Leggi la trascrizione integrale: la conferenza stampa congiunta di Trump e Netanyahu

Haaretz | 15 febbraio 2017

La prima conferenza stampa congiunta del presidente USA Trump e del primo ministro israeliano Netanyahu.

IL PRESIDENTE TRUMP: Molte grazie. Grazie. Oggi ho l’onore di dare il benvenuto al mio amico, il primo ministro Benjamin Netanyahu, alla Casa Bianca. Con la sua visita, gli Stati Uniti riconfermano ancora una volta il proprio legame indissolubile con il nostro benamato alleato, Israele. La collaborazione tra i nostri due Paesi, basata sui valori da noi condivisi, ha promosso la causa della libertà dell’uomo, della dignità e della pace. Questi sono gli elementi fondamentali della democrazia.

Lo Stato di Israele è un simbolo per il mondo di resistenza di fronte all’oppressione – non posso pensare a nessun altro Stato che abbia passato quello che è toccato a loro – e di sopravvivenza di fronte al genocidio. Non dimenticheremo mai quello che ha sopportato il popolo ebreo.

La vostra perseveranza di fronte all’ostilità, la vostra democrazia aperta di fronte alla violenza e il vostro successo nell’affrontare grandi avversità è veramente fonte d’ispirazione. Le sfide per la sicurezza che Israele ha dovuto affrontare sono enormi, compresa la minaccia delle ambizioni nucleari dell’Iran, di cui io ho parlato parecchio. Uno dei peggiori accordi che abbia mai visto è quello con l’Iran. La mia amministrazione ha appena imposto nuove sanzioni e farò ancora di più per evitare che l’Iran possa mai sviluppare – intendo dire mai – armi nucleari.

La nostra assistenza per la sicurezza nei confronti di Israele è attualmente a un livello record, garantendo che Israele abbia la capacità di difendersi dalle minacce, che purtroppo sono molte. I nostri due Paesi continueranno a crescere. Abbiamo una lunga storia di cooperazione nella lotta contro il terrorismo e contro coloro che non danno valore alla vita umana. America e Israele sono due Nazioni che onorano il valore di ogni vita umana.

Questa è una delle molte ragioni per cui rifiuto azioni scorrette e di parte contro Israele alle Nazioni Unite – che hanno appena trattato Israele, secondo me in modo molto, molto scorretto – o in altri forum internazionali, così come il boicottaggio che prende di mira Israele. La nostra amministrazione è impegnata a lavorare con Israele e con i nostri comuni alleati nella regione verso una maggiore sicurezza e stabilità. Ciò include lavorare per un accordo di pace tra Israele e i palestinesi. Gli Stati Uniti incoraggeranno un accordo di pace, e veramente un grande accordo. Lavoreremo su questo con molto, molto impegno. E’ molto importante anche per me – qualcosa che vogliamo fare. Ma sono le stesse parti in causa che devono negoziare direttamente un accordo. Noi staremo dietro di loro; lavoreremo con loro.

Come per ogni negoziato che abbia successo, entrambe le parti dovranno arrivare a compromessi. Lo sa, giusto? (risate)

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Entrambe le parti.

IL PRESIDENTE TRUMP: Voglio che il popolo israeliano sappia che gli Stati Uniti stanno dalla parte di Israele nella lotta contro il terrorismo. Come lei sa, primo ministro, le nostre due Nazioni condanneranno sempre gli atti di terrorismo. La pace richiede che le Nazioni rispettino la dignità della vita umana e siano una voce per tutti coloro che sono in pericolo e dimenticati.

Questi sono gli ideali a cui tutti aspiriamo e sempre aspireremo e per cui siamo impegnati. Questo sarà il primo di molti altri incontri produttivi. E io, di nuovo, primo ministro, la ringrazio molto per essere con noi oggi.

Grazie, primo ministro.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Presidente Trump, la ringrazio per l’ospitalità davvero molto calorosa, che lei e Melania avete dimostrato nei miei confronti, nei confronti di mia moglie Sara e di tutta la nostra delegazione. Per me, per lo Stato di Israele, è stato così chiaramente evidente nelle parole che ha appena detto – che Israele non ha nessun miglior alleato degli Stati Uniti. E voglio assicurarle che gli Stati Uniti non hanno nessun migliore alleato che Israele.

La nostra alleanza è stata particolarmente forte, ma sotto la sua direzione sono convinto che lo diventerà ancora di più. Sono ansioso di lavorare con lei per potenziare notevolmente la nostra alleanza in ogni campo – nella sicurezza, nella tecnologia, nell’informatica e nel commercio, e in molti altri settori. E io sicuramente accolgo con favore la sua sincera richiesta che Israele venga trattato in modo corretto nei contesti internazionali e che le calunnie e il boicottaggio di Israele siano fortemente avversati dal potere e dalla posizione morale degli Stati Uniti d’America.

Come lei ha detto, la nostra alleanza si basa su un legame profondo di valori e interessi comuni. E, sempre più, questi valori ed interessi sono sotto attacco da parte di una forza malvagia: il terrorismo radicale islamico. Signor presidente, lei ha mostrato grande chiarezza e coraggio nell’affrontare la sfida a viso aperto. Lei chiede di affrontare il regime terroristico iraniano, impedendo all’Iran di realizzare questo terribile affare dell’ arsenale nucleare. E lei ha detto che gli Stati Uniti sono impegnati a impedire che l’Iran abbia armi nucleari. Lei invoca la sconfitta dell’ISIS. Credo che, sotto la sua guida, potremo contrastare la crescente marea dell’Islam radicale. E in questo grande compito, come in molti altri, Israele ed io saremo con lei.

Signor presidente, nello sconfiggere l’Islam militante, possiamo cogliere un’opportunità storica – perché, per la prima volta nella mia vita, e per la prima volta nella storia del mio Paese, Paesi arabi della regione non vedono Israele come un nemico, ma sempre più come un alleato. E credo che sotto la sua direzione questo cambiamento nella nostra regione crei un’opportunità senza precedenti per rafforzare la sicurezza e promuovere la pace.

Cogliamo insieme questo momento. Rafforziamo la sicurezza. Chiediamo nuovi orizzonti di pace. Portiamo la straordinaria alleanza tra Israele e gli Stati Uniti a livelli ancora maggiori.

Grazie. Grazie, signor presidente.

IL PRESIDENTE TRUMP: Grazie, grazie ancora.

Risponderemo ad alcune domande. David Brody, Televisione Cristiana [CBN, televisione evangelica di destra. Ndtr.]. David.

D.: Grazie, signor presidente, signor primo ministro. Entrambi avete criticato l’accordo nucleare con l’Iran e talvolta avete anche chiesto di annullarlo. Mi chiedo se non siate preoccupati per quanto riguarda non solo il consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn, che da poco non è più qui, ma anche alcuni di quei fatti che si sono verificati in Russia riguardo alle comunicazioni – se questo non stia ostacolando del tutto questo accordo, e se ciò impedirà all’Iran di diventare uno Stato nucleare oppure no.

E in secondo luogo, riguardo alle colonie, siete entrambi sulla stessa lunghezza d’onda? Come definite esattamente quanto riguarda la questione delle colonie? Grazie.

IL PRESIDENTE TRUMP. Michael Flynn, il generale Flynn, è una persona stupenda. Penso che sia stato trattato in modo veramente, veramente scorretto dai media – come li chiamo io, i media bugiardi, in molti casi. E penso che sia stata veramente una cosa triste che sia stato trattato così male. Penso, inoltre, anche da parte dell’intelligence – sono filtrati documenti, sono stati divulgati dei fatti. Sono azioni criminali, e ciò è continuato per molto tempo – prima di me. Ma ora continua, e ci sono persone che stanno cercando di utilizzarle come alibi per la terribile sconfitta dei democratici con Hillary Clinton.

Penso che sia veramente, veramente scorretto quello che è succeso al generale Flynn, il modo in cui è stato trattato, e i documenti che sono stati illegalmente – lo sottolineo – illegalmente divulgati. Molto, molto scorretto.

Il merito alle colonie, vorrei che vi soffermaste un attimo sugli insediamenti. Troveremo una soluzione. Ma vorrei che si facesse un accordo. Penso che si farà un accordo. So che ogni presidente lo avrebbe voluto. La maggior parte di loro non ha iniziato fino a fine [mandato] perché non ha mai pensato che fosse possibile. E non è stato possibile perchè non l’hanno fatto.

