lo Stato del popolo ebraico’ o ‘Israele parla per gli ebrei’ o colonizzare la terra dei palestinesi è un ‘valore ebraico’.”

Come Massad ha anche precisato, il sionismo ha una lunga e vergognosa storia di collaborazione e di contatto con ideologie tra le più anti-semite e violentemente razziste del mondo, includendo anche il governo nazista di Hitler nel caso di una milizia sionista di destra (uno dei cui leader divenne un primo ministro israeliano) [si riferisce all’Irgun e al suo capo, Menachem Begin, ndtr.].

Ciò risale allo stesso fondatore del pensiero sionista, Theodor Herzl, che scrisse in modo preveggente che “i governi di tutti i Paesi flagellati dall’antisemitismo saranno fortemente interessati a sostenerci per farci ottenere la sovranità che vogliamo” nel nostro progetto coloniale. Analogamente nei suoi diari prevedeva che “gli antisemiti diventeranno gli amici più affidabili e i Paesi antisemiti i nostri alleati.”

Come Massad spiega: “Questi non sono lapsus o errori, ma piuttosto una strategia a lungo termine che il sionismo e Israele continuano a mettere in campo a questo fine ogni giorno.”

E così la previsione di Herzl si è avverata. Oggi i partiti politici fascisti e anche neo-nazisti che hanno una rinascita elettorale in tutta Europa sono forti sostenitori di Israele.

Yair, il figlio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha recentemente posato per una foto postata su Twitter di lui sorridente che stringe la mano a Viktor Orban, il primo ministro antisemita ungherese che una volta ha lodato il collaboratore ungherese dell’Olocausto hitleriano come un “eccezionale statista”.

Rafi Eitan, un ex importante ufficiale del Mossad, pur essendo lui stesso stato responsabile della cattura del leader nazista Adolf Eichmann nel 1961, lo scorso anno ha lodato il risorgente movimento neonazista tedesco “Alternativa per la Germania” (AfD). “Vi auguro con tutto il mio cuore di essere abbastanza forti da far finire la politica di apertura delle frontiere” ha detto Eitan nel video con grande entusiasmo, invitando AfD a “fermare l’ulteriore islamizzazione del Paese e a proteggere i cittadini dal terrorismo e dal crimine. In Israele, in Germania, in Europa. Facciamolo insieme!”

Oggi Israele sta fornendo all’antisemitismo di gruppi politici storicamente fascisti e nazisti in tutta Europa un servizio di riabilitazione, come fosse una lavanderia. Tutto ciò di cui i gruppi in questione hanno bisogno di fare è dichiarare il proprio amore per Israele e assicurarsi il sostegno di Netanyahu.

Molto recentemente in Germania il parlamento ha ingiustamente dichiarato antisemita il movimento per Boicottaggio, Disvestimento e Sanzioni (BDS) con un voto non vincolante sostenuto da tutti i principali partiti politici.

L’AfD non ha sostenuto la mozione – ma solo perché ha ritenuto che essa sia stata troppo indulgente con la campagna per i diritti umani in Palestina. Ha portato avanti la sua mozione che avrebbe completamente bandito il movimento BDS.

Nelle loro perverse ideologie parallele, sia antisemiti che sionisti sono d’accordo che gli ebrei sono “alieni” e non dovrebbero effettivamente stare in Europa. Devono, piuttosto, essere spinti a diventare coloni negli insediamenti israeliani che attualmente occupano la Palestina storica.

Il movimento BDS, invece, è un movimento dichiaratamente anti-razzista, che rigetta ogni fanatismo, compreso l’antisemitismo. Da che parte state voi?

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Laura Forcella)




Eurovision e hasbara

Sole, gay, misoginia e shawarma: la promozione dell’Eurovision ancora un altro fallito tentativo israeliano di legittimazione

Denijal Jegić

13 maggio 2019- Mondoweiss

 

La competizione musicale dell’Eurovision di quest’anno avrà luogo a Tel Aviv. L’evento di musica pop potrebbe essere una grande opportunità propagandistica per l’ultima colonia europea. Gli ultimi tentativi di Israele di promuovere se stesso rivelano tuttavia ancora una volta la sua convulsa lotta per legittimarsi. L’hasbara [propaganda, ndtr.] finanziata dal governo continua a riciclare gli stessi miti colonialisti, cercando di nascondere l’appartenenza al colonialismo d’insediamento e la cancellazione degli indigeni dietro a immagini colorate di sole, mare, bandiere arcobaleno e shawarma [kebab, ndtr.].

L’emittente televisiva pubblica KAN ha diffuso un video sulle reti sociali, con l’intento scontato di pubblicizzare la  competizione canora dell’Eurovision e di promuovere Israele come destinazione turistica.

Il filmato è tristemente emblematico del più generale approccio di Israele verso il pubblico occidentale. Mostra Lucy Ayoub, una degli ospiti dell’Eurovision, ed Elia Grinfeld, un dipendente di KAN, che cantano e ballano, cercando disperatamente di attirare l’attenzione di due turisti europei bianchi che sembrano scettici. Lucy ed Elia guidano i due turisti in un teatro, obbligandoli a “unirsi a questo rapido indottrinamento”, in modo che possano aiutarli “ad avere delle fantastiche vacanze”. Quel momento potrebbe implicare che i creatori del video siano consapevoli di quanto possa essere estenuante per il mondo esterno il carattere ridicolo dell’hasbara.

“So proprio quello che avete sentito, che questa è una terra di guerra e occupazione,” dichiara Elia. “Ma abbiamo molto più di quello,” aggiunge Lucy. Riflettendo le pratiche del governo israeliano di perpetuare fisicamente la guerra e l’occupazione cercando al contempo di nascondere a parole quella politica, il video sostituisce in modo sonoro e visivo la situazione palestinese con il benessere sionista.

Quello che segue è un riciclaggio dei noti argomenti dell’hasbara, di “un piccolo Paese con un grande orgoglio” e della “Nazione delle start-up” altamente tecnologica. L’orrore delle gerarchie in base alla razza è celato, in quanto Israele viene presentato come un mosaico multietnico. Lucy, figlia di madre ebrea israeliana e di padre palestinese cristiano, usa le sue origini “arabe” per mascherare i soprusi di Israele contro i palestinesi, proclamando: “Sono araba, sì, alcuni di noi vivono qui,” senza menzionare che la maggior parte di loro è stata espulsa. Quando Elia aggiunge che è scappato dalla Russia, Israele appare come un rifugio per le minoranze perseguitate. Dopo tutto, come propagandano Lucy ed Elia, Israele è “la terra del miele”, “la terra del latte”, e “sempre soleggiato.”

Nessuna propaganda israeliana sarebbe completa senza utilizzare il pinkwashing [il ricorso alla presunta tolleranza verso gli omosessuali per mascherare l’oppressione dei palestinesi, ndtr.], ovvero l’occultamento retorico da parte di Israele della violenza del colonialismo di insediamento dietro l’auto-glorificazione per il suo presunto progresso riguardo ai diritti LGBT+.

In generale l’hasbara si affretta a mostrare una coppia di uomini gay che si baciano in pubblico, per far pensare al proprio pubblico che include le minoranze e, al contempo, dipingere gli arabi e i musulmani come intrinsecamente omofobi (ciò è in linea con il luogo comune orientalista secondo cui i palestinesi non meritano la libertà perché Hamas ha ucciso omosessuali). Quindi è assolutamente prevedibile che nel video di KAN due uomini dimostrino affetto in pubblico davanti a una bandiera arcobaleno a Tel Aviv. Elia canta che “i gay si abbracciano per strada”, nel caso ciò non fosse ovvio. La prassi israeliana di pinkwashing appare notevolmente omofobica. Poiché la popolazione LGBT+ sta lottando per uguali diritti ed è ancora perseguitata in molte parti del mondo, è a dir poco offensivo esibire gay e utilizzarli come una copertura per la persecuzione dei palestinesi. Anche il fatto che Israele abbia preso di mira in modo strategico palestinesi

non–eterosessuali è stato ben documentato.

Il video include anche stereotipi antisemiti: “Molti di noi sono ebrei, ma solo alcuni sono taccagni.” Fa riferimenti misogeni umilianti per le donne, quando Elia chiede ai turisti di “godersi le nostre care bitches [puttane, ndtr.]” invece delle beaches [spiagge, ndtr.].

Il video promuove il furto coloniale di cucina, cultura, storia e geografia palestinesi. Allo spettatore viene detto che c’è “buon shawarma” in tutto Israele, e il Mar Morto diventa israeliano in un luogo di villeggiatura orientalista, quando  Lucy sta seduta su un cammello coperto da stoffe colorate.

