Secondo un articolo l’intelligence statunitense mette in dubbio le affermazioni israeliane riguardo ai rapporti tra l’UNRWA e Hamas.

Redazione di The Guardian

22 febbraio 2024 – The Guardian

Un rapporto dell’intelligence afferma che alcune accuse secondo cui collaboratori umanitari avrebbero partecipato agli attacchi di Hamas sono credibili ma non potrebbero essere verificate in modo indipendente.

Una verifica da parte dell’intelligence USA delle affermazioni di Israele secondo cui membri del personale di un’agenzia umanitaria dell’ONU avrebbero partecipato il 7 ottobre all’attacco di Hamas afferma che alcune delle accuse sono credibili, benché non potrebbero essere verificate in modo indipendente, mettendo nel contempo in dubbio denunce di rapporti più ampi con gruppi di miliziani.

L’attacco ha provocato un’invasione su vasta scala di Gaza che ha ucciso fino a 30.000 palestinesi. All’inizio dell’anno Israele ha accusato 12 dipendenti della United Nations Reliefs and Works Agency [agenzia ONU che si occupa dei profughi palestinesi, ndt.] (UNRWA) di aver partecipato agli attacchi del 7 ottobre insieme ad Hamas. Ha anche sostenuto che il 10% di tutti i lavoratori dell’UNRWA è affiliato ad Hamas.

La clamorosa accusa ha portato molti Paesi, tra cui gli USA, a tagliare i finanziamenti all’agenzia, che è stato un mezzo fondamentale per inviare aiuti a Gaza in quella che è stata ampiamente descritta come una crisi umanitaria.

Secondo il Wall Street Journal [importante quotidiano statunitense, ndt.] il rapporto dell’intelligence reso noto la scorsa settimana afferma con “scarsa fiducia” che un pugno di impiegati hanno partecipato agli attacchi, indicando di considerare le accuse credibili, pur non potendo confermare in modo indipendente la loro veridicità.

Tuttavia solleva dubbi sulle accuse secondo cui l’agenzia dell’ONU ha collaborato con Hamas in modo più complessivo. Secondo il Journal il rapporto sostiene che, benché l’UNRWA si coordini con Hamas per consegnare aiuti e operare nella zona, mancano prove che suggeriscano una collaborazione con il gruppo.

Aggiunge che Israele non ha “condiviso con gli USA i documenti di intelligence che stanno dietro le sue affermazioni.”

Inoltre il rapporto nota l’avversione di Israele nei confronti dell’UNRWA, hanno affermato al Journal due fonti informate: “C’è un paragrafo specifico che menziona come la tendenziosità israeliana sia funzionale a travisare molte delle affermazioni sull’UNRWA e dice che ciò ha dato come risultato delle distorsioni,” avrebbe affermato una fonte.

Secondo il Journal la scorsa settimana il rapporto di quattro pagine del National Intelligence Council ha circolato tra i funzionari del governo USA. Fondato nel 1979, il NIC include importanti analisti ed esperti dell’intelligence che lavorano insieme a parlamentari USA sulla politica statunitense.

A gennaio il segretario di stato Antony Blinken aveva affermato che le accuse di Israele sono “molto, molto credibili”. Nove dei dipendenti accusati sono stati licenziati dal capo dell’agenzia, che ha affermato di aver seguito così facendo “il contrario di un giusto processo”. In una conferenza stampa a Gerusalemme il commissario generale dell’UNRWA Philippe Lazzarini all’inizio di febbraio ha detto di non aver verificato le prove prima del licenziamento.

“Avrei potuto sospenderli, ma li ho licenziati. E ora ho avviato un’indagine e se l’inchiesta ci dirà che è stato un errore, in quel caso all’ONU prenderemo una decisione su come compensarli correttamente,” ha affermato.

Mercoledì Lazzarini ha detto ad Haaretz [quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndt.] che l’agenzia sta chiedendo a Israele la “massima collaborazione per fornire le prove agli inquirenti.”

Riguardo alle affermazioni israeliane secondo cui circa il 10% dei lavoratori dell’UNRWA sarebbe affiliato ad Hamas, Lazzarini ha detto al giornale: “Ho letto sul giornale di 190 o 1.200 (dipendenti), ma non siamo stati informati (al riguardo) … Non abbiamo queste informazioni, non sappiamo da dove vengano queste informazioni, non sappiamo se si tratta di una stima. Non sappiamo se si tratta solo di una congettura.”

Con circa 2 milioni di palestinesi sfollati con la forza dagli attacchi di Israele contro Gaza dal 7 ottobre, la maggioranza dei sopravvissuti ha cercato rifugio a Rafah. Mentre i palestinesi devono fare i conti con gravi carenze di cibo, acqua, carburante e servizi medici, l’ONU ha avvertito di un incombente disastro della sanità pubblica.

Solo quattro degli ambulatori e centri medici dell’UNRWA nella Striscia sono ancora in funzione.

“Ci siamo totalmente riorientati da quelli che chiamerei i tradizionali servizi di tipo pubblico forniti ai rifugiati palestinesi e dalle attività per lo sviluppo umano verso un tipo di risposta emergenziale che è prioritariamente salvavita, come aiutare la gente a trovare un rifugio,” ha detto Lazzarini ad Haaretz.

“Stiamo cercando di tenere in piedi per quanto possibile il nostro sistema sanitario di base in modo che la gente non sovraffolli gli ospedali, che sono travolti da quella che definirei chirurgia di guerra di base.”

Nel contempo un rapporto separato dell’ONU di un gruppo di esperti dell’ONU reso pubblico lunedì ha manifestato allarme riguardo a “denunce credibili” di donne e ragazze sottoposte a “molteplici forme di aggressioni sessuali … da parte di soldati maschi dell’esercito israeliano.”

Le denunce includono stupri e detenzioni di donne palestinesi in gabbie, oltre a “foto di donne detenute in condizioni degradanti… che sarebbero state prese dall’esercito israeliano e pubblicate in rete.”

“Ricordiamo al governo israeliano i suoi obblighi di tutelare il diritto alla vita, alla sicurezza, alla salute e alla dignità delle donne e ragazze palestinesi e di garantire che nessuna sia sottoposta a violenza, tortura, sevizie o trattamenti degradanti, comprese violenze sessuali,” affermano gli esperti dell’ONU.

(traduzione dall’inglese Amedeo Rossi)




La redazione della CNN afferma che la tendenza filoisraeliana della rete rappresenta una “pratica giornalistica scorretta”

Chris McGreal

4 febbraio 2024 – The Guardian

Voci interne affermano che le pressioni dall’alto portano a reportage che accreditano le affermazioni israeliane e mettono a tacere il punto di vista palestinese.

La CNN sta affrontando una reazione da parte della sua stessa redazione riguardo a politiche editoriali che avrebbero portato a una ripetizione a pappagallo della propaganda israeliana e alla censura del punto di vista palestinese nella copertura della rete sulla guerra a Gaza.

Giornalisti della redazione CNN negli USA e all’estero affermano che le trasmissioni sono state distorte da imposizioni della direzione e da un procedimento di approvazione dei reportage che si è tradotto in una copertura molto parziale del massacro di Hamas del 7 ottobre e dell’attacco per rappresaglia contro Gaza.

“Da quando è iniziata la guerra, all’interno della rete la maggioranza delle notizie, indipendentemente da quanto siano stati accurati i primi reportage, è stata distorta da una tendenziosità sistematica e istituzionalizzata a favore di Israele,” afferma un redattore della CNN. “In sostanza, la copertura della CNN sulla guerra tra Israele e Gaza rappresenta una pratica giornalistica scorretta”.

Secondo i racconti di sei giornalisti della CNN in differenti redazioni e più di una decina di note ed email ottenute da The Guardian, le decisioni sulle notizie giornaliere sono condizionate da un flusso di direttive del quartier generale della CNN ad Atlanta che hanno stabilito rigide linee guida sulle notizie da dare.

Includono severe restrizioni alle citazioni di Hamas e alla presentazione di altre prospettive dei palestinesi, mentre le dichiarazioni del governo israeliano sono prese per oro colato. Inoltre, prima della messa in onda o della pubblicazione, ogni reportage sul conflitto deve essere autorizzato dall’ufficio di Gerusalemme.

I giornalisti della CNN affermano che il tono della copertura è stabilito dall’alto dal nuovo direttore e amministratore delegato, Mark Thompson, che ha assunto l’incarico due giorni dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Alcuni membri del personale sono preoccupati dell’effettiva volontà di Thompson di opporsi ai tentativi di influenzare le notizie dall’esterno, dato che nel suo precedente ruolo di direttore generale della BBC era stato accusato di aver ceduto in varie occasioni alle pressioni del governo israeliano, compresa la richiesta nel 2005 di rimuovere una delle inviate più importanti dell’azienda dal suo posto a Gerusalemme.

Fonti interne alla CNN affermano che ciò ha portato, soprattutto nelle prime settimane di guerra, a un’attenzione molto maggiore sulla sofferenza degli israeliani e sulla narrazione israeliana della guerra come una caccia ad Hamas e ai suoi tunnel e a un’insufficiente attenzione nei confronti del livello di morti civili palestinesi e distruzioni a Gaza.

Un giornalista descrive una “frattura” all’interno della rete riguardo alla copertura che a quanto afferma ricorda talvolta il tifo conformista che seguì l’11 settembre.

“Ci sono parecchi conflitti e dissensi interni. Alcuni stanno cercando di andarsene,” afferma.

Un giornalista di un altro ufficio dice che anche lì c’è stata opposizione.

“Importanti redattori che dissentono dallo status quo si sono scontrati con il fatto che i dirigenti diano ordini, mettendo in discussione come si possa effettivamente raccontare quello che accade con le indicazioni restrittive vigenti” afferma.

“Molti hanno spinto perché vengano segnalati e trasmessi più contenuti da Gaza. Al momento questi reportage passano attraverso Gerusalemme e arrivano in TV o in prima pagina, con modifiche importanti, dall’inserimento di un linguaggio impreciso a ignorando vicende cruciali, che garantiscono che quasi ogni servizio, per quanto accusatorio, assolva Israele da azioni illecite.”

La redazione della CNN afferma che alcuni giornalisti con esperienza di reportage sul conflitto o sulla regione hanno rifiutato di essere inviati in Israele perché pensano che non sarebbero liberi di raccontare tutto quello che avviene. Altri ipotizzano di esserne stati tenuti fuori dai capi della redazione.

“È evidente che alcuni che non sono esperti stanno coprendo la guerra e altri che lo sono non lo stanno facendo,” afferma una fonte interna.

Imposizioni dai piani alti

Nella prima riunione di redazione di Thompson, due giorni dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre, il nuovo direttore della rete ha descritto la copertura del rapido sviluppo degli avvenimenti da parte della CNN come “fondamentalmente molto buono”.

Poi Thompson ha detto di volere che il pubblico capisse cosa sia Hamas, che cosa voglia e cosa abbia cercato di ottenere con l’attacco. Qualcuno dei presenti ha pensato che fosse un lodevole obiettivo giornalistico. Ma affermano che col tempo è diventato chiaro che egli aveva aspettative più specifiche su come i giornalisti dovessero sull’organizzazione.

Alla fine di ottobre, mentre il bilancio dei palestinesi uccisi cresceva notevolmente a causa dei bombardamenti israeliani, con più di 2.700 minori uccisi secondo il ministero della Sanità di Gaza, e mentre Israele si preparava all’invasione di terra, nelle caselle di posta della redazione CNN è arrivata una serie di linee guida.

Una nota all’inizio della comunicazione di due pagine indicava un’istruzione “da Mark” perché si facesse attenzione a un particolare paragrafo intitolato “guida sulla copertura”. Il paragrafo diceva che, mentre la CNN avrebbe riportato le conseguenze umane dell’attacco israeliano e il contesto storico della vicenda, “dobbiamo continuare sempre a ricordare al nostro pubblico la causa immediata dell’attuale conflitto, cioè l’attacco di Hamas e l’uccisione di massa e il rapimento di civili” (corsivo nell’originale).

I membri della redazione della CNN affermano che la comunicazione ha consolidato un contesto di servizi in cui il massacro di Hamas è stato usato per giustificare implicitamente le azioni di Israele e che altri contesti o vicende sono spesso risultati sgraditi o lasciati da parte.

“In quale altro modo i giornalisti avrebbero dovuto leggerla se non come un’indicazione che qualunque cosa facciano gli israeliani Hamas in ultima analisi è colpevole? Il reportage su ogni azione di Israele – bombardamenti massicci che spazzano via intere vie, la cancellazione di intere famiglie – finisce per essere manipolato per creare una narrazione secondo cui “se la sono cercata loro,” dice un redattore.

La stessa comunicazione afferma che ogni riferimento ai dati del ministero della Sanità di Gaza sulle vittime deve specificare che è “controllato da Hamas”, implicando che i resoconti delle morti di migliaia di minori sono inattendibili, anche se l’Organizzazione Mondiale della Salute e altri enti internazionali hanno affermato che sono decisamente veritieri. La redazione della CNN afferma che l’imposizione è stata stilata da Thompson durante una delle prime riunioni di redazione.