Ma Bibi [Netanyahu] ed io ci conosciamo da molto tempo – un uomo abile, grande negoziatore. E penso che stiamo per raggiungere un accordo. Potrebbe essere un accordo più complessivo e migliore di quanto le persone in questa stanza abbiano mai sentito parlare. E’ possibile. Per cui state a vedere quello che faremo.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Proviamoci.

IL PRESIDENTE TRUMP: Non sembra molto ottimista, ma -(Risate) – è un buon negoziatore.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Questa è “l’arte dell’accordo.” (Risate)

IL PRESIDENTE TRUMP: Voglio anche ringraziare – voglio anche ringraziare – Sara, per favore, ti puoi alzare? Su sei così adorabile e sei stata così carina con Melania. Lo apprezzo moltissimo. (Applausi). Grazie. E’ il tuo turno.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Sì, prego, andiamo avanti.

D. Molte grazie. Signor presidente, nella sua visione per la nuova pace in Medio Oriente lei è pronto ad abbandonare la nozione della soluzione dei due Stati che è stata adottata dalla precedente amministrazione? E lei sarà disposto ad ascoltare idee diverse dal primo ministro, come alcuni dei suoi alleati gli stanno chiedendo di fare, per esempio, l’annessione di parti della Cisgiordania e nessuna limitazione per la costruzione delle colonie? E un’altra domanda: sta per concretizzare la sua promessa di spostare l’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme? E se è così, quando?

E, signor primo ministro, lei è venuto qui stasera per dire al presidente che sta facendo marcia indietro rispetto alla soluzione dei due Stati?

Grazie.

IL PRESIDENTE TRUMP: Sto guardando ai due Stati e allo Stato unico, e mi piace la soluzione che piace alle due parti. (Risate). Sono molto contento di quello che piace alle due parti. Posso accettare una o l’altra.

Ho pensato per un momento che quella dei due Stati sembrasse la più facile per entrambi. Ma onestamente, se Bibi e i palestinesi – se Israele e i palestinesi sono contenti, sono contento di quella che loro preferiscono.  

Riguardo allo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, mi piacerebbe che succedesse. Ce ne stiamo occupando molto, molto seriamente. Ce ne stiamo occupando con molta attenzione – molta attenzione, credetemi. E staremo a vedere cosa succede. Va bene?

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Grazie. Ieri ho letto che un funzionario americano ha detto che se chiedi a cinque persone a cosa assomiglierebbero due Stati, otterresti otto risposte diverse. Signor presidente, se lei chiede a cinque israeliani, avrà in cambio 12 risposte diverse. (Risate).

Ma piuttosto che occuparmi di etichette, voglio occuparmi di sostanza. E’ ciò che ho sperato di fare per anni in un mondo che è assolutamente ossessionato dalle etichette e non dalla sostanza. Per cui ecco la sostanza: ci sono due prerequisiti che ho esposto due anni fa – parecchi anni fa, e non sono cambiati.

Primo, i palestinesi devono riconoscere lo Stato ebraico. Devono smettere di chiedere la distruzione di Israele. Devono smettere di formare il loro popolo per la distruzione di Israele

Secondo, in qualunque accordo di pace, Israele deve conservare il controllo predominante per la sicurezza sull’intera zona ad ovest del fiume Giordano. Perché se non l’abbiamo, sappiamo quello che succederà – perché altrimenti avremo un altro Stato terroristico radicale islamico nelle zone palestinesi che farà esplodere la pace, farà esplodere il Medio Oriente.

Ora, sfortunatamente, i palestinesi rifiutano categoricamente entrambi i prerequisiti per la pace. Primo, continuano a sostenere la distruzione di Israele – nelle loro scuole, nelle moschee, nel libri di testo. Dovete leggerli per crederci.

Negano persino, signor presidente, il nostro legame storico con la nostra patria. E penso che dovreste chiedervi: perché – perché gli ebrei sono chiamati così? Bene, i cinesi sono chiamati cinesi perchè vengono dalla Cina. I giapponesi sono chiamati giapponesi perchè vengono dal Giappone. Bene, gli ebrei sono chiamati giudei perché vengono dalla Giudea. E’ la nostra terra ancestrale. Gli ebrei non sono colonialisti stranieri in Giudea.

Perciò, sfortunatamente, non solo i palestinesi negano il passato, ma avvelenano anche il presente. Danno il nome di assassini di massa, che hanno ucciso israeliani, a pubbliche piazze, e devo dire che hanno assassinato anche americani. Finanziano – danno sussidi mensili a famiglie di assassini, come la famiglia del terrorista che ha ucciso Taylor Force, un magnifico giovane americano, un laureato di West Point, che è stato accoltellato a morte mentre visitava Israele.

Perciò questa è la fonte del conflitto – il costante rifiuto palestinese di riconoscere lo Stato ebraico all’interno di qualunque confine: questo costante rifiuto. Questa è la ragione per cui non abbiamo la pace. Ora, ciò deve cambiare. Voglio che cambi. Non solo non ho abbandonato questi due prerequisiti per la pace; sono diventati ancora più importanti a causa della crescente ondata di fanatismo che ha travolto il Medio Oriente ed ha anche, sfortunatamente, infettato la società palestinese.

Quindi voglio che questo cambi. Voglio questi due prerequisiti per la pace – sostanza, non etichette – voglio che siano reintrodotti. Ma se qualcuno pensa che io, in quanto primo ministro di Israele, responsabile della sicurezza del mio Paese, voglia ciecamente andare verso uno Stato palestinese terrorista che vuole la distruzione del mio Paese, si sbaglia di grosso.

I due prerequisiti per la pace – riconoscimento dello Stato ebraico e le necessità di sicurezza di Israele a ovest del Giordano- rimangono in vigore. Dobbiamo cercare nuove vie, nuove idee su come ripristinarli e come mandare avanti la pace. E io credo che la grande opportunità per la pace venga da un approccio regionale che coinvolga i nostri nuovi alleati arabi nella ricerca di una pace più complessiva e una pace con i palestinesi.

E io sono ansioso di discuterne nei dettagli con lei, signor presidente, perché penso che se lavoriamo insieme, abbiamo una possibilità.

IL PRESIDENTE TRUMP: E ne abbiamo discusso, ed è una cosa che è molto diversa, che non è mai stata discussa prima. Ed è veramente una faccenda molto più grande, molto più importante, in un certo senso. Coinvolgerà molti, molti Paesi e coprirà un territorio molto ampio. Per cui non sapevo che stesse per parlarne, ma è così e questo è… ora che lo ha fatto, penso che sia una cosa enorme e che abbiamo una collaborazione veramente buona da popoli che in passato non avrebbero mai, non hanno mai neanche pensato di farlo. Per cui vedremo come questo funzionerà.

Katie di Townhall [sito conservatore di notizie. Ndtr.]. Dov’è Katie? Là. Katie.

D. Grazie, signor presidente. Nelle sue considerazioni iniziali lei ha detto che entrambe le parti dovranno arrivare a compromessi quando si arriverà a un accordo di pace. Lei ha menzionato un blocco alle colonie. Ci può esporre qualche altro compromesso specifico a cui lei sta pensando, sia per gli israeliani che per i palestinesi?

E, signor primo ministro, che cosa si aspetta dalla nuova amministrazione su come modificare l’accordo nucleare con l’Iran o annullarlo del tutto, e come lavorare complessivamente con la nuova amministrazione per combattere la crescente aggressività dell’Iran, non solo negli ultimi mesi ma anche negli ultimi due anni?

IL PRESIDENTE TRUMP: E’ davvero una domanda interessante. Penso che gli israeliani debbano dimostrare una certa flessibilità, il che è difficile, difficile da fare. Dovranno dimostrare il fatto che vogliono davvero fare un accordo. Penso che il nostro nuovo concetto che abbiamo discusso in effetti per un po’ di tempo è qualcosa che consenta loro di mostrare maggiore flessibilità di quella che hanno avuto in passato perché c’è un canovaccio molto più ampio da recitare. E penso che lo faranno.

Penso che a loro piacerebbe molto arrivare ad un accordo o non sarei contento e non sarei qui e non sarei così ottimista. Io penso davvero che loro – posso dire dal punto di vista di Bibi e di Israele, credo davvero che vogliano fare un accordo e che vogliano vedere un grande accordo.