Gerusalemme viene definita “la nostra amata capitale” che, come apprende lo spettatore, è la sede dello “Yad Vashem” [il museo dell’Olocausto, ndtr.] e dei luoghi santi. Lucy ed Elia camminano per la Città Vecchia, che è sottoposta a un’occupazione illegale da oltre mezzo secolo. Infine, mentre Lucy ed Elia stanno ballando e dicendo agli spettatori “Vi stiamo aspettando”, Elia indossa una maglietta che dice “Amo Iron Dome” [il sistema antimissile israeliano, ndtr.], in supporto al complesso militare-industriale di Israele.

È come se i palestinesi e la Palestina non fossero mai esistiti. Non solo non sono nominati neanche una volta, la loro storia e la loro cultura sono sostituiti da una fragile narrazione della comunità dei coloni basata su un esclusivismo genocida.

Questo scopo di indottrinamento degli stranieri con miti colonialisti è centrale anche in un sito web che è stato messo in piedi dal governo israeliano. Intitolata boycotteurovision.net, la pagina è un ovvio tentativo di prendere di mira i sostenitori del movimento BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndtr.]. Descrivendo Israele come “Bellissimo. Diverso. Sensazionale” (BDS), il sito consiste in testi e video di propaganda, comprese immagini di coppie gay, luoghi sacri di Gerusalemme e turisti bianchi. Come una guida di viaggio poetica, la pagina rende romantico Israele come un “Paese incantevole”, che “offre magnifiche vedute, spiagge dorate, panorami verdeggianti, vasti deserti, cime innevate e città dinamiche immerse nel valore millenario di straordinari siti storici e culturali.”

Il lettore apprende inoltre che “in Israele tutta la gente, ebrei e arabi, musulmani e cristiani, religiosi e laici, così come LGBT, vive insieme in un bastione di coesistenza nel cuore del Medio Oriente.” Tuttavia la realtà è l’apartheid e un’oppressione strutturale dei palestinesi musulmani e cristiani, delle persone di colore ebree e non e dei dissidenti politici indipendentemente dalla loro identificazione etnico-nazionale o religiosa. Ciò non ha niente a che vedere con la coesistenza.

Il “bastione” di pace e coesistenza è un tipico mito orientalista che sfrutta le convinzioni degli occidentali sull’inferiorità culturale delle civiltà islamica e araba. Nel luogo comune di un Medio Oriente presuntamene pericoloso, Israele, in quanto colonia europea, serve come simbolo di una libertà continuamente minacciata che deve essere salvaguardata.

Il sito web fa ricorso anche al mito orientalista di Israele “che fa fiorire il deserto e lo trasforma in un’oasi di tolleranza.” Questo argomento sionista non solo ignora la presenza storica dei palestinesi. Negandone completamente l’esistenza, la fantasia di un deserto vuoto è servita come una fondamentale giustificazione per la colonizzazione della Palestina.

La riscrittura nel sito web della storia palestinese include l’affermazione che “Israele, nella sua breve storia, ha assorbito più immigrati di qualunque altro Paese, con nuovi arrivati da più di cento Paesi.” La Nakba, la distruzione dei villaggi palestinesi e la violenta espulsione della maggioranza della sua popolazione rimangono assenti. Invece al lettore viene detto che “la vita in Israele è innovativa, e allo stesso tempo ancora legata alla sua ricca storia. Israele è una destinazione piena di cordialità, disponibilità e amore che lascerà a chiunque la visiti ricordi (e amici!) per tutta la vita.”

Ovviamente ciò non riguarda i milioni di rifugiati palestinesi della diaspora, i palestinesi profughi interni a Gaza, o i palestinesi della Cisgiordania che non hanno il permesso di tornare nel territorio da cui sono stati espulsi nel 1948, mentre Israele continua a violare numerose risoluzioni ONU.

I tentativi propagandistici di Israele riguardo all’Eurovision sono parte integrante della sua cancellazione discorsiva di ogni cosa palestinese. E mentre la parola “Palestina” non viene pronunciata in nessuno dei colorati video e immagini, il linguaggio iperbolico, la necessità di verbalizzare le cose più semplici e di pregare letteralmente i turisti a visitarlo rivela che c’è qualcosa di inquietante dietro la facciata colorata dell’hasbara.

L’Eurovision è un semplice esempio di come Israele stia disperatamente cercando di guadagnarsi legittimità attraverso un’ostinata insistenza su vecchi miti e il quasi comico esaurimento degli stessi argomenti.  Poiché il sionismo è un moderno movimento colonialista che è incompatibile con i diritti umani universali e con le leggi internazionali e Israele non ha alcuna giustificazione morale o giuridica per la colonizzazione della Palestina e per i soprusi genocidari contro i palestinesi, il regime israeliano continuerà a avere disperatamente bisogno di una propaganda assurda nei suoi sforzi di raccontare al mondo esterno, e probabilmente a se stesso, una versione modificata della storia, cercando di dimostrare di avere una qualche legittimità.

 

Su Denijal Jegić

Denijal Jegić è uno studioso con un post-dottorato. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Istituto di Studi Americani Transnazionali all’università Johannes Gutenberg di Magonza.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un Stato democratico e laico

Ofra Yeshua-Lyth: “La sola soluzione in Medio Oriente è uno Stato democratico e laico”

La giornalista rilascia a MEE le sue riflessioni sul sionismo e sulla società israeliana, che secondo lei non troverà la propria salvezza che in uno Stato unico ed egualitario per tutti i suoi cittadini

 

Di Hassina Mechaï

Martedì 7 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Perché uno Stato ebraico non è una buona idea? La tesi sottesa al libro di Ofra Yeshua-Lyth, giornalista e scrittrice israeliana, è semplice: la situazione attuale in Israele – occupazione, militarizzazione della società, mescolanza di nazionalismo e religione – non è affatto una rottura con il sionismo o una deviazione dalla sua dinamica.

Nel suo libro, con prefazione dello storico israeliano Ilan Pappé, l’autrice, che è stata corrispondente a Washington e in Germania di “Maariv”, uno dei principali quotidiani israeliani, ne deduce che la sola soluzione a quello che viene definito (in modo errato, secondo lei) il “conflitto israelo-palestinese” è uno Stato unico laico e democratico. Un incontro.

 

Deviazione dal sionismo o logica intrinseca

Durante gli anni di militanza in “Shalom Arshav” (Pace Ora [movimento pacifista israeliano contrario all’occupazione, ndtr.]), Ofra Yeshua-Lyth ha osservato una sinistra invischiata in illusioni pericolose. Questa sinistra, al potere dal 1948 al 1977, ha potuto credere e far credere che sionismo, ebraismo e democrazia potessero stare insieme in un vero Stato di diritto. E che il solo ostacolo fosse l’occupazione.

La soluzione sarebbe dunque stata la pace in cambio della restituzione di questi territori occupati. Un’equazione semplice, ovvero semplicistica per l’autrice, che pensa che l’occupazione sia la conseguenza e non la causa della situazione.

“La sinistra israeliana crede che il solo problema sia l’occupazione, che sia sufficiente mettervi fine e che tutto si sistemerà. Che Israele diventerà un “buon piccolo Israele”, un piccolo Stato per gli ebrei. Ma il problema è più profondo e riguarda l’idea stessa di sionismo.” Il fallimento di quello che è comunemente chiamato “il campo della pace” sarebbe dunque ineluttabile. “La sinistra illuminata vorrebbe togliere gli ebrei dalle zone abitate in maggioranza da non ebrei, mentre la destra nazionalista spera di cacciare i non ebrei dai territori che brama”, riassume l’autrice.

Per lei e per molti israeliani la vera rottura c’è stata con la seconda Intifada. “Confesso di aver creduto ad Oslo. Anche degli amici palestinesi. Ma altri, molto pochi, hanno visto che quegli accordi non erano che menzogne. Tuttavia la seconda Intifada ha scosso le due società. Israele è diventato antipalestinese in misura senza precedenti.

Gli israeliani rifiutavano di vedere e di capire la collera dei palestinesi. Per loro ciò significava che non avevano interlocutori. Per altri, ciò ha giustificato sempre più l’idea di uno Stato ebraico da una riva all’altra [dal Mediterraneo al Giordano, ndtr.]”, aggiunge.

Secondo Ofra Yeshua-Lyth la soluzione dei due Stati ha lasciato la società israeliana indifesa davanti alle proprie contraddizioni, alle sue linee di frattura. Gli strati di immigrazioni successive coesistono più di quanto non vivano insieme. Il sionismo non sarebbe dunque riuscito a unire la società?