Un controllo più generale della copertura della direzione della CNN ad Atlanta è diretto dalla “Triade”, composta da tre dipartimenti della CNN: norme e pratiche delle notizie, ufficio legale e controllo dei fatti.

David Lindsay, il principale direttore di norme e pratiche delle notizie, all’inizio di novembre ha emanato una direttiva che di fatto ha vietato le informazioni sulla maggior parte delle dichiarazioni di Hamas, definendole come “retorica incendiaria e propaganda”.

“La maggior parte di questi discorsi è stato detto molte volte in precedenza e non è degno di nota. Dobbiamo dare attenzione a non fornirgli una tribuna,” ha scritto.

Lindsay ha affermato che se una dichiarazione viene definita editorialmente importante “la possiamo usare se è accompagnata da un contesto più complessivo, preferibilmente in un insieme di notizie o un testo digitale. Evitiamo di presentarlo come un estratto o una citazione autonomi.”

Un redattore della CNN fa notare che invece la rete ha ripetutamente trasmesso discorsi incendiari e propaganda da parte di politici israeliani e sostenitori americani, spesso senza interviste con contraddittorio.

Evidenzia che, mentre la CNN non lo ha fatto, altri canali hanno intervistato dirigenti di Hamas, compresa un’intervista in cui il portavoce del gruppo, Ghazi Hamad, ha interrotto le domande della BBC quando gli è stato chiesto dell’uccisione di civili israeliani. Un redattore afferma che tra gli inviati c’è l’opinione che sia “uno strazio far approvare dalla Triade un’intervista ad Hamas.”

Fonti della CNN riconoscono che dall’attacco del 7 ottobre non ci sono state interviste ad Hamas, ma affermano che la rete non impone un divieto su queste interviste.

Ma alla redazione e agli inviati della CNN sono state date indicazioni di non utilizzare video ripresi da Hamas “in nessun caso, finché non sia stato approvato dalla Triade e dai principali responsabili editoriali.”

Questa posizione è stata ripetuta in un’altra nota del 23 ottobre, secondo cui i reportage non dovevano mostrare video di Hamas del rilascio di due ostaggi israeliani, Nurit Cooper e Yocheved Lifshitz. Due giorni dopo Lindsay ha inviato un’ulteriore indicazione, secondo cui il video dell’ottantacinquenne Lifshitz che stringe la mano di uno dei suoi rapitori “può essere utilizzato solo quando viene specificamente scritto che era sua riguardo alla decisione di stringere la mano al rapitore.”

Oltre agli ordini di Atlanta, la CNN ha una politica di lunga data in base alla quale, per essere messo in onda o pubblicato, ogni testo sulla situazione in Israele/Palestina deve essere approvato dall’ufficio di Gerusalemme. Per velocizzare l’approvazione, in luglio la rete ha creato un processo denominato “SecondEyes” [Secondi Occhi].

Il caporedattore dell’ufficio di Gerusalemme, Richard Greene, ha detto alla redazione in una nota che annunciava “SecondEyes” riportata per la prima volta da The Intercept [sito alternativo di notizie, ndt.], che, poiché le informazioni sul conflitto israelo-palestinese sono sottoposte al controllo dei sostenitori di entrambe le parti, la misura è stata creata come “rete di sicurezza in modo che non usiamo un linguaggio impreciso o parole che possano suonare imparziali ma che qui possono avere un significato in codice.”

Redattori della CNN sostengono che non c’è niente di intrinsecamente sbagliato nella richiesta, data la notevole delicatezza nell’informazione su Israele e Palestina e la natura aggressiva delle autorità israeliane e dei ben organizzati gruppi filo-israeliani per cercare di influenzare la copertura giornalistica. Ma alcuni hanno l’impressione che una misura originariamente intesa a preservare un buon livello sia diventata uno strumento di auto-censura per evitare polemiche.

Uno dei risultati di SecondEyes è che le dichiarazioni ufficiali israeliane sono spesso rapidamente approvate e mandate in onda in base al principio che devono essere prese per buone, come se avessero il visto per la diffusione, mentre i comunicati e le affermazioni dei palestinesi, e non solo di Hamas, sono ritardate o non riportate.

Un giornalista della CNN afferma che gli ordini di SecondEyes spesso sembrano intesi a evitare critiche da parte di gruppi filo-israeliani. Fanno l’esempio dell’intervento di Greene per cambiare un titolo, “Israele non sta neppure lontanamente distruggendo Hamas”, un punto di vista ampiamente presente nella stampa straniera e israeliana. È stato sostituito con un titolo che sposta l’attenzione da se Israele possa raggiungere la giustificazione dichiarata per l’uccisione di migliaia di civili palestinesi a “Dopo tre mesi Israele sta entrando in una nuova fase della guerra. Sta ancora cercando di ‘distruggere’ Hamas?”

Alcuni redattori della CNN temono che il risultato sia una rete che agisce come censore sostitutivo a favore del governo israeliano.

“Il sistema porta a individui scelti che pubblicano e raccontano con una parzialità istituzionalizzata a favore di Israele, utilizzando spesso un linguaggio passivo per assolvere l’esercito israeliano da ogni responsabilità e minimizzando le morti dei palestinesi e gli attacchi israeliani,” afferma uno dei giornalisti della rete.

Redattori della CNN che hanno parlato con The Guardian sono stati pronti a elogiare i reportage approfonditi ed incisivi degli inviati sul terreno. Hanno detto che questi servizi spesso hanno avuto risalto su CNN International, sono stati visti fuori dagli USA. Ma sul canale CNN disponibile negli USA spesso sono stati meno visibili e a volte messi da parte da ore di interviste a politici e sostenitori israeliani della guerra a Gaza, a cui è stata lasciata piena libertà di sostenere le proprie idee, spesso senza contraddittorio e a volte con presentatori che facevano dichiarazioni di sostegno. Nel contempo le voci e le opinioni dei palestinesi si sono sentite molto meno di frequente e sono state contraddette con maggiore forza.

Un redattore ha evidenziato la presenza di Rami Igra, un importante exufficiale del servizio di sicurezza israeliano, nel programma di Anderson Cooper, dove ha affermato che tutta la popolazione palestinese di Gaza dovrebbe essere vista come combattente.

“Popolazione non-combattente nella Striscia di Gaza è in realtà un termine inesistente perché tutti i gazawi hanno votato per Hamas e, come abbiamo visto il 7 ottobre, la grande maggioranza della popolazione della Striscia di Gaza è con Hamas,” ha affermato.

“Ciononostante noi li stiamo trattando come non combattenti, come civili regolari e sono risparmiati dai combattimenti.”

Cooper non ha smentito nessuna delle sue affermazioni. Quando l’intervista è stata messa in onda, il 19 novembre, a Gaza erano state uccise più di 13.000 persone, in grande maggioranza civili.

Un altro dipendente della CNN ha scelto il programma del presentatore Jake Tapper come esempio di un conduttore che si identifica troppo con una parte mentre l’altra ha solo una presenza limitata. In un certo momento Tapper ha riconosciuto la morte e le sofferenze di palestinesi di Gaza innocenti, ma è sembrato difendere l’entità dell’attacco israeliano contro Gaza.

“Cosa ha pensato esattamente Hamas che avrebbe fatto l’esercito israeliano in risposta a questo?” ha affermato, in riferimento all’attacco del 7 ottobre.

Un portavoce della CNN ha sostenuto: “Rifiutiamo nel modo più assoluto l’affermazione che i nostri giornalisti trattano i politici israeliani diversamente da altri politici.”

Un’altra presentatrice, Sara Sidner, ha suscitato critiche per il suo emotivo reportage sulle affermazioni israeliane non verificate secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe decapitato decine di bambini.

“Abbiamo notizie veramente sconvolgenti da Israele,” ha annunciato quattro giorni dopo l’attacco.

“Il portavoce del primo ministro israeliano ha appena confermato che bambini e neonati sono stati trovati decapitati a Kfar Aza, nel sud di Israele, dopo gli attacchi di Hamas nel kibbutz durante il fine settimana. Ciò è stato confermato dall’ufficio del primo ministro.”

Sidner ha definito l’affermazione “indicibilmente sconvolgente.”

“Per le famiglie che ascoltano, per il popolo di Israele, per chiunque sia un genitore, chi ami i bambini, non so come si possa sopportare tutto ciò,” ha affermato.

Sidner poi ha detto a un reporter della CNN a Gerusalemme, Hadas Gold, che la decapitazione dei bambini avrebbe reso impossibile a Israele fare la pace con Hamas.

Gold ha replicato: “Come puoi farlo quando hai a che fare con gente che farebbe simili atrocità a dei bambini, dei neonati, dei bimbi?”

Gold, che faceva parte del gruppo SecondEyes che approva i reportage, ha di nuovo detto che le notizie erano state confermate dall’ufficio di Netanyahu e lei ha fatto un parallelo con l’Olocausto. Ha risposto alla smentita di Hamas di aver decapitato bambini come incredibile “quando abbiamo letteralmente dei video di questi ragazzi, di questi miliziani, di questi terroristi che fanno esattamente quello che dicono di non aver fatto a civili e a bambini.”

Solo che, come ha evidenziato un giornalista della CNN, né la rete, né, a quanto pare, nessun altro hanno tali video.

“Il problema è che, ancora una volta, la versione del governo israeliano sugli avvenimenti è stata accolta in modo emotivo senza una verifica da parte di qualcuno che si suppone sia un giornalista neutrale,” afferma.

Al momento della trasmissione di Sidner c’erano già buone ragioni perché la CNN trattasse le affermazioni [israeliane] con cautela.

Giornalisti israeliani che si erano recati a Kfar Aza il giorno prima avevano detto di non aver visto prove di tale crimine e fonti ufficiali dell’esercito non ne avevano fatto menzione. Tim Langmaid, vicepresidente della CNN di Atlanta e importante direttore editoriale, ha inviato un’indicazione in base alla quale le affermazioni del presidente Biden di aver visto foto delle presunte atrocità “confermano quanto detto dal governo israeliano.”

Anche se gli interrogativi stavano aumentando, Langmaid ha inviato una nota in cui diceva: “È importante informare sulle atrocità degli attacchi di Hamas e sulla guerra appena li apprendiamo.”

Fonti interne della CNN sostengono che i caporedattori avrebbero dovuto trattare fin dall’inizio la vicenda con cautela, perché l’esercito israeliano ha una lunga storia di affermazioni false o esagerate che in seguito sono state smentite.

Altre reti, come Sky News, sono state sensibilmente più scettiche nei loro reportage e hanno delineato le vaghe origini della vicenda, iniziata con una giornalista di un canale di notizie israeliano secondo cui alcuni soldati le avevano raccontato che 40 bambini erano stati uccisi nel massacro di Hamas e che un soldato aveva detto di aver visto “corpi di bimbi con la testa tagliata”. L’esercito israeliano ha poi utilizzato la notizia per paragonare Hamas allo Stato Islamico.

Persino dopo che la Casa Bianca ha ammesso che né il presidente né i suoi funzionari avevano visto foto di bambini decapitati e che si erano basati su affermazioni degli israeliani, Langmaid ha detto alla redazione che avrebbe potuto ancora raccontare le asserzioni del governo israeliano insieme alla smentita di Hamas.

La CNN ha informato del ritiro delle accuse quando fonti ufficiali israeliane le hanno smentite, ma un redattore sostiene che ormai il danno era stato fatto, descrivendo la copertura un fallimento giornalistico.

“L’infame affermazione sui ‘bambini decapitati’ attribuita al governo israeliano, è andata in onda per circa 18 ore, persino dopo che la Casa Bianca aveva fatto marcia indietro sul comunicato di Biden secondo cui aveva visto foto inesistenti. La CNN non aveva avuto accesso a prove fotografiche né alla possibilità di verificare in modo indipendente queste affermazioni,” dice.

Un portavoce della CNN ha sostenuto che la rete ha informato in modo accurato quello che era stato detto all’epoca.

“Nei nostri notiziari abbiamo fatto molta attenzione ad attribuire queste affermazioni e abbiamo anche emanato linee guida molto specifiche a questo scopo,” ha detto.

Alcuni redattori della CNN hanno sollevato questioni simili riguardo alle informazioni sui tunnel di Hamas a Gaza e alle affermazioni secondo cui essi portano a un esteso centro di comando sotto l’ospedale al-Shifa.

Fonti interne dicono che alcuni giornalisti hanno respinto le imposizioni. Uno ha indicato Jomana Karadsheh, corrispondente da Londra con una lunga esperienza di inviata in Medio Oriente.

“Jomana ha molto insistito per mettere in evidenza le vittime palestinesi di questa guerra e ha avuto un certo successo. Ha fatto alcuni reportage molto importanti per umanizzare tutto ciò e analizzare le azioni e le intenzioni di Israele. Ma non penso che sia stato facile per lei. Questi servizi non hanno la visibilità che meritano,” ha affermato un giornalista.

L’impulso per un’informazione più equilibrata è stato complicato dal divieto israeliano di ingresso dei giornalisti a Gaza, salvo che sotto il controllo e la censura dell’esercito israeliano. Ciò ha contribuito a tenere fuori dalla CNN e da altri canali l’impatto complessivo della guerra sui palestinesi, garantendo nel contempo che ci sia un’attenzione costante al punto di vista israeliano.

