Solo i palestinesi possono decidere se boicottare la Corte degli occupanti

Michael Sfard

10 maggio 2022 – +972 magazine

La Corte Suprema israeliana ha approvato l’espulsione forzata di Masafer Yatta, e si ripresenta la questione se “legittimare” i tribunali.

La sentenza della Corte Suprema israeliana della scorsa settimana, che consente al governo di trasferire con la forza la comunità palestinese della Zona di Tiro 918 nell’area di Masafer Yatta, nella Cisigordania occupata, ha riacceso l’annoso dibattito tra attivisti di sinistra e per i diritti umani in Israele: dobbiamo presentare ricorsi alla Corte Suprema sulle violazioni dei diritti dei palestinesi che vivono sotto occupazione?

Le considerazioni sulle reti sociali, anche da parte di avvocati che hanno rappresentato i palestinesi davanti alla Corte Suprema per molti anni, hanno suggerito che è giunto il momento (e forse avrebbe dovuto essere fatto prima) di boicottare i tribunali israeliani ed evitare di chiedere ai giudici di porre rimedio o tutelare dai danni ai palestinesi.

È un argomento ben noto, e la comunità di attivisti in Israele-Palestina non è la prima a sollevarlo. Questo dibattito ha avuto luogo per decenni tra i militanti per i diritti umani in tutto il mondo – nel Sudafrica dell’apartheid e negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam, per esempio – e continua tuttora, dall’India alla Russia.

Gli attivisti che si oppongono allo status quo – soprattutto in regimi repressivi, occupanti, di apartheid, etnocratici o totalitari – quasi sempre devono lottare con una situazione di sistemi giudiziari accondiscendenti che collaborano, e a volte persino si identificano, con i crimini di quei regimi.

La questione politica se ricorrere al sistema giudiziario di un governo repressivo è pertanto importante e affascinante, benché emerga solo dove c’è una possibilità realistica che si possa ottenere qualcosa con un procedimento legale. Perché ci sia questo dubbio ci deve essere un sistema che ogni tanto conceda qualche forma di riparazione, e la domanda è quindi se sia opportuno continuare a impegnarvisi e pagare il prezzo di tale impegno o lasciar perdere del tutto.

Ad ogni modo ciò che si ottiene non è sempre una vittoria, cioè una vittoria totale in una causa. Un contenzioso può garantire quelli che si potrebbero definire “frutti secondari”: benefici collaterali che a lungo termine possono aiutare in maniera significativa la lotta contro una determinata politica, ma non sono il risarcimento diretto cercato avviando il procedimento giudiziario.

Ogni avvocato che abbia mai avuto a che fare con una causa le cui possibilità di successo sono esili conosce i benefici collaterali delle azioni giudiziarie per i diritti umani. Spesso la speranza, e persino la strategia, è che si ottengano proprio questi successi secondari. Per esempio: il tempo.

Il tempo è un vantaggio collaterale molto importante. Molte cause rimandano in modo significativo la messa in pratica di un’azione o una politica ingiuste. I processi contro l’espulsione della comunità palestinese di Khan al-Ahmar, nella Cisgiordania occupata, è durato 11 anni, finché la Corte Suprema ha deliberato a favore dello Stato. A Susiya, sulle colline meridionali di Hebron, lo stesso procedimento è durato 17 anni. La causa riguardante la Zona di Tiro 918 ha portato a un’ingiunzione temporanea che ha consentito alle comunità di continuare a vivere sulle loro terre. L’ingiunzione è rimasta in vigore per 22 anni.

Questi lunghi periodi di tempo consentono di organizzarsi politicamente, l’attivazione di pressioni diplomatiche e la garanzia di una significativa copertura mediatica –niente di tutto ciò sarebbe stato possibile se i progetti dello Stato fossero attuati rapidamente. Susiya e Khan al-Ahmar sono esempi perfetti di come il tempo possa rendere possibili l’organizzazione e una opposizione efficace, rendendo particolarmente difficile portare a termine le espulsioni forzate previste persino ora che tutti i ricorsi sono stati rigettati.

Un altro esempio di prodotto collaterale delle cause è l’informazione. Un’azione legale può mettere in luce molti dettagli riguardo a una politica o una prassi, che possono invece essere utili in una lotta sociale o politica. A volte in queste lotte le informazioni possono valere quanto l’oro.

