Siamo la più importante associazione israeliana per i diritti umani, e questo lo chiamiamo apartheid

Hagai El-Ad

martedì 12 gennaio 2021 – The Guardian

La sistematica promozione della supremazia di un gruppo di persone su un altro è profondamente immorale e deve finire.

Non si può vivere neppure un giorno in Israele/Palestina senza provare la sensazione che questo luogo sia stato costantemente ideato per privilegiare un popolo e solo esso: il popolo ebraico. Eppure metà di quanti vivono tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo sono palestinesi. Il divario tra queste situazioni vissute aleggia nell’aria, si espande, è ovunque su questa terra.

Non mi riferisco solo a dichiarazioni ufficiali che lo precisano, e ce ne sono tante, come l’affermazione nel 2019 del primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui “Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini”, o la legge fondamentale dello “Stato-Nazione”, che sancisce che “lo sviluppo della colonizzazione ebraica è un valore nazionale”. Quello a cui sto cercando di arrivare è una sensazione più profonda di persone come desiderabili o indesiderabili e una consapevolezza del mio Paese a cui sono stato esposto gradatamente dal giorno in cui sono nato ad Haifa. Ora è una presa di coscienza che non può più essere evitata.

Benché ci sia una parità demografica tra i due popoli che vivono qui, la vita è gestita in modo tale per cui solo una metà gode della grande maggioranza del potere politico, delle risorse del territorio, di diritti, libertà e protezione. È proprio una prodezza conservare simile negazione dei diritti. Ancor di più lo è venderla con successo come una democrazia (all’interno della “Linea Verde”, il confine dell’armistizio del 1949), a cui viene associata un’occupazione temporanea. Di fatto, un governo gestisce chiunque e qualunque cosa tra il fiume e il mare che ovunque sotto il suo controllo risponde allo stesso principio organizzativo e opera per far progredire e perpetuare la supremazia di un gruppo di persone, gli ebrei, su un altro, i palestinesi. Questo è apartheid.

Non c’è un solo centimetro quadrato nel territorio controllato da Israele in cui un palestinese e un ebreo siano uguali. Le uniche persone di prima classe sono i cittadini ebrei come me, e noi godiamo di questo status sia all’interno dei confini del 1967 che al di là, in Cisgiordania. Divisi dal differente status personale assegnato loro e dalle molte varianti di inferiorità a cui Israele li sottomette, i palestinesi che vivono sotto il dominio di Israele sono uniti dal fatto di essere tutti discriminati.

A differenza dell’apartheid sudafricano, l’applicazione della nostra versione, chiamatelo se volete apartheid 2.0, evita alcuni aspetti particolarmente sgradevoli. Non troverete cartelli “solo per bianchi” sulle panchine. Qui “proteggere il carattere ebraico” di una comunità, o dello Stato stesso, è uno degli eufemismi appena velati utilizzato per cercare di nascondere la verità. Però l’essenza è la stessa. Che in Israele le definizioni non dipendano dal colore della pelle non fa una differenza reale: è la situazione di superiorità che è al centro della questione, e che deve essere sconfitta.

Fino all’approvazione della legge sullo Stato-Nazione, la lezione fondamentale che Israele sembra aver appreso riguardo a come è finito l’apartheid sudafricano è stata evitare dichiarazioni e leggi troppo esplicite. Queste possono rischiare di provocare giudizi morali, ed eventualmente, dio ne scampi, conseguenze concrete. Al contrario la paziente, tranquilla e graduale accumulazione di prassi discriminatorie tende a evitare reazioni da parte della comunità internazionale, soprattutto se non si intendono onorare seriamente le sue norme e attese.

È così che la supremazia ebraica da entrambi i lati della Linea Verde è realizzata e applicata. Abbiamo progettato la composizione demografica della popolazione, lavorando per incrementare il numero di ebrei e limitare quello dei palestinesi. Ovunque Israele abbia il controllo abbiamo consentito l’immigrazione ebraica, con la cittadinanza automatica. Per i palestinesi è vero il contrario: ovunque ci sia il controllo di Israele, non possono acquisire lo stato civile, persino se la loro famiglia è di qui.

Abbiamo progettato il potere in modo da attribuire, o negare, diritti politici. Ogni cittadino ebreo ha diritto di voto (e ogni ebreo può diventare cittadino), ma meno di un quarto dei palestinesi sotto il controllo israeliano ha la cittadinanza e quindi vota. Il 23 marzo, quando gli israeliani andranno a votare per la quarta volta in due anni, non sarà una “festa della democrazia”, come spesso vengono definite le elezioni. Sarà invece un ennesimo giorno in cui i palestinesi privati di diritti vedranno come il loro futuro sarà determinato da altri.

Abbiamo progettato il controllo della terra espropriando vaste estensioni di terra palestinese, escludendoli dalla possibilità di beneficiarne o utilizzandole per costruire città, quartieri e colonie ebraici. All’interno della Linea Verde lo abbiamo fatto da quando è stato fondato lo Stato, nel 1948. A Gerusalemme est e in Cisgiordania lo abbiamo fatto da quando le abbiamo occupate, fin dal 1967. Il risultato è che le comunità palestinesi, ovunque tra il fiume e il mare, devono affrontare una situazione di demolizioni, espulsioni, impoverimento e sovraffollamento, mentre le stesse risorse della terra sono destinate a nuove aree di sviluppo urbano per gli ebrei.

E abbiamo progettato, o meglio limitato, gli spostamenti dei palestinesi. La maggior parte di loro, che non sono né cittadini né residenti, dipende da permessi e posti di controllo israeliani per viaggiare all’interno di un’area e tra una zona e l’altra, così come per andare all’estero. Per i due milioni della Striscia di Gaza le restrizioni agli spostamenti sono più severe: non è semplicemente un bantustan [territori che nel Sudafrica dell’apartheid, venivano destinati alla popolazione nativa, ndtr.], in quanto Israele ne ha fatto una delle prigioni all’aria aperta più grandi sulla Terra.

