I palestinesi non hanno altra scelta: restare e lottare

David Hearst

29 gennaio 2020 – Middle East Eye

Una nuova ondata di lotte deve ora iniziare per ottenere la parità dei diritti in uno Stato che comprenda tutta la Palestina storica

Per anni sulla strada dei piani messianici di Benjamin Netanyahu per stabilire lo Stato di Israele fra il fiume e il mare, c’è stata una trappola per elefanti.

Si tratta del dato demografico secondo il quale, in quello spazio, c’erano più palestinesi che ebrei. Secondo i dati dell’Ufficio Centrale di Statistica (CBS) del 2016 forniti alla Commissione di Difesa e Affari Esteri della Knesset israeliana, fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo c’erano 6,5 milioni di mussulmani e 6,44 milioni di ebrei, anche se quei dati ora sono superati. La commissione si riferiva ai musulmani, non ai palestinesi, escludendo perciò i palestinesi cristiani.

Ciò significa che il piano di annessione di Netanyahu da solo non può funzionare. Le enormi infrastrutture di calcestruzzo con cui Israele ha cosparso di cemento la Cisgiordania che occupa – colonie, muri, strade e tunnel – e lo stato di apartheid imposto, crudele e totale più di quello messo in pratica in Sud Africa, sono tutti palliativi – medicine con cui ridurre il dolore di uno Stato a maggioranza ebrea, senza eliminarne la causa.

Un’altra Nakba

Si può annunciare quante volte si vuole, come ha fatto ieri Donald Trump, che Israele occuperà la valle del Giordano e quindi circa il 30% della Cisgiordania e imporre la legge israeliana sulle colonie, ma senza spostare fisicamente numeri sempre maggiori di palestinesi fuori da uno Stato di Israele ingrandito, poco cambia. L’annessione diventa solo un’altra forma di occupazione.

Perciò al centro della “visione” di pace di Trump e Netanyahu sta un trasferimento di popolazione, in massa, un’altra Nakba o Catastrofe.

Questa è una pace per modo di dire. È il silenzio che si sente nei villaggi palestinesi nel 1948, a Beit Hanoun nel 2014, quando nel nord di Gaza Israele ha bombardato una scuola dell’ONU affollata di centinaia di civili sfollati, uccidendone 15 e ferendone 200, o ad Aleppo est o a Mosul, dopo averle bombardate, una dopo l’altra, fino a ridurle in macerie. È la pace creata dalla totale e completa sconfitta della lotta dei palestinesi per costruire uno Stato sulla propria terra.

Il piano segreto

Per me quindi il centro della visione apocalittica non sta nei discorsi suprematisti di Trump o Netanyahu, in cui entrambi proclamano “missione compiuta”, e la vittoria totale del movimento sionista sui palestinesi. Sta invece in un paragrafo ben sepolto nelle 180 pagine del documento, il documento più dettagliato, si vanta Trump, mai prodotto prima su questo conflitto. Esattamente.

È il paragrafo che dice che lo scambio di terre fatto dagli israeliani potrebbe includere le ” aree popolate e non popolate “. Il documento è preciso sulla popolazione a cui si riferisce, è la popolazione palestinese del 1948 del cosiddetto triangolo settentrionale di Israele – Kafr Qara, Baqa-al-Gharbiyye, Umm al-Fahm, Qalansawe, Tayibe, Kafr Qasim, Tira, Kafr Bara e Jaljulia.

Il documento continua: “La Visione contempla la possibilità, soggetta all’accordo delle parti, che i confini di Israele vengano ridisegnati in modo che le comunità del Triangolo vengano a far parte dello Stato di Palestina. In questo accordo, i diritti civili degli abitanti delle comunità del Triangolo saranno assoggettate alle leggi, ove applicabili, e alle decisioni giudiziarie delle autorità competenti.”

Questa è la parte nascosta ma più pericolosa di questo piano. Il Triangolo ospita circa 350.000 palestinesi, tutti cittadini israeliani, abbarbicati sul confine nord-occidentale della Cisgiordania. Umm al-Fahm, la città principale, ha dato i natali ad alcuni dei più attivi difensori di Al Aqsa.

Yousef Jabareen, un membro della Knesset della Lista Araba Unita [formata da partiti arabi di Israele e terza forza nel parlamento israeliano, ndtr.] mi ha detto: “Umm al-Fahm è la mia città, Wadi Ara è la mia anima. Il Triangolo è la patria di centinaia di migliaia di cittadini arabo-palestinese che vivono sulla propria terra. Il programma di annessione e trasferimento di Trump e Netanyahu ci strappa dalla nostra patria e revoca la nostra cittadinanza; un danno esistenziale a tutti i cittadini della minoranza araba. Ora è il momento per gli ebrei e gli arabi che hanno a cuore democrazia e uguaglianza di schierarsi e lavorare insieme contro questo pericoloso piano.” 

‘Pulizia etnica’ ufficiale

Per anni i leader israeliani di centro o di destra hanno giocherellato con il “trasferimento statico” di queste popolazioni fuori da Israele. All’idea di uno scambio di popolazione e territori avevano alluso gli ex primi ministri Ehud Barak e Ariel Sharon. Ma è stato solo Avigdor Lieberman ad aver sposato la causa dell’espulsione dei palestinesi. 

Egli propugna di privare un numero ipotetico di 350.000 palestinesi del Triangolo della loro cittadinanza israeliana e costringere l’altro 20% della popolazione israeliana non ebrea a fare un “giuramento di lealtà” a Israele quale ” Stato Sionista Ebraico ” o affrontare l’espulsione in uno Stato palestinese.

Due anni fa Netanyahu aveva suggerito a Trump che Israele avrebbe dovuto liberarsi del Triangolo. Oggi questi piani di pulizia etnica sono stati suggellati in un documento ufficiale della Casa Bianca. 

Ayman Odeh, un membro palestinese della Knesset, ha twittato che l’annuncio di Trump dà “il semaforo verde alla revoca della cittadinanza a centinaia di migliaia di cittadini arabo- palestinesi che vivono nel nord di Israele”.

Sostegno a Trump

L’altro aspetto notevole dell’annuncio di martedì alla Casa Bianca è stata la presenza nell’uditorio degli ambasciatori degli Emirati, Bahrain e Oman. Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno accolto il piano senza riserve. Anche il Qatar lo ha fatto, sebbene abbia aggiunto che lo Stato palestinese dovrebbe essere negoziato con i confini del 1967 e i palestinesi dovrebbero mantenere il diritto al ritorno.

Trump ha detto di essere stato stupito dal numero di chiamate che ha ricevuto dai leader di tutto il mondo a sostegno del suo piano, incluso il Primo Ministro britannico, Boris Johnson.

Buttando al vento quattro decenni di politica estera britannica sulla soluzione dei due Stati, Johnson ha sostenuto il piano di Trump con tutto il peso del Regno Unito. Anche il ministro degli esteri Dominic Raab ha dato appoggio all’accordo “chiaramente una proposta seria che riflette i grandi sforzi e il lungo tempo richiesto.” ha detto.

“Non riesco a credere alle dimensioni del sostegno ricevuto stamattina.” si è vantato Trump. “Mi hanno chiamato dei leader, Boris [Johnson] ha chiamato; così tanti hanno chiamato. Tutti mi dicono ‘cosa possiamo fare per aiutare’”.

Ci sono alcuni comunque che si sono resi conto del pericolo di questo piano. Il Senatore Chris Murphy è uno di loro. Ha twittato: “L’annessione unilaterale della valle del fiume Giordano e delle colonie esistenti, dichiarata illegale dalle leggi USA e internazionali, riporta indietro di decenni il processo di pace. E pone un rischio reale di violenze e un’enorme destabilizzazione in luoghi come la Giordania.”

 A casa da soli

Nessuno dovrebbe sottovalutare la portata storica della dichiarazione appena fatta. La soluzione dei due Stati o l’idea che uno Stato palestinese contiguo sia attuabile e possa essere creato a fianco di uno Stato a maggioranza ebraica è morta. Ed era morta ben prima degli accordi di Oslo. 

Ai sostenitori arabi come il re di Giordania Hussein venne detto sia dai sovietici, Yevgeny Primakov, che da James Baker, l’allora Segretario di Stato, che non si sarebbe mai ottenuto uno Stato palestinese indipendente. E questo ben prima della conferenza di Madrid che precedette Oslo. Il re non aveva bisogno di presenziare al funerale del suo amico Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995, per rendersene conto. Lo sapeva già. Ma adesso è veramente morto. 

Gli USA ora hanno dato il loro imprimatur ufficiale ai confini orientali dello Stato di Israele. La mappa (vedi map Middle East Eye published) dice tutto. Lo Stato palestinese immaginato dal piano sembra la TAC del cervello di una vittima dell’Alzheimer. Lo Stato palestinese è interamente divorato.

Il messaggio di questa mappa per i palestinesi di qualsiasi fazione è ora totalmente chiaro. Dimenticate le vostre divisioni, dimenticate cosa è successo tra Fatah e Hamas a Gaza nel 2007, accantonate pretese di colpi di stato e unitevi. Unitevi contro una minaccia esistenziale.

I palestinesi sono completamente soli. Tutti i punti fermi delle loro posizioni di negoziazione sono spariti. Non hanno Gerusalemme, niente diritto al ritorno, nessun rifugiato può ritornare, niente Alture di Golan e ora niente Valle del Giordano. Non hanno alleati arabi. La Siria è distrutta, l’Iraq diviso, Egitto e Arabia Saudita sono ora fantocci nelle mani di Israele. I palestinesi hanno perso il supporto della più popolosa e ricca Nazione araba.