Un portavoce della CNN ha negato le accuse di parzialità: “Le nostre notizie, comprese alcune delle nostre inchieste, interviste e reportage più dettagliate e di spicco, hanno messo a confronto la risposta di Israele agli attacchi” ha affermato.

La CNN dovette far fronte a simili accuse di parzialità in seguito agli attacchi dell’11 settembre del 2001, quando il direttore della rete, Walter Isaacson, ordinò che i reportage sull’uccisione di civili afghani da parte delle forze USA fossero controbilanciati dalla condanna dei talebani per i loro rapporti con al-Qaeda.

“Poiché abbiamo buoni reportage dall’Afghanistan controllato dai talebani, dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per essere sicuri che non sembri che stiamo informando semplicemente a loro favore o dal loro punto di vista. Dobbiamo parlare di come i talebani stanno usando scudi umani e come hanno ospitato i terroristi responsabili dell’uccisione di quasi 5.000 persone innocenti,” scrisse in una nota, secondo il Washington Post.

Alcuni redattori affermano che dopo le prime settimane in cui la CNN ha informato sull’attacco di Hamas “come se fosse l’11 settembre”, è aumentato lo spazio dedicato al punto di vista palestinese, dato il crescente numero di morti e distruzioni dell’attacco di rappresaglia israeliano contro Gaza.

L’unico giornalista straniero a informare da Gaza senza essere accompagnato dagli israeliani è stata Clarissa Ward della CNN, che è entrata per due ore con una squadra di soccorso umanitario degli Emirati Arabi Uniti.

La settimana scorsa sul Washington Post Ward ha riconosciuto le difficoltà. Ha scritto che il suo reportage da Israele le ha consentito “di creare un’immagine vivida delle mostruosità del 7 ottobre”, ma le è stato impedito di tramettere un’immagine più completa della tragedia in corso a Gaza a causa del blocco israeliano contro i giornalisti stranieri, lasciandone l’onere solo a un numero limitato di coraggiosi giornalisti palestinesi che sono stati uccisi in numero spropositato.

“Ora dobbiamo poter raccontare allo stesso modo le terribili morti e distruzioni inflitte a Gaza, sul terreno, in modo indipendente, in mezzo a uno dei bombardamenti più intensi nella storia delle guerre moderne,” ha scritto.

“Nei media israeliani la risposta ai nostri racconti su Gaza suggerisce una ragione indicibile per negarci l’accesso. Quando ha risposto in onda riguardo a un nostro pezzo, un giornalista del Canale 13 israeliano ha replicato: ‘Se veramente i reporter occidentali iniziano a entrare a Gaza ciò sarà di certo un grave grattacapo per Israele e per la sua hasbara.’ Hasbara è una parola ebraica per propaganda a favore di Israele.”

Qualcuno alla CNN teme che l’informazione sull’ultima guerra a Gaza stia danneggiando una reputazione costruita sul modo in cui ha raccontato l’invasione russa dell’Ucraina, che ha portato a un aumento degli spettatori. Ma altri affermano che la guerra in Ucraina deve essere parte del problema, perché le regole redazionali sono diventate meno accurate in quanto, soprattutto all’inizio del conflitto, la rete e molti dei suoi giornalisti si sono identificati chiaramente con una parte: l’Ucraina.

Un membro della redazione della CNN afferma che l’informazione sull’Ucraina ha definito un pericoloso precedente che si è ritorto contro la rete, perché il conflitto israelo-palestinese è molto più divisivo e le opinioni sono molto più profondamente radicate.

“La trascuratezza nella qualità della nostra informazione e dell’integrità giornalistica raccontando dell’Ucraina si è ritorta contro di noi. Solo che stavolta la posta in gioco è più alta e le conseguenze molto più gravi. La scarsa serietà giornalistica è una pillola più facile da far ingoiare al mondo quando si tratta di vite arabe perse invece che europee,” dice.

Un altro dipendente della CNN sostiene che il doppio standard sia lampante.

“Ci va bene essere inseriti nell’esercito israeliano, produrre reportage censurati dall’esercito, ma non possiamo parlare dell’organizzazione che, ci piaccia o meno, ha vinto la maggioranza dei voti a Gaza. Agli spettatori della CNN è stato impedito di sentire [la voce di] un attore fondamentale di questa vicenda,” afferma.

“Non è giornalismo dire che non vogliamo parlare con qualcuno perché non ci piace quello che fa. La CNN ha parlato con un sacco di terroristi e nemici dell’America nel corso degli anni. Abbiamo intervistato Muammar Gheddafi, persino Osama bin Laden. Quindi cosa c’è di diverso questa volta?”

Anni di pressioni

I giornalisti che lavorano alla CNN danno varie spiegazioni.

Alcuni dicono che il problema deriva da anni di pressioni da parte del governo israeliano e delle organizzazioni che lo appoggiano negli USA, insieme al timore di perdere inserzioni pubblicitarie.

Durante la lotta per la narrazione della Seconda Intifada palestinese all’inizio degli anni 2000 l’allora ministro delle Comunicazioni, Reuven Rivlin, chiamò la CNN “il male, di parte e sbilanciata.” Il Jerusalem Post paragonò l’inviata della rete in città, Sheila MacVicar, alla “donna che metteva la carta igienica nel gabinetto di Goebbels.”

Il fondatore della CNN, Ted Turner, scatenò una bufera nel 2002 quando disse a The Guardian che Israele stava commettendo atti terroristici contro i palestinesi.

“I palestinesi stanno lottando con attentatori suicidi, è tutto quello che hanno. Gli israeliani… hanno una delle macchine da guerra più potenti al mondo. I palestinesi non hanno niente. Quindi chi sono i terroristi? Io sosterrei che entrambe le parti sono coinvolte nel terrorismo,” disse Turner, che allora era il vicepresidente di AOL Time Warner, proprietaria della CNN.

La tempesta di proteste che ne derivò diede come risultato minacce per le entrate della rete, tra cui iniziative delle compagnie israeliane di televisione via cavo, che la sostituirono con Fox News.

Il presidente della CNN, Walter Isaacson, apparve sulla televisione israeliana denunciando Turner, ma ciò non ridusse le critiche. L’allora responsabile esecutivo delle notizie, Eason Jordan, impose una nuova regola secondo cui la CNN non avrebbe più mostrato dichiarazioni degli attentatori suicidi o interviste ai loro parenti e volò in Israele per placare la bufera.

La CNN iniziò anche a mandare in onda una serie sulle vittime degli attentatori suicidi palestinesi. La rete insistette che l’iniziativa non era una risposta alle pressioni, ma alcuni dei suoi giornalisti erano scettici. La CNN non produsse una serie simile sui parenti dei palestinesi innocenti uccisi da Israele nei bombardamenti.

Nel 2021 l’editorialista per la CNN della Columbia Journalism Review [semestrale per giornalisti professionisti che ne monitora il lavoro, ndt.], Ariana Pekary, accusò la rete di escludere dall’informazione le voci dei palestinesi e il contesto storico.

Anche Thompson ha le sue cicatrici di guerra dovute ai rapporti con politici israeliani quando era direttore generale della BBC vent’anni fa.

Nella primavera del 2005 la BBC venne invischiata in un incidente diplomatico riguardo a un’intervista con chi aveva svelato che Israele aveva la bomba nucleare, Mordechai Vanunu, che era stato rilasciato dal carcere l’anno prima.

Le autorità israeliane avevano vietato a Vanunu di rilasciare interviste. Quando un’equipe documentaristica della BBC parlò con lui e poi fece uscire di nascosto le riprese da Israele, le autorità reagirono espellendo in pratica il direttore ad interim dell’ufficio della BBC a Gerusalemme, Simon Wilson, che non aveva niente a che fare con l’intervista.

La disputa andò avanti per mesi, finché la BBC si inchinò alla richiesta israeliana che Wilson scrivesse una lettera di scuse prima di poter tornare a Gerusalemme. La lettera, che includeva un impegno ad “obbedire in futuro alle regole”, avrebbe dovuto rimanere riservata, ma involontariamente la BBC mise in rete dei dettagli prima di cancellarli qualche ora dopo. Il dietrofront fece infuriare alcuni giornalisti della BBC, che stavano resistendo a continue pressioni e abusi a causa del loro lavoro.

In seguito quell’anno Thompson visitò Gerusalemme e incontrò il primo ministro israeliano Ariel Sharon nel tentativo di migliorare le relazioni dopo altri incidenti.

Il governo israeliano era particolarmente scontento della corrispondente molto esperta della BBC da Gerusalemme, Orla Guerin. Il ministro israeliano per gli Affari della Diaspora dell’epoca, Natan Sharansky, la accusò di antisemitismo e di “totale identificazione con gli obiettivi e i metodi dei gruppi terroristici palestinesi” dopo un servizio di Guerin sull’arresto di un ragazzo palestinese sedicenne che portava esplosivi. Accusò i funzionari israeliani di aver trasformato l’arresto in un’opportunità propagandistica perché “avevano fatto sfilare il ragazzo davanti ai media internazionali” dopo averlo obbligato ad aspettare a un checkpoint l’arrivo dei fotografi.

Dopo qualche giorno dall’incontro di Thompson con Sharon la BBC annunciò che Guerin avrebbe lasciato Gerusalemme. All’epoca l’ufficio di Thompson negò di aver agito sotto pressione di Israele e disse che Guerin aveva terminato un incarico più lungo del solito.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Abbiamo uno strumento per fermare i crimini di guerra di Israele: il BDS

Naomi Klein

10 gennaio 2024 – The Guardian

Nel 2005 i palestinesi hanno chiesto al mondo di boicottare Israele finché non rispetterà il diritto internazionale. Cosa sarebbe successo se li avessimo ascoltati?

Questa settimana, esattamente 15 anni fa, pubblicai un articolo su The Guardian. Iniziava così: “È ora. Da molto tempo. La miglior strategia per porre fine alla sempre più sanguinosa occupazione è che Israele diventi il bersaglio del tipo di movimento globale che ha posto termine all’apartheid in Sudafrica. Nel luglio 2005 una grande coalizione di organizzazioni palestinesi ha presentato un piano per fare proprio questo. Hanno chiesto alle persone di coscienza in tutto il mondo di imporre un boicottaggio generale e mettere in atto iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica dell’era dell’apartheid. Era nata la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.”

Nel gennaio 2009 Israele scatenò una nuova fase sconvolgente di omicidi di massa nella Striscia di Gaza, denominando la sua feroce campagna di bombardamenti operazione “Piombo fuso”. Uccise 1.400 palestinesi in 22 giorni; il numero di vittime israeliane fu di 13. Questa per me fu la goccia che fece traboccare il vaso, e dopo anni di reticenza mi espressi pubblicamente a favore dell’appello guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, noto come BDS, finché non rispetterà le leggi internazionali e i principi universali dei diritti umani.

Nonostante il BDS avesse l’appoggio di più di 170 organizzazioni della società civile palestinese, a livello internazionale il movimento era ancora piccolo. Durante l’operazione Piombo fuso iniziò a cambiare, e vi aderì un crescente numero di associazioni studentesche e sindacati fuori dalla Palestina aderirono.

Però molti non lo fecero. Capivo perché questa tattica veniva percepita come problematica. C’è una lunga e penosa storia di attività economiche e istituzioni ebraiche prese di mira da antisemiti. Gli esperti in comunicazione che fanno pressione a favore di Israele sanno utilizzare questo trauma come arma, quindi etichettano invariabilmente campagne intese a combattere le politiche discriminatorie e violente di Israele come attacchi di odio verso gli ebrei in quanto gruppo identitario.

Per vent’anni il timore diffuso che deriva da questa falsa equazione ha protetto Israele dal dover affrontare tutto il potenziale di un movimento BDS, e ora, mentre la Corte Internazionale di Giustizia può ascoltare la devastante raccolta di prove del Sudafrica sul fatto che Israele sta commettendo il crimine di genocidio a Gaza, è più che sufficiente.

Dal boicottaggio degli autobus al disinvestimento sui combustibili fossili, le tattiche BDS hanno una storia ben documentata come l’arma più efficace dell’arsenale non-violento. Accoglierle e utilizzarle in questo momento di svolta per l’umanità è un obbligo morale.

La responsabilità è particolarmente grave per quanti di noi i cui governi continuano ad aiutare attivamente Israele con armi letali, lucrosi accordi commerciali e veti alle Nazioni Unite. Come ci ricorda il BDS, non dobbiamo consentire che questi accordi fallimentari parlino per noi senza contrastarli.

Gruppi di consumatori organizzati hanno il potere di boicottare imprese che investono nelle colonie illegali o riforniscono Israele di armi. I sindacati possono spingere i loro fondi pensione a disinvestire da queste imprese. Governi locali possono selezionare i fornitori in base a criteri etici che vietano questi rapporti. Come ci ricorda Omar Barghouti, uno dei fondatori e dirigenti del movimento BDS, “il più profondo obbligo etico in questi tempi è agire per porre fine alla complicità. Solo così possiamo realmente sperare di porre fine all’oppressione e alla violenza.”