Haifa, la mia città natale, dal 1948 vive una situazione di parità demografica. Dei circa 70.000 palestinesi che vi vivevano prima della Nakba [la Catastrofe, l’espulsione dei palestinesi nel 1948, ndtr.], ne venne lasciato in seguito meno del 10%. Da allora sono passati ormai 73 anni, e adesso Israele/Palestina è una realtà bi-nazionale con parità demografica. Io sono nato qui. Voglio, cerco di rimanervi. Ma voglio, pretendo di vivere in un futuro molto diverso.

Il passato è fatto di traumi e ingiustizie. Nel presente, sono riprodotte costantemente ancor più ingiustizie. Il futuro deve essere radicalmente diverso, il rifiuto della supremazia, costruito sull’impegno per la giustizia e per la nostra comune umanità. Chiamare le cose con il loro nome, apartheid, non è un momento di disperazione, ma di chiarezza morale, un passo sul lungo cammino ispirato dalla speranza. Vedi la realtà per quello che è, chiamala col suo nome senza infingimenti, e contribuisci a realizzare un futuro giusto.

Hagai El-Ad è un attivista israeliano per i diritti umani e direttore esecutivo di B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Alcuni giuristi affermano che Williamson sbaglia a obbligare le università ad attenersi alla definizione di antisemitismo

Harriet Sherwood

7 gennaio 2021 – The Guardian

Una lettera accusa il ministro dell’Istruzione di “ingerenza indebita” dopo un ordine riguardante il testo dell’IHRA

Un gruppo di eminenti giuristi, tra cui due ex-giudici di Corte d’Appello, ha accusato Gavin Williamson, il ministro all’Istruzione, di “ingerenza indebita” a danno dell’autonomia universitaria e del diritto alla libertà di espressione.

Essi affermano che l’insistenza di Williamson perché le università adottino la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ente intergovernativo a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] oppure debbano affrontare sanzioni è “illegale e immorale”. La loro dichiarazione giunge nel bel mezzo di una certa resistenza a livello accademico alla lettera inviata in ottobre da Williamson ai vice-rettori delle università, in cui minacciava: “Se entro Natale non avrò visto la stragrande maggioranza delle istituzioni [universitarie] adottare la definizione (dell’IHRA), allora interverrò.”

In questo mese docenti dell’University College di Londra dovrebbero decidere se chiedere all’organo direttivo dell’istituzione di annullare l’adozione, nel novembre 2019, della definizione dell’IHRA. Alcuni sostengono che ciò impedisce un libero dibattito su Israele.

Oxford e Cambridge sono tra le università che nelle scorse settimane hanno adottato la definizione dell’IRHA. Il ministero dell’Istruzione afferma che, dall’invio della lettera di Williamson, almeno 27 istituzioni l’hanno adottata.

Secondo un calcolo dell’Union of Jewish Students [Unione degli Studenti Ebrei] (UJS), un totale di 48 su 133 [università] hanno al momento adottato la definizione, compresa la grande maggioranza di quelle d’eccellenza che fanno parte del Russell Group [rete di 24 università in Gran Bretagna che ricevono i 2/3 dei finanziamenti alla ricerca, ndtr.]. L’UJS sostiene che le istituzioni che resistono a fare altrettanto starebbero dimostrando “disprezzo…nei confronti dei loro studenti ebrei.”

Invece la lettera dei giuristi, pubblicata dal Guardian, afferma: “Il diritto legalmente riconosciuto alla libertà di espressione viene minacciato dalla promozione di una ‘definizione operativa giuridicamente non vincolante’ di antisemitismo intrinsecamente incoerente. La sua promozione da parte di pubbliche istituzioni sta portando alla limitazione della discussione. Le università e altri enti che rifiutano l’indicazione… di adottarla dovrebbero essere appoggiate nel fare ciò.”

Essa cita la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo relativa alla libertà di espressione, che è inserita nel diritto del Regno Unito dalla legge sui diritti umani del 1998.

Williamson ha “sbagliato giuridicamente ed eticamente in ottobre a dare indicazioni alle università inglesi di adottare e mettere in pratica” la definizione di antisemitismo dell’IHRA. Questa minaccia di sanzioni “sarebbe un’indebita interferenza con la loro autonomia.”

La lettera aggiunge: “L’impatto sul dibattito pubblico sia dentro che fuori le università è già stato significativo.”

Tra gli otto firmatari ci sono Sir Anthony Hooper e Sir Stephen Sedley, entrambi giudici di Corte d’Appello in pensione.

L’opposizione accademica all’adozione generalizzata della definizione dell’IHRA si concentra sulla libertà di espressione, e in particolare sul fatto se verrebbero impedite le critiche al modo in cui Israele tratta il popolo palestinese.

La definizione dell’IHRA è di sole 40 parole.

Essa afferma: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.

Ma essa è accompagnata da 11 esempi esplicativi, sette dei quali riguardano Israele.

Secondo il rapporto di un gruppo di lavoro istituito dal consiglio di facoltà della UCL, la definizione e gli esempi “spostano in modo sproporzionato il dibattito su Israele e Palestina nelle discussioni riguardo all’antisemitismo, confondendo potenzialmente antisionismo e antisemitismo…in modo da…rischiare di eliminare la legittima discussione e la ricerca accademica.”

Il rapporto afferma che la definizione non ha basi legali e c’è già “un vasto corpo di leggi esistenti nel Regno Unito e politiche coerenti dell’UCL che invece dovrebbero essere utilizzate come base di ogni meccanismo istituzionale per combattere l’antisemitismo.”

Le università hanno “l’esplicito obbligo statutario di proteggere la libertà di parola nel rispetto delle leggi,” dice il rapporto.

Come strumento educativo la definizione “potrebbe avere in effetti un potenziale valore, ma esso dovrebbe essere equilibrato contro effetti potenzialmente deleteri sulla libertà di parola, quali l’istigazione a una cultura della paura o all’autocensura nell’insegnamento o nella ricerca o nella discussione in aula di contenuti controversi.”