Non hanno un posto dove fuggire. L’Europa è chiusa per ogni futura migrazione di massa. Hanno una sola alternativa: restare e lottare. Uniti possono annullare i piani israeliani suprematisti di pulizia etnica. L’hanno fatto in precedenza e lo possono fare di nuovo.

Una nuova lotta

Ora i palestinesi devono far fronte a questa situazione. Il riconoscimento di Israele da parte dell’OLP nel 1993 è finalmente arrivato a fine corsa, come si poteva immaginare. Le leggi USA e internazionali e le risoluzioni ONU non sarebbero mai venute in loro soccorso e, ma solo in questo senso, il brutale piano di Trump ha fatto un favore ai palestinesi. Ha fugato fantasie durate decenni.

Quella che deve cominciare ora è una nuova ondata di lotte per l’uguaglianza dei diritti in uno Stato su tutto il territorio della Palestina storica. Questo comporterà una lotta enorme. Nessuno dovrebbe sottostimare cosa succederà se i palestinesi insorgeranno ancora una volta. Ma nessuno dovrebbe aver alcun dubbio sulle conseguenze dell’accettazione.

Questa è la prima volta dal 1948 che tutti i palestinesi possono unirsi per farlo. Devono cogliere questa opportunità o scomparire e diventare una nota a piè pagina della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le opinioni editoriali di Middle East Eye.




Trump rivela il suo piano per il Medio Oriente, rifiutato dai palestinesi

Al Jazeera

28 gennaio 2020 Al Jazeera

I palestinesi respingono la proposta di Trump in Medio Oriente, definendola una “cospirazione” che “non passerà”.

Dopo molti rinvii, martedì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha esposto il suo piano per il Medio Oriente – una proposta che i leader palestinesi hanno definito una “cospirazione” che “non passerà”.

“Oggi Israele ha fatto un passo da gigante verso la pace”, ha dichiarato Trump con a fianco il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

“Il mio progetto presenta una soluzione vantaggiosa per entrambe le parti”, ha affermato, aggiungendo che i leader israeliani hanno dichiarato che avrebbero appoggiato la proposta.

Prima che fosse annunciata, i palestinesi l’avevano dichiarata già morta, dicendo che si tratta di un tentativo di “liquidare” la causa palestinese.

In seguito all’annuncio di Trump, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato i suoi “mille no” al piano.

Nel frattempo, Netanyahu ha detto trattarsi di un “giorno storico” e ha ringraziato Trump per la sua proposta. Ha detto che se i palestinesi accettano il piano, Israele sarà disposto a negoziare “subito”.

Gerusalemme “capitale indivisa”

L’iniziativa di Trump, il cui autore principale è suo genero Jared Kushner, segue una lunga serie di sforzi per risolvere uno dei problemi più irresolubili del mondo. I colloqui di pace israelo-palestinesi sono falliti nel 2014.

I palestinesi si sono rifiutati di confrontarsi con l’amministrazione Trump e hanno condannato la prima fase della proposta – un piano di risanamento economico di 50 miliardi di dollari annunciato lo scorso giugno.

Il piano politico di 50 pagine riconosce la sovranità israeliana sui principali gruppi di colonie illegali nella Cisgiordania occupata, a cui quasi sicuramente i palestinesi si opporranno. Trump ha dichiarato che a Israele verrà concesso il controllo di sicurezza della Valle del Giordano nella Cisgiordania occupata.

Trump ha detto che Gerusalemme resterà “capitale indivisa” di Israele. Ma ha anche detto che, secondo il piano, “Gerusalemme est” sarebbe la capitale di uno Stato di Palestina. Non ha approfondito cosa intendesse per Gerusalemme est. In seguito ha dichiarato su Twitter che una capitale palestinese potrebbe essere da qualche parte a “Gerusalemme est”.

Trump aveva già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, trasferendovi l’ambasciata americana da Tel Aviv.

In replica al piano, Abbas ha dichiarato: “Gerusalemme non è in vendita; tutti i nostri diritti non sono in vendita e non sono un affare”.

Sami Abu Zhuri, funzionario di Hamas [portavoce di Hamas nella Striscia di Gaza], ha affermato che la dichiarazione di Trump è “un’aggressione e scatenerà molta rabbia”.

“La dichiarazione di Trump su Gerusalemme è una sciocchezza e Gerusalemme sarà sempre terra dei palestinesi”, ha detto Zhuri all’agenzia di stampa Reuters . “I palestinesi si opporranno a questo accordo e Gerusalemme rimarrà terra palestinese”.

Martedì scorso, migliaia di palestinesi hanno manifestato nella Striscia di Gaza assediata per protestare contro l’atteso piano. Ci sono state proteste anche a Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Marwan Bishara, capo analista politico di Al Jazeera, ha affermato che “In questo caso il diavolo non è nei dettagli “.

“Il diavolo è nei titoli”, ha detto Bishara. “Ciò che abbiamo qui è un riconfezionamento – ingegnoso, molto intelligente e diabolico – dei problemi cronici di Israele e in Palestina per promuoverli come soluzioni”.

Conseguenze pericolose”

La maggior parte dei leader della regione ha stracciato il piano, ma altri hanno prudentemente incoraggiato israeliani e palestinesi a sedersi al tavolo dei negoziati.

La Giordania ha messo in guardia contro “l’annessione delle terre palestinesi” con l’allarme del ministro degli esteri del regno per le “pericolose conseguenze di misure israeliane unilaterali che mirano a imporre nuove realtà sul terreno “.

Anche Numan Kurtulmus, vicepresidente del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AK) al potere in Turchia, ha rigettato le dichiarazioni di Trump su Gerusalemme, dicendo: “No, Trump! Gerusalemme è capitale dello Stato palestinese e cuore del mondo islamico!”

Secondo Al Manar TV, il movimento libanese Hezbollah ha definito la proposta “l’accordo della vergogna”, aggiungendo che si tratta di un passo molto pericoloso che avrebbe conseguenze negative sul futuro della regione,.

Ha dichiarato anche che non ci sarebbe stata questa proposta senza “complicità e tradimento” da parte di diversi stati arabi.

L’Egitto ha esortato israeliani e palestinesi a “studiare attentamente” la proposta. Il ministero degli Esteri ha affermato in una dichiarazione che il piano favorisce una soluzione che ripristina tutti i “diritti legittimi” del popolo palestinese attraverso la creazione di uno “Stato indipendente e sovrano sui territori palestinesi occupati”.

L’ambasciatore in USA degli Emirati Arabi Uniti ha dichiarato che gli Emirati Arabi Uniti credono che palestinesi e israeliani possano raggiungere una pace duratura e un’autentica convivenza con il sostegno della comunità internazionale.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato di essere impegnate ad aiutare israeliani e palestinesi a discutere la pace sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, degli accordi bilaterali e della visione di due Stati basati sui confini pre-1967. Una di queste risoluzioni delle Nazioni Unite è stata adottata dal Consiglio di sicurezza un mese prima dell’entrata in carica di Trump nel gennaio 2017. La risoluzione chiede la fine delle colonie israeliane, con 14 voti a favore e l’astensione dell’amministrazione dell’ex presidente americano Barack Obama.

Mediatore onesto?

I palestinesi avevano precedentemente affermato che gli Stati Uniti non possono essere un onesto mediatore per la pace nella regione, accusandoli di pendere a favore di Israele.

Oltre a spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, l’amministrazione Trump ha anche tagliato centinaia di milioni di dollari in aiuti umanitari ai palestinesi e riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan occupate da Israele.

A novembre, con l’annuncio del segretario di Stato Mike Pompeo, che Washington non considerava più gli insediamenti israeliani sulle terre occupate della Cisgiordania come incompatibili con il diritto internazionale, l’amministrazione Trump ha ribaltato decenni di politica americana.

Kushner ha detto ad Al Jazeera che gli Stati Uniti credono che la proposta di Trump sia “l’ultima possibilità per i palestinesi di avere uno Stato”.

“È tempo [per i palestinesi] di lasciar andare le vecchie fiabe che a dirlo chiaramente non si realizzeranno mai”, ha aggiunto.

La proposta giunge proprio quando Trump e Netanyahu si trovano ad affrontare problemi politici in patria.

Trump ha ricevuto l’impeachment alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti il mese scorso ed è sotto processo al Senato per abuso di potere. Anche lui dovrà affrontare la rielezione a novembre. Netanyahu è accusato di corruzione e le elezioni nazionali saranno il 2 marzo, la sua terza volta in meno di un anno. Entrambi negano di aver commesso un illecito.

Il rivale elettorale di Netanyahu, Benny Gantz, anche lui a Washington questa settimana, ha affermato di aver lui pure appoggiato la proposta.

“Il piano di pace del presidente è una pietra miliare significativa e storica”, ha detto Gantz ai giornalisti lunedì.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Avanti, annettiamo la Cisgiordania

Meron Rapoport 

23 gennaio 2020 – + 972

L’annessione della Valle del Giordano renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid dal fiume al mare. Ma potrebbe essere meno terribile di come pensiamo.