In questo modo il BDS merita di essere visto come la politica estera del popolo, o la diplomazia dal basso, e se questa è sufficientemente forte obbligherà finalmente i governi ad imporre sanzioni dall’alto, come il Sudafrica sta cercando di fare. Che è chiaramente l’unica forza che può far cambiare rotta a Israele.

Barghouti sottolinea che, proprio come alcuni sudafricani bianchi hanno appoggiato le campagne contro l’apartheid durante quella lunga lotta, gli ebrei israeliani che si oppongono alle sistematiche violazioni del diritto internazionale da parte del loro Paese sono benvenuti nel BDS. Durante Piombo fuso un gruppo di circa 500 israeliani, molti dei quali importanti artisti e studiosi, fecero proprio questo, chiamando in seguito il loro gruppo Boicottaggio dall’interno.

Nel mio articolo del 2009 citavo la loro prima lettera per fare pressione, che chiedeva “l’adozione di immediate misure restrittive e sanzioni” contro il loro stesso Paese e faceva un parallelo diretto con la lotta sudafricana contro l’apartheid. “Il boicottaggio contro il Sudafrica è stato efficace,” sottolineavano, affermando che aveva contribuito a porre fine alla legalizzazione della discriminazione e ghettizzazione in quel Paese e aggiungendo: “Ma Israele è trattato con i guanti… Questo sostegno internazionale deve finire.”

Ciò era vero 15 anni fa; lo è in modo devastante oggi.

Il prezzo dell’impunità

Leggendo i documenti del BDS dalla metà alla fine degli anni 2000, sono rimasta molto colpita da quanto il contesto politico e umano si sia deteriorato. Negli anni successivi Israele ha costruito più muri, ha eretto più checkpoint, ha scatenato più coloni illegali e lanciato guerre molto più letali. Tutto è peggiorato: il veleno il livore, la rabbia, la convinzione di essere nel giusto, di aver ragione.

Chiaramente l’impunità, il senso di impenetrabilità e intangibilità che è alla base del modo in cui Israele tratta i palestinesi, non è una forza statica. Si comporta piuttosto come una fuoriuscita di petrolio: una volta rilasciata, filtra all’esterno, avvelenando tutto e tutti sul suo cammino. Si allarga e scende in profondità.

Da quando, nel luglio 2005, è stato scritto il primo appello per il BDS il numero di coloni che vivono illegalmente in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, è esploso, raggiungendo il numero stimato di 700.000, vicino a quello dei palestinesi espulsi nella Nakba del 1948. Come gli avamposti coloniali si sono estesi, così ha fatto la violenza degli attacchi dei coloni contro i palestinesi, tutto ciò mentre l’ideologia della supremazia ebraica e persino il fascismo esplicito si sono posti al centro della cultura politica israeliana.

Quando ho scritto il mio primo articolo sul BDS l’opinione assolutamente predominante era che l’analogia con il Sudafrica fosse scorretta e che la parola “apartheid”, che veniva usata da giuristi, attivisti e organizzazioni per i diritti umani palestinesi, fosse inutilmente provocatoria. Ora chiunque, da Humar Rights Watch ad Amnesty International, fino alla principale associazione israeliana per i diritti umani, B’Tselem, hanno fatto le loro attente analisi e sono arrivati alla inevitabile conclusione che apartheid è effettivamente il termine giuridico corretto per descrivere le condizioni sotto le quali israeliani e palestinesi conducono vite nettamente diseguali e segregate. Persino Tamir Pardo, ex-capo dell’agenzia di intelligence, il Mossad, ha ammesso il problema: “Qui c’è uno stato di apartheid,” ha affermato a settembre. “In un territorio in cui due popoli sono giudicati con due sistemi legali diversi, c’è uno stato di apartheid.”

Oltretutto molti adesso comprendono che l’apartheid esiste non solo nei territori occupati, ma all’interno dei confini di Israele del 1948, una questione esposta in un importante rapporto del 2022 dalla coalizione di associazioni palestinesi per i diritti umani riunita da Al-Haq [ong palestinese, ndt.]. È difficile sostenere il contrario quando l’attuale governo israeliano di estrema destra è arrivato al potere con un accordo di coalizione che afferma: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le zone della Terra di Israele…la Galilea, il Negev, il Golan, Giudea e Samaria.” Quando regna l’impunità, tutto cambia e si muove, comprese le frontiere coloniali. Niente rimane statico.

Poi c’è Gaza. All’epoca il numero dei palestinesi uccisi nell’operazione Piombo fuso sembrava inimmaginabile. Abbiamo rapidamente imparato che non si trattava di un caso isolato. Diede invece inizio a una nuova politica omicida a cui i comandanti militari israeliani si riferiscono con noncuranza come “tagliare l’erba”: ogni due anni c’è stata una nuova campagna di bombardamenti, con l’uccisione di centinaia di palestinesi o, nel caso dell’operazione Margine protettivo del 2014, più di 2.000, tra cui 526 minori.

Questi dati scioccarono di nuovo e scatenarono un’altra ondata di proteste. Non fu ancora sufficiente a porre fine all’impunità di Israele, che ha continuato ad essere protetto dal solido veto degli USA all’ONU, oltre che dal costante afflusso di armi. Ancor più distruttivi della mancanza di sanzioni internazionali sono state le ricompense: negli ultimi anni, insieme a tutta questa impunità, Washinton ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e poi vi ha spostato l’ambasciata. Ha anche mediato i cosiddetti accordi di Abramo, che hanno avviato intese di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco.

È stato Donald Trump che ha iniziato a ricoprire Israele di questi ultimi regali a lungo cercati, ma il processo è continuato allo stesso modo con Joe Biden. Così, alla vigilia del 7 ottobre, Israele e Arabia Saudita stavano per firmare quello che è stato frivolmente acclamato come “l’accordo del secolo”.

Dov’erano i diritti e le aspirazioni dei palestinesi in tutti questi accordi? Assolutamente da nessuna parte. Perché l’altra cosa che è cambiata in questi anni di impunità è stata ogni scusa che Israele intendeva per tornare al tavolo dei negoziati. L’evidente obiettivo è stato reprimere con la forza, insieme all’isolamento fisico e politico e alla frammentazione, il movimento dei palestinesi per l’autodeterminazione.

Sappiamo come sono andati a finire i successivi capitoli di questa storia. L’orripilante attacco di Hamas il 7 ottobre. La furibonda determinazione israeliana di sfruttare quei crimini per fare quello che alcuni importanti dirigenti del governo volevano fare comunque da molto tempo: spopolare Gaza dei palestinesi, che attualmente sembrano cercare di fare attraverso la combinazione di uccisioni dirette, demolizione massiccia di case (“domicidio”), la diffusione di fame, sete e malattie infettive e infine espulsioni di massa.

Sia chiaro: questo è il risultato di consentire a uno Stato di fare tutto quello che vuole, lasciare che l’impunità regni senza controllo per decenni, utilizzando i veri traumi collettivi patiti dal popolo ebraico come scusa senza fine e storia di copertura. Un’impunità come questa non inghiottirà solo un Paese, ma ogni Paese con cui è alleato, l’intera architettura del diritto umanitario forgiato tra le fiammo dell’Olocausto nazista. Se lo consentiamo.

Un decennio di attacchi giudiziari contro il BDS

Il che pone un’altra questione che non è rimasta costante nel corso degli ultimi 20 anni: la crescente ossessione israeliana per reprimere il BDS, anche a costo di diritti politici faticosamente conquistati. Nel 2009 c’erano molti argomenti di chi criticava il BDS sul perché fosse una cattiva idea. Alcuni temevano che il boicottaggio culturale e accademico avrebbe bloccato il necessario dialogo con i progressisti israeliani e che si sarebbe trasformato in censura. Altri sostenevano che misure punitive avrebbero creato una reazione e spostato Israele ancora più a destra.

Quindi, ripensandoci adesso, è sorprendente che queste discussioni iniziali siano sostanzialmente sparite dalla sfera pubblica, e non perché una parte abbia vinto il dibattito. Sono scomparse perché la stessa idea di discuterne è stata sostituita da una strategia totalizzante: utilizzare l’intimidazione giudiziaria e istituzionale per rendere impraticabili le tattiche del BDS e bloccare il movimento.

Secondo Palestine Legal [gruppo di difesa giudiziaria con sede a Chicago, ndt.], che ha monitorato da vicino questa impennata, ad oggi negli Stati Uniti sono state istituite in totale 293 leggi anti-BDS in tutto il Paese, e sono state approvate in 38 Stati. Spiega che alcune leggi prendono di mira i finanziamenti alle università, altre prevedono che chiunque vinca un appalto con uno Stato o lavori per esso firmi un contratto in cui si impegna a non boicottare Israele, e altre ancora “chiedono allo Stato di compilare liste nere pubbliche di organizzazioni che fanno boicottaggio a favore dei diritti dei palestinesi o appoggiano il BDS.” Nel contempo in Germania il sostegno ad ogni forma di BDS è sufficiente perché vengano revocati premi, tolti finanziamenti, spettacoli e conferenze vengano annullati (una cosa che ho potuto sperimentare di persona).

Non sorprende che questa strategia sia ancora più aggressiva all’interno di Israele. Nel 2011 il Paese ha emanato la legge per la Prevenzione dei Danni per lo Stato di Israele attraverso il Boicottaggio, stroncando efficacemente fin dai suoi inizi il nascente movimento “Boicottaggio dall’interno”. Il centro legale Adalah, un’organizzazione che lavora per i diritti della minoranza araba in Israele, spiega che la legge “vieta la promozione pubblica del boicottaggio accademico, economico o culturale da parte di cittadini e organizzazioni israeliani contro istituzioni israeliane o contro le illegali colonie israeliane in Cisgiordania. Consente di presentare denunce giudiziarie contro chiunque chieda il boicottaggio.” Come le leggi a livello statale negli USA, “proibisce anche a una persona che sostenga il boicottaggio di partecipare a gare di appalto pubbliche.” Nel 2017 Israele ha iniziato a impedire l’ingresso in Israele ad attivisti del BDS; 20 associazioni internazionali, compresa la coraggiosa [organizzazione] contro la guerra Jewish Voice for Peace, sono state messe sulla cosiddetta lista nera BDS.

Nel contempo negli USA lobbisti a favore delle imprese energetiche e dei fabbricanti di armi stanno prendendo spunto dall’offensiva giudiziaria contro il BDS e propugnano leggi fotocopia per limitare campagne di disinvestimento rivolte ai loro clienti. “Ciò spiega perché sia così pericoloso consentire questo tipo di eccezione palestinese alla [libertà di] parola,” ha detto alla rivista Jewish Currents Meera Shah, importante avvocatessa che fa parte di Palestine Legal. “Perché non danneggia solo il movimento per i diritti dei palestinesi, di fatto colpisce anche altri movimenti sociali.” Ancora una volta niente rimane fermo, l’impunità si estende e quando i diritti al boicottaggio e al disinvestimento vengono tolti alla solidarietà per la Palestina, si cancella anche il diritto di utilizzare questi stessi strumenti per sostenere l’attivismo contro i cambiamenti climatici, per il controllo delle armi e per i diritti LGBTQ+.

In un certo senso questo è un vantaggio, perché rappresenta un’opportunità di rafforzare alleanze tra movimenti. Ogni importante organizzazione e sindacato progressista ha interesse a proteggere il diritto al boicottaggio e al disinvestimento come principio fondamentale della libertà di espressione e strumento critico di trasformazione sociale. La piccola squadra di Palestine Legal ha guidato in modo straordinario l’opposizione negli USA avviando procedimenti giudiziari contro le leggi anti-BDS in quanto anticostituzionali e appoggiando le cause di altri. Meritano un sostegno molto maggiore.

È finalmente il momento del BDS?

C’è un altro motivo per essere fiduciosi: la ragione per cui Israele perseguita il BDS con tanta ferocia è la stessa per cui così tanti attivisti hanno continuato a credere in esso nonostante questi attacchi su più fronti. Perché può funzionare.

Lo abbiamo visto quando imprese multinazionali si ritirarono dal Sudafrica negli anni ‘80. Non fu perché vennero improvvisamente colpite da una rivelazione morale antirazzista. Piuttosto, dato che il movimento era diventato internazionale e le campagne di boicottaggio e disinvestimento iniziavano a influenzare la vendita di auto e i clienti delle banche fuori dal Paese, queste imprese ritennero che a loro sarebbe costato di più rimanere in Sudafrica che andarsene. I governi occidentali iniziarono tardivamente a imporre sanzioni per le stesse ragioni.

Ciò danneggiò il settore commerciale sudafricano, parte del quale mise sotto pressione il governo dell’apartheid perché facesse concessioni ai movimenti per la liberazione dei neri che si erano ribellati per decenni contro l’apartheid con rivolte, scioperi di massa e la resistenza armata. I costi di mantenere il crudele e violento status quo stavano crescendo sempre di più anche per l’élite sudafricana.