Il rapporto afferma: “La possibilità di tenere discussioni scomode o di sentirsi interpellati da idee in conflitto è al cuore del mandato dell’educazione superiore. Sono tempi in cui sentiamo la necessità di chiarire e illuminare queste tensioni invece di affrettarci ad accogliere le richieste di detrattori che potrebbero travisare questi esempi come atti di discriminazione, se dobbiamo difendere i valori della vita universitaria.”

Pur riconoscendo “prove inquietanti che incidenti di antisemitismo sono presenti nella nostra università,” il rapporto raccomanda all’organismo direttivo dell’UCL di annullare l’adozione della definizione dell’IHRA e di “prendere in considerazione alternative più coerenti.”

Il corpo docente dell’UCL avrebbe dovuto votare sulle raccomandazioni del rapporto prima di Natale, ma, data la sua importanza, ha deciso di approfondire la discussione nel nuovo anno.

Harry Goldstein, uno dei critici del rapporto, ha sostenuto che i suoi argomenti danno credito “proprio alle teorie cospirative che sono al centro dell’antisemitismo classico. Ci deve sempre essere un complotto per mettere a tacere le critiche a Israele.”

In un messaggio sul suo blog, Goldstein, che si definisce un sostenitore di Israele progressista di centro-sinistra, ha affermato che il rapporto confonde la distinzione tra critiche a Israele e antisionismo, utilizza un linguaggio tendenzioso e “non comprende la natura differente dell’antisemitismo rispetto ad altre forme di razzismo.”

Dave Rich, responsabile per le questioni politiche del Community Security Trust (CST), che assiste la comunità ebraica del Regno Unito sui problemi di sicurezza, afferma che la discussione accademica sulle definizioni di antisemitismo “perde di vista quello che realmente importa: il benessere e la sicurezza degli studenti ebrei nelle università britanniche.”

Un rapporto del CST, Campus Antisemitism in Britain 2018-20 [Antisemitismo nei campus britannici 2018-20] ha registrato un totale di 123 incidenti legati all’antisemitismo che nel corso dei due anni hanno coinvolto studenti in 34 città e cittadine.

Decisamente troppi studenti ebrei sperimentano pregiudizi e fanatismo nei campus, fuori dai campus e in rete. Ciò include l’antisemitismo dell’estrema sinistra, che mescola l’odio contro Israele con il sospetto nei confronti di ogni ebreo che non sia d’accordo con essa,” ha scritto lo scorso mese Rich.

James Harris, il presidente di UJS, ha sostenuto che la continua battaglia sulla definizione dell’IHRA è “inaccettabile”.

Ha aggiunto: “Abbiamo visto molteplici esempi di razzismo antiebraico ignorati dalle università che rifiutano sistematicamente di adottare questa definizione. Quando essa non viene usata, ciò dà la possibilità a quanti devono svolgere indagini di determinare arbitrariamente quello che ritengono costituisca antisemitismo.

La definizione dell’IHRA è la pietra angolare per garantire che l’antisemitismo, quando registrato, venga affrontato in modo tale per cui gli studenti ebrei possano aver fiducia.”

Un portavoce del ministero dell’Istruzione ha affermato: “Il governo si aspetta che le istituzioni abbiano un approccio di tolleranza zero verso l’antisemitismo, con la messa in pratica di severe misure per affrontare i problemi quando sorgono.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Joe Biden dovrebbe smetterla con la farsa americana sulle armi nucleari israeliane ‘segrete’

Desmond Tutu

1° gennaio 2021 – The Guardian

Bisogna finirla con questa buffonata e con le enormi somme di aiuti a un Paese con politiche oppressive contro i palestinesi

Al momento del loro insediamento, le ultime quattro amministrazioni USA hanno seguito un rituale iniquo. Si sono tutte dichiarate d’accordo a disattendere la legge americana firmando missive segrete e stipulando così che non ammetteranno qualcosa che tutti sanno: che Israele ha un arsenale di armi nucleari.

Uno dei motivi è per impedire alla gente di focalizzarsi sulla capacità di Israele di polverizzare decine di città. Questo rifiuto di fronteggiare la minaccia posta dallo spaventoso arsenale israeliano dà un senso di potere e impunità al suo primo ministro, Benjamin Netanyahu, e permette a Israele di dettare agli altri le proprie condizioni.

Ma un altro effetto della strategia dello struzzo dell’amministrazione USA è evitare che l’America applichi le proprie leggi che richiedono la fine della generosità dei contribuenti verso chi contribuisce alla proliferazione di armi nucleari.

Israele infatti è uno di questi Stati. Ci sono prove schiaccianti che negli anni ’70 si offrì di vendere armi nucleari al regime di apartheid in Sudafrica e che condusse persino congiuntamente un test nucleare. Il governo USA ha tentato di occultare questi fatti. Inoltre [Israele] non ha mai firmato il trattato di non-proliferazione nucleare.

Eppure gli USA e i governi israeliani hanno promosso l’invasione dell’Iraq sulla base di menzogne future esplosioni nucleari. Mordechai Vanunu, un tecnico nucleare israeliano che ha fatto la spia, ha detto: le armi nucleari non erano in Iraq, sono in Israele.

Gli emendamenti apportati al Foreign Assistance Act dagli ex senatori Stuart Symington e John Glenn vietano agli USA di fornire assistenza economica e militare a Stati che contribuiscono alla proliferazione nucleare e a quelli che acquistano armi nucleari. Jimmy Carter, quando era presidente, aveva invocato tali misure contro India e Pakistan.

Ma nessun presidente l’ha fatto nei confronti di Israele. Anzi, l’opposto. Dai tempi del presidente Richard Nixon c’è stato un accordo verbale di accettare “l’ambiguità sul nucleare”, accordando in pratica a Israele impunemente il potere che viene dagli armamenti nucleari. E, secondo il settimanale New Yorker, il presidente Bill Clinton ha inviato queste lettere segrete. 