Si è saputo che anche Benny Gantz, rivale di centro del Primo Ministro Netanyahu, persegue l’obiettivo che Israele annetta la Valle del Giordano. Martedì, durante una visita in quella zona della Cisgiordania occupata, Gantz ha affermato che la Valle del Giordano è “lo scudo difensivo di Israele verso est in qualsiasi futuro conflitto. Consideriamo questa terra come parte inseparabile dello Stato di Israele.” Dopo le elezioni, ha continuato Gantz, avrebbe esteso la sovranità sulla valle con una “mossa concordata a livello nazionale” e coordinata con la comunità internazionale.

Non è una posizione nuova tra i falchi del centro israeliano. Un piano strategico pubblicato nell’ottobre 2018 dal National Security Research Institute, il luogo di formazione ideologica di ex generali dell’IDF come Gantz, afferma che Israele avrebbe già dovuto dichiarare la Valle del Giordano area strategica, da mantenere sotto controllo israeliano fino a quando Israele non arriverà ad un sufficiente accordo per la sicurezza.

È peraltro vero che le recenti condizioni poste da Gantz – che l’annessione della Valle del Giordano abbia il consenso nazionale e sia coordinato a livello internazionale – potrebbero far sì che la dichiarazione resti priva di fondamento. A parte il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (e anche questo non è del tutto certo), è improbabile che la “comunità internazionale” accetti la mossa.

Eppure, anche se non ha alcuna reale intenzione di annettere la Valle, Gantz ha deliberatamente scelto di schierarsi con la retorica della destra israeliana, per la quale l'”annessione” è diventata una questione di buone maniere, cartina di tornasole per qualsiasi personaggio politico.

Le affermazioni di Gantz ricordano in qualche modo lo slogan della campagna elettorale di Netanyahu del 1996: “Fare una pace sicura”. Netanyahu all’epoca non aveva intenzione di fare la pace, così come oggi sembra che Gantz non abbia alcuna intenzione di procedere all’annessione. Tuttavia, tre anni dopo gli Accordi di Oslo, Netanyahu fu costretto ad includere il centro-sinistra israeliano dell’epoca, per cui la parola “pace” era una categoria a parte. Questo vale per gli ultimi 25 anni della politica israeliana: la pace è out, l’annessione è in.

Potrebbe non essere terribile come si pensa. Per alcuni aspetti, è veramente deplorevole che la coalizione di destra, secondo recenti sondaggi, non sarà in grado di assicurarsi 61 seggi della Knesset nelle prossime elezioni di marzo. Se dovesse vincere Netanyahu, è difficile immaginare come se la caverà con le sue chiare promesse di annettere immediatamente la Valle del Giordano. Nell’attuale situazione politica, l’annessione è il miglior regalo che possano sperare gli avversari dell’occupazione.

Questo non significa che le cose debbano peggiorare prima di migliorare. L’annessione scuoterà lo status quo di espansione infinita fatta di occupazione e insediamento, diventata molto comoda per Israele. Costringerà la società israeliana e parti della comunità internazionale a tornare a discutere una soluzione politica del conflitto, un obiettivo quasi scomparso. E costringerà i sostenitori della soluzione a due Stati, e persino i sostenitori di un singolo Stato, a uscire dalla loro zona protetta e ricalibrare i loro desideri con la realtà concreta.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’impatto dell’annessione sui confini definitivi di Israele o la fattibilità dell’idea dei due Stati non creerebbero necessariamente un discrimine. Israele ha annesso Gerusalemme Est più di 52 anni fa, pochi giorni dopo la fine della guerra del 1967; ciò non ha impedito a rappresentanti israeliani, ufficiali e non, di discutere dell’annessione in vari negoziati con i palestinesi e concordare che il futuro Stato palestinese avrebbe controllato i quartieri palestinesi della città.

Ciò vale anche per l’ex primo ministro Ehud Olmert, che ha fatto carriera politica nel partito Likud promettendo di tenere Gerusalemme “per l’eternità” (Olmert è stato anche protagonista della campagna elettorale del 1996 di Netanyahu, accusando i laburisti di Shimon Peres di “dividere Gerusalemme”). Un decennio dopo, durante i colloqui di pace con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, fu Olmert a proporre di dividere la città. E l’annessione delle Alture del Golan nel 1981 non ha impedito a Ehud Barak – e secondo i documenti, allo stesso Netanyahu – di discutere della possibilità di restituire il Golan alla Siria di Hafez al-Assad.

L’annessione non migliorerà particolarmente la situazione dei pochi coloni israeliani che vivono nella Valle del Giordano. Oggi, e specialmente dopo un decennio di governo di Netanyahu, la Linea Verde [confine tra Israele e Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza prima dell’occupazione del 1967, ndtr.] è quasi del tutto irrilevante e i coloni che vivono in Cisgiordania godono di diritti quasi identici ai cittadini israeliani all’interno dei confini del 1948.

L’annessione può rimuovere alcune delle barriere attualmente imposte ai coloni, ma può anche rendere loro la vita difficile. Nel momento in cui la Valle del Giordano diventasse soggetta ufficialmente alla legge israeliana – piuttosto che agli ordini militari – potrebbe essere molto più difficile confiscare terre, sfrattare palestinesi e stabilire colonie di soli ebrei.

Anche se Israele decidesse di concedere ai palestinesi che annette lo status di residenti invece della piena cittadinanza (come a Gerusalemme est), tale status consentirebbe loro di muoversi liberamente e lavorare all’interno di Israele, il che sicuramente migliorerebbe la loro attuale situazione. Eppure ci sono poche ragioni per credere che i palestinesi annessi rinuncerebbero alle loro aspirazioni nazionali: non è accaduto a Gerusalemme est dopo 52 anni di occupazione, non è accaduto con i palestinesi cittadini di Israele.

Ma c’è la possibilità che l’annessione possa dare impulso non solo ai palestinesi che si trovano sotto la sovranità israeliana, ma alla lotta palestinese in generale. L’annessione costringerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese a emergere dal suo coma; renderebbe più facile smantellarla, costringerebbe Israele a riprendere il diretto controllo sulla Cisgiordania, e il ritorno a una lotta per i diritti civili in uno Stato democratico tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo], simile al programma politico originario dell’OLP.

Se Israele, in effetti, rifiutasse di concedere pieni diritti civili ai palestinesi, sarà ancora più facile dimostrare che il regime in Cisgiordania non è un problema temporaneo di “territorio conteso”, come ama sostenere Israele. L’apartheid diventerebbe la politica ufficiale dello Stato.

Inoltre, l’annessione porterebbe la questione palestinese al centro dell’attenzione del mondo arabo. Il governo giordano sta già affrontando una forte opposizione al suo accordo di pace con Israele. Recenti manifestazioni nel Regno hascemita contro l’accordo con Israele per il gas sono ulteriori prove di dissenso. Se l’annessione dovesse avvenire, è difficile pensare che re Abdullah si atterrebbe all’accordo con Israele, volendo mantenere il potere.

La Giordania potrebbe trasformarsi in Palestina, come sperava Netanyahu nel suo libro del 1993 A Place Among the Nations [Un posto fra le Nazioni, ndtr.] – ma questa “Palestina” avrebbe un esercito che potrebbe puntare le sue armi su Israele per solidarietà con i fratelli dall’altra parte del fiume Giordano.

Netanyahu, che conosce la scena internazionale meglio di qualsiasi altro leader a destra – e forse in Israele – è ben consapevole di tutto ciò. Questo è il motivo per cui, durante il suo decennio al potere, ha evitato di compiere passi drastici, perfezionando allo stesso tempo lo status quo. Le sue politiche hanno assicurato l’annessione strisciante di sempre più colonie, la cancellazione della Linea Verde dalla coscienza israeliana e la completa normalizzazione dell’occupazione.

Netanyahu sperava che l’opinione pubblica israeliana, la comunità internazionale, i regimi arabi filo-occidentali e forse gli stessi palestinesi avrebbero alla fine accettato il dominio israeliano sull’intera terra e avrebbero tolto l’opzione di uno Stato palestinese dal tavolo. Ha funzionato brillantemente; persino Gantz, il maggior rivale di Netanyahu, non parla di due Stati.

Ma per il primo ministro potrebbe aver funzionato troppo bene. Proprio perché uno Stato palestinese non sembra più essere preso in considerazione, la destra nazionalista-religiosa ha trasformato l’annessione in richiesta politica – qualcosa che non ha fatto in 40 anni di permanenza al governo, da quando la destra ha preso il potere nel 1977. Se gli insediamenti sono riusciti a impedire l’istituzione di uno Stato palestinese, dicono, perché non passare alla fase successiva e realizzare l’ideale del Grande Israele?

Finché Netanyahu è stato politicamente forte, poteva evitare di parlare di annessione a gente come Naftali Bennett [politico israeliano dell’estrema destra dei coloni ed attuale ministro della Difesa, ndtr.] Ma non appena i problemi legali hanno cominciato a premergli addosso, lo spazio di manovra di Netanyahu è diminuito. Non ha altra scelta che abbracciare il linguaggio del sovranismo, che solo pochi anni fa giaceva in qualche posto nelle plaghe dormienti della destra.

Non che Netanyahu non creda nell’esclusiva sovranità ebraica tra il fiume e il mare: semplicemente non credeva che dovesse realizzarsi attraverso l’annessione formale. Oggi non si tratta più di buttare sul tavolo l’annessione in cambio dell’immunità politica. È annessione o prigione.