“Ciò che minaccia il sionismo non è l’esplosione, ma l’implosione. Il sionismo non è riuscito a costruire una società unificata. La sola cosa che la rende coesa è la paura, l’idea che Israele sia sempre minacciato e che lo Stato e l’esercito debbano essere forti. L’odio e la paura sono delle emozioni molto forti che fanno da collante.”

Ofra Yeshua-Lyth, lei che è nata da quella che potrebbe essere definita una “coppia mista”, lo può testimoniare. Sua madre era un’ebrea russa e suo padre un ebreo yemenita. Se “gli ebrei askenaziti [dell’Europa centro- orientale, ndtr.] hanno imparato a dissimulare – ed alcuni sono realmente riusciti a superare – la ripugnanza per l’atmosfera araba e medio-orientale”, la realtà del razzismo subito dagli ebrei arabi emigrati in Israele rimane concreta.

“Questa cultura doppia mi ha resa sensibile alla questione dei diritti dei palestinesi. Negli anni ’80 il molto influente movimento “Shalom Archav” sosteneva che la democrazia israeliana non potesse essere perfetta perché gli ebrei mizrahim (orientali) lo impedivano. Si diceva di loro che non capissero la democrazia. Anche se tutti erano ebrei, le classi sociali continuavano a essere divise tra ashkenaziti e mizrahi,” spiega a MEE.

 

La società israeliana tra religione e nazionalismo

Il movimento sionista si iscrive nella dinamica nazionalista laica del diritto dei popoli a disporre di se stessi. Theodore Herzl voleva lasciare i rabbini nelle sinagoghe e confinare i militari nelle caserme.

“Herzl non era credente. Ben Gurion, Sharon e Netanyahu non mangiano kosher [cibo ammesso dalla religione ebraica, ndtr.]. Si ignora che Ben Gurion ha potuto sostenere l’idea che i palestinesi attuali discendano dagli ebrei convertiti al cristianesimo o all’islam”, sottolinea Ofra Yeshua-Lyth, che non è cresciuta in una famiglia religiosa e ha sposato un non ebreo.

Eppure l’attuale situazione israeliana è l’esatto contrario: i militari e i religiosi fanno parte del potere e plasmano la vita degli israeliani fin nell’intimità. “La società cosiddetta laica nella quale sono cresciuta non si è mai separata davvero dal passato religioso tradizionale,” nota Ofra Yeshua-Lyth. Fin dalle origini del sionismo si sono dovute tenere insieme le diverse stratificazioni d’immigrazione. La soluzione è stata trovata in questa religione che è servita, secondo l’autrice, da “collante” nazionale.

Così in Israele i problemi familiari sono discussi davanti ai tribunali rabbinici. “La religione ha generato un groviglio ideologico, civico e teologico a spese del buon senso. Milioni di israeliani vi sono rimasti intrappolati e non osano liberarsene”, osserva la scrittrice. Secondo lei aver fatto della religione il criterio dell’identità nazionale fa naufragare “qualunque possibilità di creare una vera nuova Nazione.”

 

Un uomo, una voce, una cittadinanza

Ofra Yeshua-Lyth se la prende anche con il mito della ‘sola democrazia del Medio Oriente’. “Quando i principi della democrazia entrano in conflitto con quanto prescrive l’ebraismo, questa democrazia cede il passo alla religione”, deplora. “L’unità nazionale” e “gli imperativi securitari” sono le “scuse abituali”, scrive.

È esattamente in nome di questa mescolanza di religione e nazionalismo che “gli arabi devono essere descritti soprattutto come crudeli, dei nemici che non transigono sulla messa in discussione dello Stato ebraico”, analizza Ofra Yeshua Lyth. “Che gli arabi possano essere non violenti e privi di qualunque forma di odio ‘innato’ verso gli ebrei è così poco accettabile che qualunque fiero nazionalista israeliano lo nega quasi in preda al panico.”

L’occupazione è quindi sia quello che paralizza la società israeliana che ciò che la fa stare insieme, in una volontà di vivere che si costruisce “contro”. Perché, come dice giustamente la giornalista, “nel registro dei media israeliani, solo i ragazzini che lanciano pietre sono dei ribelli violenti. I criminali che li picchiano sono i nostri cari ragazzi.”

Partendo da questa cruda realtà Ofra Yeshua-Lyth osserva con distacco la dichiarazione di Emmanuel Macron che mette in relazione antisemitismo e antisionismo. “Trovo molto sorprendente che la critica alle politiche, alle azioni e alle leggi israeliane sia definita come ‘antisemitismo’”. Bisogna parlare della discriminazione a danno della popolazione autoctona non ebraica della Palestina in virtù delle leggi israeliane e dell’occupazione militare di vaste zone popolate.

I sionisti farebbero bene a prendere in considerazione la situazione del nostro regime invece di mascherarla con false grida, con la pretesa di essere vittime perseguitate. È vero che l’antisemitismo è vivo e vegeto. Deve essere condannato – così come tutte le altre forme di razzismo, compresa la retorica antiaraba e antimusulmana che è molto presente e aggressiva, nello spazio pubblico israeliano come altrove.”

Ofra Yeshua-Lyth propone uno Stato laico e democratico per tutti quelli che vivono tra il Giordano e il Mediterraneo, per il 20% di popolazione israeliana che è palestinese come per i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.

“Ciò che mi lega ai palestinesi laici è più importante dell’affinità che potrei avere con gli israeliani religiosi o di destra. Si parla della dimensione patriarcale dell’islam, ma l’ebraismo lo è altrettanto. Sono per uno Stato laico. Non sono ottimista, tuttavia è la sola soluzione, o meglio la sola soluzione logica: uno Stato democratico e laico. Sono per il principio di una persona un voto”, dichiara a MEE.

L’altra rivoluzione da compiere sarebbe accettare che la popolazione ebraica non sia maggioritaria nello Stato così creato. Allora si prospetta lo spettro della questione demografica che tormenta tanti dirigenti israeliani: “La politica deve essere definita dall’ideologia, dalla religione. Gli israeliani hanno paura di essere controllati dai palestinesi. I palestinesi sono persone moderne e laiche. Penso che siano alcuni israeliani che non vorrei veder arrivare al potere.”

Infine, questa ipotesi di uno Stato laico presuppone anche un diritto al ritorno per i palestinesi rifugiati in altri Paesi. “Bisogna ammettere la realtà della Nakba. Non tutti i palestinesi della diaspora vogliono necessariamente tornare. Ma bisogna riconoscere loro questo diritto al ritorno.”

La creazione di una cittadinanza sui generis nello Stato unico sarebbe dunque la panacea? “Non sono ottimista. Il fanatismo religioso è talmente grande, il nazionalismo è così forte che persino i palestinesi di cittadinanza israeliana sono minacciati. Ormai in Israele addirittura le parole ‘sinistra’ e ‘diritti dell’uomo’ sono diventate dei dispregiativi, delle parole estranee,” conclude Ofra Yeshua-Lyth.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Da Israele al Brasile: dichiarazione di guerra alle popolazioni indigene

Ahmad Moussa

28 aprile 2019, Middle East Eye

Sotto la presidenza Bolsonaro, il Brasile sta perpetuando il razzismo e l’oppressione sionista-colonialista

Le recenti affermazioni del presidente brasiliano Jair Bolsonaro sul “perdonare l’Olocausto” hanno innescato le critiche da parte di Israele, ma ciò che non bisogna dimenticare sono i rapporti e l’identità sionisti del Brasile.

Gli osservatori internazionali sono rimasti turbati dalle recenti vittorie elettorali, in Brasile e Israele, dei candidati di estrema destra Bolsonaro e Benjamin Netanyahu, che hanno entrambi sostenuto e messo in atto apertamente politiche genocide contro le popolazioni indigene.

Il Brasile ha rivelato la propria anima nera, riflettendo l’israelizzazione del Paese ai giorni nostri.

La recente dichiarazione di Bolsonaro, secondo cui l’Olocausto può essere “perdonato ma mai dimenticato”, potrebbe sembrare una rottura nell’orientamento sionista, ma ciò è tutt’altro che vero.

Favoreggiamento della Nakba

Al di là della decisione di Bolsonaro di trasferire l’ambasciata brasiliana a Gerusalemme, e delle foto dei suoi due figli che indossano magliette dell’esercito israeliano e del Mossad – facendo pubblicità ai servizi segreti israeliani, noti per terrorizzare i palestinesi – la storia politica del Brasile dimostra una profonda lealtà all’ideologia sionista.

Il Brasile porta avanti il razzismo colonialista e l’oppressione sionista attraverso l’annichilimento della cultura indigena. È stato uno dei primi Paesi a riconoscere lo Stato di Israele, contribuendo e collaborando quindi alla Nakba – o “catastrofe”, l’espulsione, nel 1948, dei palestinesi dalle loro case – e alla pulizia etnica della Palestina tutt’ora in corso.