Presidenti e politici statunitensi si sono rifiutati di ammettere che Israele ha armi nucleari, benché la legge ammetta un’esenzione che permetterebbe la continuazione dei finanziamenti se il presidente certificasse al Congresso che l’aiuto a un Paese che contribuisce alla proliferazione nucleare è di vitale interesse per gli USA.

Il prodotto interno lordo pro-capite di Israele è paragonabile a quello del Regno Unito. Ciononostante i contribuenti americani sovvenzionano Israele più di ogni altro Paese. Nel corso degli anni e tenendo conto dell’inflazione, il totale reso pubblico si avvicina ora ai 300 miliardi di dollari.

Questa farsa deve finire. Il governo USA dovrebbe applicare le proprie leggi e tagliare i finanziamenti a Israele dell’acquisizione e della proliferazione di armi nucleari da parte sua.

L’amministrazione entrante di Biden dovrebbe riconoscere onestamente che Israele è uno Stato leader nello sponsorizzare la proliferazione nucleare in Medioriente e implementare correttamente la legge USA. Altri governi, e in particolare quello del Sudafrica, dovrebbero insistere sul rispetto delle leggi e su un disarmo effettivo e sollecitare immediatamente e con assoluta fermezza il governo USA ad agire.

L’apartheid è stato abominevole in Sudafrica ed è abominevole quando Israele pratica la propria forma di apartheid contro i palestinesi, con checkpoint e un sistema di politiche repressive. Inoltre, un’altra legge USA, la Leahy law, proibisce aiuti militari a governi che violano sistematicamente i diritti umani. 

È molto probabile che uno dei motivi per cui la versione israeliana di apartheid è sopravvissuta a quella sudafricana è che Israele è riuscito a mantenere il sistema di oppressione non solo usando le armi dei soldati, ma anche tenendo la pistola nucleare puntata alla tempia di milioni di persone. La soluzione non sta nel cercare di far avere tali armi a palestinesi e altri arabi. La soluzione sono pace, giustizia e disarmo. 

Il Sudafrica ha capito che poteva avere vera pace e giustizia tramite la verità che avrebbe portato alla riconciliazione. Non succede niente fino a quando non ci si confronta onestamente con la verità e ci sono poche verità più importanti con cui fare i conti che l’arsenale di armi nucleari nelle mani di un governo in cui vige l’apartheid.

Desmond Tutu, vincitore del premio Nobel per la pace, è stato arcivescovo di Città del Capo e presidente della Commissione Verità e Riconciliazione del Sudafrica dal 1996 al 2003.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I diritti dei palestinesi e la definizione dell’IHRA di antisemitismo

29 novembre 2020, The Guardian

Un gruppo di 122 accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi esprime le proprie preoccupazioni sulla definizione dell’IHRA

Noi sottoscritti accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi, dichiariamo le nostre opinioni riguardo la definizione di antisemitismo da parte dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce governi ed esperti allo scopo di rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] e il modo in cui questa definizione è stata presentata, interpretata e applicata in diversi Paesi d’Europa e del Nord America.

Negli ultimi anni la lotta contro l’antisemitismo è stata sempre più strumentalizzata dal governo israeliano e dai suoi sostenitori nel tentativo di delegittimare la causa palestinese e mettere a tacere i difensori dei diritti dei palestinesi. Dirottare l’indispensabile lotta contro l’antisemitismo per favorire un tale programma minaccia di svilire questa battaglia e quindi di screditarla e indebolirla.

L’antisemitismo deve essere smascherato e combattuto. Indipendentemente dai pretesti, nessuna espressione di odio per gli ebrei in quanto ebrei dovrebbe essere tollerata in nessuna parte del mondo. L’antisemitismo si manifesta attraverso generalizzazioni e stereotipi indiscriminati sugli ebrei, riguardanti in particolare il potere e il denaro, insieme a teorie del complotto e alla negazione dell’Olocausto. Consideriamo legittima e indispensabile la lotta contro tali atteggiamenti. Crediamo anche che le lezioni dell’Olocausto, così come quelle di altri genocidi dei tempi moderni, debbano far parte dell’educazione delle nuove generazioni contro ogni forma di odio e pregiudizio razziale.

La lotta contro l’antisemitismo, tuttavia, deve essere affrontata in modo strutturato, onde evitare di vanificare il suo scopo. Attraverso gli “esempi” che fornisce, la definizione dell’IHRA fonde l’ebraismo con il sionismo partendo dal presupposto che tutti gli ebrei siano sionisti e che lo Stato di Israele nella sua condizione attuale incarni l’autodeterminazione di tutti gli ebrei. Siamo in profondo disaccordo con questo. La lotta contro l’antisemitismo non deve essere trasformata in uno stratagemma per delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi, la negazione dei loro diritti e l’ininterrotta occupazione della loro terra. A tale riguardo consideriamo fondamentali i seguenti principi:

1. La lotta contro l’antisemitismo deve essere applicata nel quadro delle leggi internazionali e dei diritti umani. Dovrebbe essere parte integrante della lotta contro tutte le forme di razzismo e xenofobia, compresi l’islamofobia e il razzismo anti-arabo e anti-palestinese. Lo scopo di questa lotta è garantire libertà ed emancipazione a tutte le categorie oppresse. Orientarlo verso la difesa di uno Stato oppressivo e rapace costituisce un profondo stravolgimento.

2. Esiste un’enorme differenza tra una condizione in cui gli ebrei vengono individuati, oppressi e annientati come minoranza da regimi o organizzazioni antisemite e una condizione in cui l’autodeterminazione di una popolazione ebraica in Palestina / Israele è stata realizzata sotto forma di uno Stato etnico esclusivista e territorialmente espansionista. Così com’é attualmente, lo Stato di Israele è fondato sullo sradicamento della stragrande maggioranza dei nativi – quella che palestinesi e arabi chiamano Nakba – e sulla sottomissione dei nativi che vivono ancora nel territorio della Palestina storica come cittadini di seconda classe o come popolo sotto occupazione, deprivati del diritto all’autodeterminazione.