Non vi è dubbio che l’annessione sia una violazione del diritto internazionale, che sarebbe imposta ai palestinesi con la forza e trasformerebbe ufficialmente Israele in uno Stato di apartheid. Bisogna opporsi. Ma dopo tanti anni sotto il dominio della fazione del Grande Israele, potrebbe essere il momento di mettere alla prova la proposta della destra. L’annessione chiarirà il vero dibattito Israele-Palestina: uguaglianza e autodeterminazione per ogni Nazione che vive tra la Giordania e il mare o supremazia ebraica.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi mettono in guardia Israele e gli USA mentre Trump sta discutendo il nuovo ‘piano per la pace’

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

I palestinesi respingono l’incontro tra gli USA e Netanyahu affermando di non riconoscere il piano di pace che si prevede favorisca Israele.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha messo in guardia Israele e gli Stati Uniti dal “valicare le linee rosse” promettendo che non riconoscerà il piano di pace per il Medio Oriente che aveva già respinto in precedenza mentre il Presidente USA Donald Trump si prepara a presentare il piano nei prossimi giorni.

Giovedì Trump ha detto che probabilmente rivelerà il tanto atteso progetto prima della visita a Washington, DC, di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, la prossima settimana.

“Probabilmente lo renderò noto un po’ prima” ha detto il leader degli USA ai reporter che andavano con lui in Florida a bordo dell’Air Force One, riferendosi all’incontro di martedì alla Casa Bianca.

“È un ottimo piano. È un piano che funzionerà davvero” ha aggiunto.

I palestinesi, che non sono stati invitati alla Casa Bianca per l’incontro con Netanyahu, hanno immediatamente respinto le trattative che si svolgono negli USA, in quanto respingono il piano in sé che è stato elaborato dal 2017. La sua presentazione è stata più volte rimandata.

La parte economica del piano è stata rivelata a giugno e prevede 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali nei territori palestinesi e nei Paesi arabi vicini per 10 anni.

I palestinesi hanno respinto i tentativi di pace di Trump dopo il suo controverso riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento dell’ambasciata USA a maggio 2018.

Come ha riferito la WAFA, l’agenzia stampa ufficiale palestinese, Nabil Abu Rudeineh, un portavoce del presidente palestinese, ha dichiarato che i leader palestinesi respingeranno ogni atto USA che infranga le leggi internazionali. 

“Se questo accordo viene presentato con quelle premesse che sono state già respinte, i leader annunceranno una serie di misure volte a garantire i nostri legittimi diritti e pretenderemo che Israele si assuma tutte le responsabilità quale potenza occupante” ha detto Abu Rudeineh.

Sembrava fare riferimento alle minacce, spesso reiterate, di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania occupata da Israele. Ciò costringerebbe Israele ad assumersi la responsabilità di fornire servizi essenziali a milioni di palestinesi.

“Noi vogliamo mettere in guardia Israele e l’amministrazione USA dal valicare le linee rosse” ha detto Abu Rudeineh che ha ripetuto la richiesta di porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e detto che dovrebbe essere costituito uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme.

‘Si parla solo di Israele’

In aereo, giovedì, Trump si è detto contento che Netanyahu e il suo principale rivale alle elezioni, Benny Gantz, capo del partito di centro Blu Bianco, avrebbero fatto visita alla Casa Bianca nel mezzo della campagna per le elezioni in Israele del 2 marzo.

“Verranno entrambi i candidati, una cosa mai successa!” ha detto Trump.

Alla domanda se avesse contattato i palestinesi, Trump ha detto: “Abbiamo parlato brevemente con loro, ma lo faremo fra poco.

E loro hanno molti incentivi a farlo. Sono sicuro che forse all’inizio reagiranno negativamente, ma per loro è davvero molto positivo.”

Husam Zomlot, il capo della missione palestinese nel Regno Unito, ha detto all’agenzia di stampa AFP [agenzia di stampa francese, N.d.T] che il fatto che Trump abbia invitato i due leader israeliani e nessun palestinese dimostra che il meeting intende influire sulla politica interna israeliana più che essere un vero tentativo di pace. 

“Questa è la conferma di quella che è stata dall’inizio la loro politica fin dall’inizio – si parla solo di Israele.”

Si prevede che il progetto sia fortemente a favore di Israele e che gli offra il controllo di vaste zone della Cisgiordania.

I palestinesi vorrebbero invece che l’intero territorio, conquistato da Israele nel 1967, diventasse il cuore di un futuro Stato indipendente, parte della soluzione dei due Stati sostenuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

Netanyahu ha detto che intende annettere sia la Valle del Giordano occupata che gli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, ponendo così fine a ogni possibilità di creare uno Stato palestinese sostenibile.

Netanyahu ha tentato di fare di questa promessa la chiave di volta della sua campagna per la rielezione in seguito al testa a testa senza precedenti dopo le ultime elezioni dell’anno scorso che lo ha lasciato in virtuale pareggio con Gantz, ma senza che nessuno dei due fosse in grado di formare una coalizione di governo.

‘L’accordo del secolo’ di Trump

Trump, la cui squadra sta da tempo lavorando sul progetto di un piano di pace segreto, si è ripetutamente vantato di essere il presidente USA più pro-israeliano della storia.

Abbas ha tagliato ogni rapporto con gli USA dal dicembre 2017, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele con cui Trump ha rotto decenni di consenso internazionale.

I palestinesi considerano la parte orientale della città la capitale del loro futuro Stato e le potenze mondiali concordano da tempo che il destino di Gerusalemme dovrebbe essere deciso con una soluzione negoziata.

Trump è salito al potere nel 2017 promettendo di mediare la pace tra israeliani e palestinesi, che aveva chiamato “l’accordo del secolo “.

Ma da allora ha preso una serie di decisioni che hanno indignato i palestinesi, incluso il taglio di centinaia di milioni di dollari di aiuti e la dichiarazione che gli USA non considerano più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania.

Si ritiene che il suo piano per porre fine al conflitto israelo-palestinese ruoti attorno alla promozione di enormi investimenti economici.

Dopo molti rinvii, l’iniziativa di pace era prevista parecchi mesi fa, ma è stata rimandata dopo che le elezioni in Israele a settembre si sono dimostrate inconcludenti e non si pensava che sarebbe stata resa nota fino a dopo il voto del 2 marzo.

I media israeliani hanno discusso quella che dicono siano le linee generali dell’accordo trapelate giovedì, sostenendo che gli USA sono d’accordo su molte delle principali richieste israeliane.

L’incontro a Washington, DC, si terrà circa un mese prima delle nuove elezioni, con i sondaggi che mostrano un testa a testa fra la destra del Likud di Netanyahu e il partito di Gantz, il Blu e Bianco.

Il meeting di martedì coincide con una seduta del parlamento [israeliano] prevista per discutere la possibile immunità di Netanyahu per l’imputazione in una serie di casi di corruzione.    

I media israeliani sospettano che Trump abbia scelto di annunciare l’evento per sostenere il tentativo di rielezione di Netanyahu, il terzo in un anno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il BDS ha bisogno di una visione politica sulla costruzione di uno Stato palestinese

Haidar Eid

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

Finora la campagna del BDS ha evitato questa questione, ma prima o poi dovrà fare una scelta.

Sono passati quasi 15 anni da quando il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) è stato promosso dalla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI).

L’obiettivo della campagna è costringere Israele e i suoi sostenitori a riconoscere che lo status quo nelle terre palestinesi e in Israele non è sostenibile a lungo termine e che non può esserci soluzione senza rispetto del diritto internazionale, della civiltà e della democrazia. Ciò significa porre fine all’occupazione illegale della Cisgiordania e all’assedio di Gaza, garantire uguali diritti all’interno di Israele per i suoi cittadini palestinesi e concretizzare il diritto di tornare alle loro case per i palestinesi cacciati durante la diaspora.

Oggi la campagna del BDS gode del sostegno della stragrande maggioranza della società civile palestinese. La tendenza sta cambiando anche in Occidente, dove il sistema di oppressione a più livelli da parte di Israele, in particolare l’occupazione, la colonizzazione e l’apartheid, sono sempre più condannati.

La società civile internazionale sembra aver raggiunto la conclusione che, come per il Sudafrica, il sistema di oppressione israeliano non può essere arrestato senza che si ponga fine alla complicità internazionale e si intensifichi la solidarietà globale, in particolare attraverso il BDS. Pertanto, la campagna si sta rapidamente avvicinando al modello sudafricano per maturità e impatto.

Personalmente, sono stato coinvolto nel BDS sin dalle sue origini e lo sostengo con tutto il cuore. Tuttavia, sono anche preoccupato che l’attenzione del pubblico si limiti alle richieste immediate della campagna a spese dello sviluppo di un piano coerente per il futuro politico della Palestina. In altre parole, poiché la campagna si limita a garantire il rispetto dei diritti dei palestinesi, manca una visione della realtà politica all’interno della quale tali diritti saranno collocati.

La campagna del BDS è stata volutamente ambigua sulla forma che lo Stato palestinese dovrebbe prendere e ci sono ragioni tattiche per questo – evitare principalmente disaccordi all’interno del movimento.

Tuttavia, sono del parere che optare per il silenzio su importanti questioni politiche sul futuro della Palestina sia una tattica sbagliata. Concentrarsi sulla fine dell’occupazione, i diritti dei palestinesi in Israele e il diritto al ritorno deve essere inserito in un programma politico che promuova la soluzione dello Stato unico.

Questo è il motivo per cui ho co-fondato, con un gruppo di accademici e attivisti, il One Democratic State Group [Organizzazione per lo Stato unico democratico]. Il gruppo, che fa parte della One State Campaign [ODSC, Campagna per lo Stato unico democratico, organizzazione con adesioni palestinesi e israeliane fondata nel 2017, ndtr.], ha presentato un programma che non solo ribadisce il diritto al ritorno, i diritti dei cittadini palestinesi di Israele e la fine dell’occupazione, ma propone anche una visione riguardo a un’organizzazione statale, uno sviluppo economico, una giustizia sociale e una politica internazionale responsabile.