Penso che i palestinesi debbano liberarsi di parte dell’odio che hanno insegnato loro fin dall’infanzia. Hanno insegnato loro un odio terribile. Ho visto quello che insegnano. E tu puoi parlare anche lì di flessibilità, ma iniziano dalla tenera età e nelle scuole. E devono riconoscere Israele – dovranno cominciare a farlo. Non c’è modo di fare un accordo se non sono disposti a riconoscere un Paese veramente grande e importante. E penso che saranno disponibili anche a questo. Ma ora credo anche, Katie, che avremo altri attori ad un livello molto alto, e penso che ciò renderà più facile sia ai palestinesi che a Israele ottenere qualcosa.

Va bene? Grazie. Domanda molto interessante. Grazie.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Lei ha chiesto dell’Iran. Una cosa è impedire che l’Iran abbia armi nucleari – una cosa che il presidente Trump ed io crediamo di essere molto impegnati a fare. E noi stiamo naturalmente per discutere di questo.

Oltre a questo penso che il presidente Trump abbia guidato un’importante iniziativa nelle ultime settimane, appena ha assunto la presidenza. Ha sottolineato che ci sono violazioni, violazioni iraniane sui test dei missili balistici. Tra l’altro su questi missili balistici c’è scritto in ebraico “Israele deve essere distrutto.” Il palestinese… anzi, il ministro degli Esteri iraniano Zafir ha affermato, bene, i nostri missili balistici non sono pensati contro nessun Paese. No. Scrivono sul missile in ebraico: “Israele deve essere distrutto.”

Per cui sfidare l’Iran sulle sue violazioni in merito ai missili balistici, imporre sanzioni contro Hezbollah [gruppo armato sciita libanese. Ndtr.], impedirglielo, far pagare a loro per il terrorismo che fomentano in tutto il Medio Oriente ed altrove, molto al di là [del Medio Oriente] – credo che sia un cambiamento che è chiaramente evidente da quando il presidente Trump ha assunto la presidenza. Ne sono lieto. Penso che sia – lasciatemelo dire molto esplicitamente: credo che sia molto tardi, e penso che se lavoriamo insieme – e non solo gli Stati Uniti e Israele, ma molti altri nella regione che vedono in faccia le grandi dimensioni e il pericolo della minaccia iraniana, allora ritengo che possiamo respingere l’aggressività iraniana e il pericolo. E si tratta di qualcosa che è importante per Israele, per gli Stati arabi, ma penso che sia di vitale importanza per l’America. Quei tizi stanno sviluppando ICBM [missili balistici intercontinentali]. Stanno sviluppando – vogliono arrivare ad avere un arsenale nucleare, non una bomba, centinaia di bombe. E vogliono avere la capacità di lanciarli ovunque sulla terra, compreso, e soprattutto, un giorno, sugli Stati Uniti.

Quindi è una cosa importante per tutti noi. Mi rallegro del cambiamento, e intendo lavorare con il presidente Trump molto da vicino in modo che possiamo contrastare questo pericolo.

IL PRESIDENTE TRUMP: Ottimo. Avete qualcun altro?

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Moav?

D. Signor presidente, a partire dalla sua campagna elettorale ed anche dopo la sua vittoria, abbiamo assistito ad un’impennata di incidenti antisemiti negli Stati Uniti. E mi chiedo cosa lei dica a quelli, tra la comunità ebraica negli Stati Uniti, e in Israele, e forse in tutto il mondo, che credono e sentono che la sua amministrazione sta giocando con la xenofobia e forse con toni razzisti.

E, signor primo ministro, lei è d’accordo con quello che ha appena detto il presidente in merito alla necessità per Israele di limitare o bloccare l’attività di colonizzazione in Cisgiordania? E una piccola aggiunta alle domande del mio amico – una semplice domanda: ha abbandonato la sua visione per la fine del conflitto della soluzione dei due Stati, come l’ha enunciata nel discorso di Bar-Ilan [università israeliana. Ndtr.], o lei continua ad appoggiarla? Grazie.

IL PRESIDENTE TRUMP: Voglio solo dire che siamo molto onorati dalla vittoria che abbiamo avuto – 306 voti del collegio elettorale. Non pensavamo di superare i 220. Lo sa, vero? Non c’era modo di arrivare a 221, ma allora hanno detto che non si poteva arrivare a 270. E c’è un enorme entusiasmo in giro.

Dirò che stiamo per avere pace in questo Paese. Stiamo per porre fine al crimine in questo Paese. Stiamo per fare ogni cosa in nostro potere per porre fine al razzismo a lungo covato e ad ogni altra cosa che sta succedendo, perché molte cose malvagie sono successe per un lungo periodo di tempo.

Credo che una delle ragioni per cui ho vinto le elezioni è che abbiamo una Nazione molto, molto divisa. Molto divisa. E, auspicabilmente, sarò in grado di fare qualcosa a questo proposito. E, sapete, è stata una cosa molto importante per me.

Riguardo alla gente – gli ebrei- molti amici, una figlia che è appena arrivata qui, un genero e tre bellissimi nipoti. Penso che vedrete degli Stati Uniti molto diversi nei prossimi tre, quattro o otto anni. Penso che avverranno molte cose buone, e state per vedere molto amore. State per vedere molto amore. Va bene? Grazie.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Credo che la questione delle colonie non sia al centro del conflitto, né lo stia davvero guidando. Penso che sia un problema, deve essere risolto nel contesto dei negoziati di pace. E penso che dobbiamo parlare anche di questo, il presidente Trump ed io, in modo da arrivare ad una comprensione, quindi non dobbiamo continuare a scontrarci tutto il tempo su questo problema. E stiamo per discuterne.

Sulla domanda che ha fatto, lei con la sua domanda è proprio tornato sul problema di cui ho parlato. E’ l’etichetta. Cosa intende Abu Mazen per due Stati, va bene? Cosa intende? Uno Stato che non riconosce lo Stato ebraico? Uno Stato che è fondamentalmente disposto ad attacchi contro Israele? Di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando del Costarica, o stiamo parlando di un altro Iran?

Quindi ovviamente ciò significa cose diverse. Vi ho detto quali sono le condizioni che credo siano necessarie per un accordo: sono il riconoscimento dello Stato ebraico e il controllo della sicurezza di Israele- di Israele – nell’intera area. Altrimenti stiamo solo fantasticando. Altrimenti avremo un altro Stato fallito, un’altra dittatura islamista terrorista che non lavorerà per la pace ma per distruggerci, ma anche per distruggere ogni speranza – ogni speranza – per un futuro pacifico per il nostro popolo.

Quindi sono stato molto chiaro in merito a queste condizioni, e non sono cambiate. Non ho cambiato. Se lei legge quello che ho detto otto anni fa, è proprio questo. E l’ho ripetuto ancora e ancora e ancora. Se lei vuole occuparsi di etichette, si occupi di etichette. Io mi occuperò di cose concrete.

E in conclusione, se posso rispondere a qualcosa che conosco per esperienza personale. Conosco da molti anni il presidente Trump, e per accennare a lui e alla sua gente – i suoi collaboratori, alcuni dei quali conosco, anche loro, da molti anni. Posso rivelare, Jared, da quanto ti conosco? (Risate.) Bene, non è mai stato piccolo. E’ sempre stato grande. E’ sempre stato alto.

Ma io conosco il presidente e la sua famiglia e i suoi collaboratori da molto tempo, e non c’è maggior sostenitore del popolo ebraico e dello Stato ebraico del presidente Donald Trump. Penso che dovremmo smetterla con questa storia.

IL PRESIDENTE TRUMP: Molte grazie. Molto gentili. Lo apprezzo molto.

IL PRIMO MINISTRO NETANYAHU: Grazie.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La soluzione dei due Stati: che cosa ha detto esattamente Trump

Amir Tibon, 15 febbraio 2017, Haaretz

Cinque domande per dare senso alla conferenza stampa Trump-Netanyahu

La conferenza stampa congiunta di Donald Trump e Benjamin Netanyahu di mercoledì scorso è stata esattamente come ci aspettavamo che fosse, ed anche qualcosa di più. E’ stata piena di grandi titoli, sorrisi, momenti di imbarazzo ed anche di un minimo di tensione. Per molti che l’hanno seguita in diretta, la conferenza stampa ha lasciato un senso di confusione, ulteriormente rafforzato dalle contraddittorie conclusioni che ne hanno tratto vari organi di stampa.

Alcuni titoli hanno annunciato che Trump aveva rotto con “decenni di politica americana”, in quanto avrebbe “abbandonato la soluzione dei due Stati.”Altri hanno sottolineato con quanta forza Trump abbia enfatizzato il suo desiderio di vedere un accordo di pace in Medio Oriente, al punto da dire esplicitamente a Netanyahu che Israele dovrà fare compromessi e mostrare flessibilità, chiedendo al primo ministro: “Lo capisci, vero?”