3. La definizione di antisemitismo dell’IHRA e le relative misure legali adottate in diversi Paesi sono state utilizzate principalmente contro le organizzazioni di sinistra e quelle per i diritti umani che sostengono i diritti dei palestinesi e contro la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), mettendo da parte la reale minaccia per gli ebrei, proveniente da movimenti nazionalisti bianchi di destra in Europa e negli Stati Uniti. La rappresentazione della campagna del BDS come antisemita è una grossolana distorsione di quello che è fondamentalmente un mezzo legittimo di lotta non violenta a favore dei diritti dei palestinesi.

4. L’affermazione della definizione dell’IHRA secondo cui un esempio di antisemitismo è “Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’iniziativa razzista” è piuttosto strana. Non si preoccupa di riconoscere che, in base al diritto internazionale, l’attuale Stato di Israele costituisce una potenza occupante da oltre mezzo secolo, come riconosciuto dai governi dei Paesi in cui viene accolta la definizione dell’IHRA. Non si preoccupa di considerare se questo diritto includa il diritto di creare una maggioranza ebraica attraverso la pulizia etnica e se debba essere valutato in rapporto ai diritti del popolo palestinese. Inoltre, la definizione dell’IHRA potenzialmente scarta come antisemite tutte le visioni non sioniste del futuro dello Stato israeliano, come la difesa di uno Stato bi-nazionale o democratico laico che rappresenti nella stessa misura tutti i suoi cittadini. Un autentico sostegno al principio del diritto di un popolo all’autodeterminazione non può escludere la Nazione palestinese, né qualunque altra.

5. Crediamo che nessun diritto all’autodeterminazione debba includere il diritto di sradicare un altro popolo e impedirgli di tornare nella sua terra, o qualsiasi altro strumento per garantire una maggioranza demografica all’interno dello Stato. La rivendicazione da parte dei palestinesi del loro diritto al ritorno nella terra da cui loro stessi, i loro genitori e nonni sono stati espulsi non può essere interpretata come antisemita. Il fatto che una tale richiesta crei angosce tra gli israeliani non prova che essa sia ingiusta, né antisemita. È un diritto riconosciuto dalle leggi internazionali come dichiarato nella risoluzione 194 del 1948 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite.

6. Rivolgere indistintamente l’accusa di antisemitismo contro chiunque consideri razzista l’attuale Stato di Israele, nonostante l’effettiva discriminazione istituzionale e costituzionale su cui si basa, equivale a garantire a Israele l’impunità assoluta. Israele può così deportare i suoi cittadini palestinesi, revocarne la cittadinanza o negare loro il diritto di voto, ed essere comunque immune dall’accusa di razzismo.

La definizione dell’IHRA e il modo in cui è stata applicata vietano qualsiasi discussione sullo Stato israeliano in quanto basato su una discriminazione etnico-religiosa. In tal modo viola la giustizia elementare e le norme fondamentali dei diritti umani e del diritto internazionale.

7. Crediamo che la giustizia richieda il pieno sostegno del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, inclusa la richiesta di porre fine all’occupazione internazionalmente riconosciuta dei loro territori,alla mancanza di uno Stato e alla deprivazione dei rifugiati palestinesi. L’occultamento dei diritti dei palestinesi nella definizione dell’IHRA tradisce un atteggiamento che sostiene il privilegio ebraico, invece dei diritti ebraici, in Palestina e, invece della sicurezza ebraica, la supremazia ebraica sui palestinesi. Crediamo che i valori e i diritti umani siano inseparabili e che la lotta contro l’antisemitismo debba andare di pari passo con la lotta a nome di tutti i popoli e gruppi oppressi per la dignità, l’uguaglianza e l’emancipazione.

Samir Abdallah

Regista, Parigi, Francia

Nadia Abu El-Haj

Ann Olin Whitney Docente di Antropologia, Columbia University, USA

Lila Abu-Lughod

Joseph L Buttenwieser Docente di Scienze Sociali, Columbia University, USA

Bashir Abu-Manneh

Docente in Letteratura Postcoloniale, University of Kent, UK

Gilbert Achcar

Docente di Studi sullo Sviluppo, SOAS, University of London, UK

Nadia Leila Aissaoui

Sociologa e scrittrice su tematiche femministe, Parigi, Francia

Mamdouh Aker

Consiglio di amministrazione, Università di Birzeit, Palestina

Mohamed Alyahyai

Scrittore e romanziere, Oman

Suad Amiry

Scrittrice e architetto, Ramallah, Palestina

Sinan Antoon

Professore Associato, New York University, Iraq-USA

Talal Assad

Professore Emerito di Antropologia, Graduate Center, CUNY, USA

Hanan Ashrawi

Ex docente di Letteratura Comparata, Università di Birzeit, Palestina

Aziz Al-Azmeh

Professore emerito, Università dell’Europa centrale, Vienna, Austria

Abdullah Baabood

Accademico e ricercatore in Studi sul Golfo, Oman

Nadia Al-Bagdadi

Docente di Storia, Università Centrale Europea, Vienna

Sam Bahour

Scrittore, Al-Bireh / Ramallah, Palestina

Zainab Bahrani

Edith Porada Docente di Storia dell’Arte e Archeologia, Columbia University, USA

Rana Barakat

Assistente universitaria di Storia, Università di Birzeit, Palestina

Bashir Bashir

Professore associato di Teoria Politica, Open University of Israel, Raanana, Stato di Israele

Taysir Batniji

Artista-Pittore, Gaza, Palestina e Parigi, Francia

Tahar Ben Jelloun

Scrittore, Parigi, Francia

Mohammed Bennis

Poeta, Mohammedia, Marocco

Mohammed Berrada

Scrittore e critico letterario, Rabat, Marocco

Omar Berrada

Scrittore e curatore, New York, USA

Amahl Bishara

Professore Associato e Presidente, Dipartimento di Antropologia, Tufts University, USA