Il diplomatico brasiliano Ozvaldo Aranha, ex presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 1947 è stato determinante nel garantire la creazione di Israele.

Aranha promosse la divisione della Palestina in favore del movimento sionista e contro la volontà del popolo palestinese, rinviando per tre giorni la votazione per far sì che si arrivasse all’approvazione con il sostegno della maggioranza.

Vinse poi il Nobel per la Pace per il suo impegno a sostegno degli interessi sionisti.

Il Piano di Partizione dell’ONU ha fornito il precedente giuridico per giustificare la pulizia etnica della Palestina nel 1948, cioè la Nakba, che continua ancora oggi.

Questa procedura irregolare riecheggia oggi in Brasile, con gli attacchi alla popolazione indigena del Paese.


Occultamento di atrocità

La condivisione della linea contro gli indigeni tra Israele e il Brasile ha iniziato ad emergere più chiaramente negli ultimi anni, con la cooperazione per la sicurezza di alto livello durante i Mondiali di calcio in Brasile nel 2014 e le Olimpiadi del 2016.

Il Brasile ha realizzato questi due grandi eventi mondiali a spese della propria popolazione emarginata.

Ha voluto garantire sicurezza e protezione da un potenziale “terrorismo” nascondendo le atrocità e le conseguenze della repressione di stato e della violenza contro i brasiliani emarginati, soprattutto persone indigene nelle favelas ghettizzate e sovrappopolate, simili ai bantustan palestinesi creati da Israele.

Gli attivisti hanno lanciato l’allarme: Israele sta esportando il “modello di sicurezza a Gaza” in Brasile, dove la popolazione indigena è sotto costante minaccia di furto e sfruttamento dei propri territori tradizionali per fini politici ed economici.

Il motivo di questa relazione speciale è che il Brasile vuole imparare dalle tattiche israeliane contro i palestinesi. Tattiche che Israele sta esportando in tutto il mondo.

Campagna memoricida

Il “risanamento”, o “pulizia”, delle aree da parte della polizia brasiliana attraverso meccanismi repressivi è una strategia insegnata dagli agenti della sicurezza israeliani. Promuovere la colonizzazione e la cancellazione delle aree indigene è particolarmente interessante per il Brasile, nello stesso modo in cui Israele opprime la propria popolazione palestinese.

Questi eventi recenti sono utili a ricordarci l’inquietante identità del Brasile e quale strada sta imboccando il Paese.

Con i proclami fermamente pro-israeliani e anti-indigeni di Bolsonaro sull’appropriazione della terra, l’assimilazione e lo sterminio, in Brasile continua l’esportazione israeliana della cancellazione degli indigeni.

Le popolazioni indigene dei due Stati stanno fronteggiando una campagna di cancellazione della memoria; un tentativo di far loro dimenticare il passato, cosicché non possano avere un futuro.

È questo che non può essere perdonato né dimenticato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa


Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, nonché collaboratore fisso ed editorialista freelance per varie agenzie stampa internazionali. È docente di questioni indigene e mediorientali e attivista per i diritti umani con un Master in Diritto Internazionale e Diritti Umani. Moussa è attualmente impegnato in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Elena Bellini)




I problemi dei sionisti con l’intersezionalità

Denijal Jegic

24 aprile 2019, Palestine Chronicle

La lotta dei palestinesi per i diritti umani e per la liberazione fa parte di un conflitto globale contro le strutture razziste. Le attuali proteste inclusive, come il movimento “Black Lives Matter” [“Le vite dei neri importano”, movimento USA contro le uccisioni di persone di colore, ndt.] o l’iniziativa per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro Israele hanno spesso utilizzato approcci transnazionali e intersezionali, sottolineando la molteplicità di esempi di oppressione che un individuo può sperimentare.

Il riconoscimento dei legami tra l’oppressione israeliana dei palestinesi e altre manifestazioni di razzismo è stato individuato come una minaccia strategica da Israele, il cui governo si è basato sull’esclusione dei palestinesi dall’umanità e sulla divulgazione di un’opposizione binaria tra civiltà. Come dimostrano la continua denigrazione della deputata del Congresso Ilhan Omar e i recenti attacchi a studiosi come Michelle Alexander, Marc Lamont Hill e Angela Davis, i sionisti stanno cercando di arginare le analisi degli afroamericani che protestano riguardo alle sofferenze dei palestinesi.

Cos’è l’intersezionalità?

La teoria dell’intersezionalità è sorta dalla frustrazione riguardo alla riproposizione del patriarcato etero normato da parte delle femministe bianche. Kimberlé Crenshaw ha coniato il termine quando ha teorizzato che le donne di colore sono oppresse in quanto donne e in quanto persone di colore. Gli approcci intersezionali sottolineano la pluralità di fattori di identità che sono presi di mira da politiche oppressive, come la marginalizzazione di fattori razziali, etnici, religiosi, di genere, sessuali ed altri dell’identità di un individuo.

Quindi non c’è da sorprendersi che, nel discorso sionista, l’intersezionalità sia stata recentemente demonizzata in quanto “ipocrisia”, “strumento politico”, “l’ultima strategia degli odiatori di Israele,” o, secondo Alan Dershowitz [docente statunitense di diritto internazionale e accanito difensore di Israele, ndt.], “una parola in codice per antisemitismo”.

La fandonia della “fine di Israele”

In un articolo per “The Observer” [quotidiano inglese indipendente, ndt.] Ziva Dahi ha chiesto: “Gli odiatori di Israele prima o poi si sveglieranno dalla fantasia dell’intersezionalità, dalla loro ossessione per la vittimizzazione, dall’adorazione dei palestinesi e dalla demonizzazione degli israeliani?”

Bret Stephens sul New York Times si è lamentato di un presunto attacco progressista contro Israele. I sionisti hanno impiegato tentativi retorici per sminuire l’intersezionalità al fine di proteggere Israele dalle critiche. Tuttavia ogni punto proposto dai sostenitori di Israele sfrutta tradizionali miti colonialisti e un palese razzismo antipalestinese.

La libertà per i palestinesi è semplicemente incompatibile con l’espansione del sionismo che – in quanto movimento basato sull’esclusione dei palestinesi – è l’opposto dei diritti umani universali. Di conseguenza, i sostenitori del sionismo continuano a descrivere i palestinesi come una peste e una bomba demografica a orologeria, la cui sopravvivenza minaccia l’esistenza di Israele.

Stephens identifica lo slogan di protesta “dal fiume al mare” [dal Giordano al Mediterraneo, ossia il territorio della Palestina storica, ndt.] come una “richiesta noiosamente malevola per la fine di Israele come Stato ebraico.” Come ha correttamente capito, Israele, in quanto “Stato ebraico”, può esistere solo finché esclude i palestinesi.

Allo stesso modo in un attacco contro l’intersezionalità, la collaboratrice dell’ADL [Anti Difamation League, organizzazione della lobby filoisraeliana USA, ndt.] Sharon Nazarian su “The Forward” [storico giornale della comunità ebraica USA, ndt.] ha chiesto la spoliazione dei palestinesi. Ha demonizzato il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, concesso dall’ONU, in quanto “la fine di fatto dello Stato ebraico”.

La fine apocalittica di Israele è un luogo comune sionista che rivela i fondamenti razzisti del sionismo, ossia che i palestinesi non debbono tornare alla loro patria semplicemente perché non sono ebrei, e che la messa in pratica dei diritti umani e delle leggi internazionali significherebbe la fine di Israele.

La fandonia de “gli ebrei sono sionisti”

Il sionismo è nato nel XIX° secolo, non dall’ebraismo ma da un movimento europeo di colonialismo d’insediamento che soddisfaceva le necessità dell’antisemitismo cristiano dominante all’epoca e ha prosperato sullo sfruttamento delle strutture orientaliste presenti nella cultura occidentale. I sionisti hanno abusato dell’ebraismo come scudo retorico per presentare una critica intersezionale e anticolonialista del sionismo come razzismo antisemita.

Nel suo commento sull’intersezionalità, Stephens dipinge le politiche sioniste come caratteristiche etnico-nazionali dell’ebraismo, liquidando quindi in quanto antisemiti i discorsi sulla colonizzazione, l’apartheid e il genocidio. Paradossalmente lo stesso Stephens attribuisce una connotazione politica ad ogni ebreo come sionista per giustificare il suo appoggio al sionismo e per presentare Israele come vulnerabile in un “Medio Oriente saturato di antisemitismo genocida.”