Alla fine degli anni ‘80 la tenaglia della pressione dall’esterno e dall’interno crebbe tanto che il presidente F. W. de Klerk fu obbligato a liberare Nelson Mandela dal carcere dopo 27 anni e poi a tenere elezioni democratiche, che portarono Mandela alla presidenza.

Le organizzazioni palestinesi che hanno tenuto viva la fiamma del BDS attraverso alcuni anni molto cupi sperano ancora nel modello sudafricano di pressioni dall’esterno. Infatti, mentre Israele perfeziona l’architettura e la progettazione della ghettizzazione e dell’espulsione, esso potrebbe essere l’unica speranza.

Ciò a causa del fatto che Israele è decisamente meno sensibile alla pressione interna da parte dei palestinesi di quanto lo fossero i sudafricani bianchi sotto l’apartheid, che dipendevano dalla manodopera dei neri per tutto, dal lavoro domestico alle miniere di diamanti. Quando i sudafricani neri si rifiutarono di lavorare o si impegnarono in altre forme di danneggiamento dell’economia, ciò non poté essere ignorato.

Israele ha imparato dalla vulnerabilità del Sudafrica; dagli anni ‘90 si è progressivamente ridotta la sua dipendenza dal lavoro dei palestinesi, soprattutto grazie ai cosiddetti lavoratori ospiti e all’ingresso di circa un milione di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Ciò ha contribuito a rendere possibile per Israele passare dal modello di oppressione dell’occupazione all’attuale modello di ghettizzazione, che cerca di far sparire i palestinesi dietro a imponenti muri con sensori ad alta tecnologia e il molto decantato sistema di difesa aerea israeliana Iron Dome.

Ma questo modello, chiamiamola bolla fortificata, porta con sé vulnerabilità, e non solo per gli attacchi di Hamas. La vulnerabilità più strutturale deriva dall’estrema dipendenza di Israele dal commercio con l’Europa e il Nord America per tutto, dal suo settore turistico a quello tecnologico per la sorveglianza basato sull’intelligenza artificiale. Il marchio che Israele ha forgiato per se stesso è quello di un aggressivo, moderno avamposto occidentale nel deserto, una piccola bolla di San Francisco o Berlino che casualmente si è ritrovato nel mondo arabo.

Ciò lo rende straordinariamente suscettibile solamente alle azioni del BDS, compreso il boicottaggio culturale e accademico. Perché quando popstar che vogliono evitare polemiche cancellano le loro date a Tel Aviv, prestigiose università USA interrompono la loro collaborazione con quelle israeliane dopo aver assistito alla distruzione di varie scuole e università palestinesi e il bel mondo non sceglie più Eilat per le proprie vacanze perché i follower su Instagram non ne rimangono impressionati, ciò danneggia tutto il modello economico israeliano e la sua autorappresentazione.

Ciò metterà pressione dove i dirigenti israeliani oggi sono poco sensibili. Se le imprese internazionali di alta tecnologia e di progettazione smetteranno di vendere prodotti e servizi all’esercito israeliano, ciò aumenterà ancor di più la pressione, forse abbastanza da cambiare le dinamiche della politica. Gli israeliani vogliono disperatamente far parte della comunità mondiale, e se si troveranno improvvisamente isolati molti più elettori potranno iniziare a chiedere alcune delle azioni che gli attuali dirigenti israeliani scartano immediatamente, come negoziare con i palestinesi per una pace duratura radicata nella giustizia e nell’uguaglianza, come definita dalle leggi internazionali, piuttosto che cercare di proteggere la bolla fortificata con fosforo bianco e pulizia etnica.

Ovviamente il nodo è che, perché le tattiche non violente del BDS funzionino, le vittorie non possono essere sporadiche o marginali. Devono essere sostanziali e diffuse, almeno quanto la campagna sudafricana, che vide importanti imprese come la General Motors e la banca Barclays ritirare i loro investimenti, mentre artisti molto popolari come Bruce Springsteen e Ringo Starr riunirono il supergruppo per antonomasia degli anni ‘80 per cantare a squarciagola “Non suonerò a Sun City”, un riferimento alla lussuosa e iconica località sudafricana.

Il movimento BDS che prende di mira l’ingiustizia israeliana è sicuramente cresciuto negli ultimi 15 anni. Barghouti stima che “i sindacati dei lavoratori e dei contadini, così come movimenti per la giustizia razziale, di genere e per il clima” che lo appoggiano “insieme rappresentino decine di milioni in tutto il mondo”. Ma il movimento deve ancora raggiungere un punto di svolta di livello sudafricano.

Tutto questo ha avuto un costo. Non c’è bisogno di essere uno storico delle lotte di liberazione per sapere che, quando tattiche con una base etica sono ignorate, emarginate, calunniate e bandite, altre tattiche, slegate da queste preoccupazioni etiche, diventano molto più interessanti per persone alla disperata ricerca di una qualunque speranza di cambiamento.

Non sapremo mai quanto avrebbe potuto essere diverso il presente se molte più persone, organizzazioni e governi avessero dato ascolto all’appello BDS fatto dalla società civile palestinese quando venne lanciato nel 2005. Qualche giorno fa, quando ho contattato Barghouti, non stava guardando indietro a 20, ma a 75 anni di impunità. Israele, ha detto, “non sarebbe stato in grado di perpetrare il suo continuo genocidio a Gaza mostrato in televisione senza la complicità con il suo sistema di oppressione di Stati, imprese e istituzioni.” La complicità, ha sottolineato, è qualcosa che abbiamo sempre il potere di rifiutare.

Una cosa è certa: le attuali atrocità a Gaza rafforzano drammaticamente la causa del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni. Le tattiche nonviolente, che molti hanno cancellato in quanto estremiste o nel timore di essere etichettati come antisemiti, appaiono in modo molto diverso attraverso la fosca luce di vent’anni di massacri, con nuove rovine sulle vecchie, nuovi dolori e traumi scolpiti nella psiche delle nuove generazioni e nuovi abissi di depravazione raggiunti sia a parole che nei fatti.

Domenica scorsa nel suo spettacolo finale su MSNBC [canale televisivo statunitense via cavo di notizie, ndt.] Mehdi Hasan ha intervistato il fotogiornalista palestinese di Gaza Motaz Azaiza, che rischia la vita ogni giorno per inviare al mondo le immagini delle uccisioni di massa da parte di Israele. Il suo messaggio agli spettatori statunitensi è stato netto: “Non definitevi persone libere se non potete fare cambiamenti, se non potete fermare un genocidio che è ancora in corso.”

In un momento come questo siamo quello che facciamo. Molta gente ha fatto più di quanto abbia mai fatto in pricedenza: bloccato l’invio di armi, occupato sedi del governo chiedendo un cessate il fuoco, partecipato a proteste di massa, detto la verità, per quanto difficile. La combinazione di queste azioni potrebbe aver contribuito allo sviluppo più significativo nella storia del BDS: il ricorso del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dell’Aia in cui accusa Israele di commettere un genocidio e chiede misure temporanee per fermare il suo attacco contro Gaza.

Una recente analisi del giornale israeliano Haaretz nota che, se la CIG sentenziasse a favore del Sudafrica, anche se gli USA ponessero il veto alle Nazioni Unite su un intervento militare, “un decreto ingiuntivo potrebbe dare come risultato che Israele e imprese israeliane vengano boicottate e sottoposte a sanzioni imposte da singoli Paesi o da gruppi di Nazioni.”

Nel contempo boicottaggi dal basso stanno già iniziando a farsi sentire. A dicembre Puma, uno dei principali bersagli del BDS, ha fatto sapere che porrà fine alla sua controversa sponsorizzazione della squadra nazionale di calcio israeliana. Prima di questo in Italia c’è stato un esodo di artisti da un importante festival del fumetto dopo che si è scoperto che l’ambasciata israeliana era tra gli sponsor.

E questo mese Chris Kempczinski, amministratore delegato di McDonald, ha scritto che quella che ha chiamato “disinformazione” stava avendo “un importante impatto economico” su alcune delle sue vendite in “vari mercati mediorientali e altri fuori dalla regione”. Si è trattato di un riferimento a un’ondata di indignazione scatenata dalla notizia secondo cui McDonald Israel aveva donato migliaia di pasti ai soldati israeliani. Kempczinski ha cercato di distanziare la marca internazionale da “gestori locali,” ma poche persone del movimento BDS sono state convinte da questa distinzione.

Mentre la spinta a favore del BDS continua ad aumentare, sarà fondamentale essere ben consapevoli che siamo nel bel mezzo di un’allarmante e concreta impennata di crimini d’odio, molti dei quali contro palestinesi e musulmani, ma anche contro attività economiche e istituzioni ebraiche solo per il fatto che sono tali. Questo è antisemitismo, non attivismo politico.

Il BDS è un movimento serio e non violento, con un modello organizzativo consolidato. Pur lasciando autonomia ai militanti locali per definire quali campagne funzioneranno nei loro territori, il Comitato Nazionale del BDS (BNC) stabilisce i principi guida del movimento e seleziona con cura come obiettivo un piccolo gruppo di imprese scelte “in base alla complicità da loro dimostrata con le violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.”

Il BNC ha anche ben chiaro che non chiede il boicottaggio dei singoli israeliani in quanto tali, affermando di “rifiutare per principio il boicottaggio di singole persone in base alle loro opinioni o identità (come la cittadinanza, la razza, il genere o la religione)”. In altre parole i bersagli sono le istituzioni complici dei sistemi di oppressione, non le persone.

Nessun movimento è perfetto. Ogni movimento farà passi falsi. Ora tuttavia la questione più pressante ha poco a che vedere con la perfezione. È semplicemente questa: cosa ha maggiori possibilità di cambiare uno status quo moralmente intollerabile, fermando nel contempo ulteriore spargimento di sangue?  Gideon Levy, indomito giornalista di Haaretz, non si fa illusioni su quello che ci vorrà. Recentemente ha detto ad Owen Jones [editorialista inglese di sinistra, ndt.]: “La chiave è la comunità internazionale, intendo dire che Israele non cambierà da solo… La formula è molto semplice: finché gli israeliani non pagheranno e non verranno puniti per l’occupazione, non saranno chiamati a rendere conto di essa e non lo sentiranno nel quotidiano, non cambierà niente.”

È tardi

Nel luglio 2009, pochi mesi dopo che il mio primo articolo sul BDS era stato pubblicato, viaggiai a Gaza e in Cisgiordania. A Ramallah tenni una conferenza sulla mia decisione di appoggiare il BDS. Includeva scuse per non aver aggiunto prima la mia voce, cosa che confessai derivare dalla paura che la tattica fosse troppo estremista in quanto diretta contro uno Stato fondato sul trauma ebraico; paura che sarei stata accusata di tradire il mio popolo. Timori che ho ancora. “Meglio tardi che mai,” mi disse un membro del gentile pubblico dopo il discorso.

Allora era tardi; lo è ancora adesso. Ma non troppo tardi. Non troppo tardi perché tutti noi creiamo la nostra politica estera dal basso, che intervenga nella cultura e nell’economia in modo intelligente e strategico, che offra una speranza tangibile che finalmente siano finiti i decenni di impunità senza controllo di Israele.

Come ha chiesto la scorsa settimana il comitato nazionale del BDS: “Se non ora, quando? Il movimento sudafricano contro l’apartheid si organizzò per decenni per conquistare un vasto appoggio internazionale che portò alla caduta dell’apartheid, e l’apartheid crollò. La libertà è inevitabile. Ora è tempo di attivarsi per unirsi al movimento per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza in Palestina.”

Basta. È il momento di un boicottaggio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sospesa la cerimonia per l’attribuzione di un premio dopo che l’autrice ha paragonato Gaza ai ghetti ebraici dell’epoca nazista

Kate Connolly da Berlino

14 dicembre 2023 – The Guardian

La giornalista russo-statunitense Masha Gessen aveva vinto il premo tedesco Hannah Arendt per il pensiero politico

Una fondazione tedesca ha affermato che non consegnerà più il premio per il pensiero politico a un’importante giornalista russo-statunitense dopo aver criticato come “inaccettabile” un recente saggio dell’autrice in cui fa un paragone tra Gaza e un ghetto ebraico nella Germania occupata dai nazisti.

Venerdì Masha Gessen avrebbe dovuto ricevere il premio Hannah Arendt per il pensiero politico. Ma la cerimonia di premiazione ora non avrà luogo come previsto dopo che la Heinrich Böll Foundation (HBS), affiliata al partito dei Verdi, ha affermato di aver ritirato il proprio appoggio. L’HBS sostiene di aver preso questa decisione in accordo con il senato di Brema, la città portuale del nord in cui era previsto che avesse luogo la premiazione.

Secondo il giornale tedesco Die Zeit, che ha pubblicato la notizia, il premio sarà ancora assegnato a Gessen, ma “in un contesto diverso”, sabato e non venerdì. Non risulta ancora chiaro chi lo presenterà, cosa verrà consegnato e se Gessen e altri ospiti invitati pensano ancora di parteciparvi.

L’HBS ha affermato di dissentire e rifiutare il paragone tra Gaza e i ghetti ebraici in Europa fatto da Gessen in un saggio del 9 dicembre sul New Yorker [famosa rivista statunitense di sinistra, ndt.].