Anouar Brahem

Musicista e compositore, Tunisia

Salem Brahimi

Regista, Algeria-Francia

Aboubakr Chraïbi

Docente, Dipartimento di Studi Arabi, INALCO, Parigi, Francia

Selma Dabbagh

Scrittrice, Londra, Regno Unito

Izzat Darwazeh

Docente di Ingegneria delle Comunicazioni, University College London, UK

Marwan Darweish

Professore associato, Università di Coventry, Regno Unito

Beshara Doumani

Mahmoud Darwish Docente di Studi Palestinesi e di Storia, Brown University, USA

Haidar Eid

Professore Associato di Letteratura Inglese, Università Al-Aqsa, Gaza, Palestina

Ziad Elmarsafy

Docente di Letteratura Comparata, King’s College di Londra, Regno Unito

Noura Erakat

Professore Associato, Africana Studies and Criminal Justice, Rutgers University, USA

Samera Esmeir

Professore Associato di Retorica, Università della California, Berkeley, USA

Khaled Fahmy

FBA, Docente di Studi Arabi Moderni, Università di Cambridge, Regno Unito

Ali Fakhrou

Accademico e scrittore, Bahrain

Randa Farah

Professore Associato, Dipartimento di Antropologia, Western University, Canada

Leila Farsakh

Professore associato di Scienze Politiche, Università del Massachusetts Boston, USA

Khaled Furani

Professore Associato di Sociologia e Antropologia, Università di Tel Aviv, Stato di Israele

Burhan Ghalioun

Professore Emerito di Sociologia, Sorbonne 3, Parigi, Francia

Asad Ghanem

Professore di Scienze Politiche, Università di Haifa, Stato di Israele

Honaida Ghanim

Direttore generale del Forum Palestinese per gli Studi Israeliani Madar, Ramallah, Palestina

George Giacaman

Docente di Filosofia e Studi Culturali, Università di Birzeit, Palestina

Rita Giacaman

Docente, Istituto di Comunità e Sanità pubblica, Università di Birzeit, Palestina

Amel Grami

Docente di Studi di Genere, Università Tunisina, Tunisi

Subhi Hadidi

Critico letterario, Siria-Francia

Ghassan Hage

Docente di Antropologia e Teoria Sociale, Università di Melbourne, Australia

Samira Haj

Professore Emerito di Storia, CSI / Graduate Center, CUNY, USA

Yassin Al-Haj Saleh

Scrittore, Siria

Dyala Hamzah

Professore Associato di Storia Araba, Université de Montréal, Canada

Rema Hammami

Professore Associato di Antropologia, Università di Birzeit, Palestina

Sari Hanafi

Docente di Sociologia, Università Americana di Beirut, Libano

Adam Hanieh

Docente in Studi dello Sviluppo, SOAS, University of London, UK

Kadhim Jihad Hassan

Scrittore e traduttore, Docente presso INALCO-Sorbonne, Parigi, Francia

Nadia Hijab

Autrice e Difensore dei Diritti Umani, Londra, Regno Unito

Jamil Hilal

Scrittore, Ramallah, Palestina

Serene Hleihleh

Attivista Culturale, Giordania-Palestina

Bensalim Himmich

Accademico, romanziere e scrittore, Marocco

Khaled Hroub

Professore in Residenza di Studi Medio-Orientali, Northwestern University, Qatar

Mahmoud Hussein

Scrittore, Parigi, Francia

Lakhdar Ibrahimi

Scuola di Affari Internazionali di Parigi, Istituto di Studi Politici, Francia

Annemarie Jacir

Regista, Palestina

Islah Jad

Professore Associato di Scienze Politiche, Università di Birzeit, Palestina

Lamia Joreige

Artista Visuale e Regista, Beirut, Libano

Amal Al-Jubouri

Scrittore, Iraq

Mudar Kassis

Professore Associato di Filosofia, Università Birzeit, Palestina

Nabeel Kassis

Ex Docente di Fisica ed ex Preside, Università di Birzeit, Palestina

Muhammad Ali Khalidi

Docente di Filosofia, CUNY Graduate Center, USA

Rashid Khalidi

Edward Said Docente di Studi Arabi Moderni, Columbia University, USA

Michel Khleifi

Regista, Palestina-Belgio

Elias Khoury

Scrittore, Beirut, Libano

Nadim Khoury

Professore Associato di Studi Internazionali, Lillehammer University College, Norvegia

Rachid Koreichi

Artista-Pittore, Parigi, Francia

Adila Laïdi-Hanieh

Direttore generale, Museo Palestinese, Palestina

Rabah Loucini

Docente di Storia, Università di Orano, Algeria

Rabab El-Mahdi

Professore Associato di Scienze Politiche, The American University, Il Cairo, Egitto

Ziad Majed

Professore Associato di Studi sul Medio Oriente e IR, Università Americana di Parigi, Francia

Jumana Manna

Artista, Berlino, Germania

Farouk Mardam Bey

Editore, Parigi, Francia

Mai Masri

Regista palestinese, Libano

Mazen Masri

Professore a contratto di diritto, City University of London, UK

Dina Matar

Docente in Comunicazione Politica e Media Arabi, SOAS, University of London, UK

Hisham Matar

Scrittore, Docente al Barnard College, Columbia University, USA

Khaled Mattawa

Poeta, William Wilhartz Docente di Letteratura Inglese, Università del Michigan, USA

Karma Nabulsi

Docente di Politica e IR, Università di Oxford, Regno Unito

Hassan Nafaa

Professore Emerito di Scienze Politiche, Università del Cairo, Egitto

Nadine Naber

Docente, Dipartimento di Studi Femminili e di Genere, University of Illinois at Chicago, USA

Issam Nassar

Professore, Illinois State University, USA

Sari Nusseibeh

Professore Emerito di Filosofia, Università Al-Quds, Palestina

Najwa Al-Qattan

Professore Emerito di Storia, Loyola Marymount University, USA

Omar Al-Qattan

Regista, Presidente del Museo Palestinese e della Fondazione AM Qattan, Regno Unito