Nazarian tenta di includere il sionismo nel femminismo, dipingendo quest’ultimo come un movimento ebraico. Sostiene che “escludere le donne ebree dal (femminismo)” è “inquietante”. Tuttavia il sionismo è antitetico al femminismo. Mentre il femminismo svela l’ingiustizia e sostiene l’uguaglianza, il sionismo perpetua l’ingiustizia sulla base dell’ideale di supremazia e si fonda strutturalmente sull’oppressione delle donne palestinesi.

La fandonia del “conflitto complicato e complesso”

I sionisti respingono l’analisi intersezionale, in quanto insistono sul fatto che la situazione in Palestina/Israele è un caso storicamente e geograficamente isolato che non ha niente a che vedere con il resto del mondo e sarebbe troppo complesso da capire per la gente comune o, come afferma Stephens, “molto più complicato del quadro in bianco e nero disegnato dai critici progressisti di Israele.”

Dahi lamenta che i sostenitori dell’intersezionalità riconoscano diverse forme di oppressione come costitutive di un sistema intersezionale “anche se avvengono in contesti geografici, culturali e politici non connessi tra loro.” Tuttavia l’autrice tenta di isolare la lotta palestinese nel tempo e nello spazio.

L’eccezionalità israeliana necessita proprio di questo approccio. I miti sionisti seguono la narrazione secondo cui i palestinesi non meritano la simpatia di nessuno perché sono terroristi, il terrorismo è geneticamente e culturalmente intrinseco alla palestinità, nessuno è pericoloso come i palestinesi e di conseguenza Israele, in quanto ultima e più vulnerabile colonia europea, ha il diritto di “difendersi”. I sionisti temono che i non palestinesi, invece di aderire alla narrazione israeliana, possano al contrario provare empatia per i palestinesi. È quindi semplicemente logico che gli opinionisti sionisti attacchino “Black Lives Matter”, la “National Women’s Studies Association” [Associazione Nazionale per gli Studi sulle Donne], Jewish Voice for Peace [Voce ebraica per la pace, associazione di ebrei contrari all’occupazione e al sionismo] e Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina].

La fandonia orientalista ed islamofobica

Poi Dahi giustifica l’oppressione dei palestinesi evocando luoghi comuni orientalisti, quando afferma che i palestinesi giustiziano i gay e praticano il delitto d’onore.

Propagandare che i palestinesi meritano di soffrire a causa della loro arretratezza senza pari e che la loro lotta non può essere messa in relazione con nessun’altra lotta è parte integrante dell’ eliminazione del colonizzato da parte del colonizzatore.

La resistenza palestinese è dunque dipinta come fanatismo islamico. Sostenendo che “i nemici di Israele erano impegnati nella sua distruzione molto prima che occupasse un solo centimetro di Gaza o della Cisgiordania,” Stephens presenta Israele come sotto costante minaccia alla sua esistenza e scredita la resistenza palestinese come odio pre-politico. Sottintendere che l’occupazione israeliana del 1967 sia la causa del problema attuale è un errore dei sionisti liberali, mentre in realtà la colonizzazione della Palestina è iniziata alla fine del XIX° secolo.

Dare la colpa alle vittime

Sfruttando questa vera eccezionalità israeliana, i sostenitori del sionismo si affrettano ad accusare i palestinesi per la loro disgrazia, occultando al contempo i diseguali rapporti di potere coloniali.

Nazarian sostiene che i palestinesi “hanno ripetutamente fallito nel dimostrare un impegno per la pace” e respinge la “ben radicata delegittimazione di Israele e del sionismo” da parte della narrazione palestinese.

Incolpare i palestinesi è coerente con gli scritti di Stephens. In precedenza aveva appoggiato il colonialismo ed ha parlato di “infermità” della “mente araba”. Stephens ha difeso il massacro di palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno ed ha dato la colpa ai palestinesi.

Nella sua presa di posizione sull’intersezionalità, era scandalizzato che i progressisti non avessero condannato in modo sufficientemente duro i palestinesi. Assolvendo Israele dalle sue responsabilità per le sofferenze dei palestinesi, Stephens si riferisce a loro (disumanizzati con l’uso del termine “Hamas”) come “assassini”, “misogeni” e “omofobi”, che, secondo lui, non hanno futuro a causa della loro “cultura di vittimizzazione, violenza e fatalismo.”

Il mito del sionismo come liberazione

A volte il sionismo è persino presentato come un movimento progressista. In un articolo su “Tablet” [rivista ebraico-americana on line, ndt.], Benjamin Gladstone ha sostenuto l’inclusione degli ebrei nell’intersezionalità. Mentre l’autore sembra comprendere la teoria di Crenshaw, non vede gli ebrei al di fuori della cornice sionista. La sua argomentazione, secondo cui “la questione ebraica fa parte del movimento intersezionale per la giustizia” è ovviamente corretta.

Tuttavia, equiparando antisemitismo e antisionismo, postula entrambi come “gravi problemi intersezionali” e quindi ne deduce che il razzismo antiebraico è una caratteristica dell’intersezionalità. Ancor peggio, l’autore dipinge il sionismo come un “movimento di liberazione” che “ha la potenzialità non solo di coesistere, ma anche di appoggiare e dare forza ad altri movimenti di liberazione, da quello delle donne al nazionalismo palestinese.” Questo tentativo di rendere romantico un movimento colonialista di insediamento genocida cancella la difficile situazione dei palestinesi e marginalizza l’opposizione ebraica al sionismo.

Perchè l’intersezionalità è antisionista

Ci si deve chiedere se i sionisti, come esemplificato da questi autori, siano consapevoli di quello che significa il sionismo – soprattutto per le sue vittime. Nel caso in cui non fosse evidente che il sionismo si basa sulla continua esclusione e cancellazione dei palestinesi, questi testi lo rendono assolutamente chiaro. Gli autori rivelano che il sionismo crea gerarchie razziali e contrapposizione binaria tra civiltà in base a un nucleo eurocentrico. Quindi l’autore dimostra precisamente perché l’intersezionalità è antisionista.

L’analisi intersezionale insisterebbe sulle differenze tra ebrei e sionismo come ideologia politica. In effetti decostruirebbe i molteplici modi in cui gli ebrei sono oppressi all’interno e al di fuori del contesto sionista. Per esempio, il “Jews of Color and Sephardi/Mizrahi Caucus” [Assemblea degli ebrei di colore e dei sefarditi / mizrahi] ha definito come analisi intersezionale un’“organizzazione antirazzista e anticolonialista e una solidarietà per abbattere le barriere che sistemi di dominazione legati tra loro pongono tra comunità oppresse e che intendono dividerci e conquistarci.”

Mentre i sostenitori del sionismo tendono a sostenere che gli attivisti intersezionali prendono di mira esclusivamente Israele, sono gli stessi sionisti che dipendono dall’eccezionalità israeliana, presentando la libertà dei palestinesi come un genocidio per gli ebrei.

Ma, al di là di questi miti, non esiste una base etica né giuridica per difendere il trattamento strutturalmente razzista dei palestinesi da parte di Israele.

Come dimostrano i testi citati, i sionisti hanno difficoltà a proporre un argomento valido senza respingere le leggi internazionali e i diritti umani. In quanto movimento eurocentrico e orientalista, il sionismo si alimenta, retoricamente e letteralmente, di un’opposizione binaria razzista/di civiltà.

L’analisi intersezionale aiuta ad identificare l’emarginazione razziale, socio-economica, classista e sessista degli ebrei neri, dei rifugiati africani, dei palestinesi e di altri gruppi sottoposti al dominio israeliano. Può potenzialmente rafforzare una collaborazione tra le molte vittime di Israele. Ma proprio questo potenziale di decolonizzazione è molto problematico per il sionismo – un’ideologia colonialista d’insediamento che ha adottato gerarchie razziali.

Denijal Jegić è un ricercatore di post-dottorato, attualmente a Beirut, Libano. E’ l’autore di “Trans/Intifada – The Politics and Poetics of Intersectional Resistance.” [“Trans/Intifada – la politica e la poetica della resistenza intersezionale.”] (Heidelberg: Universitätsverlag Winter, 2019). Ha inviato quest’articolo a “ The Palestine Chronicle”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




due articoli sul futuro dell’opposizione israeliana con proposte diametralmente opposte

Nota redazionale: riteniamo interessante presentare questi due articoli che affrontano il problema cruciale della ricerca strategica di un’alleanza tra le classi popolari del gruppo maggioritario e dominante e di quelle dominate e oppresse in un contesto coloniale. I due articoli che seguono propongono prospettive opposte.

Smettiamola di parlare di una “collaborazione tra ebrei e arabi” falsa

Rami Younis e Orly Noy 

17 aprile 2019, +972

Creando una simmetria tra israeliani e arabi, gli ebrei di sinistra non hanno solo perso di vista l’intero quadro, ma stanno contribuendo attivamente a cancellare la lotta palestinese.