Per cercare di dare un senso a tutto questo, ecco cinque domande chiave che hanno avuto maggior rilevanza nei reportage sulla conferenza stampa – ed il nostro modesto tentativo di darvi risposta.

1. Che cosa ha detto esattamente Trump riguardo alla soluzione dei due Stati?

Il presidente americano non ha citato la soluzione dei due Stati nell’ intervento che aveva preparato, ha invece parlato solo in generale di un accordo di pace che richiederà “flessibilità” e “compromessi” da entrambe le parti. Alla domanda specifica sulla soluzione dei due Stati, Trump ha risposto che non privilegia alcuna opzione – uno Stato, due Stati o qualcos’altro – a condizione che venga accettata dalle due parti, Israele e i palestinesi. Tale risposta corrisponde a quanto detto recentemente da diversi funzionari dell’amministrazione, cioè che Trump vuole un accordo di pace e lascerebbe alle due parti  la definizione dei suoi termini.

Trump ha anche detto a Netanyahu che Israele dovrebbe “frenare un po’” sulle colonie, il che significa che si rende conto della dimensione territoriale del conflitto israelo-palestinese. Il suo tono e le sue parole sulle colonie non sono stati duri come quelli del suo predecessore Barak Obama, però ha anche messo in chiaro che chi in Israele avrebbe potuto aspettarsi una “assegno in bianco” da Trump sulla costruzione di colonie probabilmente sarà rimasto deluso.

2. Che cosa significa l’affermazione di Trump?

La risposta a questa domanda è passibile di diverse interpretazioni. In Israele alcuni politici e commentatori di destra hanno apertamente acclamato le parole di Trump e le hanno presentate come un certificato di morte ufficiale della soluzione dei due Stati. Oltreoceano, negli USA, il New York Times ha considerato l’apertura di Trump ad una soluzione di un solo Stato come il principale risultato della conferenza stampa.

Altri tuttavia hanno visto questa dichiarazione come una semplice affermazione che i termini dell’accordo di pace dovranno essere negoziati tra le due parti e che gli Stati Uniti non li imporranno loro. Bisogna notare che il primo presidente americano che ha formalmente sostenuto la soluzione dei due Stati fu George W. Bush, che lo fece solo nel 2001. Bush, ed Obama dopo di lui, definì quella soluzione come un vitale interesse americano. Mentre alcuni alti funzionari dell’amministrazione Trump – come il segretario alla difesa James Mattis – concordano con questa impostazione, Trump sembra pensarla diversamente. Per lui l’interesse vitale è un accordo di pace, che preferibilmente coinvolga non solo Israele e i palestinesi, ma anche altri Stati arabi.

Se un tale accordo di pace sarà possibile solo nel quadro di una soluzione di due Stati, che sia così. Se vi sono altri modi per raggiungerlo,Trump è anche disposto ad esaminarli. La cosa importante dal suo punto di vista è un accordo che entrambe le parti possano accettare. Finora, dopo decenni di negoziati, nessun’altra formula è stata accettata né dai palestinesi né dal mondo arabo. Resta da vedere se la dichiarazione di Trump cambierà le cose o se tra qualche mese dirà che questa è l’unica soluzione accettata dalle due parti.

David Makovsky, ex negoziatore di pace e direttore del Programma per la pace in Medio Oriente presso l’Istituto di Washington per la politica del Vicino Oriente, ha scritto che secondo lui l’affermazione di Trump su due Stati piuttosto che un unico Stato voleva sostanzialmente dire che “gli Stati Uniti non possono desiderare un accordo più delle due parti.”

3. Allora che cosa implica in realtà la visione della pace di Trump? 

Nella conferenza stampa Trump ha esposto diverse idee. Anzitutto ha affermato un’ovvietà, che entrambe le parti dovranno fare concessioni e mostrare flessibilità. Riguardo ad Israele, ha citato moderazione sulle colonie. Riguardo ai palestinesi, il suo linguaggio è stato più duro – ha detto che dovranno fermare l’istigazione contro Israele, anche nelle scuole. Trump ha parlato di “fermare l’odio” verso israeliani ed ebrei. A parte questo, ha detto di volere raggiungere un accordo di pace nella regione con il coinvolgimento di altri Paesi arabi.

Un’affermazione centrale di Trump, che non ha ricevuto molta attenzione dai media, è stata che lui crede che un accordo regionale permetterebbe ad Israele di “mostrare maggior flessibilità” che nel passato. Questo passaggio in realtà coincide con i tentativi delle precedenti amministrazioni USA – da Clinton a Obama – di coinvolgere il mondo arabo nei negoziati di pace, in modo che Israele possa ottenere maggiori vantaggi diplomatici, economici e in tema di sicurezza per ogni compromesso territoriale che accetti. Trump non è il primo presidente USA ad adottare questa linea di pensiero, ma potrebbe essere il primo a metterla realmente in pratica in vista di un accordo di pace.

4. Netanyahu ha ritirato il suo sostegno alla soluzione dei due Stati? 

A differenza di Trump, che ha lasciato ampio spazio all’interpretazione dell’esatto significato delle sue parole, Netanyahu è stato più chiaro nelle sue affermazioni, ed ha fatto un grande passo verso l’abbandono della soluzione dei due Stati, senza dirlo in modo esplicito. Netanyahu ha detto che nella sua ipotesi di accordo di pace Israele dovrà mantenere il controllo sull’intero territorio ad ovest del fiume Giordano. Questo significa, di fatto, che il futuro Stato di Palestina –se mai vi sarà – resterà sotto il controllo israeliano e potrebbe sostenere di essere effettivamente occupato da Israele.

In passato Netanyahu ha pubblicamente insistito su due condizioni per la pace – il riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato ebraico, e che lo Stato palestinese sia demilitarizzato, in modo da non poter attaccare militarmente Israele. Ha anche richiesto in recenti tornate di negoziati che Israele potrà mantenere per decenni una presenza militare nella valle del Giordano – l’area che separa dal Giordano i principali centri popolati palestinesi in Cisgiordania. Però la frase usata nella conferenza stampa, “controllo israeliano”, spinge la sua richiesta di sicurezza ancor più in là.

Netanyahu ha anche detto che lui ed il presidente palestinese Abbas non hanno raggiunto un accordo su una comune definizione di due Stati. Certo non c’è probabilmente nessun leader palestinese che possa accettare di chiamare “Stato” un’entità palestinese sotto controllo militare israeliano. Questo elemento di disaccordo è stato una delle principali ragioni per cui nel 2014 il tentativo di John Kerry di formulare un accordo di pace è fallito. Resta da vedere come Trump, il presidente dell’ “Arte degli accordi” [titolo di un libro scritto da Trump nel 1987. Ndtr.], affronterà la questione.

5. Questa conferenza stampa è stata positiva o negativa per Netanyahu? 

Di nuovo, dipende a chi lo si chiede. L’esultanza nelle fila della destra israeliana sicuramente risponde alle necessità politiche a breve di Netanyahu e non c’è dubbio che anche da un punto di vista di centro-sinistra le parole di Trump sono state musica per le orecchie di Netanyahu, se paragonate ad alcune cose che il presidente Obama gli ha detto negli ultimi otto anni.

D’altro lato, il passaggio in cui Trump ha parlato di concessioni israeliane e poi ha apostrofato direttamente Netanyahu chiedendogli “lo capisci, vero?”, potrebbe creare problemi sulla strada di un primo ministro la cui coalizione dipende da partiti di destra che si oppongono ad ogni forma di compromesso con i palestinesi. Un esponente della destra israeliana con cui ho parlato ha aggiunto che la presentazione da parte di Trump di due sole opzioni – una soluzione di uno Stato unico o una soluzione di due Stati – è un errore, poiché la linea dominante della destra israeliana è contraria ad entrambe le opzioni e privilegia altre ipotesi (per esempio un’autonomia palestinese o uno Stato palestinese in Giordania.)