La premessa centrale è che la soluzione dei due Stati è morta e dovrebbe essere dichiarata tale, nonostante l’attaccamento che molti gruppi, specialmente quelli di sinistra, [continuano ad] avere.

È tempo che tutti coloro che nella discussione pubblica in Palestina e all’estero continuano a proporre la soluzione dei due Stati si rendano conto che la strategia israeliana di colonizzazione della Cisgiordania e la graduale espulsione dei residenti palestinesi col proposito di una futura annessione l’ha resa impossibile.

A questo punto, attenersi alla visione dei due Stati – una soluzione impossibile – significa semplicemente la continuazione dell’occupazione, della colonizzazione e dell’apartheid.

Anche se capisco perfettamente la posizione assunta dai difensori dell’approccio basato sui diritti, penso ancora che vi sia un urgente bisogno di una visione politica che aiuti a portare una luce alla fine del tunnel per quei milioni di persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo e per gli oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi sparsi in tutto il mondo.

Secondo me, il diritto all’autodeterminazione non dovrebbe tradursi in una soluzione razzista in cui vi siano due Stati, uno dei quali viola i diritti dei due terzi del popolo palestinese. Vale a dire, uno Stato israeliano continuerebbe a trattare i suoi cittadini palestinesi come di seconda classe e continuerebbe a negare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Non sarebbe diverso dal Sudafrica del governo bianco, uno Stato che ha concesso diritti esclusivi a una razza escludendone tutte le altre. Se vogliamo imparare dal movimento anti-apartheid sudafricano, allora dovremmo prestare attenzione alla sua visione politica: democrazia, uguaglianza razziale e fine della segregazione.

Questa strategia ha portato alla creazione di uno Stato laico e democratico nella terra del Sudafrica, che appartiene a tutti i sudafricani, proprio come previsto dalla Carta della libertà dell’Alleanza congressuale sudafricana [The Congress South African Alleance è un’organizzazione anti-apartheid fondata in Sud Africa, su iniziativa dell’African National Congress, negli anni ‘50 del secolo scorso ndtr.].

È incredibile che alcune persone che hanno sostenuto la fine dell’apartheid non vedano la contraddizione intrinseca nel loro sostegno a uno Stato etnico palestinese, che soddisferebbe il diritto all’autodeterminazione solo di quei palestinesi che risiedono in Cisgiordania e a Gaza e priverebbe di questo diritto la diaspora e i cittadini palestinesi di Israele.

Ciò equivale a sostenere il “diritto” dei quattro famigerati Bantustan [i Bantustan, vere e proprie riserve per le popolazioni di colore, conseguenza delle politiche di aparheid portate avanti in Sud Africa dal 1948 al 1991 dal National Congress, ndtr.], Transkei, Bophuthatswana, Venda e Ciskei, all’ “indipendenza”

La soluzione dei due Stati non garantirà la democrazia, la fine della segregazione e i pieni diritti politici per tutti i palestinesi. Non fornirà l’autodeterminazione per tutti i palestinesi. In realtà, escluderà milioni di palestinesi che vivono in Israele sia nella diaspora dalla cittadinanza palestinese sia dal riconoscimento dei diritti.

Dobbiamo andare oltre il dibattito sulla soluzione tra uno e due Stati e cercare di perseguire un approccio più accurato : la lotta basata sui diritti unita a una visione politica ben definita che può essere realizzata nel quadro di uno Stato unitario con garanzia di uguaglianza per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalla religione, dall’etnia o dal genere.

Per il momento la campagna del BDS potrebbe attendere nel prendere una posizione, ma prima o poi dovrà farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera

Haidar Eid è professore associato presso l’Università Al-Aqsa di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dalla benedizione alla maledizione: come la Risoluzione dell’ONU 2334 ha accelerato la colonizzazione della Cisgiordania

Ramzy Baroud

17 dicembre 2019Middle East Monitor

Tre anni fa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 2334. Con 14 voti a favore ed un’astensione, la risoluzione è stata come un terremoto politico. Certamente è stata la prima volta in molti anni che l’istituzione internazionale ha condannato esplicitamente Israele per le sue politiche di colonizzazione illegale nei Territori Palestinesi Occupati. A differenza dei precedenti tentativi di imputare ad Israele le sue responsabilità, questa volta gli americani non hanno fatto nulla per proteggere il loro più stretto alleato.

Tuttavia ciò che è accaduto da allora ha testimoniato il fallimento dell’ONU nel mettere in campo significativi meccanismi che possano costringere chi viola il diritto internazionale, come Israele, a rispettare il consenso internazionale. In qualche modo la 2334, pur sostenendo apparentemente i diritti dei palestinesi, si è trasformata in una delle più dannose decisioni mai adottate dall’istituzione internazionale.

Immediatamente dopo l’adozione della 2334 il 23 dicembre 2016, Israele si è fatto beffe del mondo intero annunciando per due volte nel mese di gennaio progetti di costruzione di migliaia di nuove case nelle colonie ebraiche illegali della Cisgiordania occupata.

All’epoca il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’allora Ministro della Difesa Avigdor Lieberman hanno motivato la provocatoria iniziativa come “una risposta alle necessità abitative” all’interno delle colonie. Niente poteva essere più lontano dalla verità, come hanno dimostrato i successivi tre anni.

Ora è risultato evidente che l’espansione delle colonie faceva parte di una più ampia strategia volta ad eliminare ogni possibilità di creare uno Stato palestinese contiguo e praticabile e a sbarrare la strada alla cosiddetta “formula terra in cambio di pace”, anch’essa tracciata in anni di mediazione americana e di “processo di pace”.

La strategia israeliana è stata un totale successo. Grazie alla mano libera concessa dall’amministrazione Trump alla coalizione di governo di destra in Israele, i politici israeliani adesso stanno apertamente progettando ciò che un tempo era quasi impensabile: l’annessione unilaterale di importanti blocchi di colonie ebraiche in Cisgiordania insieme a vaste aree della Valle del Giordano.

Negli ultimi tre anni Washington ha chiuso un occhio sui sinistri piani di Israele. Peggio ancora, ha abbracciato in pieno e avallato il discorso politico israeliano, prendendo al contempo tutte le misure necessarie a fornire una copertura alle azioni israeliane. La dichiarazione del Segretario di Stato USA Mike Pompeo del 18 novembre, secondo cui le colonie ebraiche “non violano il diritto internazionale” è solo una di tante posizioni analoghe adottate da Washington per spianare la strada alla sfrontatezza e alla violazione del diritto internazionale da parte di Israele.

Retrospettivamente, il Presidente Obama ha avuto l’opportunità di fare di più che non semplicemente astenersi dal votare contro una Risoluzione ONU – che comunque mancava di qualunque meccanismo di applicazione – usando il generoso aiuto finanziario USA ad Israele come carta di scambio. In quel modo avrebbe potuto potenzialmente costringere Netanyahu a congelare del tutto l’espansione delle colonie. Purtroppo Obama ha fatto l’esatto contrario, finanziando l’esercito israeliano e ogni guerra israeliana contro Gaza. Invece la sua mossa tardiva ha aperto la porta all’amministrazione Trump per scatenare una guerra crudele contro i palestinesi e anche contro il diritto internazionale.

Sembra che l’incarico biennale dell’ambasciatrice USA all’ONU, Nikky Hailey, sia stato prevalentemente dedicato a rettificare il presunto “tradimento” dell’amministrazione Obama verso Israele. In nome della difesa di Israele contro un immaginario “antisemitismo” globale, gli Stati Uniti hanno rotto i loro rapporti con diverse organizzazioni dell’ONU, isolando alla fine la stessa Washington dal resto del mondo.

Con l’ONU considerata il nemico comune sia da Washington che da Tel Aviv, il diritto internazionale è stato reso irrilevante. Gradualmente il governo USA ha rafforzato il proprio scudo protettivo intorno a Israele, rendendo così insignificanti la Risoluzione 2334 e molte altre risoluzioni ONU. In altri termini, gli Stati Uniti sono riusciti a trasformare il consenso internazionale sull’illegalità dell’occupazione israeliana della Palestina in un’opportunità per Tel Aviv di disconoscere ogni impegno non solo nei confronti dell’ONU, ma anche della cosiddetta soluzione dei due Stati e del “processo di pace”.

Mentre Israele accelerava senza impedimenti i suoi progetti di colonizzazione, gli USA assicuravano che la leadership palestinese non avesse la possibilità di contrastarli, neanche simbolicamente, attraverso le varie istituzioni internazionali e le piattaforme politiche e legali disponibili. Questo è stato architettato attraverso sistematiche guerre economiche, che hanno visto il taglio di tutti gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese nell’agosto 2018, seguito una settimana dopo dall’interruzione di tutti i finanziamenti all’agenzia dell’ONU responsabile dell’assistenza ai rifugiati palestinesi, l’UNRWA.

La guerra di USA e Israele ai palestinesi è stata organizzata su due fronti. Uno si concentrava sull’accaparramento di ulteriore terra palestinese, sulla costruzione di nuove colonie e l’espansione di quelle esistenti, come premessa agli imminenti passi verso l’annessione della maggior parte della Cisgiordania. L’altro fronte riguardava l’incessante pressione dell’amministrazione USA sui palestinesi con mezzi politici e finanziari.