Il triste stato del “campo della sinistra” era già chiaro molto prima che la scorsa settimana venissero resi pubblici i risultati finali delle elezioni israeliane. Come se niente fosse, è iniziato il rituale delle dichiarazioni su cosa ci sia di sbagliato nella sinistra e su come rimediare.

La pozione utile per tutti i mali “collaborazione tra ebrei e arabi” è stata tra le suggestioni più diffuse. La prescrizione sembra così ideologicamente corretta e politicamente necessaria che ogni critica è spesso interpretata quanto meno come cinica pedanteria. Eppure vale la pena di dare uno sguardo approfondito all’essenza di questa collaborazione.

Invisibile egemonia ebraica

Più che manifestare un’aspirazione all’uguaglianza, l’idea della collaborazione tra ebrei ed arabi presuppone una condizione simmetrica. In questo senso, si tratta di una versione leggermente aggiornata del concetto di “coesistenza”, che negli ultimi anni si è trasformato in una sorta di parolaccia nel campo pacifista, e per buone ragioni. Non è che ci opponiamo all’idea di coesistenza, ma siamo piuttosto arrivati alla convinzione che la coesistenza non riflette i rapporti di potere distorti tra gli ebrei israeliani e i palestinesi. È diventato un modo di dire troppo comodo da utilizzare per coloro i quali conoscono come unica coesistenza quella tra un cavallo e il suo cavaliere.

Possiamo presumere che quanti invocano una “collaborazione tra ebrei e arabi” non vogliano quella stupida forma di coesistenza, eppure si avvalgono dello stesso pericoloso senso di simmetria immaginario. Non è casuale che siano i maschi ebrei askenaziti [cioè originari dell’Europa centro-orientale, ndt.] che in genere guidano questi appelli alla collaborazione. Analogamente non è semplicemente simbolico che discorsi sulla collaborazione tra ebrei e arabi antepongano quasi sempre gli ebrei agli arabi, riflettendo l’invisibile egemonia ebraica che fa da base al concetto concreto.

Si può riscontrare la stessa asimmetria nello slogan non ufficiale delle persone e dei movimenti che sostengono che la risposta sia la collaborazione: “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”. L’importanza dell’oppresso che rifiuta di essere nemico del proprio oppressore non dovrebbe essere sottovalutata. Ma all’oppressore bisognerebbe chiedere qualcosa di completamente diverso: lui o lei devono rifiutarsi di dominare l’oppresso. Ciò non può essere ottenuto in una situazione di falsa simmetria.

Ciò è vero non solo per ragioni etiche, ma anche perché una lotta prigioniera di una realtà opposta, per quanto questa prospettiva possa essere valida, non potrà mai essere efficace. Finché l’egemonia ebraica resta invisibile, i vari modi in cui decide come sarà questa collaborazione, rimangono invisibili anch’essi in virtù dello stesso linguaggio di simmetria. Si prenda ad esempio il manifesto pubblicato da “Standing Together”, il principale movimento per la collaborazione tra ebrei e arabi, che afferma che non crede nello sventolio di nessuna bandiera nazionale.

Nella nostra situazione la bandiera ebrea-israeliana è ovviamente parte del panorama, mentre quella palestinese, e peraltro l’esistenza del popolo palestinese, è rifiutata, umiliata e cancellata. Quindi togliere di mezzo entrambe le bandiere non fa progredire l’uguaglianza, approfondisce la disuguaglianza. Nel mondo reale, la bandiera blu e bianca non ha bisogno di legittimazione, quella palestinese sì. Dire che le bandiere possono essere escluse simmetricamente significa negare che qui il destino di una persona sia determinato dalla propria affiliazione nazionale. Questa non è collaborazione, è partecipazione attiva all’oppressione.

La stessa invisibile egemonia ebraica sta anche dietro a varie proposte di fondere o unificare i partiti politici Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndt.], laburista [partito sionista dominatore della politica israeliana fino agli anni ’70, ndt.] e Hadash [partito non sionista a maggioranza arabo-israeliana, ndt.]. Questa fusione significherebbe ancora una volta che gli ebrei scelgono con quali “arabi buoni” possono costruire una “collaborazione”. Così facendo inoltre definiscono e delegittimano gli “arabi cattivi” che non sono degni di questa collaborazione.

Ricordate la Nakba?

La falsa simmetria sostenuta da quanti credono che “ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” è quantomeno pericolosa. Un’intera costruzione basata su un’ideologia razzista, il sionismo, ha lavorato senza sosta durante 71 anni per cancellare sia la narrazione che l’identità palestinesi. Intere generazioni di palestinesi cittadini di Israele sono cresciute qui senza sapere di essere palestinesi – senza conoscere le ingiustizie perpetrate contro il loro stesso popolo. Com’è possibile che queste stesse persone che rivendicano giustizia e uguaglianza contribuiscano solo a perpetuare questa situazione?

E se molti palestinesi non sanno da dove vengono, come potranno sapere dove devono andare?

Abolire l’identità nazionale è anche funzionale a uno dei più ripetuti cliché della destra contro i palestinesi. A ogni palestinese che osi parlare della Nakba, la più grande ingiustizia perpetrata qui – e che la classe dirigente sionista rifiuta di riconoscere – viene immediatamente detto dal simbolico fascista di turno di andarsene e di smetterla di piagnucolare. Questi stessi fascisti rifiutano di capire, o forse scelgono di ignorare, la ferita sanguinante del 1948 e il grande problema storico del popolo palestinese.

Quelli che insistono per una collaborazione tra ebrei e arabi preferiscono concentrarsi sul 1967 [cioè nell’occupazione di Cisgiordania e Gaza, ndt.] come l’anno della grande ingiustizia. Ma non è così. Nella migliore delle ipotesi, non vedono la realtà, se non altro per il fatto che la maggioranza dei palestinesi (soprattutto a Gaza e in Cisgiordania) si concentra sul 1948. Se tutti i tuoi amici arabi parlano del ’67, probabilmente non hai un numero sufficiente di amici arabi.

Sventolare la bandiera palestinese ed essere orgogliosi di questa identità non è una provocazione, è il dovere di ogni palestinese con una coscienza politica, in modo che per le future generazioni la lotta non scompaia. Quelli che sostengono la coesistenza, che si oppongono a questi indicatori di orgoglio e identità, non sono veri alleati politici, stanno lavorando attivamente contro i palestinesi, che sostengono di proteggere in modo paternalistico e arrogante.

Ci si deve quindi chiedere chi sono gli arabi che si uniscono a questa “collaborazione”. Si deve ricordare che la tendenza dei gruppi indigeni che vivono sotto l’oppressione ad entrare in contatto con il proprio oppressore – anche solo per impedire a quest’ultimo di distruggere le loro vite – è naturale. Ora pensate a quanto sia naturale per i palestinesi dire “sì” ai cosiddetti ebrei illuminati e progressisti che offrono loro la cooperazione. Sentiamo spesso che molti palestinesi scelgono di autocensurarsi in presenza dei loro partner per non far arrabbiare quelli che tendono ad avere privilegi, contatti e, molto spesso, finanziamenti.

I gruppi per la coesistenza ignorano inoltre i palestinesi che vivono nei territori occupati. È probabile che molti ebrei israeliani, anche di sinistra, non abbiano mai visitato la Cisgiordania né abbiano rapporti con abitanti palestinesi locali in un modo che consenta loro di comprendere quello per cui molti palestinesi stanno lottando. Sanno, ad esempio, che molti sostengono il diritto al ritorno? Se dipendesse solo dai palestinesi, invece di gridare “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”, preferirebbero scandire “Palestinesi ed ebrei appoggiano il diritto al ritorno”. Perché in realtà questo slogan non esiste? Perché questa “collaborazione” deve rimanere accettabile per gli ebrei.

Le decine di palestinesi che gridano lo stesso slogan insieme a voi nelle manifestazioni non hanno il diritto di parlare in nome dei palestinesi, così come gli autori di questo articolo non hanno mai ricevuto il diritto di parlare a nome dei rifugiati di Gaza. Eppure ciò non significa che non dobbiamo lottare per i loro diritti.

Questa è una lotta nazionale tra una Nazione indigena e una maggioranza violenta. Quelli che fanno parte della maggioranza non possono guidare e nemmeno pretendere di far parte della dirigenza della lotta contro l’oppressione. La prima cosa che devono fare è essere consapevoli della propria posizione in quanto membri del gruppo oppressore, per quanto possa essere difficile e spiacevole. Quello che possono e devono fare è solidarizzare con le lotte guidate dagli oppressi. Questa è un’idea rivoluzionaria per molti ebrei di buona volontà. Ovviamente si tratta di una posizione più difficile da prendere, in quanto richiede pazienza e ascolto dei problemi che i palestinesi devono affrontare.