Se Israele deve scegliere tra due Stati o uno Stato unico, più probabilmente sceglierebbe la prima opzione e non si metterebbe nella condizione di diventare uno Stato binazionale in cui quasi metà della popolazione si trova sotto la soglia di povertà. Trump ha detto che lui accetterebbe una simile situazione, ma Netanyahu probabilmente no. Questo pone sulle sue spalle l’onere di proporre altre ipotesi – e di cercare di convincere Trump che esse possono essere accettate dai palestinesi e dal mondo arabo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Esponenti israeliani e palestinesi reagiscono all’abbandono della soluzione a due Stati da parte di Trump

16 febbraio 2017, Maannews

Betlemme (Ma’an) – A seguito del controverso incontro avvenuto mercoledì tra il presidente USA Donald Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu, i dirigenti israeliani e palestinesi hanno reagito in modo positivo e negativo riguardo all’evidente mutamento della politica statunitense con l’abbandono del sostegno alla soluzione a due Stati.

Mercoledì durante una conferenza stampa che ha preceduto l’incontro Trump ha risposto a una domanda riguardo alla posizione della sua amministrazione rispetto alla soluzione a due Stati il giorno dopo che un funzionario USA aveva detto che il Paese non era necessariamente legato alla soluzione politica come l’unica in grado di porre termine al conflitto israelo-palestinese

Io considero sia [la soluzione] a due Stati che a un solo Stato e mi piace quella che piace a entrambe le parti” ha detto Trump, provocando una risata di Netanyahu. “Posso vivere con entrambe”.

Mentre esponenti della comunità internazionale hanno riposto la soluzione del conflitto israelo-palestinese sulla soppressione delle colonie illegali israeliane e sulla soluzione a due Stati, un numero crescente di attivisti palestinesi, dato l’attuale contesto politico, criticano questa soluzione come insostenibile e poco inadeguato ad assicurare una pace duratura e propongono invece uno Stato bi-nazionale con uguali diritti per israeliani e palestinesi.

Le reazioni israeliane

Gli esponenti politici israeliani di destra sono stati pronti a manifestare il consenso sull’incontro tra Trump e Netanyahu, con il quotidiano israeliano Haaretz che ha citato il ministro dell’Istruzione dell’estrema destra israeliana Naftali Bennet che ha affermato: “ La bandiera palestinese è stata ammainata dal pennone ed è stata rimpiazzata da quella israeliana. I palestinesi hanno già due Stati – Gaza e la Giordania – Non c’è nessun bisogno di un terzo.”

Il ministro ha anche scritto sui social media: “Una nuova era. Nuove idee. Nessun bisogno di un terzo Stato oltre alla Giordania e a Gaza. Un grande giorno per gli israeliani e per gli arabi ragionevoli.”

In precedenza Bennett aveva manifestato il suo appoggio a Trump dicendo a novembre , in seguito alle elezioni presidenziali negli USA, che una presidenza Trump avrebbe posto fine allo sforzo per realizzare uno Stato palestinese indipendente.

La vittoria di Trump è un’opportunità per Israele per rimangiarsi immediatamente l’idea di Stato palestinese al centro del Paese (Israele) il che potrebbe mettere in discussione la nostra sicurezza e la nostra giusta causa” ha detto allora Bennett. “Questa è la posizione del presidente eletto, che è scritta nel suo programma elettorale e dovrebbe essere la nostra politica, semplice e chiara. L’epoca di uno Stato palestinese è tramontata”.

Nel frattempo il ministro israeliano della pubblica sicurezza , Gilad Erdan del partito Likud è stato citato da Haaretz per aver detto che l’opinione di Trump sul conflitto israelo-palestinese “prova che siamo in una nuova epoca. La presa di posizione del presidente indica che la soluzione a due Stati non è l’unica soluzione per raggiungere la pace e che è venuto il momento di rovesciare l’equazione e di esercitare una pressione sulla parte palestinese”.

I ministri della destra in generale hanno espresso la loro opinione secondo cui Israele stava entrando in “una nuova epoca” non condizionata dalla soluzione a due Stati o da obiettivi di pace da lungo tempo formulati dalla comunità internazionale.

Secondo quanto riferito, il ministro israeliano della cultura Miri Regev, anche lui del partito Likud, ha detto che “l’epoca dei congelamenti è finita. È la fine del blocco delle costruzioni in Giudea e Samaria” come Israele definisce la Cisgiordania, aggiungendo che “oggi a Washington è cominciata una nuova era diplomatica”.

Altri ministri della destra hanno manifestato il proprio sollievo per il fatto che il governo israeliano non deve più fare finta di sostenere la soluzione a due Stati che gli sforzi internazionali per la pace hanno individuato per decenni quale percorso per uscire dall’impasse israelo-palestinese.

Finalmente si è posto fine a un’idea sbagliata e pericolosa: istituire uno Stato palestinese terrorista nel cuore della Terra di Israele” ha detto il ministro israeliano della scienza e della tecnologia Ofir Akunis, citato da Haaretz.

Nel frattempo la deputata della Knesset, Shelly Yacimovic, dell’Unione Sionista [coalizione tra il partito Laburista e Kadima. Ndtr.], ritenuto il partito “più a sinistra” nel panorama politico israeliano, avrebbe affermato che le dichiarazioni di Trump mercoledì sera non si allontanano in alcun modo da quelle delle precedenti amministrazioni USA, sottolineando che Trump ha espresso il suo dissenso riguardo all’espansione delle colonie israeliane e che il suo appoggio per trovare una soluzione soddisfacente per entrambe le parti è più articolato.

Le reazioni palestinesi e internazionali

A seguito della conferenza stampa l’ambasciatore palestinese presso le Nazioni Unite Riyad Mansour ha emesso un comunicato in cui afferma che la pace non si potrà realizzare “senza stabilire le basi di un processo di pace” e ha evidenziato il fatto che la maggioranza della comunità internazionale continua a sostenere la soluzione a due Stati nonostante le prese di posizione di Trump e Netanyahu.

Nel frattempo il portavoce di Hamas Hazem Qasim si è appellato all’Autorità Nazionale Palestinese perché abbandoni i negoziati con Israele e la convinzione che gli Stati Uniti siano in grado di svolgere una funzione di mediazione nel processo di pace, aggiungendo che Trump ha chiarito il fatto che l’attuale e le precedenti amministrazioni USA hanno parteggiato per Israele.

Nel suo comunicato Hazem Qaim ha detto che “ gli Stati Uniti non sono mai stati affidabili riguardo a dare al popolo palestinese i suoi diritti” aggiungendo che gli USA hanno solamente “provveduto a coprire Israele perché continuasse l’aggressione contro il popolo palestinese e l’espropriazione delle nostre terre”.

Egli ha anche detto che l‘amministrazione degli Stati Uniti, rimangiandosi la propria già debole posizione sulla soluzione a due Stati, indica un’escalation della tendenza USA a favore dell’occupazione israeliana.

Il dirigente di Fatah Rafaat Elayyan ha anche rilasciato un comunicato di condanna dell’incontro, affermando che Netanyahu e Trump hanno “palesemente affossato il sogno di istituire uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est”. Egli ha anche detto che Trump ha disconosciuto il diritto internazionale e tutti gli accordi precedenti tra palestinesi e israeliani per ottenere la pace nella regione.

Elayyan ha aggiunto: “Siamo di fronte a un’occupazione che rifiuta di creare uno Stato indipendente e mira ad annettere ad Israele la Cisgiordania e Gerusalemme, espandendo le colonie con l’appoggio dell’amministrazione USA.” Continuando ha sollecitato la dirigenza palestinese ad “intraprendere una nuova strategia” fondata su un’unità che possa porre fine al conflitto interno alla Palestina.

Se l’incontro Trump-Netanyahu non è sufficiente per unire il nostro fronte nazionale, allora non saremo mai capaci di confrontarci con questa sfida”, ha aggiunto Elayyan.

Elayyan ha anche detto che i palestinesi fanno affidamento sul vertice arabo che si terrà ad Amman il prossimo mese, in cui gli Stati arabi e islamici dovrebbero emettere un comunicato per appoggiare il popolo palestinese e i suoi diritti “ prima che sia troppo tardi”.

Elayyan ha aggiunto che Trump ha dato “semaforo verde al governo israeliano per continuare nell’attività di colonizzazione e di aggressione nei confronti del popolo palestinese” e ha sottolineato che gli Stati Uniti saranno responsabili di qualunque “situazione esplosiva” nella regione.

Il popolo palestinese continuerà la propria lotta per la libertà e la democrazia” ha detto.

Nel frattempo il responsabile della comunicazione del movimento Fatah, Nasser al-Qudwa, ha detto che “respingere la soluzione a due Stati significa respingere il processo di pace” e ha sottolineato che qualunque alternativa provocherebbe “un confronto doloroso e sanguinoso”.