Nel saggio Gessen critica l’incondizionato appoggio tedesco a Israele, richiamando l’attenzione sulla risoluzione del Bundestag del 2019 che condanna come antisemita il movimento BDS per il boicottaggio di Israele e citando un ebreo critico con la politica della Germania sul ricordo dell’Olocausto, secondo il quale la cultura della memoria è “andata in tilt”.

Nel paragrafo che ha attirato l’attenzione della HBS Gessen scrive che “ghetto” sarebbe “il termine più appropriato” per descrivere Gaza, ma la parola “provocherebbe accese polemiche per il confronto tra la situazione dei gazawi assediati e quella degli ebrei rinchiusi in un ghetto. Ciò ci avrebbe anche dato il linguaggio per descrivere quello che sta succedendo ora a Gaza. Il ghetto viene liquidato.”

La fondazione afferma che Gessen ha sottinteso che Israele intenda “liquidare Gaza come un ghetto nazista,” aggiungendo che “questa affermazione è inaccettabile per noi e la rifiutiamo.”

Gessen è stata contattata dal Guardian per un commento.

Su X/Twitter ha scritto che nessun mezzo di comunicazione tedesco rappresentativo ha cercato di contattarla, nonostante giovedì la storia sia stata ampiamente raccontata sui media tedeschi.

La Heinrich Böll Foundation ha annunciato ad agosto che Gessen aveva vinto il premio in base a una decisione presa da una giuria indipendente. All’epoca essa ha affermato che “come analista del declino e della speranza, Gessen ha informato sui giochi di potere e le tendenze totalitarie così come sulla disobbedienza civile e l’amore per la libertà.”

Sostenitori di Gessen, che è ebrea e i cui nonni e bisnonni sono stati tra i membri della famiglia uccisi dai nazisti, hanno subito evidenziato l’ironia di sospendere un premio concesso in memoria di Arendt, storica, filosofa e teorica politica antitotalitaria ebrea-americana nata in Germania, che coniò la frase “la banalità del male” riguardo al processo contro l’importante nazista Adolf Eichmann, che lei raccontò come giornalista per The New Yorker.

Samantha Rose Hill, autrice del profilo di Hannah Arendt ed editrice della raccolta di poesie di Arendt, l’ha definito “un affronto alla memoria di Hannah Arendt. In base alla sua stessa logica, la Heinrich Böll Foundation dovrebbe cancellare del tutto il premio Hannah Arendt.”

Un altro accademico ha affermato che, in base alle ragioni fornite per questa decisione, “Hannah Arendt oggi in Germania non avrebbe ottenuto il premio Hannah Arendt.”

In un’intervista pubblicata martedì da Die Zeit Gessen ha parlato delle reazioni che Arendt dovette affrontare in quanto fu una delle prime a criticare Israele, mettendo in guarda contro la costituzione di uno Stato puramente ebraico in Palestina, di conseguenza con l’esclusione della popolazione araba.

In una lettera aperta scritta con Albert Einstein e altri intellettuali ebrei Arendt, sottolinea Gessen, paragonò persino il Partito della Libertà israeliano [partito della destra sionista, ndt.] ai nazisti dopo che aveva messo in atto violenze con motivazioni razziali contro civili.

“Sono consapevole che, soprattutto in Germania, questo tipo di paragone è subito visto come una relativizzazione dell’Olocausto. È per questo che è molto importante per me che una pensatrice così differenziata e intelligente come Arendt non abbia avuto timore a fare questo paragone,” ha detto Gessen al giornale.

In riferimento alle persone che in Germania sono sospettose nei confronti della sfida “alla logica della politica tedesca della memoria” per paura di essere accusate di antisemitismo, ha aggiunto: “Il problema è che queste critiche a Israele sono spesso viste come antisemite, che penso sia l’autentico scandalo antisemita. Ciò ignora il vero antisemitismo.”

In una lettera aperta pubblicata mercoledì la sezione di Brema della German-Israeli Society ha affermato che le dichiarazioni di Gessen hanno “chiarito che il premio avrebbe onorato una persona il cui pensiero è in evidente contrasto con quello di Hannah Arendt.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dirigo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. La storia ci giudicherà tutti se non ci sarà un cessate il fuoco a Gaza

Philippe Lazzarini

26 ottobre 2023-The Guardian

Philippe Lazzarini è commissario generale dell’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East)

Ormai da più di due settimane riceviamo da Gaza immagini insopportabili della tragedia dei suoi abitanti. Donne, bambini e anziani vengono uccisi, ospedali e scuole vengono bombardati, nessuno viene risparmiato. Mentre scrivo l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha già tragicamente perso 35 membri del suo personale, molti dei quali uccisi mentre erano nelle loro case con le loro famiglie.

Interi quartieri vengono rasi al suolo sulle teste dei civili in uno dei luoghi più sovraffollati della Terra. Le IDF [Forze di Difesa Israeliane, ndt.] hanno avvertito i palestinesi di Gaza di spostarsi nella parte meridionale della Striscia mentre bombardano il nord; ma i bombardamenti continuano anche al sud. Non c’è nessun posto sicuro a Gaza.

Quasi 600.000 persone trovano rifugio in 150 scuole e altri edifici dell’UNRWA dove sopravvivono in pessime condizioni igieniche, con poca acqua pulita, poco cibo e medicine. Le madri non sanno come pulire i propri figli. Le donne incinte pregano per non dover affrontare complicazioni durante il parto perché gli ospedali non hanno la capacità di accoglierle. Intere famiglie ora vivono nei nostri edifici perché non hanno nessun altro posto dove andare. Ma le nostre strutture non sono sicure: 40 edifici dell’UNRWA, tra cui scuole e magazzini, sono stati danneggiati dai bombardamenti. Molti civili che si sono rifugiati al loro interno sono stati tragicamente uccisi.

Gaza è stata descritta negli ultimi 15 anni come una grande prigione a cielo aperto, con un blocco aereo, marittimo e terrestre che soffoca 2,2 milioni di persone in un raggio di 365 kmq. La maggior parte dei giovani non ha mai lasciato Gaza. Oggi questa prigione sta diventando il cimitero di una popolazione intrappolata da guerra, assedio e mancanza di tutto.

Negli ultimi giorni frenetici negoziati ai massimi livelli hanno finalmente consentito l’ingresso nella Striscia di forniture umanitarie molto limitate. Anche se la svolta è benvenuta, questi camion rappresentano un rivolo piuttosto che il flusso di aiuti che una situazione umanitaria di questa portata richiede. Venti camion carichi di cibo e medicinali sono una goccia nell’oceano per i bisogni di oltre 2 milioni di civili. Il carburante, però, è stato fermamente negato a Gaza. Senza di esso non ci sarà alcuna risposta umanitaria, nessun aiuto potrà raggiungere le persone bisognose, nessuna elettricità per gli ospedali, niente acqua, niente pane.

Prima del 7 ottobre Gaza riceveva ogni giorno circa 500 camion di cibo e altre forniture, inclusi 45 camion di carburante per alimentare le auto della Striscia, gli impianti di desalinizzazione dell’acqua e i panifici. Oggi Gaza viene strangolata e i pochi convogli che stanno entrando non placheranno la consapevolezza della popolazione civile di essere stata abbandonata e sacrificata dal resto del mondo.

Il 7 ottobre Hamas ha commesso massacri indicibili di civili israeliani che potrebbero costituire crimini di guerra. L’ONU ha condannato questo atto orribile con la massima fermezza. Ma non vi può essere ombra di dubbio: ciò non giustifica i crimini in corso contro la popolazione civile di Gaza, un milione di bambini compresi.

La Carta delle Nazioni Unite e i nostri impegni sono un vincolo per la nostra comune umanità. I civili – ovunque si trovino – devono essere protetti allo stesso modo. I civili di Gaza non hanno scelto questa guerra. Le atrocità non dovrebbero essere seguite da altre atrocità. La risposta ai crimini di guerra non è altri crimini di guerra. Il quadro del diritto internazionale su questo punto è molto chiaro e ben consolidato.

Saranno necessari sforzi autentici e coraggiosi per affrontare le radici di questa situazione di stallo mortale e offrire opzioni politiche che siano praticabili e possano creare un ambiente di pace, stabilità e sicurezza. Fino ad allora dobbiamo assicurarci che le norme del diritto umanitario internazionale siano rispettate e che i civili siano risparmiati e protetti. È necessario attuare un cessate il fuoco umanitario immediato per consentire un accesso sicuro, continuo e senza restrizioni a carburante, medicine, acqua e cibo nella Striscia di Gaza.

Dag Hammarskjöld, il secondo segretario generale dell’ONU, una volta disse: “L’ONU non è stata creata per portarci in paradiso, ma per salvarci dall’inferno”. La realtà oggi a Gaza è che non è rimasta molta umanità e l’inferno sta prendendo il sopravvento.

Le generazioni a venire sapranno che abbiamo visto questa tragedia umana svolgersi sui social media e sui canali di notizie. Non potremo dire che non lo sapevamo. La storia si chiederà perché il mondo non ha avuto il coraggio di agire con decisione e fermare questo inferno sulla Terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Gaza: le operazioni israeliane di uccisione mirata suscitano una richiesta di indagine

Bethan McKernan e Hazem Balousha da Gaza City

Lunedì 17 luglio 2023 – The Guardian

L’iniziativa fa seguito alla morte di civili durante la campagna israeliana di attacchi “Scudo e Freccia”

Nella via del centro di Gaza City in cui viveva la famiglia di Khalil al-Bahtini il contenuto della casa del comandante del Jihad Islamico palestinese e delle due abitazioni su entrambi i lati è ancora sparso in strada. I passanti devono districarsi tra le macerie e la carcassa accartocciata di un serbatoio per l’acqua, tra i detriti della vita di una famiglia distrutta: un orsacchiotto rosso, utensili da cucina, frammenti di libri e vestiti.

La famiglia Adas non era l’obiettivo degli attacchi aerei che hanno colpito la casa del loro vicino verso le 2 del mattino del 9 maggio, primo atto dell’operazione israeliana “Scudo e Freccia”, ma gli edifici distavano meno di un metro. La bomba GBU-39 che ha sfondato i tre piani della casa dei Bahtini fino alle fondamenta ha fatto saltare in aria anche un lato della casa degli Adas, uccidendo le due figlie adolescenti della famiglia. Dania, 19 anni, è morta sul colpo, mentre sua sorella Imam, 17 anni, si è aggrappata alla vita per due ore prima di soccombere alle ferite in ospedale.

L’esplosione ha scaraventato la porta della camera da letto verso di me e mia moglie mentre stavamo dormendo, poi sono corso in sala a cercare i bambini,” dice Alaa Adas, 55 anni, impiegato civile. “Mio figlio era lì, ma le mie figlie non rispondevano. Quando ho visto i loro capelli in mezzo alle macerie il cuore si è fermato.”

Scudo e Freccia”, un’operazione israeliana di bombardamento aereo a sorpresa che ha preso di mira il Jihad Islamico, la principale organizzazione armata dopo Hamas nella Striscia di Gaza assediata, è iniziata con l’omicidio mirato di Bahtini e la quasi contemporanea uccisione di altri due comandanti in un’altra zona della Striscia.

Israele sostiene di aver cercato di evitare vittime civili con “attacchi di precisione” che avrebbero preso di mira membri importanti delle fazioni di Gaza. Ma la tempistica e la ferocia dell’azione iniziale di “Scudo e Freccia” hanno portato a una nuova iniziativa delle associazioni israeliane per i diritti umani che sfida la Corte Suprema israeliana a iniziare indagini indipendenti riguardo alle vittime civili in base a una sentenza esistente, ma non applicata, sulla pratica delle uccisioni mirate.

Gli assassinii, avvenuti durante un cessate il fuoco, hanno portato il Jihad Islamico a rispondere con circa 1.500 razzi lanciati verso Israele nel corso di cinque giorni, prima che venisse negoziata una tregua con la mediazione dell’Egitto. La violenza ha lasciato a Gaza 33 vittime, tra cui almeno 10 donne e minori, e, secondo fonti ufficiali palestinesi, 103 abitazioni sono state distrutte e altre 2.800 danneggiate. Tre persone sarebbero state uccise da proiettili lanciati in modo errato dal Jihad Islamico all’interno della Striscia, e in Israele sono morti un’ottantenne e un lavoratore palestinese.

Dopo il cessate il fuoco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha descritto “Scudo e Freccia” come “perfetta”, citandone i risultati militari.

Questo tipo di operazione israeliana è diventato più frequente. Da quando nel 2007 il movimento islamico si è impossessato del controllo sulla Striscia ci sono state quattro importanti guerre tra Hamas e Israele, l’ultima delle quali è stata combattuta per 11 giorni nel maggio 2021. Ma dal 2019 ci sono state anche tre operazioni minori, due delle quali sono state attacchi di sorpresa: in totale queste missioni più ridotte hanno ucciso circa 107 persone a Gaza, di cui almeno 42 erano civili.