All’inizio di questa settimana prigionieri palestinesi, che per anni sono stati privati dei propri diritti ed hanno sopportato maltrattamenti nelle prigioni israeliane, hanno posto fine a uno sciopero della fame. Non c’è niente di “simmetrico” riguardo al loro problema. I prigionieri palestinesi che fanno parte della lotta nazionale sono perseguitati e obbligati a pagarne il prezzo. È anche difficile per l’opinione pubblica ebraica accettarlo. Quale posto potrebbe mai avere la lotta dei prigionieri nella cosiddetta collaborazione con l’egemonia ebraica che spera di vincere i cuori e le menti di più persone possibile?

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

Rinunciare alla collaborazione tra ebrei e arabi vorrebbe dire rinunciare alla speranza

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green

23 aprile 2019, +972

La maggior parte delle persone di questa terra è vittima del governo Netanyahu. La collaborazione tra loro è l’unico modo per lottare contro le sue diverse forme di oppressione – compresa l’occupazione.

È molto facile per chi si trova in una situazione privilegiata criticare qualunque azione intrapresa da persone che fanno lavoro di base come “non abbastanza radicale” e guardare al mondo attraverso lenti ciniche e negative. Non c’è da stupirsi che, dalla loro comoda posizione, nel loro recente articolo “Smettiamo di parlare di una falsa ‘collaborazione tra ebrei e arabi’”, Rami Younis e Orly Noy abbiano scelto di non vederne le opportunità concrete e di non credere nel cambiamento.

Noi, al contrario, sappiamo che c’è speranza. Non abbiamo abbandonato questo luogo e non disperiamo nelle persone che vivono qui. L’ottimismo è una posizione politica.

Ci sono due aspetti dell’articolo di Younis e Noy che meritano un apprezzamento. Il primo è che in questi giorni è lodevole quanto meno parlare della collaborazione tra ebrei e arabi, uno degli argomenti politici più importanti da prendere in considerazione. In secondo luogo, insistendo sulla separazione tra arabi ed ebrei, involontariamente dimostrano esattamente come la destra in Israele abbia conservato il suo potere con la sua strategia di divide et impera, mettendo una contro l’altra le lotte sociali di arabi ed ebrei. Il loro punto di partenza elude la questione di come riuscire ad ottenere un cambiamento in questa terra – e di chi abbia interesse a raggiungerlo – e ciò li porta alla conclusione errata che la collaborazione tra ebrei e arabi sia inutile.

In fondo all’articolo originale in ebraico, Rami Younis descrive se stesso come un “arabo per niente simpatico che crede che gli ebrei debbano appoggiare le lotte dei palestinesi” e Orly Noy si descrive come “un’ebrea che odia se stessa e crede che i palestinesi debbano condurre da sé la propria lotta.” Al di là del tentativo di essere spiritosi, le acide note biografiche rivelano gli assunti impliciti: gli arabo-palestinesi che vivono qui lottano legittimamente, ma gli ebrei israeliani no (e se lo fanno, non sono abbastanza importanti o abbastanza radicali). Ma non puoi mettere da parte le legittime lotte di quartieri e città con servizi inadeguati, di donne, di ebrei mizrahi [cioè di origine araba, ndt.], dei disabili, per le case di edilizia pubblica, della comunità etiope, dei richiedenti asilo e di altri. Non puoi cancellare intere comunità e dichiarare semplicemente che sono parte di una “maggioranza distruttiva e violenta”.

Per di più, cancellando tutte le lotte di quelle comunità e paragonandole a una “maggioranza distruttiva e violenta”, Younis e Noy stanno suggerendo che la maggioranza degli ebrei israeliani vota per la destra semplicemente perché è razzista e cerca di proteggere i propri privilegi. In breve, Younis e Noy pensano che gli ebrei israeliani siano degli stronzi. Noi di “Standing Together” [organizzazione ebreo-araba israeliana di sinistra, ndt.] pensiamo che l’attuale governo di destra e la gente che vive in questa terra abbiano interessi diametralmente opposti, e che sia compito della sinistra mostrare semplicemente quanto siano dannose le politiche del governo e organizzare le lotte contro quelle istituzioni e le loro politiche.

Le politiche economiche della destra danneggiano seriamente i lavoratori e i settori deboli della popolazione, come dimostrato almeno in parte da una serie di proteste sociali in Israele nel corso degli anni. Le politiche sociali della destra trascurano i punti di vista della maggioranza dell’opinione pubblica; solo nell’ultimo anno queste politiche hanno portato a proteste di massa contro le violenze a danno di donne e contro i diritti LGBTQ. La destra cerca di rimanere al potere non migliorando le vite dei suoi elettori, ma attaccando la minoranza nazionale arabo-palestinese di Israele. Tra le altre cose, l’istigazione al razzismo è il modo della destra per nascondere il fatto che essa non ha migliorato le vite di quanti la votano.

Il modo per lottare contro Netanyahu è duplice: mostrare come le sue politiche economiche danneggino la grande maggioranza dell’opinione pubblica e lottare sia contro il suo incitamento al razzismo nei confronti dei palestinesi in Israele che contro il costante controllo militare di Israele sui territori palestinesi. Dall’articolo di Younis e Noy si può presumere che essi ritengano che le lotte per alloggi a prezzi accessibili, delle femministe, per i diritti dei lavoratori e l’uguaglianza per i palestinesi all’interno di Israele siano tutte secondarie rispetto alla lotta per porre fine all’occupazione. Noi La pensiamo in modo diverso.

La maggior parte della gente di questa terra è danneggiata dalle politiche del governo. La collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare contro queste varie forme di oppressione, compresa la fine dell’occupazione. Dalla sua fondazione noi di “Standing Together” abbiamo sempre creduto che sia possibile quanto necessario lavorare per la pace tra israeliani e palestinesi insieme alle lotte per la giustizia sociale e per uguali diritti civili e nazionali. Su ogni fronte di questa lotta insistiamo per lavorare insieme sulla base di interessi condivisi.

Adottiamo questo approccio con la piena consapevolezza del fatto che diversi gruppi della società israeliana sono vittime in modi diversi di sfruttamento, discriminazione e oppressione. I cittadini arabo-palestinesi non sono solo maggiormente danneggiati dalle politiche socioeconomiche della destra, ma sono anche discriminati sulla base della loro identità nazionale: le leggi razziste prendono specificatamente di mira la lingua e la cultura arabe e la legittimità della partecipazione politica araba. Ciò è stato strutturato in modo più rivelatore dalla legge sullo Stato-Nazione ebraico, che sovverte il principio di uguaglianza e stabilisce per legge lo status di cittadini di seconda classe dei palestinesi con cittadinanza israeliana.

Non c’è nessuna simmetria tra la situazione che vivono ebrei e arabi in Israele. Ma la destra israeliana sopravvive proprio trasformando questa asimmetria in una barriera per chiunque intenda cambiare. Ciò diventa particolarmente efficace quando la destra alimenta sistematicamente i timori degli ebrei israeliani, suggerendo che i simboli nazionali e culturali palestinesi incarnino un desiderio di “buttare a mare gli ebrei”. È così che la destra manipola i simboli nazionali palestinesi, soprattutto la bandiera palestinese e il Giorno della Nakba [commemorazione dell’espulsione dei palestinesi dal territorio poi diventato lo Stato di Israele nel 1948, ndt.].

Ferme restando le complicazioni intrinseche e i rapporti di potere di ogni collaborazione tra ebrei ed arabi in una società tanto segregata e polarizzata come la nostra, crediamo che questa collaborazione sia l’unico modo per far progredire un’alternativa e cambiare la nostra situazione. Sì, è una sfida. Come ha scritto Noam Shizaf [giornalista israeliano di +972, ndt.], non è facile raggiungere l’uguaglianza all’interno di una cornice politica comune. Ma noi di “Standing Together” abbiamo scelto di affrontare queste sfide ogni giorno della settimana. A volte abbiamo successo, a volte non molto, ma noi non rinunciamo, non ci disperiamo e non smettiamo di provarci.

Nel loro articolo Younis e Noy scrivono che i membri arabi di “Standing Together” non credono realmente nella collaborazione tra ebrei e arabi – che dicono che ci credono solo per tranquillizzare gli ebrei privilegiati nelle loro fila. Scrivendo ciò, riducono il contributo dei membri palestinesi di “Standing Together” – membri della dirigenza del movimento che definiscono il programma, lavorano per promuovere gli interessi degli arabo-palestinesi in Israele e che a volte pagano di persona per il fatto di essere dirigenti. Più tragicamente, attaccando “Standing Together”, Younis e Noy non fanno che rafforzare gli argomenti della destra, secondo cui i palestinesi che dicono di voler vivere pacificamente accanto agli ebrei israeliani in realtà stanno mentendo.