Tre anni dopo la Risoluzione 2334 ci troviamo con un nuovo status quo. Sono finiti i tempi del tradizionale “piano di pace” americano e del suo complementare elaborato discorso centrato sulla soluzione di due Stati ed altre fantasie. Adesso Israele sta formulando in proprio la sua “visione” per un futuro che è destinato a soddisfare le aspettative dell’instabile, e sempre più di destra, elettorato del Paese. Quanto agli USA, il loro ruolo è stato ridimensionato a quello di sostenitori, indifferenti a questioni così irrilevanti come il diritto internazionale, i diritti umani, la giustizia, la pace o persino la stabilità della regione.

Poco dopo essere stato nominato nuovo Ministro della Difesa israeliano il 9 novembre, Naftali Bennett ha preso la pericolosa e conseguente decisione di costruire una nuova colonia ebraica nella città palestinese occupata di Al-Khalil (Hebron). Naturalmente i coloni ebrei hanno esultato perché vedranno finalmente la demolizione del vecchio mercato di Hebron, che è più antico dello stesso Israele, e la possibilità di una nuova espansione coloniale e di ulteriori annessioni nella città.

Al tempo stesso i palestinesi rabbrividiscono, perché un’iniziativa contro Hebron è la prova finale che Israele ormai sta agendo in Palestina senza alcun timore di ripercussioni politiche o giuridiche. Non solo la Risoluzione 2334 non è riuscita a rendere Israele responsabile, ma in qualche modo ha facilitato una maggiore espansione israeliana in Cisgiordania, spianando la strada all’annessione che sicuramente ne seguirà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché parlamentari esteri stanno favorendo gli attacchi israeliani contro i diritti dei palestinesi?

Amjad Iraqi

13 dicembre 2019 – +972

Due risoluzioni approvate dal parlamento francese e dal Congresso USA la scorsa settimana hanno preoccupanti implicazioni per i palestinesi e per i loro sostenitori.

Un decreto firmato mercoledì dal presidente USA Donald Trump, che concretamente prevede che l’attivismo palestinese venga preso di mira in quanto discriminatorio nei confronti degli ebrei in base al Civil Rights Act [legge sui diritti civili, emanata nel 1964 per porre fine alle discriminazioni razziali contro gli afro-americani, ndtr.], ha messo in allarme molti osservatori per la sua potenziale minaccia contro la libertà di parola riguardo ad Israele. Però il decreto è solo l’ultimo sviluppo legislativo di questo mese che mette in pericolo i diritti dei palestinesi e dei loro sostenitori all’estero.

Il 3 dicembre l’Assemblea Nazionale, la Camera bassa del parlamento francese, ha stabilito di adottare (con 154 voti contro 72) la bozza di definizione di antisemitismo formulata dalla International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa il cui scopo è la conservazione della memoria dell’Olocausto, ndtr.] (IHRA). Tre giorni dopo la Camera dei Rappresentanti USA ha approvato (con 226 voti contro 188 e due astensioni) la legge parlamentare 326, una norma che obbliga a promuovere la soluzione dei due Stati e a rivitalizzare gli sforzi di pace promossi in precedenza dagli USA nella regione.

Le due risoluzioni, che di primo acchito non sembrano in rapporto tra loro, hanno in apparenza buone intenzioni. Dato il vertiginoso aumento di attacchi antisemiti in Francia e nel resto d’Europa, l’Assemblea Nazionale si è rivolta alla definizione dell’IHRA per contribuire ad istituzionalizzare la sua lotta contro il razzismo nei confronti degli ebrei. A Washington rappresentanti del Congresso hanno sperato di controbilanciare l’aperto sostegno dell’amministrazione Trump nei confronti delle politiche israeliane di colonizzazione puntando di nuovo a quella che vedono come una soluzione più equa del conflitto.

Tuttavia entrambe le leggi provocano serie preoccupazioni. Dalla sua emanazione del 2016 la definizione dell’IHRA è stata pesantemente messa in discussione perché include varie critiche nei confronti di Israele come esempi di azioni antisemite (6 su 11 esempi riguardano direttamente Israele). Nella sua risoluzione l’Assemblea Nazionale sottolinea persino che “criticare la semplice esistenza di Israele come collettivo di cittadini ebrei equivale a odio nei confronti della comunità ebraica nel suo complesso… tali abusi rendono sempre più l’antisionismo ‘una delle forme contemporanee di antisemitismo.’” Politici israeliani, compreso il ministro degli Affari Strategici Gilad Erdan e il capo di “Blu e Bianco” [coalizione di partiti di centro che ha vinto le ultime elezioni israeliane, ndtr.] Benny Gantz, hanno lodato la decisione.

La risoluzione insiste sul fatto che questa posizione non inibisce il diritto di criticare le politiche del governo israeliano, ma è esattamente quello che fa. Dipinge lo Stato di Israele e la diaspora ebraica come un tutt’uno, deducendone che ogni critica a quest’ultimo deve essere vista in primo luogo con sospetto, se non con ostilità. Vede il sionismo come l’unico legittimo contesto per l’esercizio dell’autodeterminazione ebraica, mentre ignora le opinioni antisioniste dissenzienti e gli israeliani e gli ebrei non sionisti in tutto il mondo. E respinge il diritto dei palestinesi – a cominciare da quelli che sono cittadini di Israele – di chiedere perché lo Stato dovrebbe privilegiare i cittadini ebrei invece di sancire uguali diritti per tutti.

Nel contempo la legge 326 riflette la classica tendenziosità della politica USA nei confronti della regione. Per esempio, una delle affermazioni del suo preambolo sostiene che “per più di 20 anni presidenti degli Stati Uniti di entrambi i partiti e primi ministri israeliani hanno sostenuto il raggiungimento della soluzione dei Due Stati” (sottolineatura dell’autore). Il Congresso ignora volutamente non solo che Netanyahu, il leader di Israele nello scorso decennio, ha fatto tutto il possibile per ostacolare uno Stato palestinese, ma non si preoccupa neppure di menzionare l’Autorità Nazionale Palestinese – l’unico attore che ha effettivamente lavorato, benché incautamente e inutilmente, come parte del progetto per il riconoscimento di quello Stato.

Oltretutto, pur aderendo solo formalmente all’autodeterminazione dei palestinesi, metà dei preamboli della risoluzione sono dedicati a ribadire continuamente l’appoggio “incrollabile” nei confronti di Israele (senza menzionare neanche una volta la parola “occupazione”). Un ultimo emendamento al testo ha persino reiterato “i ferrei impegni” dell’America verso il memorandum d’intesa firmato dal presidente Obama che concede a Israele 3,8 miliardi di dollari all’anno in fondi militari dal 2019 al 2028. La frase è una chiara risposta al crescente dibattito all’interno del partito Democratico in merito a porre condizioni ai finanziamenti per Israele: invece di mettere in discussione la loro complicità nella conservazione della situazione attuale, la Camera ha affermato che li manterranno.

Benché queste risoluzioni non abbiano ancora un peso politico sostanziale, hanno però conseguenze molto preoccupanti per gli attivisti a favore dei diritti dei palestinesi.

In primo luogo rassicurano Israele che i suoi alleati all’estero non agiranno per ostacolare le sue ambizioni di annessione o la sua sempre maggiore oppressione dei palestinesi, semmai proteggeranno con entusiasmo l’impunità di Israele. La risoluzione francese lo fa danneggiando l’opposizione alle politiche di Israele e svalutando ogni critica alle basi ideologiche di Israele, come motivata da malvagità invece che dai diritti umani. Anche la risoluzione americana aiuta Israele, tenendo i parlamentari slegati dalla realtà sul terreno, preservando il mito che la soluzione dei Due Stati sia ancora percorribile, e che i dirigenti israeliani siano interessati a raggiungerla.

Secondo, le risoluzioni inviano un messaggio agghiacciante secondo cui, per quanto riguarda i governi francese e americano, i palestinesi non hanno diritto a una rappresentanza politica come popolo che sta lottando per la giustizia e i diritti umani. La prima risoluzione etichetta essenzialmente i palestinesi come intrinsecamente antisemiti perché osano denunciare i danni devastanti che il sionismo ha causato loro. La seconda risoluzione, che dipinge sfacciatamente USA e Israele come partner dalla stessa parte del tavolo negoziale, tratta i palestinesi semplicemente come la “controparte” con cui trattare invece di una Nazione che merita libertà e rispetto.

Prese insieme, le due risoluzioni illustrano in che misura Israele stia cercando di spogliare i palestinesi della loro umanità agli occhi di governi stranieri – e, tristemente, questi governi paiono molto ben disposti ad intensificare questo progetto a favore di Israele. Il nuovo decreto di Trump, l’ultimo di una crescente ondata di misure contro il BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndtr.] in tutto il mondo, preannuncia l’arrivo di altre pericolose iniziative come queste.

Eppure, anche di fronte a questi angoscianti attacchi, c’è ancora resistenza. Una lettera pubblica al parlamento francese firmata da 129 accademici ebrei e israeliani rifiuta la confusione dell’antisionismo con l’antisemitismo. La deputata [USA] Rashida Tlaib, contraria alla legge 326 insieme al resto di “The Squad” [“La Squadra”, gruppo di quattro giovani parlamentari democratiche con posizioni di sinistra, ndtr.], ha tenuto un discorso emozionante alla Camera [dei Rappresentanti] indossando la kefiah, la tradizionale sciarpa palestinese. Una nuova piattaforma politica, ““Freedom is the Future” [La libertà è il futuro] sta riunendo le voci palestinesi in vista delle elezioni del 2020. Le pressioni dall’alto si possono intensificare, ma lo sta facendo anche la lotta dal basso.