Fonti ufficiali delle Israel Defence Forces [Forze di Difesa Israeliane(IDF)] affermano che le innovazioni tecnologiche e l’intelligenza artificiale permettono di far lavorare cellule di attacco che lavorano insieme a droni e aerei da guerra per individuare esattamente quali persone ed edifici dovrebbero essere presi di mira.

Ma per la popolazione di 2,2 milioni di persone intrappolate nella stretta Striscia queste operazioni a sorpresa stanno chiarendo che se un vicino è sulla lista nera di Israele anche altre famiglie sono in pericolo.

Non sapevo che ci fosse un comandante che viveva in questo edificio,” dice Abu Hamza, 55 anni, che abita in un grattacielo nel centro di Gaza City colpito a maggio e che ha ucciso un’importante figura del Jihad Islamico, Tareq Ezzedine, e i suoi figli di 12 e 8 anni, così come un dentista che viveva al piano inferiore, sua moglie e il figlio diciannovenne della coppia. “Se hanno queste armi così sofisticate, perché non possono colpire i bersagli quando sono in auto o da qualche altra parte, lontano da famiglie e persone innocenti che stanno dormendo?”

Organizzazioni palestinesi e israeliane per i diritti umani sostengono che le valutazioni di Israele riguardo all’accettabilità di vittime civili in attacchi aerei sono cambiate, nonostante una sentenza del 2006 della Corte Suprema israeliana affermi che le uccisioni mirate sono legali solo se vengono rispettate alcune condizioni, tra cui evitare il più possibile la morte di civili.

In passato fonti ufficiali israeliane hanno sostenuto di non sapere che donne e minori sarebbero rimasti uccisi in attacchi che prendevano di mira membri dei gruppi armati di Gaza. Ma durante “Scudo e Freccia” il linguaggio utilizzato dal governo e dalle IDF è sensibilmente cambiato, suggerendo che siano state invece prese delle misure per ridurre danni collaterali “necessari”.

Membri di estrema destra del nuovo governo israeliano hanno fatto campagna elettorale promettendo una “posizione più dura” nei confronti dei palestinesi e stanno anche cercando di indebolire i poteri della Corte Suprema, che gioca un importante ruolo di controllo ed equilibrio.

Il capo di stato maggiore dell’IDF Herzl Halevi ha affermato che l’aviazione ha effettuato “un’accurata azione che ha colpito obiettivi terroristi minimizzando il danno a terze parti. Se potessimo, avremmo agito senza colpire affatto persone non coinvolte, ma dobbiamo ricordare che i terroristi agiscono tra la popolazione civile e mettono in pericolo gli abitanti di Gaza.”

Le IDF sostengono che “Scudo e Freccia” è stata una risposta proporzionata contro la violenza proveniente dalla Striscia e che gli omicidi sono stati rinviati due volte per “garantire condizioni adeguate e minimizzare le vittime civili.”

Ma in base al fatto che la sentenza esistente della Corte Suprema sulle uccisioni mirate non viene applicata, la Commissione Pubblica contro la Tortura-Israele ( PCATI) e Yesh Gvul, una Ong che svolge un ruolo di controllo sull’esercito israeliano, recentemente hanno lanciato un esposto chiedendo al procuratore generale di Israele di avviare un’indagine indipendente sui danni ai civili di Gaza.

Se non viene formata una commissione indipendente per esaminare la legalità delle recenti azioni dell’esercito a Gaza, come previsto dalla Corte Suprema, Israele avrà reso evidente di non volere né essere in grado di rispettare le leggi internazionali e lo stato di diritto. Ciò consentirà l’intervento di istituzioni internazionali come la Corte Penale Internazionale,” afferma un comunicato delle due organizzazioni per i diritti umani.

Non solo Israele non ha finora condotto un’inchiesta indipendente, non ha neppure fornito alcuna prova che le persone prese di mira per l’omicidio rappresentassero un chiaro e imminente pericolo; per quanto ne sappiamo, le IDF non informano i vicini o i civili che si trovano nei pressi dell’imminente omicidio, né pare che cerchino attivamente di limitare i cosiddetti danni collaterali.”

In messaggi di commento via mail il portavoce del Ministero della Giustizia Efran Oren ha affermato che l’ufficio del procuratore generale ha ricevuto l’esposto e risponderà a tempo debito.

Tuttavia la questione delle uccisioni mirate ha una crescente importanza fuori dalla Striscia di Gaza. Nel 2022 e 2023 la Cisgiordania occupata ha assistito al maggior spargimento di sangue di qualunque altro periodo dalla Seconda Intifada, o rivolta palestinese, conclusasi nel 2005, e per la prima volta negli ultimi due decenni quest’anno Israele ha iniziato ad utilizzare droni armati e attacchi aerei nella città settentrionale di Jenin.

La Corte Suprema israeliana vede la sentenza [sulle indagini riguardo ai danni causati a civili dalle uccisioni mirate] come più applicabile alla Cisgiordania che a Gaza, in quanto non considera più Gaza come sotto occupazione,” afferma Michael Sfard, noto avvocato per i diritti umani, che ha presentato l’esposto alla procura generale per conto di PCAT e Yesh Gvul.

Quindi questo esposto è molto significativo. Ciò che interessa è che nel 2023 Israele sta utilizzando il pretesto di due decenni fa per fare i conti ora con la legalità e il diritto internazionale. Oggi sembra che il governo israeliano non finga più che le sue azioni siano in accordo con le sentenze di una magistratura indipendente… Non penso proprio che a questo governo importi.”

* Questo articolo è stato modificato il 19 luglio 2023. Una precedente versione affermava erroneamente che la descrizione di Benjamin Netanyahu di “Scudo e Freccia” come “perfetta” fosse “dovuta al basso numero di morti israeliani”. Il suo comunicato non cita il numero di morti israeliani (o le vittime civili palestinesi), ma riguarda l’uccisione di dirigenti del Jihad Islamico e la distruzione delle loro armi e centri di comando.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il ministro di estrema destra afferma che le visite al luogo santo di Gerusalemme ricadono sotto le decisioni israeliane

Ben Lynfield

21 maggio 2023 – The Guardian

Tra crescenti tensioni i commenti di Itamar Ben-Gvir suscitano la condanna dei palestinesi

Il ministro della sicurezza israeliano di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, ha visitato un luogo a Gerusalemme sacro sia per i musulmani che per gli ebrei e ha dichiarato che Israele ne era “responsabile”, attirandosi la condanna dei palestinesi dopo mesi di crescenti tensioni e violenze.

La visita di primo mattino al sito, venerato dagli ebrei come il Monte del Tempio e dai musulmani come il complesso che ospita la moschea di al-Aqsa, ha anche suscitato denunce da parte di due dei partner di pace arabi di Israele, la Giordania e l’Egitto.

È successo pochi giorni dopo che gruppi di giovani ebrei si sono scontrati con palestinesi e hanno intonato slogan razzisti durante una marcia nazionalista attraverso la Città Vecchia.

Sono felice di salire sul Monte del Tempio, il luogo più importante per la nazione di Israele”, ha detto Ben-Gvir durante la sua visita al complesso, il luogo più controverso tra musulmani ed ebrei a Gerusalemme e teatro di ripetuti scontri. “La polizia sta facendo un lavoro fantastico qui ricordando di nuovo chi è il padrone di casa a Gerusalemme. Non serviranno tutte le minacce di Hamas. Noi siamo i padroni di Gerusalemme e di tutta la terra d’Israele”.

Secondo le disposizioni in vigore da quando Israele ha occupato il sito insieme al resto di Gerusalemme Est durante la guerra del 1967, gli ebrei possono visitare il posto ma solo i musulmani possono pregare lì. Dagli ebrei è venerato come il sito degli antichi templi, mentre i musulmani lo considerano come il luogo da cui il profeta Maometto ascese al cielo.

Negli ultimi anni le visite e gli appelli alla preghiera ebraica sono aumentati, alimentando i timori musulmani che ci possa essere un’espropriazione. Allo stesso tempo, la polizia è diventata sempre più negligente nel far rispettare il divieto di culto ebraico e spesso non ha impedito agli ebrei di pregare nell’angolo orientale del complesso. Lo fanno leggendo dai loro telefoni cellulari, piuttosto che dai libri di preghiere, che è quello che ha fatto Ben-Gvir domenica. Il momento è stato ripreso in video.

Ben-Gvir, che è stato eletto lo scorso novembre promettendo di sostenere la preghiera ebraica sul sito [di al-Aqsa,ndt], è considerato da molti il politico israeliano più estremista e ha una lunga storia di provocazioni rivolte agli arabi. Per molti anni ha esposto in bella vista nella sua casa una foto di Baruch Goldstein, un israeliano armato che uccise 29 palestinesi durante le preghiere della moschea a Hebron nel 1994.

Ben-Gvir ha anche chiesto maggiori finanziamenti per consentire a un ministero controllato dal suo partito Jewish Power (Potere Ebraico) di aumentare il numero di ebrei in parti di Israele con consistenti popolazioni arabe, il Negev e la Galilea. “Dobbiamo agire lì, dobbiamo essere i padroni anche del Negev e della Galilea”, ha detto.

Ahmad Majdalani, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha affermato che la visita ha offeso i musulmani di tutto il mondo e ha previsto che potrebbe destabilizzare la regione rafforzando i fondamentalisti islamici.

Majdalani, che è anche ministro palestinese per lo sviluppo sociale, ha definito la visita di Ben-Gvir “un’espressione provocatoria del governo israeliano nel suo insieme, non solo un’espressione individuale di Ben-Gvir. È politica ufficiale ferire i sentimenti dei musulmani in tutto il mondo, in particolare dei palestinesi. Avvertiamo che se continua così, la situazione cambia da un conflitto politico a uno religioso che non può essere controllato. Il pericolo di ciò per la regione non può essere sopravvalutato”.

La Giordania, a cui è stato affidato un ruolo speciale riguardo ai siti islamici a Gerusalemme nel suo trattato di pace con Israele del 1994, è stata dura nella sua condanna. “L’assalto alla moschea di al-Aqsa e la violazione della sua santità da parte di un ministro del gabinetto israeliano sono atti da condannare e provocatori”, ha affermato il portavoce del Ministero degli Affari Esteri e degli espatriati Sinan Majali. “Rappresentano una palese violazione del diritto internazionale, nonché dello status quo storico e giuridico a Gerusalemme e nei suoi luoghi santi”.

Israele ha occupato la Città Vecchia di Gerusalemme, che comprende al-Aqsa e l’adiacente Muro Occidentale, un luogo sacro di preghiera per gli ebrei, durante la guerra in Medio Oriente del 1967.

Da allora Israele ha annesso Gerusalemme Est, con una iniziativa non riconosciuta dalla comunità internazionale, e considera l’intera città come la sua capitale eterna e indivisa. I palestinesi vogliono Gerusalemme Est come capitale di uno Stato futuro.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele intende autorizzare nove insediamenti “selvaggi” in Cisgiordania

Agenzia France-Presse in Gerusalemme

15 febbraio 2023 The Guardian

Dopo una serie di attentati a Gerusalemme est il consiglio di sicurezza israeliano annuncia il riconoscimento delle aree costruite senza autorizzazione

Il consiglio di sicurezza israeliano ha annunciato che autorizzerà nove insediamenti nella Cisgiordania occupata dopo una serie di attacchi a Gerusalemme est, tra cui uno in cui sono morti tre israeliani.

“In risposta agli attacchi terroristici omicidi a Gerusalemme, il consiglio di sicurezza ha deciso all’unanimità di autorizzare nove comunità in Giudea e Samaria”, ha dichiarato l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu in una dichiarazione di domenica che utilizza il nome che Israele usa per la Cisgiordania.

“Queste comunità esistono da molti anni, alcune da decenni”, ha affermato.

I cosiddetti insediamenti “selvaggi” sono stati costruiti senza l’autorizzazione del governo israeliano.

“Il comitato di pianificazione superiore dell’amministrazione civile sarà convocato nei prossimi giorni per approvare la costruzione di nuove unità residenziali nelle comunità esistenti in Giudea e Samaria”, si legge nella nota.

Vi si dice che “Il consiglio di sicurezza ha preso una serie di decisioni ulteriori nel quadro di una risoluta lotta contro il terrorismo”, incluso il rafforzamento delle forze di sicurezza a Gerusalemme.

Domenica scorsa durante una riunione del suo governo Netanyahu ha detto che voleva “rafforzare gli insediamenti”, illegali secondo il diritto internazionale.

Più di 475.000 israeliani vivono in insediamenti coloniali in Cisgiordania, dove abitano 2,8 milioni di palestinesi.

Netanyahu ha anche annunciato che questa settimana il suo governo intende presentare al parlamento una legge per revocare la cttadinanza israeliana ai “terroristi”.

Le misure si applicano agli arabi israeliani e ai palestinesi residenti a Gerusalemme est, parte della città annessa da Israele.

Gli annunci arrivano nel pieno di un’esplosione di violenza israelo-palestinese.

Venerdì un palestinese ha ucciso tre israeliani, tra cui due bambini, in un attacco a Ramot, un quartiere di insediamenti ebraici a Gerusalemme est, e domenica le forze israeliane hanno ucciso un adolescente palestinese in un raid nel nord della Cisgiordania.