Egli ha anche detto che l’abbandono della soluzione a due Stati non comporterà la scomparsa o l’indebolimento dell’idea palestinese per uno Stato indipendente e che quella soluzione a uno Stato unico dove tutti i cittadini avrebbero uguali diritti è “ semplicemente senza senso e impossibile”

Al-Qudwa ha aggiunto che la dirigenza palestinese e Fatah hanno una posizione chiara, sottolineando l’importanza di una presenza nazionale palestinese e della formazione di uno Stato palestinese, osservando che i diritti palestinesi sono “ non negoziabili”.

Il raggruppamento di sinistra Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) ha scritto in un comunicato che l’incontro Trump-Netanyahu ha segnato “un chiaro punto di svolta per porre fine agli obiettivi dei palestinesi” aggiungendo che il cambiamento di politica costituisce una violazione del diritto internazionale.

Il FPLP ha indicato cinque iniziative che ritiene debbano essere prese per rispondere al recente mutamento della politica statunitense-israeliana: dichiarare una presa di posizione unitaria che respinga la politica statunitense-israeliana; ritirare il riconoscimento [dello Stato] di Israele; organizzare urgentemente un incontro tra tutte le forze nazionaliste e islamiche per stabilire una nuova strategia nazionale da contrapporre alle imminenti sfide e difendere i diritti nazionali; cessare immediatamente il conflitto nazionale palestinese e continuare gli sforzi di tenere una sessione del Consiglio nazionale palestinese; cessare da parte dell’Autorità nazionale palestinese “di creare illusioni” a livello internazionale e  ritirarsi dagli accordi di Oslo.

Intanto mercoledì l’Alta Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e per la Politica di Sicurezza Federica Mogherini ha detto che la UE sosterrà sempre la soluzione a due Stati, aggiungendo che “senza dubbio la nostra ambasciata (italiana) rimarrà a Tel Aviv… e noi siamo ancora dell’opinione che la soluzione sia la coesistenza tra i due Stati: Israele e Palestina”.

Mercoledì il segretario generale dell’Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP) Saeb Erekat ha detto che la soluzione a due Stati era già un compromesso raggiunto con molte difficoltà come base per una pacifica risoluzione del conflitto, e che la proposta alternativa israeliana equivarrebbe a una soluzione di apartheid.

Contrariamente al disegno di Netanyahu di un solo Stato con due sistemi, [cioè] l’apartheid, l’unica alternativa a due Stati democratici e sovrani con i confini del 1967 è un solo Stato laico e democratico con uguali diritti per ognuno, cristiani, musulmani ed ebrei su tutta la Palestina storica,” ha detto Erekat.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Nonostante le dichiarazioni di Trump durante l’incontro con Netanyahu, Abbas e i palestinesi tirano un sospiro di sollievo.

Amira Hass, 16 febbraio 2017 Haaretz

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dalla dominazione israeliana, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid.

La dirigenza palestinese non ha nascosto la sua preoccupazione circa le notizie che gli americani hanno rinunciato ad appoggiare la creazione di uno Stato palestinese. Di fatto questo non è stato il messaggio inequivocabile che le dichiarazioni di Donald Trump hanno trasmesso nella conferenza stampa di mercoledì. Ognuna delle parti potrebbe rintracciarvi elementi per rafforzare la propria posizione.

Anche se gli Stati Uniti rinunciassero effettivamente a sostenere uno Stato palestinese, che cosa cambierebbe in realtà? Le amministrazioni USA precedenti a Trump hanno parlato di qualche soluzione dei due Stati e non hanno fatto niente per portarla avanti. Cioè, non hanno fatto niente per impedire ad Israele di bloccarla. Però le loro dichiarazioni e le loro promesse hanno indotto la dirigenza palestinese di Ramallah a mentire a sé stessa ed al suo popolo facendo credere che questa fosse la soluzione che la grande potenza appoggiava.

Questa costante menzogna – accompagnata da una massiccia assistenza finanziaria americana – è stata uno degli strumenti con cui la dirigenza dell’OLP, Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno continuato a dar ragione della propria esistenza. Quella menzogna ha aiutato a giustificare il mantenimento degli accordi con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza. Non stupisce che gli USA eroghino considerevoli contributi finanziari alle forze di sicurezza palestinesi.

La nuova musica che adesso arriva dalla Casa Bianca pone la domanda se i cambiamenti negli Stati Uniti possano indebolire ancor più lo status della leadership palestinese agli occhi dei palestinesi stessi e se quindi la sua esistenza sia in pericolo.

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dal giogo israeliano, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid. Per il popolo palestinese che vive qui [nei Territori Occupati] e per quello della diaspora questi non sono slogan, ma la realtà quotidiana.

Ventiquattro anni fa questa Nazione ha avuto una leadership popolare che ha fatto un generoso regalo ad Israele e agli ebrei – la soluzione dei due Stati. E’ così che i palestinesi hanno interpretato gli accordi di Oslo. Ma Israele ha rifiutato il dono.

La dirigenza palestinese poteva capire anche prima dell’assassinio di Yitzhak Rabin che Israele stava bluffando. Che mentre diceva “due Stati” creava enclaves. L’OLP si è intrappolata nella politica dei negoziati nella speranza che l’Occidente avrebbe fatto pressioni su Israele, che ci sarebbero stati cambiamenti politici positivi in Israele e che gli Stati arabi sarebbero intervenuti. Ma c’è anche un’altra ragione. La dirigenza palestinese ha trasformato la burocrazia di un’organizzazione per la liberazione nazionale in una burocrazia che governa, completa di autoconservazione e aggrappata alla propria posizione.

Il timore del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dei suoi colleghi di una deriva militare che danneggerebbe il loro popolo (come la Seconda Intifada) è reale e giustificato. Ma si confonde con gli interessi personali suoi e del gruppo di potere.

Al tempo stesso, ha preso forma l’illusione di una sovranità limitata all’interno delle enclaves palestinesi. L’ANP in Cisgiordania e Hamas a Gaza forniscono i servizi di base alla popolazione e rendono possibile l’attività pubblica, cosa che non era concessa sotto l’occupazione israeliana diretta.

Pur con tutte le critiche all’ANP per la corruzione, i metodi dittatoriali, l’inefficienza, le carenze nei servizi sociali, ecc., essa continua comunque a provvedere alle necessità fondamentali immediate della popolazione.

La presidenza Trump non è una ragione sufficiente per sciogliere l’ANP e gettare la società palestinese nel caos e nello scompiglio. La leadership palestinese ha ottenuto un’altra pausa.

Mercoledì un ufficiale della sicurezza palestinese ha rivelato ai media palestinesi l’incontro del capo della CIA con Abbas. Il messaggio che sta dietro alla fuga di notizie è chiaro. “Non preoccupatevi, l’esistenza dell’Autorità Palestinese sta a cuore agli Stati Uniti. Le istituzioni di Washington comprendono che il mantenimento del regime di enclaves garantisce una sorta di stabilità della sicurezza.”

Probabilmente stanno dicendo la stessa cosa al nuovo presidente. L’elemento più importante che può compromettere questa precaria stabilità non è Trump, ma un’escalation dell’oppressione israeliana e della sua politica di colonizzazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi sostengono che gli USA minacciano “gravi misure” se i [loro] dirigenti denunciano Israele al tribunale internazionale

Jack Khoury 1 febbraio 2017 | Haaretz

I dirigenti palestinesi sono furiosi per i nuovi avvertimenti dell’ amministrazione Trump riguardo alla [possibile] sospensione degli aiuti e persino al reinserimento dell’OLP nella lista dei gruppi terroristici.

Secondo fonti diplomatiche occidentali e arabe, Washington ha ammonito i dirigenti palestinesi che, qualora denunciassero Israele nei tribunali internazionali, andrebbero incontro a gravi misure da parte dell’amministrazione statunitense, quali la chiusura degli uffici dell’OLP nella capitale americana e la cessazione degli aiuti economici all’Autorità palestinese.

Haaretz è venuto a conoscenza che il messaggio dell’amministrazione Trump è stato inoltrato tramite il consolato americano, e non dalla Casa Bianca o dal Dipartimento di Stato, e che si è trattato di una conversazione telefonica con un dirigente palestinese in contatto diretto con il Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas.

Un’alta fonte palestinese ha detto a Haaretz che nella prima settimana da presidente Donald Trump ha firmato un decreto esecutivo di una mozione del Congresso, redatta durante la presidenza Obama, per fare passi contro l’Autorità palestinese e contro Fatah( la maggiore componente dell’OLP) nel caso in cui i palestinesi denuncino Israele.