Le azioni giudiziarie possono portare altri risultati: un procedimento legale può spesso incrementare la consapevolezza pubblica e attirare l’attenzione dei media sull’argomento sottoposto a controllo giudiziario; è un processo che dà vita a dibattiti concreti contro lo status quo e le azioni progettate dal governo, formulando nel contempo l’alternativa che dovrebbe sostituirle, contribuendo a far conoscere la lotta; obbliga lo Stato a prendere una posizione chiara che spieghi e difenda le sue azioni, e a darne conto. Sono tutti strumenti importanti in una lotta e che di rado sono ottenuti fuori dalle aule dei tribunali.

Fare ricorso o non fare ricorso

Di fronte a tutto ciò quelli che si oppongono alle azioni legali sono per lo più preoccupati dell’effetto di legittimazione di sentenze negative;, dell’inganno di una parvenza di processo equo e non di parte a favore dell’uso della forza coercitiva da parte del governo; l’impegno in queste cause di energie e risorse che potrebbero essere investite altrove. Questi sono i costi politici dei procedimenti giudiziari.

Quindi, cosa si conclude se si soppesano costi e benefici? Qual è il bilancio finale? Ricorrere o meno ai tribunali? Forse il prezzo maggiore sempre citato in questo contesto è che i procedimenti giudiziari possono portare a sentenze che legittimano i crimini. Ciò evidenzia un paradosso: più il tribunale è progressista – cioè, più è disponibile ad opporsi alle autorità e interviene a favore delle vittime delle violazioni dei diritti umani – maggiore è il costo in termini della legittimazione nel caso in cui caso si perda.

D’altro canto, più il sistema giudiziario è sottomesso, più sentenzia regolarmente a favore delle autorità e adotta la loro posizione, più si riduce il prezzo in termini di legittimazione.

Questa è una conclusione importante: il pericolo di legittimare le politiche (e il regime) è particolarmente alto nei sistemi giudiziari in cui è alta la possibilità di garantirsi delle vittorie significative. Non mi pare che questa sia la situazione in Israele. Anche se la Corte è stata tenuta tradizionalmente in grande considerazione, quell’epoca è passata sia in Israele che all’estero, sicuramente in quei contesti sociali che costituiscono il bacino di potenziali reclute e sostenitori nella lotta per porre fine all’occupazione.

Riguardo al molto tempo e alle molte energie che le cause richiedono, è chiaro che, se ci fossero mezzi alternativi di resistenza che potrebbero portare a risultati e soluzioni positive migliori dei tribunali israeliani sarebbe giusto spostare risorse su quei mezzi. Mi pare che in molti casi non ci siano alternative più efficaci ai procedimenti giudiziari.

Dall’altra parte ci sono esseri umani che sono vittime delle azioni che queste istanze cercano di impedire. Dal loro punto di vista c’è poco da perdere nel ricorrere ai tribunali. Se un’istanza fallisce, quello che succede sarebbe successo comunque, solo molto prima. In questo modo c’è almeno la speranza di garantirsi il tempo necessario per organizzare una lotta, per sfruttare l’attenzione data ai procedimenti giudiziari e per utilizzare le informazioni – parte delle quali possono essere importanti – che i processi mettono in luce.

E a volte, solo a volte, i ricorrenti ottengono una vera e propria vittoria, parziale o – in rare occasioni – totale, che impedisce un’ingiustizia: annullando la proibizione di viaggiare all’estero; limitando il furto di terre; garantendo l’accesso a terreni agricoli; cancellando la “legge sulle regolarizzazioni” [degli avamposti israeliani illegali, ndt.]; cacciando coloni da terre di proprietari privati palestinesi, come nel caso degli avamposti di Amona e di Migron.

La lealtà ai diritti umani ci autorizza a sacrificare la possibilità per una persona di evitare l’espulsione, la perdita di reddito o lo smantellamento di una comunità sull’altare di un calcolo dell’eventuali scotto di legittimare un regime repressivo?

Dopo tutte le considerazioni e valutazioni, in definitiva non sta agli avvocati o alle Ong decidere. La decisione spetta ai palestinesi. Sono loro che devono scegliere se ricorrere ai tribunali dell’occupante o boicottarli. Nel frattempo ogni anno migliaia di palestinesi optano per correre il rischio. Che sia per mancanza di alternative o per le sofferenze, questa è la scelta che stanno facendo.

Michael Sfard è avvocato specializzato in leggi sui diritti umani e umanitarie internazionali ed autore di “The Wall and The Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights [Il muro e la porta: Israele, Palestina e la battaglia giuridica per i diritti umani].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Guardate Hebron e vedrete l’occupazione nel suo complesso

Eyal Hareuveni

29 settembre 2019 +972 Magazine

Le colonie, i checkpoint ed i muri che sono la realtà della popolazione palestinese di Hebron vengono ora replicati ovunque in tutta la Cisgiordania.