Nadim N Rouhana

Docente di Affari internazionali, The Fletcher School, Tufts University, USA

Ahmad Sa’adi

Docente, Haifa, Stato di Israele

Rasha Salti

Curatrice indipendente, scrittrice, ricercatrice d’arte e film, Germania-Libano

Elias Sanbar

Scrittore, Parigi, Francia

Farès Sassine

Docente di filosofia e critico letterario, Beirut, Libano

Sherene Seikaly

Professore Associato di Storia, Università della California, Santa Barbara, USA

Samah Selim

Professore Associato, Lingue e letterature A, ME e SA, Rutgers University, USA

Leila Shahid

Scrittrice, Beirut, Libano

Nadera Shalhoub-Kevorkian

Lawrence D Biele Cattedra in Legge, Hebrew University, Stato di Israele

Anton Shammas

Docente di Letteratura Comparata, Università del Michigan, Ann Arbor, USA

Yara Sharif

Docente senior, Architettura e Città, Università di Westminster, Regno Unito

Hanan Al-Shaykh

Scrittrice, Londra, Regno Unito

Raja Shehadeh

Avvocato e scrittore, Ramallah, Palestina

Gilbert Sinoué

Scrittore, Parigi, Francia

Ahdaf Soueif

Scrittrice, Egitto / Regno Unito

Mayssoun Sukarieh

Docente senior di Studi sullo Sviluppo, King’s College di Londra, Regno Unito

Elia Suleiman

Regista, Palestina-Francia

Nimer Sultany

Docente in Diritto Pubblico, SOAS, University of London, UK

Jad Tabet

Architetto e scrittore, Beirut, Libano

Jihan El-Tahri

Regista, Egitto

Salim Tamari

Professore Emerito di Sociologia, Università di Birzeit, Palestina

Wassyla Tamzali

Scrittrice, produttrice d’arte contemporanea, Algeria

Fawwaz Traboulsi

Scrittore, Beirut Libano

Dominique Vidal

Storico e giornalista, Palestina-Francia

Haytham El-Wardany

Scrittore, Egitto-Germania

Said Zeedani

Professore Associato Emerito di Filosofia, Università Al-Quds, Palestina

Rafeef Ziadah

Docente in Politiche Comparate del Medio Oriente, SOAS, University of London, UK

Raef Zreik

Minerva Humanities Center, Università di Tel Aviv, Stato di Israele

Elia Zureik

Professore Emerito, Queen’s University, Canada

Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




Secondo l’ONU le forze israeliane lasciano senza casa 41 minorenni dopo aver raso al suolo un villaggio palestinese

Oliver Holmes da Gerusalemme

5 novembre 2020 – The Guardian

Le demolizioni utilizzate come “mezzo fondamentale” per “obbligare i palestinesi a lasciare le proprie case”

Secondo le Nazioni Unite, con il più vasto episodio di espulsione forzata da anni, le forze israeliane hanno raso al suolo un villaggio palestinese della Cisgiordania occupata, lasciando senza casa 73 persone, tra cui 41 minori.

Macchine movimento terra, scortate da veicoli militari, sono state filmate mentre si avvicinavano a Khirbet Humsa e procedevano a spianare o distruggere tende, baracche, stalle, gabinetti e pannelli solari.

Sono alcune delle comunità più vulnerabili della Cisgiordania,” ha affermato Yvonne Helle, coordinatrice umanitaria dell’ONU per i territori palestinesi occupati.

Durante l’operazione di martedì i tre quarti della comunità hanno perso dove ripararsi, ha detto, facendone il più ampio episodio di espulsione forzata in più di quattro anni. In ogni caso, per il numero di strutture distrutte, 76, l’incursione è stata l’operazione di demolizione più vasta dell’ultimo decennio, ha aggiunto.

Mercoledì alcune famiglie del villaggio sono state viste rovistare nel vento tra i propri beni distrutti, mentre lo stesso giorno sono iniziate le prime piogge dell’anno. L’ONU ha pubblicato una foto di un letto e di un lettino in pieno deserto.

Il villaggio è una delle numerose comunità di beduini e pastori nella zona della Valle del Giordano che si trova all’interno di un’“area di tiro” per l’addestramento dell’esercito decretata da Israele e, nonostante sia all’interno dei territori palestinesi, lì la gente spesso deve affrontare demolizioni di edifici costruiti senza il permesso israeliano.

I palestinesi non riescono mai a ottenere tali permessi,” ha affermato Helle. “Le demolizioni sono un mezzo fondamentale per creare un contesto destinato ad obbligare i palestinesi a lasciare le proprie case,” ha detto, accusando Israele di “gravi violazioni” delle leggi internazionali.

Ha affermato che finora nel 2020 in Cisgiordania e Gerusalemme est sono state demolite circa 700 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

L’Amministrazione Civile israeliana, l’ente incaricato di gestire l’occupazione, ha detto di aver messo in atto un “provvedimento giudiziario… contro sette tende e otto recinti costruiti illegalmente in un campo da tiro nella Valle del Giordano.”

Questi dati contraddicono il comunicato dell’ONU e un resoconto stilato sul posto dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, secondo cui le forze militari hanno distrutto 18 tende e baracche che ospitavano 11 famiglie, 29 tende e baracche usate come stalle per gli animali, tre baracche adibite a magazzini, nove tende utilizzate come cucine, 10 gabinetti mobili, 10 recinti per il bestiame, 23 cisterne per l’acqua, due pannelli solari e mangiatoie e abbeveratoi per il bestiame.

Le forze israeliane hanno distrutto anche più di 30 tonnellate di cibo per animali e confiscato un veicolo e due trattori di proprietà di tre abitanti, ha aggiunto l’associazione.

Come parte dei suoi tentativi di impossessarsi di sempre più terra palestinese, Israele demolisce regolarmente case e proprietà palestinesi,” ha affermato il portavoce di B’Tselem, Amit Gilutz.