“Nonostante la risoluzione del Congresso, i dirigenti palestinesi contavano sulla denuncia alla Corte [Penale Internazionale] come mezzo per arrestare la costruzione delle colonie. Ma il messaggio di questi giorni proveniente da Washington ha messo in chiaro che qualunque mossa del genere dei palestinesi provocherebbe una grave reazione americana, talmente forte che qualcuno ha parlato di rimettere l’OLP nella lista delle organizzazioni terroristiche,” ha riferito la fonte palestinese.

Il sabotaggio della strategia palestinese”

Haaretz è venuta a sapere che i dirigenti palestinesi si sono infuriati per i messaggi di Washington, definendoli un tentativo di sabotare tutta la strategia palestinese degli ultimi anni di abbandono della lotta armata e della violenza in favore di [un’attività] diplomatica internazionale collaborando con le istituzioni delle Nazioni Unite e con la comunità internazionale per realizzare la soluzione dei due Stati.

“Ogni decisione presa, dal riconoscimento della Palestina fatta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2011 fino all’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2016, aveva lo scopo di salvare la soluzione a due Stati” ha detto la fonte palestinese a Haaretz . “La politica di Netanyahu, compresa quella degli ultimi giorni, di accelerare la costruzione di migliaia di unità abitative, complice il silenzio di Washington, significa lo smantellamento di qualunque possibilità di una futura soluzione diplomatica” ha detto la fonte riferendosi al primo ministro israeliano.

Nel frattempo il ministro degli esteri palestinese ha duramente condannato la decisione di costruire migliaia di unità abitative in Cisgiordania, affermando che ciò rende la soluzione a due Stati una chimera.

Alti dirigenti palestinesi , incluso il segretario generale di Fatah Saeb Erekat, si sono appellati alla comunità internazionale perché intervenga senza indugi.

Nel frattempo fonti di Ramallah , quartier generale della Autorità Nazionale Palestinese, ammettono che, a causa della minaccia americana, non è stata presa nessuna decisione di denunciare Israele ai tribunali internazionali.

Haaretz è venuta a sapere che i dirigenti palestinesi discuteranno nei prossimi giorni della questione. “La minaccia americana è seria, ma gli americani e l’amministrazione Trump hanno parlato di volere la soluzione a due Stati e contemporaneamente hanno permesso a Netanyahu di continuare con la sua politica devastante e lo hanno sostenuto, il che è inconcepibile. Da palestinesi continueremo ad agire su ogni fronte internazionale per salvare la soluzione a due Stati e ci aspettiamo che la comunità internazionale faccia lo stesso” ha detto un funzionario palestinese che è a conoscenza nei dettagli dei messaggi trasmessi da Washington a Ramallah.

Per diversi anni l’Autorità Nazionale Palestinese si è mossa per trascinare in giudizio alla Corte Penale Internazionale dell’Aja Israele per presunti crimini di guerra come mezzo per contrastare la legalità delle colonie ebraiche in Cisgiordania.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Basta seminare il panico: in Palestina e Israele un unico Stato democratico è possibile

di Ramzy Baroud, 10 gennaio 2017, Middle East Monitor

Già molto prima del 28 dicembre scorso -quando il Segretario di Stato John Kerry è salito sul palco del Dean Acheson Auditorium di Washington DC per pontificare sull’incerto futuro della soluzione a due Stati e sulla necessità di salvare Israele da se stesso -Il tema della creazione di uno Stato Palestinese è stato di primaria importanza.

Infatti, nonostante ciò che si crede comunemente, lo sforzo per costituire uno Stato palestinese accanto ad uno ebraico risale a molto prima della Risoluzione Onu 181 del novembre 1947. Quella famigerata risoluzione chiedeva la partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno palestinese e un controllo internazionale su Gerusalemme.

Una lettura più accurata della storia può mettere in evidenza molti riferimenti allo Stato palestinese (o arabo) tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

L’idea dei due Stati è eminentemente occidentale. Nessun partito o leader palestinese ha mai pensato che la divisione della Terra Santa fosse davvero un’opzione. Allora una simile idea è sembrata assurda, in parte perché, come evidenziato da Ilan Pappe nel suo “La Pulizia Etnica della Palestina”, “quasi tutte le terre coltivate in Palestina appartenevano alla popolazione indigena (araba), (mentre) solo il 5.8 % era di proprietà di ebrei nel 1947”.

Un precedente, ma altrettanto importante, rimando ad uno Stato Palestinese fu fatto dalla commissione Peel, una commissione britannica d’inchiesta presieduta da Lord Peel, che venne inviato in Palestina per indagare sulle motivazioni alla base di uno sciopero generale, una rivolta e più tardi di una ribellione armata che iniziò nel 1936 e si protrasse per circa 3 anni.

La commissione stabilì che le “cause sottostanti ai disordini” fossero sostanzialmente due: il desiderio di indipendenza dei palestinesi e l’astio e il timore per la costituzione della patria nazionale per gli ebrei”. Quest’ultima fu promessa dal governo britannico alla Federazione Sionista della Gran Bretagna e dell’Irlanda nel 1917, nota in seguito come la dichiarazione Balfour.

La commissione Peel consigliò la spartizione della Palestina storica in uno Stato ebraico e in uno palestinese, che sarebbe stato incorporato nella Transgiordania [l’attuale Regno di GIordania. Ndtr.], con enclavi riservate al governo mandatario britannico.

Nel lasso di tempo di 80 anni tra quella raccomandazione e l’avvertimento di Kerry secondo cui la soluzione a due Stati sarebbe “seriamente in pericolo”, davvero poco è stato fatto in termini di passi concreti verso la costituzione di uno Stato palestinese. Ancor peggio, gli Stati Uniti hanno fatto uso ripetutamente del loro potere di veto all’ONU per impedire la costituzione dello Stato palestinese, nonché utilizzato il loro potere politico ed economico di intimidazione nei confronti di chi avesse (anche solo simbolicamente) riconosciuto uno Stato palestinese. Hanno giocato inoltre un ruolo chiave nel finanziare gli insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme, rendendo l’esistenza di uno Stato palestinese virtualmente impossibile.

Il punto ora è: perché l’Occidente continua ad utilizzare la “soluzione a due Stati” come parametro politico per giungere ad una risoluzione del conflitto israelo-palestinese mentre, allo stesso tempo, assicura che la sua stessa richiesta di risoluzione non diventi mai una realtà?

La risposta sta, parzialmente, nel fatto che fin dall’inizio la “soluzione a due Stati” non è mai stata concepita fin dall’inizio per essere realizzata. Come il “processo di pace” ed altre finzioni, ha avuto lo scopo di promuovere tra i palestinesi e il mondo arabo l’idea che esista un importante obiettivo per cui battersi, nonostante esso sia inattuabile.

Ma anche quell’obiettivo è stato condizionato da una serie di richieste risultate fin dall’inizio irrealistiche. Storicamente, i palestinesi hanno dovuto rinunciare alla violenza (la loro resistenza armata all’occupazione militare israeliana), acconsentire a varie risoluzioni dell’ONU, (benché Israele ancora rifiuti di riconoscerle), accettare il “diritto” di Israele ad esistere in quanto Stato ebraico, e così via. Lo Stato palestinese, prima ancora di essere costituito, avrebbe dovuto essere demilitarizzato, diviso tra Cisgiordania e Gaza ed escludere buona parte di Gerusalemme Est occupata.

Furono offerte numerose soluzioni “creative”, per ridurre ogni timore israeliano che l’inesistente Stato palestinese, nel caso fosse stato creato, potesse costituire una minaccia per Israele. Talvolta, la discussione in corso riguardava l’idea di una confederazione tra Palestina e Giordania, altre volte, come nelle proposte più recenti del capo del Jewish Home Party [La Casa Ebraica, partito di estrema destra dei coloni. Ndtr], il ministro israeliano Naftali Bennett, quella di trasformare Gaza in uno Stato indipendente e di annettere a Israele il 60% della Cisgiordania.

E quando gli alleati di Israele, delusi dall’ascesa della destra ebraica e dall’ostinazione del primo ministro Benjamin Netanyahu, insistono nell’affermare che è giunto il momento della soluzione a due Stati, esprimono i loro timori sotto forma di un amore estremo. L’attività delle colonie israeliane sta infatti “consolidando enormemente l’irreversibile realtà dello Stato unico” ha detto Kerry la settimana scorsa nel suo discorso politico.