Amjad Iraqi è redattore e autore di +972 magazine. È anche analista politico di Al-Shabaka e in precedenza è stato un coordinatore della difesa di “Adalah” [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele]. E’ un cittadino palestinese di Israele, attualmente residente ad Haifa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cosa c’è dietro il riavvicinamento tra Russia e Hamas?

Adnan Abu Amer

27 novembre 2019 – Al Jazeera

Hamas spera che la Russia possa essere d’aiuto per uscire dall’isolamento internazionale. Ma funzionerà?

Nelle ultime settimane c’è stato un considerevole aumento del numero di scambi ufficiali ad alto livello tra il governo russo e Hamas. Ma quest’intensificazione delle relazioni potrebbe aiutare a spezzare il recente isolamento imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati?

A luglio Mousa Abu Marzouk, vice-presidente dell’ufficio politico di Hamas, ha guidato una delegazione in visita a Mosca e ha incontrato Mikhail Bogdanov, vice-ministro degli esteri russo e inviato speciale per il Medio Oriente e l’Africa.

A metà ottobre si sono nuovamente incontrati a Doha, in Qatar, e poi alcune settimane più tardi l’inviato russo ha avuto una conversazione telefonica con Ismail Haniya, il leader di Hamas.

Secondo le due parti in queste conversazioni si è discusso del cosiddetto “accordo del secolo” del presidente USA Donald Trump e dei motivi del rifiuto di Hamas. 

Le dichiarazioni di vari funzionari russi che sembrano criticare “l’accordo del secolo ” sono state ben accolte sia a Gaza che a Ramallah. A metà ottobre, il presidente russo Vladimir Putin ha detto che avrebbe appoggiato ogni patto che avesse portato la pace, ma ha definito la proposta di Washington “piuttosto vaga”.

La Russia sembra voler rivaleggiare con gli USA nella mediazione fra Israele e la Palestina. Per questo motivo è ansiosa di coinvolgere non solo l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ma anche Hamas.

L’impegno russo con il movimento non è sorto dal nulla, dato che negli ultimi dieci anni si sono mantenute delle relazioni con i suoi dirigenti. Mentre gli USA e l’Unione Europea hanno etichettato fin da subito Hamas come ” gruppo terroristico “, la Russia ha mantenuto contatti di alto livello fin dal 2006 quando, dopo la sua vittoria nelle elezioni parlamentari, assunse il controllo a Gaza.

 

La Russia ha giustificato questa scelta dicendo che Hamas è il rappresentante eletto di un settore significativo della società palestinese ed è rappresentato nel Consiglio Legislativo Palestinese e nei governi palestinesi.

 Negli anni Mosca ha anche ospitato parecchie sessioni di negoziati volte a forgiare una riconciliazione fra il gruppo di Gaza e il partito “Fatah” del presidente palestinese Mahmoud Abbas. 

Anche se Hamas ha goduto da lungo tempo di cordiali relazioni con la Russia, ha ancora molto da guadagnare rafforzando ulteriormente questo legame.

La Russia è una grande potenza con un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Fa anche parte del Quartetto per il Medio Oriente [composto anche da ONU, USA e UE, ndtr.] che lavora per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Inoltre la Russia mantiene strette relazioni con i tre interlocutori che più interessano ad Hamas: Israele, l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Egitto. La Russia quindi potrebbe aiutare Hamas non solo a tener testa nell’arena internazionale a Trump e al suo “accordo del secolo “, ma anche a risolvere i suoi problemi con l’ANP e l’Egitto.

I leader a Gaza sanno che le relazioni russo-israeliane si sono ulteriormente rafforzate in seguito all’intervento russo in Siria nel 2015 e dopo l’apertura di un centro di coordinamento delle operazioni degli eserciti russo e israeliano per prevenire incidenti sul campo.

Nonostante ciò, Hamas non considera le relazioni tra la Russia e Israele un ostacolo nello stabilire delle relazioni più strette con Mosca. Al contrario, Hamas crede che Mosca possa usare i suoi legami con Israele per aiutare il movimento a prevenire attacchi politici e militari di Israele a Gaza.

Inoltre Hamas vuole che la Russia aiuti a ristabilire le relazioni con il regime siriano che si sono interrotte nel 2012, quando [Hamas] ha dato il suo appoggio alle proteste contro il regime siriano.

In questo contesto, l’intensificarsi delle attività fra Mosca e Gaza sembra essere una grande vittoria per Hamas, che crede possa porre fine al suo isolamento politico permettendole di unirsi al gruppo dei rappresentanti legittimi del popolo palestinese agli occhi della comunità internazionale.

Ci sono comunque dei motivi per andar cauti nella valutazione sul significato e sulla durata di questo riavvicinamento.

La Russia è interessata a esercitare un influsso maggiore in Medio Oriente in generale, e in Palestina in particolare. Essa crede che spezzare il monopolio americano nel processo di pace sia la chiave per ripristinare il suo controllo dell’intera regione. Vuole avere delle relazioni più strette con Hamas perché considera il movimento un attore chiave in Palestina estraneo all’influsso USA.
Inoltre, Mosca vuole usare Hamas per sviluppare delle relazioni più strette con altri movimenti politici islamici della regione, come la Fratellanza Musulmana.

Non si può valutare l’avvicinamento della Russia a Hamas indipendentemente dalla sua alleanza nella regione con l’Iran. Mosca vuole avere dalla propria parte quante più potenze possibili nella regione per fronteggiare gli USA e pensa che Hamas possa prendere posto nell’asse guidato dall’Iran contro gli alleati degli USA.

Tutto ciò comunque non significa che Mosca sia sulla stessa lunghezza d’onda quando si parla della sua visione del futuro della Palestina. A differenza di Hamas, Mosca sostiene la soluzione dei due Stati e si oppone alla resistenza armata. E inoltre, come membro del Quartetto del Medio Oriente, vuole il riconoscimento di Israele da parte di tutte le fazioni palestinesi.

Tutto ciò fa sorgere serie domande circa le prospettive di una collaborazione a lungo termine fra la Russia e Hamas che possa offrire dei reali benefici politici a quest’ultimo.

Infatti la Russia ha già deluso il movimento su parecchi fronti. Per esempio, l’ufficio di Hamas nella capitale russa non è ancora “ufficiale”, nonostante le ripetute richieste dei suoi funzionari. Ha inoltre fino ad ora fatto poco per alleviare il suo isolamento internazionale.

Anche se senza dubbio Hamas ci guadagnerà ad avere relazioni più strette con una superpotenza, è difficile che Mosca possa offrire tutto quello di cui il movimento ha bisogno, a meno che il movimento stesso non sia d’accordo ad arrivare a dei compromessi, incluso l’accordo a favore di uno Stato palestinese entro la Linea Verde [cioè i confini tra Israele e Cisgiordania del 1967, ndtr.]. Questo potrebbe avere un notevole costo politico sul campo e danneggiare la sua popolarità fra i palestinesi, ma aiuterebbe a farlo uscire dall’isolamento internazionale e a mettere in discussione l’etichetta di “terrorista”.

I segnali del miglioramento delle relazioni con la Russia costituiscono già una svolta importante per il movimento. Ma per essere in grado di massimizzare i vantaggi di questa relazione e rafforzare ancora di più i suoi legami con la Russia, Hamas dovrebbe adottare un approccio pragmatico alla politica internazionale. 

Le opinioni contenute in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle della redazione di Al Jazeera.

 

Il dottor Adnan Abu Amer è il direttore del Dipartmento di Scienze Politiche dell’Università della Ummah [la comunità dei fedeli musulmani, ndtr.] a Gaza.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Su un punto il diritto internazionale è chiaro: le colonie israeliane sono illegali

Richard Falk

22 novembre 2019 Middle East Eye

Nonostante l’affermazione contraria dell’amministrazione americana, non vi è alcun dubbio sull’illegalità dell’invasione coloniale di Israele

Questa settimana il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo annunciando che gli Stati Uniti hanno rivisto la propria posizione e non considerano più le colonie israeliane come una violazione del diritto internazionale.

In una delle dichiarazioni pubbliche più stupide della nostra epoca, Pompeo ha spiegato che “le discussioni su chi ha ragione e chi ha torto riguardo al diritto internazionale non condurranno alla pace”. Anzitutto è una cosa stupida perché non c’è un vero dibattito sull’illegalità delle colonie: fino a quando gli Stati Uniti non si sono espressi a loro volta in questo senso, Israele era il solo a difendere la loro legalità. . 

Inoltre il ruolo del diritto internazionale è di regolamentare il comportamento appropriato degli Stati sovrani –non di fare la pace negando la pertinenza della legge, cosa che assomiglia molto ad un incoraggiamento alla legge della giungla.

« Realtà sul terreno »

Pompeo ha tolto ogni dubbio sulla questione quando ha giustificato questo cambiamento nella posizione degli Stati Uniti ammettendo che essi “riconoscono la realtà sul terreno”. In altri termini, i comportamenti fuori dalle regole possono diventare leciti se vengono mantenuti abbastanza a lungo con la forza – una logica che non solo sfida il diritto internazionale, ma è anche contraria agli obblighi giuridici fondamentali sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite.