Chi visita per la prima volta la colonia ebraica nel centro della città vecchia di Hebron potrebbe avere l’impressione di essere finito nel cuore dell’oscurità. È qui che le politiche di occupazione militare israeliana hanno toccato il picco della barbarie: reggimenti di soldati sono dispiegati per proteggere 700 coloni ebrei che vivono in un’enclave che è diventata un luogo di degrado urbano in conseguenza delle misure di sicurezza dell’esercito. I 200.000 palestinesi residenti della città non possono fare nulla per contrastare le misure oppressive che rendono insopportabili le loro vite.

A Hebron l’esercito ha distrutto o sigillato le case dell’epoca mamelucca [regno egiziano durato dalla metà del XIII alla metà del XVI secolo, ndtr.] che costeggiano il cosiddetto Cammino dei Fedeli, un sentiero riservato esclusivamente ai coloni ebrei in quanto è il loro percorso verso la Tomba dei Patriarchi [la moschea di Ibrahim per i musulmani, ndtr.]. Shuhada Street, un tempo vivace fulcro commerciale dell’intera Cisgiordania meridionale, è immersa nel silenzio; i commercianti hanno abbandonato i loro negozi e quasi tutti gli abitanti se ne sono andati. Né è possibile ignorare le decine di checkpoint attrezzati con tecnologie avanzate di riconoscimento facciale. Queste riproposizioni nel XXI secolo delle fortezze medievali mantengono la colonia ebraica separata dal resto di Hebron.

Alcuni palestinesi sono rimasti, anche se le loro vite sono controllate e gestite dalle forze di sicurezza israeliane. Quasi tutti dicono che, se solo avessero potuto, avrebbero lasciato la città fantasma in cui da tempo Israele li ha intrappolati. Ogni attività quotidiana – andare a scuola o al lavoro, fare o ricevere visite dai famigliari, partecipare a feste di famiglia, addirittura andare a fare la spesa – comporta stare in fila ai checkpoint e subire un trattamento umiliante.

Quasi ogni giorno, nella pressoché totale impunità, soldati, poliziotti e coloni commettono violenze contro i palestinesi. I soldati li sottopongono a perquisizioni umilianti, fanno incursione nelle loro case nel cuore della notte ed eseguono finti arresti. Tutti questi sono normali aspetti dell’occupazione in generale, ma ad Hebron sono molto più continui.

Nel 2007 Hagai Alon, allora collaboratore dell’ex Ministro della Difesa Amir Peretz [dirigente del partito Laburista israeliano, ndtr.], disse che lo scopo di queste politiche era di “svuotare Hebron dagli arabi” – in altri termini, scacciare la popolazione civile con la forza. In base al diritto umanitario internazionale, il trasferimento forzato di popolazione civile è un crimine di guerra.

Il modello di Hebron non è unico. Le forze di occupazione usano le stesse tattiche in tutta la Cisgiordania, in modi differenti ma con lo stesso scopo – la sempre più violenta espulsione dei palestinesi dalle loro case e dalle loro terre. Insediamenti, checkpoint e muri circondano i principali centri urbani palestinesi, ed anche villaggi come Susiya e Khan al-Ahmar. Gli abitanti di questi due villaggi devono anche affrontare la minaccia di espulsione nel tentativo di spingerli a forza in enclave più grandi. Lo stesso avviene nella Valle di Shiloh, nel blocco di colonie di Talmonim, in tutta la Valle del Giordano dove sono sorti gli avamposti, a Gerusalemme est, intorno a Betlemme e nel sud della Cisgiordania. In altre parole, avviene ovunque.

Il meglio di Israele ha preso parte a questa ingiustizia: i giudici della Corte Suprema, gli alti ufficiali dell’esercito e degli apparati di sicurezza, i membri dell’Avvocatura Generale dell’esercito, l’ufficio della Procura di Stato e, ovviamente, politici di destra e di sinistra. Tutti hanno tollerato la violenza, a Hebron e dovunque in Cisgiordania. Tutti hanno legittimato l’espulsione dei palestinesi e il furto delle loro proprietà – e non solo ad Hebron. Tutti hanno appoggiato la continua oppressione dei palestinesi, anche dopo che gli atroci effetti di questa politica sono diventati evidenti.

I coloni amano dire: “Hebron: infine e per sempre”. Ma Hebron è molto più di ciò: è qui, là e dovunque. Guardate Hebron e vedrete tutti i territori occupati.

Eyal Hareuveni è un ricercatore di B’Tselem. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)