Tale realtà dovrebbe costringere Israele o ad un compromesso circa l’identità ebraica dello Stato (come se avere una identità etnico/religiosa in un moderno Stato democratico fosse una precondizione normale) oppure a lottare contro il fatto di diventare uno Stato di apartheid (come se ciò non fosse già una realtà).

Kerry ha messo in guardia Israele circa il fatto che sarebbe rimasta solo l’opzione di porre i palestinesi “sotto occupazione militare permanente” privandoli della maggior parte delle libertà fondamentali”, aprendo così la strada ad uno scenario di “separazione e disuguaglianza”.

Mentre ci si preoccupava della disintegrazione della possibilità della “soluzione a due Stati”, pochi in realtà hanno cercato di comprendere la realtà dal punto di vista palestinese.

Per i palestinesi, il dibattito sulla necessità di Israele di scegliere tra essere uno Stato democratico o confessionale è risibile. Infatti per loro la democrazia israeliana si applica integralmente solo ai cittadini di origine ebraica e a nessun altro, mentre i palestinesi sono sopravvissuti per decenni dietro muri, recinti, prigioni ed enclave assediate, come nella Striscia di Gaza.

E lo scenario di apartheid fatto di “separazione e diseguaglianza” evocato da Kerry, con due ordinamenti giuridici, due diverse normative e due realtà applicate a due diversi gruppi sullo stesso territorio, si è realizzato nel momento stesso in cui lo Stato di Israele è stato fondato nel 1948.

Secondo un recente sondaggio, due terzi dei palestinesi, stanchi delle illusioni della loro stessa leadership fallimentare, concordano oggi sul fatto che la soluzione a due Stati non sia realizzabile. E questo numero tende ad aumentare tanto velocemente quanto le massicce iniziative di colonizzazione illegale che costellano Gerusalemme e la Cisgiordania occupate.

Questo non è un argomento contro la soluzione a due Stati; quest’ultima è esistita semplicemente come espediente per tranquillizzare i palestinesi, prendere tempo e delimitare il conflitto ad un orizzonte politico illusorio. Se gli Stati Uniti fossero stati davvero interessati alla soluzione a due Stati, avrebbero tenacemente combattuto per realizzarla decenni fa.

Dire oggi che la soluzione a due Stati è superata, significa accettare l’illusione che sia mai stata possibile.

Ciò detto, conviene a tutti capire che la coesistenza, in uno Stato democratico, non è uno scenario oscuro che determinerebbe la fine per la regione.

E’ tempo di abbandonare illusioni irrealizzabili e concentrare tutte le energie per promuovere la coesistenza, basata sull’eguaglianza e la giustizia per tutti.

Infatti, ci può essere tra il fiume [Giordano] e il mare [mediterraneo], un unico Stato,che sia uno Stato democratico per tutta la sua popolazione, indipendentemente dall’etnia o dal credo religioso.

Ramzy Baroud è un editorialista internazionalmente riconosciuto, autore e il fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre è stato un combattente per la libertà: la storia non detta di Gaza”(My FatherWas a Freedom Fighter: Gaza’sUntold Story)

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore stesso e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Ma’an News Agency.

(traduzione di Viviana Codemo)




Comunicato conclusivo integrale della conferenza di pace di Parigi

Haaretz – 15 gennaio 2017

Il documento completo è stato approvato all’unanimità dopo intensi negoziati ed è considerato meno duro di quello inizialmente previsto

DICHIARAZIONE CONGIUNTA DELLA CONFERENZA DI PACE SUL MEDIO ORIENTE

I) Facendo seguito all’incontro ministeriale tenutosi a Parigi il 3 giugno 2016, i partecipanti si sono incontrati a Parigi il 15 gennaio 2017 per riaffermare il proprio appoggio ad una giusta, durevole e complessiva soluzione del conflitto israelo-palestinese. Riaffermano che una soluzione negoziata per due Stati, Israele e Palestina, che vivano vicini in pace ed in sicurezza, è l’unico modo per raggiungere una pace durevole.

Hanno sottolineato l’importanza per le parti di riconfermare il proprio impegno per questa soluzione, di fare passi urgenti per invertire l’attuale tendenza negativa sul terreno, comprese continue azioni di violenza e attività di colonizzazione, e di iniziare significativi negoziati diretti.

Hanno ripetuto che una soluzione negoziata per due Stati dovrebbe soddisfare le legittime aspirazioni delle due parti, compreso il diritto palestinese ad avere uno Stato e il potere sovrano, la fine completa dell’occupazione iniziata nel 1967, soddisfare le necessità di sicurezza di Israele e risolvere ogni questione relativa allo status permanente sulla base delle risoluzioni 242 (1967) e 338 (1973) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e anche altre risoluzioni importanti del Consiglio di Sicurezza citate.

Hanno sottolineato l’importanza dell’iniziativa di pace araba del 2002 come quadro complessivo per la soluzione del conflitto arabo-israeliano, contribuendo quindi alla pace ed alla sicurezza regionali.

Hanno apprezzato gli sforzi internazionali di promuovere la pace in Medio Oriente, compresa l’adozione della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 23 dicembre 2016, che condanna chiaramente le attività di colonizzazione, l’istigazione ed ogni atto di violenza e terrorismo e fa appello ad entrambe le parti perché facciano dei passi per far avanzare sul terreno la soluzione dei due stati; le raccomandazioni del 1 luglio 2016 del Quartetto; i principi del segretario di Stato USA sulla soluzione dei due Stati del 28 dicembre 2016.

Hanno evidenziato l’importanza di affrontare la terribile situazione umanitaria e della sicurezza nella Striscia di Gaza e hanno auspicato rapidi passi per migliorare la situazione. Hanno sottolineato l’importanza per israeliani e palestinesi di rispettare il diritto internazionale, compreso quello umanitario e dei diritti umani.

II) I partecipanti hanno messo in evidenza il potenziale di sicurezza, stabilità e prosperità per entrambe le parti che potrebbe risultare da un accordo di pace. Hanno espresso la propria disponibilità a esercitare gli sforzi necessari per il raggiungimento di una soluzione dei due Stati e a contribuire in modo sostanziale ad accordi per garantire la sostenibilità di un accordo di pace negoziato, in particolare nel campo di incentivi politici ed economici, nel consolidamento delle risorse di uno Stato palestinese e nel dialogo della società civile. Tra le altre cose, ciò potrebbe includere: – un partenariato privilegiato europeo; altri incentivi politici ed economici e un maggiore intervento del settore privato; appoggio ad ulteriori sforzi delle parti per migliorare la cooperazione economica; continuo appoggio finanziario all’Autorità Palestinese nella costruzione di infrastrutture per un’economia palestinese sostenibile; appoggio e rafforzamento dei passi palestinesi per esercitare le proprie responsabilità come Stato consolidando le loro istituzioni e l’efficienza istituzionale, anche per la fornitura di servizi;

– la convocazione di incontri della società civile israeliana e palestinese, per migliorare il dialogo tra le parti, rilanciare la discussione pubblica e rafforzare il ruolo della società civile di entrambe le parti.

III) Guardando al futuro i partecipanti:

– chiedono ad entrambe le parti di riconfermare ufficialmente il proprio impegno per una soluzione dei due Stati, dissociandosi quindi dalle voci che rifiutano questa soluzione;

– chiedono ad entrambe le parti di dimostrare in modo autonomo, attraverso politiche ed azioni, un sincero impegno per la soluzione dei due Stati e di evitare passi unilaterali che pregiudichino il risultato di negoziati sulle questioni dello status finale, compresi, tra gli altri, Gerusalemme, le frontiere, la sicurezza, i rifugiati e che essi [i partecipanti alla conferenza] non riconosceranno;

– accolgono positivamente la prospettiva di una più stretta collaborazione tra il Quartetto e i membri della Lega Araba ed altri importanti attori per portare avanti gli obiettivi di questa dichiarazione.

Come prosieguo della conferenza, i partecipanti coinvolti, esprimendo la propria disponibilità a verificare progressi, hanno deciso di ritrovarsi prima della fine dell’anno per appoggiare entrambe le parti nel far avanzare la soluzione dei due Stati attraverso negoziati.

La Francia informerà le parti sull’appoggio collettivo della comunità internazionale e sul contributo concreto alla soluzione dei due Stati contenuta in questa dichiarazione congiunta.

(traduzione di Amedeo Rossi)