Soprattutto nell’ambito della pace e della sicurezza, il diritto internazionale può essere in qualche misura ambiguo. Possono essere ragionevolmente sostenute posizioni opposte, che vengono risolte o da un tribunale riconosciuto o da una prassi prolungata nel tempo.

Tuttavia l’insediamento di colonie sul territorio palestinese occupato è un esempio di questione sulla quale non è possibile presentare argomentazioni responsabili a favore della loro legalità.

L’illegalità dell’insediamento dei coloni è stata evidenziata più volte da osservatori informati come il più grande ostacolo alla pace e la dimostrazione più forte ed impudente del disprezzo israeliano nei confronti del diritto internazionale.

Dunque, Washington ha dato la sua benedizione ad Israele, permettendogli di fare in futuro ciò che vuole riguardo alle colonie – e peraltro nell’insieme della Cisgiordania occupata? Dopo tutto, se la Casa Bianca approva d’ora in poi l’annessione delle alture del Golan nel territorio sovrano siriano, la Cisgiordania potrebbe essere considerata insignificante.

La chiarezza del diritto internazionale sulla questione delle colonie israeliane deriva in parte dal fatto inusuale che esse sono state dichiarate ufficialmente illegali dalle principali fonti autorevoli di supervisione internazionale. Molti esempi emblematici dimostrano questo consenso.

Il diritto internazionale unanime

In primo luogo, l’art. 49 della Quarta Convenzione di Ginevra stabilisce che “una potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di parte della propria popolazione civile nel territorio da essa occupato.” Questa importante disposizione del diritto internazionale umanitario è universalmente intesa come divieto di insediare colonie israeliane in qualunque parte dei territori palestinesi occupati.

Se Israele rispettasse il diritto internazionale avrebbe dovuto interrompere le proprie attività di colonizzazione e smantellare ciò che è stato costruito negli anni successivi alla guerra del 1967. Al contrario Israele ha continuato a costruire colonie, a ritmo accelerato, accampando la pretestuosa giustificazione secondo cui gli israeliani devono poter vivere dove vogliono in Palestina.

Israele non considera nemmeno le zone di Gerusalemme e della Cisgiordania dove ci sono le colonie come “occupate” in senso giuridico, ma come facenti parte della “terra promessa”.

In secondo luogo, la Corte Internazionale di Giustizia nel 2004 ha ribadito con forza l’illegalità della costruzione di colonie israeliane in territorio occupato – e con una decisione approvata con 14 voti contro 1, ha dato prova di un livello di unità molto raro.

La Corte ha sottolineato che il muro di separazione era stato costruito in modo da lasciare dal lato israeliano l’80% della popolazione dei coloni, notando di passaggio che le colonie erano state insediate in violazione della legge in vigore. Israele ha rifiutato di conformarsi a questa sentenza definitiva, sottolineando il suo carattere “consultivo”.

In terzo luogo, nel dicembre 2016 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha adottato la Risoluzione 2334, stabilendo con votazione di 14 a 0 che le colonie non avevano alcuna validità giuridica. Gli Stati Uniti si sono astenuti al momento del voto. Questa Risoluzione afferma che le colonie costituiscono “una violazione flagrante del diritto internazionale ed un grave ostacolo alla realizzazione della soluzione di due Stati e ad una pace giusta, duratura e globale.” Sottolineava così esattamente l’opposto di ciò che ha sostenuto Pompeo.

Importanza geopolitica

Nessun Paese può, per decreto, influenzare lo statuto giuridico dell’attività di colonizzazione israeliana. Ciò che Pompeo ha dichiarato è un’evoluzione della posizione politica del governo americano. Essa è insignificante sul piano giuridico, ma significativa su quello geopolitico.

I portavoce di Trump hanno cercato di minimizzare questa evoluzione ricordando che Ronald Reagan, quando era presidente, una volta aveva detto in modo informale di non pensare che le colonie fossero illegali – ma, e questo spesso non viene preso in considerazione, aveva proseguito suggerendo che l’espansione della colonizzazione era d’altro canto “una inutile provocazione”.

Più pertinente era la corrispondenza tra l’ex presidente americano George W. Bush e l’ex Primo Ministro israeliano Ariel Sharon nel 2004, in cui convenivano che qualunque accordo possibile di pace con i palestinesi avrebbe consentito alle colonie lungo la frontiera di essere incorporate ad Israele.

Ancora una volta un tale accordo parallelo era privo di basi giuridiche, non rappresentando nulla più che una pacca sulle spalle geopolitica ad Israele – ma era un efficace segnale di ciò che Israele e gli Stati Uniti avrebbero preteso nei futuri negoziati di pace.

Ciò che rende diversa la dichiarazione di Pompeo è la sua posizione riguardo ad altre controverse decisioni di Trump e il suo linguaggio assolutorio, che incita Israele a procedere con l’annessione. É un altro esempio dell’eccessiva ambizione degli Stati Uniti.

Ultimo chiodo sulla bara

La resistenza palestinese resta forte, come dimostra la Grande Marcia del Ritorno lungo la barriera tra Gaza e Israele, e le iniziative di solidarietà internazionale si rafforzano – una realtà che Israele sembra ammettere, diffamando i suoi oppositori non violenti con le accuse di antisemitismo.

La nuova retorica sulle colonie segue lo schema stabilito dall’amministrazione Trump: disconoscere il consenso internazionale sulle questioni chiave riguardanti i diritti e i doveri degli Stati.

Le mosse salienti di questa tendenza nel contesto palestinese comprendono il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, l’approvazione dell’annessione israeliana delle alture del Golan ed ora l’eliminazione come non pertinente dell’illegalità delle colonie israeliane.

Questa iniziativa è stata condannata negli ambienti diplomatici come l’ultimo chiodo sulla bara della soluzione di due Stati. Essa sposta la bussola politica verso una soluzione con un solo Stato, con la probabilità del dominio ebraico e dell’assoggettamento dei palestinesi entro una struttura statale che assomiglia e si comporta sempre più come un regime di apartheid.

E’ dunque la fine della lotta palestinese? Non credo. La resistenza palestinese e il movimento mondiale di solidarietà racconteranno al mondo un’altra storia.

Richard Falk è un esperto di diritto internazionale e relazioni internazionali, che ha insegnato all’università di Princeton per 40 anni. Nel 2008 è stato anche nominato dall’ONU con un incarico di sei anni come relatore speciale sui diritti umani nei territori palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Dopo aver votato per dieci anni a favore di Israele, il Canada appoggia una risoluzione filopalestinese

Redazione di Middle East Monitor

20 novembre 2019 – Middle East Monitor

Ieri il governo Trudeau ha appoggiato una risoluzione di sostegno al diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU in una sessione della Terza Commissione.

La risoluzione è stata promossa dagli Stati di Palestina, Nord Corea, Zimbabwe ed altri, chiede una “composizione equa, duratura ed esaustiva” del conflitto israelo-palestinese e fa esplicito riferimento alle terre contese tra i due Paesi definendole “Territori Palestinesi Occupati”.

Il voto giunge dopo l’annuncio degli Stati Uniti di non considerare più illegali le colonie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme est occupate, ribaltando decenni di politica estera USA.

La risoluzione di ieri, dal titolo “Il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione”, è stato avversato da Israele, USA e cinque Nazioni delle isole del Pacifico: le isole Marshall, Nauru e gli Stati Federati della Micronesia.

Hanno votato a favore in totale 164 Paesi, compresi Regno Unito e Germania.

Una portavoce del Ministero degli Esteri canadese, Krystyna Dodd, ha detto a Israeli Times [giornale indipendente israeliano in lingua inglese, ndtr.]: “Il Canada si impegna per l’obbiettivo di una esaustiva, equa e duratura pace in Medio Oriente, compresa la creazione di uno Stato palestinese che esista accanto ad Israele in pace e sicurezza.”

In un momento in cui si trova sempre più sotto attacco, è importante per il Canada sottolineare il nostro fermo impegno per una soluzione di due Stati.”

Il deputato del Nuovo Partito Democratico [partito canadese di orientamento socialdemocratico, ndtr.] Charlie Angus, di Timmins-James Bay [distretto federale dell’Ontario,ndtr.], ha sostenuto l’iniziativa e si è congratulato con il Primo Ministro Justin Trudeau per aver riconosciuto i diritti dei palestinesi opponendosi alle colonie illegali.

Il Canada si è sistematicamente dichiarato contrario o astenuto riguardo alle risoluzioni di sostegno ai palestinesi, comprese risoluzioni relative all’autodeterminazione, la sovranità sulle risorse naturali e l’illegalità delle colonie israeliane.

Nel novembre dello scorso anno il Canada si è unito ad una piccola minoranza di Stati, inclusi Israele, USA e Isole Marshall, nel voto contrario alla risoluzione dell’Assemblea Generale ONU (AG dell’ONU) dal titolo “Composizione pacifica della questione della Palestina.”

Le associazioni filoisraeliane hanno espresso delusione per la nuova iniziativa canadese, sostenendo che sia un tradimento di oltre dieci anni di forte appoggio.

Hillel Neuer, presidente fondatore del ‘Geneva Summit for Human Rights and Democracy’ [Vertice di Ginevra, incontro annuale di 20 Ong che si occupano di diritti umani e la democrazia. Neuer ha fondato una ong filoisraeliana, ndtr.], ha detto che Trudeau “sta scambiando i principi fondamentali canadesi di correttezza ed equità per un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU”, ed ha affermato che il Canada “si è unito agli sciacalli”.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)