Dall’inizio dell’anno il conflitto ha provocato la morte di almeno 46 palestinesi sia combattenti che civili, nove civili israeliani e una donna ucraina, secondo un conteggio dell’Agenzia France Press basato su fonti ufficiali israeliane e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




A Gerusalemme non c’è nessuna spirale di violenza, solo un’oppressione mortale del mio popolo da parte di Israele

Jalal Abukhater

martedì 7 febbraio 2023 – The Guardian

Dalle demolizioni di case alla detenzione militare, la violenza che noi palestinesi affrontiamo quotidianamente riflette lo squilibrio di potere tra occupante e occupato

I bulldozer sono quasi quotidianamente in azione. Nei quartieri palestinesi di Gerusalemme, la mia città, le forze israeliane demoliscono case quasi ogni giorno. L’espropriazione e la discriminazione sono una realtà di lunga data qui nella parte orientale della città, da 56 anni sotto l’occupazione militare israeliana, ma con il nuovo governo israeliano di estrema destra Gerusalemme ha visto un picco di demolizioni: nel solo mese di gennaio sono stati distrutti più di 30 edifici.

Le notizie che giungono dalla nostra regione nelle capitali occidentali e nei media tendono a parlare prevalentemente di spargimenti di sangue e il popolo palestinese sta attraversando alcuni dei giorni più violenti, distruttivi e letali degli ultimi tempi. Nella Cisgiordania occupata il 2022 è stato l’anno più letale in quasi due decenni. A gennaio altri 31 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano. Disperazione, frustrazione e angoscia aleggiano su tutti noi come una nuvola scura. Ma i numeri da soli non esprimono la portata di questa crudeltà.

I numeri delle vittime e i luoghi comuni su spirali di violenza riportati da media male informati, prevenuti o servili non sono corretti o sufficienti per trasmettere lo squilibrio di potere tra un occupante e un occupato. La violenza a cui noi palestinesi siamo esposti quotidianamente non proviene solo dalle armi dell’esercito israeliano, ma è insieme profonda e strutturale.

Non ci sono cicli di demolizioni di case” o espulsioni per ritorsione” – i palestinesi non confiscano proprietà israeliane né imprigionano migliaia di israeliani con l’impiego di tribunali militari. Qualsiasi approccio che suggerisca una simmetria di potere o di responsabilità – è concettualmente e moralmente sbagliato.

Un microcosmo di questa violenza strutturale si trova proprio qui, nella mia città natale, Gerusalemme. Il mese scorso un palestinese armato ha ucciso sette israeliani nell’insediamento coloniale di Neve Yaakov nella Gerusalemme est occupata. Il ministro della sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, si è successivamente impegnato a intensificare le demolizioni delle case palestinesi costruite senza permessi, formulando tale mossa come una risposta all’attacco.

La maggior parte delle case palestinesi sono prese di mira per assenza di autorizzazione; infatti, nella mia città, almeno un terzo delle abitazioni palestinesi non dispone del rilascio di un’autorizzazione da parte di Israele, il che in qualsiasi momento pone a rischio di sfollamento forzato 100.000 residenti di Gerusalemme est occupata.

Infatti, dall’inizio dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967, praticamente non è stata condotta alcuna pianificazione pubblica riguardante i quartieri palestinesi. Nella parte orientale della città sono state costruite con ogni tipo di sostegno governativo cinquantacinquemila case per gli ebrei israeliani mentre per i palestinesi ne sono state costruite meno di 600. Questa politica ha assicurato non solo che i palestinesi avessero alloggi inadeguati, ma anche che nella città rappresentassero una minoranza.

Nonostante i palestinesi costituiscano oltre il 37% dei residenti di Gerusalemme, solo l’8,5% del terreno della città è destinato ai loro bisogni residenziali (e anche lì il potenziale edificabile è limitato). Tra il 1991 e il 2018, solo il 16,5% di tutti i permessi di costruzione di alloggi rilasciati dal comune di Gerusalemme hanno riguardato quartieri palestinesi nella zona est occupata e annessa illegalmente. La cosiddetta costruzione illegale o non autorizzata da parte dei palestinesi è una risposta alla cronica carenza di alloggi basata sulla discriminazione.

Più di recente, Ben-Gvir e il vicesindaco di Gerusalemme, Aryeh King, hanno annunciato l’imminente demolizione di un edificio abitativo a Wadi Qaddum, Silwan [quartiere di Gerusalemme est, ndt.], sulla base del fatto che è stato costruito su un terreno destinato a “sport e tempo libero”, e non ad uso residenziale. Una volta iniziata, sauna demolizione di grandi dimensioni, con lo sfollamento di circa 100 residenti. Solo negli ultimi 10 anni a Gerusalemme Est sono stati demoliti 1.508 edifici palestinesi, facendo sì che 2.893 persone, metà delle quali minorenni, restassero senza casa.

Anche la Cisgiordania occupata è segnata da una realtà brutale.

Nella cosiddetta Area C (60% della Cisgiordania) [sotto il temporaneo completo controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo del 1993, ndt.] non è consentita quasi alcuna costruzione palestinese. Le autorità israeliane demoliscono costantemente case, strade, cisterne, pannelli solari e altro ancora di proprietà palestinese. Gli insediamenti coloniali, considerati illegali dal diritto internazionale, sono in espansione, mentre i palestinesi sono confinati in enclavi frammentate.

Con l’aumento del numero di demolizioni ed espulsioni a Gerusalemme e in Cisgiordania sono minacciate intere comunità. Ma dovremmo ricordare che il costo più evidente è a livello individuale: il singolo nucleo famigliare che perde tutto ciò che ha al mondo. I muri crollano, i bambini piangono e i genitori si affrettano a capire cosa fare o dove andare dopo. È una catastrofe ed è continua.

La mancanza di un’autorizzazione impossibile da ottenere non è l’unico pretesto per demolire proprietà palestinesi; le autorità di occupazione israeliane stanno anche distruggendo o sigillando le case come forma di punizione collettiva, severamente vietata dal diritto internazionale. Gli atti di espulsione forzata di una popolazione occupata costituiscono un crimine di guerra. E’ una crudeltà incredibile.

Queste demolizioni ed evacuazioni sono una parte della violenza strutturale che noi palestinesi affrontiamo ogni giorno. Questo governo israeliano può mettere in atto nuove crudeli manifestazioni dell’occupazione, ma le basi sono state gettate dalle coalizioni che si sono succedute al governo dal 1967, dai laburisti al Likud.

Ecco perché noi palestinesi non ci sentiamo sollevati per la folla di israeliani che protestano contro le riforme giudiziarie proposte. Per decenni le nostre terre sono state confiscate e le persone sfollate da politici israeliani eletti di vari partiti, con approvazione da parte di ogni livello del sistema giudiziario. Occupazione e politiche razziste ci sono state imposte da chi si trova all’interno dell’attuale coalizione di governo e da molti che attualmente ne stanno fuori.

Questa violenza è la nostra realtà e affrontare una tale realtà è un primo passo necessario nella nostra lotta per la dignità e la giustizia. Incolpare le vittime o chiudere il dialogo [con loro] non farà che prolungare la nostra sofferenza. Non è una spirale di violenza, è un sistema di apartheid e deve essere trattato come tale dal mondo esterno.

Jalal Abukhater è un giornalista di Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele sta per adottare provvedimenti punitivi contro i palestinesi in seguito agli attacchi mortali a Gerusalemme

Bethan McKernan da Gerusalemme

29 gennaio 2023 – The Guardian

Il primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia misure dopo gli attacchi più gravi [negli ultimi] anni.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato una serie di misure punitive contro i palestinesi in seguito all’attacco terroristico più grave a Gerusalemme da anni, nel corso del quale un aggressore armato ha ucciso sette persone davanti a una sinagoga.

In una dichiarazione rilasciata domenica dopo l’incontro settimanale del governo, l’ufficio di Netanyahu ha comunicato che l’agenzia di sicurezza israeliana valuterà “misure di deterrenza addizionali riguardanti le famiglie dei terroristi che esprimano sostegno al terrorismo”, inclusa la revoca del diritto di residenza a Gerusalemme e della cittadinanza israeliana e norme che permetteranno ai datori di lavoro il licenziamento immediato, senza bisogno di un procedimento giudiziario, dei dipendenti che hanno “sostenuto il terrorismo”.

Altri provvedimenti illustrati dal governo includono la privazione per i famigliari degli assalitori di sicurezza sociale e prestazioni sanitarie, modifiche delle norme per facilitare la demolizione delle case dei palestinesi che compiono attacchi terroristici e il “rafforzamento delle colonie” nella Cisgiordania occupata, su cui non sono forniti ulteriori dettagli.

Tutte le misure sono illegali ai sensi del diritto internazionale e probabilmente contribuiranno ad alimentare le tensioni fra la popolazione palestinese e con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che controlla parti della Cisgiordania occupata, in un momento in cui la regione è già pericolosamente vicina all’escalation sul campo.

Lo scontro a fuoco di venerdì nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Neve Yaakov, nella Gerusalemme Est occupata, costata la vita a sette persone, mentre tre sono rimaste ferite, ha fatto seguito al più grave raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania da decenni. L’attacco insolitamente feroce contro combattenti nel campo profughi di Jenin ha causato la morte di nove palestinesi, inclusi due civili, e scatenato un’ondata di violente rappresaglie all’alba di venerdì con lo scambio di razzi fra la Striscia di Gaza, controllata dagli islamisti, e Israele.

Dopo l’attacco della sinagoga sono stati riportati parecchi altri incidenti, fra cui l’attacco con armi da fuoco in cui sono state ferite due persone vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme da parte di un tredicenne palestinese, il ricovero in ospedale di quattro palestinesi aggrediti da un colono israeliano vicino a Nablus e la sparatoria di sabato in un ristorante di coloni vicino a Gerico senza vittime, ma in cui l’assalitore è stato ucciso.

Domenica è stato ucciso un palestinese armato che si stava avvicinando a una colonia nell’area di Nablus, mentre case e auto sono state danneggiate e incendiate in vari villaggi palestinesi vicino a Ramallah.

Il primo ministro ha anche annunciato che la sua amministrazione varerà norme per semplificare l’iter per ottenere il porto d’armi per i cittadini israeliani, spiegando che la misura ridurrà la violenza perché “abbiamo visto più e più volte… che civili eroici, armati e addestrati salvano vite”.

Netanyahu ha dichiarato che Israele non cerca l’escalation, ma che fornirà una risposta “potente, rapida e precisa” all’attacco di venerdì a Gerusalemme. In previsione di altri attacchi da emulazione e price tag [attacchi di ritorsione contro palestinesi ad opera di gruppi di coloni, ndt.] nella città contesa e in Cisgiordania sono stati impiegati battaglioni aggiuntivi dell’esercito.

Sabato il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha incolpato Israele del picco di violenze. In seguito al raid a Jenin l’ANP ha dichiarato che sospenderà la cooperazione per la sicurezza con Israele, una decisione presa anche in passato con scarso successo.

Domenica all’alba la polizia israeliana ha messo i sigilli e si appresta a demolire la casa della famiglia dell’aggressore alla sinagoga ucciso mentre fuggiva dalla luogo dell’attacco. Si crede che Alqam Khayri, 21 anni, abbia agito da solo; anche se gruppi di militanti palestinesi hanno elogiato la sua azione, nessuno ha rivendicato la responsabilità dell’attacco. Un totale di 42 persone, tra cui suoi famigliari, sono stati arrestate in relazione all’episodio.

Membri del parlamento israeliano minacciano una raffica di provvedimenti che costituiscono una punizione collettiva contro persone innocenti solo perché sono collegate all’uomo che ha commesso un attacco mortale,” ha detto in una dichiarazione HaMoked, un’associazione israeliana no profit che si occupa principalmente dei diritti legali dei palestinesi.

[La legge israeliana] permette di demolire o mettere i sigilli a una casa. Tuttavia l’esercito deve notificarlo in anticipo alla famiglia, permettendo loro di presentare ricorso e, se respinto, di fare appello all’Alta Corte di Giustizia. Nulla di tutto ciò è stato fatto in questo caso.”

La sparatoria alla sinagoga di venerdì è la prima prova per la neoeletta coalizione governativa di estrema destra di Netanyahu, la cui campagna elettorale si è basata sulla promessa di rendere Israele più sicuro dopo la serie di attacchi palestinesi con coltelli e pistole la scorsa primavera. Elementi del nuovo governo hanno anche promesso di annettere la Cisgiordania ed estendere il controllo ebraico sul complesso sacro del Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.] a Gerusalemme, spesso un focolaio di violenze.

Lunedì Netanyahu riceverà Antony Blinken, Segretario di Stato USA, una visita a Gerusalemme pianificata da tempo, ma che ora sarà dominata dagli sforzi per disinnescare l’infiammabile situazione di sicurezza.

Ci si aspetta che i colloqui tratteranno anche dell’Iran, della posizione di Israele sulla guerra in Ucraina, dello stallo del processo di pace con i palestinesi e delle preoccupazioni internazionali per i piani del governo israeliano per minare i poteri della Corte Suprema del Paese.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)