Queste sono le nostre convinzioni e ci crediamo davvero. Siamo convinti che le politiche della destra danneggino le famiglie arabe più di quelle ebraiche e che questi danni abbiano una radice storica. Sappiamo anche che la collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare per i diritti di tutte quelle famiglie, sia ebree che arabe, e per garantire che tutti possano vivere insieme in questa terra. Questi sono in nostri valori. Questa è la nostra teoria per il cambiamento. Questa è la fonte della nostra speranza. Crediamo nel cammino che abbiamo scelto e stiamo costruendo un ampio movimento – ebrei, arabi e socialisti – per realizzare un cambiamento fondamentale nella società, nell’economia e nella politica di Israele.

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green sono membri della direzione di “Standing Together”. La versione originale di questo articolo in ebraico è già comparsa su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché il sionismo è sempre stato un’ideologia razzista

Asa Winstanley

20 aprile 2019, Middle East Monitor

Questa settimana il ministro ombra laburista della Giustizia Richard Burgon si è rammaricato per aver affermato qualche anno fa in un discorso che il sionismo è il “nemico della pace”. Non avrebbe dovuto scusarsi. Le sue considerazioni del 2014 erano un semplice dato di fatto storico, ed avrebbe dovuto difenderle.

I sionisti liberal e “di sinistra” affermano che il governo sempre più di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è una “degenerazione” del cosiddetto sogno sionista. Ci viene detto che questa progetto rappresenta un paradiso egualitario per i popoli ebraici oppressi del mondo.

Si tratta di una fantasia antistorica.

Il movimento per creare uno “Stato ebraico” in Palestina – un Paese per la stragrande maggioranza non ebreo – fu, fin dalla sua ideazione, un progetto esclusivista e razzista. Dai suoi primi giorni il sionismo è stato permeato degli stessi atteggiamenti razzisti di altri movimenti europei di colonialismo di insediamento. In realtà la concezione progressista sionista di eguaglianza all’interno della Palestina esclude gli arabi palestinesi, il popolo indigeno del territorio. Una simile cecità intenzionale è una caratteristica comune dei movimenti colonialisti. Come l’illustre studioso palestinese Nur Masalha ha spiegato decenni fa nel suo studio magistrale “Espulsione dei palestinesi”, in realtà il movimento sionista ha compreso che effettivamente c’era già una popolazione che viveva in Palestina. Tuttavia scelse di non vedere queste persone come esseri umani a pieno titolo degni degli stessi diritti dei coloni ebrei.

Masalha ha scritto che l’ignobile slogan del sionista dei primordi Israel Zangwill “una terra senza popolo per un popolo senza terra” non era inteso come un giudizio demografico letterale. I sionisti “non intendevano dire che non ci fosse un popolo in Palestina, ma che non c’era un popolo degno di essere preso in considerazione all’interno del quadro di concezioni della supremazia europea che all’epoca dominavano incontrastate.”

Questi concetti di suprematismo bianco, che in quel periodo per le élite europee erano indiscutibili, erano una caratteristica comune dei progetti colonialisti di ogni tipo. Come avrebbe quindi potuto essere diverso per il sionismo?

La risposta è che non lo era, indipendentemente da quanta immagine “di sinistra” i sionisti laburisti abbiano inserito nel loro movimento colonialista. Dopo tutto i movimenti laburisti dell’Europa occidentale nelle metropoli coloniali erano spesso esplicitamente di orientamento favorevole all’impero; probabilmente nessuno più del partito laburista britannico. In realtà la storia dell’appoggio ad alcuni dei fondamentali diritti umani dei palestinesi da parte di Jeremy Corbyn rappresenta una rottura storica con la lunga serie praticamente ininterrotta di virulente politiche anti-palestinesi del partito laburista.

Prendete per esempio Richard Crossman, ministro del governo di Harold Wilson negli anni ’60 e in seguito editorialista del “New Statesman” [rivista politica inglese di sinistra, ndt.]. All’epoca era una figura di spicco della sinistra laburista, eppure in tutto il partito era uno dei più fanatici tra i sionisti. Nel 1959, in una conferenza in Israele, affermò che “nessuno, fino al XX° secolo, aveva seriamente messo in dubbio” il “diritto” o il “dovere” di quello che definì “l’uomo bianco” in Africa e nelle Americhe “di civilizzare questi continenti con la loro occupazione fisica, anche a costo di spazzare via la popolazione nativa.”

In altre parole, il genocidio.

Crossman lamentò inoltre che “i coloni ebrei” in Palestina non avessero “raggiunto la maggioranza prima del 1914,” e che i palestinesi “li vedessero come ‘coloni bianchi’, venuti ad occupare il Medio Oriente.” Si noti che questo decano della sinistra laburista non condannava “i coloni bianchi” che di fatto avevano occupato la Palestina con la forza cacciando la popolazione indigena. Si rammaricava solo che i palestinesi avessero riconosciuto il movimento sionista per quello che realmente era e quindi vi si fossero opposti.

Non c’è quindi da stupirsi che il governo laburista del 1945 avesse, come parte del proprio programma elettorale, un punto che chiedeva esplicitamente la pulizia etnica dei palestinesi dalla Palestina per far posto a uno “Stato ebraico”. Il documento sosteneva che in Palestina “il trasferimento di popolazione è una necessità. Che gli arabi siano incoraggiati ad andarsene, e che vi entrino gli ebrei.”

Il documento andò persino oltre, invocando la futura espansione dei confini del previsto “Stato ebraico” con l’annessione di parti della Transgiordania, dell’Egitto o della Siria “attraverso un accordo”. In realtà, l’Egitto e il futuro Stato di Giordania all’epoca erano regimi fantoccio della Gran Bretagna.

Ben Pimlott, biografo dell’ex-ministro delle Finanze Hugh Dalton, descrisse questa posizione come “ultra sionismo” – moderato rispetto a un progetto ancora più estremista che lo stesso Dalton avrebbe preferito e che chiedeva di “aprire la Libia o l’Eritrea alla colonizzazione ebraica, come satelliti o colonie della Palestina.”

Non dovrebbe quindi sorprendere che Dalton fosse, come molti colonialisti, un razzista esplicito. Utilizzò un linguaggio apertamente segnato dall’odio nei confronti delle persone di colore e degli ebrei, deridendo un deputato del partito Laburista che era ebreo per la sua presunta “ideologia”.

Allora come adesso il sionismo spesso e volentieri è andato mano nella mano con l’antisemitismo. Molti razzisti bianchi che detestano gli ebrei spesso non hanno avuto nessun problema con il concetto di “Stato ebraico” in Palestina – dopotutto esso prospetta la cancellazione degli ebrei dall’Europa.

Come ha scritto, pur negando di essere un antisemita, il presunto autore dei massacri nella moschea di Christchurch nel suo “manifesto”: “Un ebreo che vive in Israele non è un mio nemico, finché non cerca di sovvertire o danneggiare il mio popolo (bianco).”

Per tutte queste ed altre ragioni, il sionismo è sempre stato un movimento razzista – e non lo è stato meno nella sua versione “sionista laburista”.

Oggi il sionismo laburista è morto come forza politica all’interno della Palestina occupata. Il partito Laburista – i cui predecessori politici fondarono lo Stato di Israele e nel 1948 perpetrarono la Nakba, in cui 750.000 palestinesi vennero espulsi con la forza – ora è relegato a una manciata di sei seggi nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.].

La principale utilità del laburismo sionista per il complessivo movimento sionista è in quanto arma ideologica contro la sinistra globale e il movimento di solidarietà con la Palestina in tutto il mondo, come si vede nel ruolo divisivo che gruppi come il “Jewish Labour Movement” [Movimento Ebraico Laburista] (JLM) e i “Labour Friends of Israel” [Amici Laburisti di Israele] hanno giocato nella lunga campagna contro Jeremy Corbyn.

Come ha spiegato un importante leader di JLM lo stesso mese in cui Corbyn è stato eletto per la prima volta segretario del partito Laburista britannico nel 2015: “Abbiamo costruito un forte discorso politico, radicato nella politica della sinistra e utilizzato nel suo stesso cortile di casa.” Questo progetto è stato messo in atto in modo che “la questione di Israele” non fosse “persa per definizione”. La crisi dell’“antisemitismo” nel partito Laburista è, in realtà, una campagna di razzisti per diffamare in quanto “razzisti” gli anti-razzisti.

(traduzione di Amedeo Rossi)