Ma spazzare via un’intera comunità in un colpo solo è molto raro, e sembra che Israele stia approfittando del fatto che l’attenzione di tutti sia attualmente altrove per procedere con questa azione inumana,” ha detto, riferendosi alle elezioni USA.

Israele ha strappato la Cisgiordania alle forze giordane nel 1967 e continua a controllare e occupare la zona, anche se i palestinesi hanno un ridotto autogoverno su piccole enclave.

Il primo ministro del Paese e sostenitore della linea dura, Benjamin Netanyahu, ha affermato di aver intenzione di annettere grandi aree dei territori occupati, compresa la Valle del Giordano, benché il progetto sia stato temporaneamente “sospeso” come parte di un accordo con gli Emirati Arabi Uniti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una fuga di notizie dimostra che il proprietario del Chelsea Abramovich ha finanziato un’associazione di coloni israeliani

Oliver Holmes

lunedì 21 settembre 2020 – The Guardian

Imprese dell’oligarca russo hanno donato 85 milioni di euro a Elad, accusata di cercare di impossessarsi di quartieri palestinesi

Secondo documenti filtrati visionati da BBC News Arabic [canale pubblico di notizie in arabo che trasmette solo in Gran Bretagna, ndtr.], imprese controllate dal proprietario del Chelsea [importante squadra di calcio inglese, ndtr.] Roman Abramovich avrebbero donato decine di milioni di sterline a un’associazione di coloni israeliani molto controversa, accusata di espellere famiglie palestinesi da Gerusalemme. Il miliardario e oligarca russo, a cui nel 2018 è stata concessa la cittadinanza israeliana, è stato un grande filantropo in Israele, ha donato cospicue somme per progetti di ricerca e sviluppo ed ha investito in imprese locali.

Tuttavia, secondo BBC News Arabic, quattro aziende di cui è proprietario o che controlla nelle Isole Vergini britanniche hanno finanziato con più di 100 milioni di dollari (circa 85 milioni di euro) Elad, un’organizzazione che appoggia colonie nel quartiere palestinese chiamato Silwan, nella Gerusalemme est occupata.

Inoltre [BBC News Arabic] aggiunge che queste cifre indicano che negli ultimi 15 anni il proprietario del club calcistico britannico è stato il maggiore donatore individuale di Elad, una parola che in ebraico significa “eterna fede di dio”. Il gruppo, che riceve sostegno anche dal governo israeliano, ha cercato di rafforzare la presenza ebraica nel quartiere di Silwan a spese dei suoi abitanti arabi.

Elad gestisce a Silwan un sito archeologico noto come la Città di Davide, che è diventato un’importante attrazione turistica. Gli scavi sono stati criticati da diplomatici dell’Unione Europea in quanto intendono ignorare la storia diversificata della città antica a favore di “una narrazione esclusivamente ebraica, slegando il luogo dal suo contesto palestinese.”

Il sito web della Città di Davide afferma di essere “impegnato a continuare l’eredità di Re Davide così come a svelare e mettere in rapporto le persone con l’antico glorioso passato di Gerusalemme attraverso quattro attività fondamentali: scavi archeologici, sviluppo turistico, programmi educativi e rivitalizzazione abitativa.”

Elad, come altre organizzazioni dei coloni, si è allargata comprando case palestinesi e utilizzando controverse leggi israeliane che consentono allo Stato di impossessarsi di proprietà palestinesi. A Silwan circa 450 coloni vivono ora vicino a circa 10.000 palestinesi.

BBC News in arabo ha scoperto le donazioni di Abramovich cercando tra migliaia di documenti filtrati che dettagliano 2 trilioni di dollari di potenziali operazioni corruttive riciclate attraverso il sistema finanziario USA.

Più di 2.000 rapporti su attività sospette (SAR) archiviati presso la Financial Crimes Enforcement Network [Rete di Controllo dei Reati Finanziari] (FinCEN) del governo USA sono stati fatti filtrare a Buzzfeed News, che li ha condivisi con il Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi, di cui la BBC fa parte.

Banche e altre istituzioni finanziarie inviano SAR quando pensano che un cliente stia usando i loro servizi per attività potenzialmente delittuose. Mentre una SAR di per sé non obbliga una banca a smettere di operare con il cliente in questione, esse segnalano azioni discutibili nascoste nel mondo finanziario.

La fuga di notizie, denominate i Documenti FinCEN, ha già scosso il settore finanziario, con accuse riguardanti la libera circolazione di denaro sporco in tutto il mondo. Lunedì le azioni del settore bancario sono crollate. In una SAR sono state anche individuate altre figure di alto profilo, come l’ex-consigliere politico di Trump, Paul Manafort.

Il servizio della BBC non dice se le imprese di Abramovich o le donazioni siano incluse in una SAR, né accusa Abramovich o le aziende di aver violato la legge di un Paese. Abramovich è stato oggetto di una SAR nel 2016 riguardo a società fantasma riguardanti i suoi affari nel calcio.

Nel reportage, mandato in onda nel suo programma di punta Panorama, BBC News Arabic cita Elad, che ha dichiarato di attenersi a tutte le norme relative alle organizzazioni no profit israeliane, ma non ha confermato se Abramovich sia stato un donatore.

Il canale di notizie ha citato un portavoce di Abramovich, che ha affermato: “(Egli) è un convinto e generoso sostenitore di Israele e della società civile ebraica e nel corso degli ultimi 20 anni ha donato oltre cinquecento milioni di dollari per sostenere il servizio sanitario, la scienza, l’educazione e le comunità ebraiche in Israele e in tutto il mondo.”

In base alle leggi internazionali le attività di insediamento su terre occupate sono considerate illegali. Israele sostiene che tutta Gerusalemme è un territorio sotto la sua sovranità, benché questa affermazione sia ampiamente rifiutata.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Donald Trump ha incoraggiato il governo israeliano e il potente movimento dei coloni. L’ambasciatore USA in Israele ed esplicito sostenitore delle colonie, David Friedman, ha partecipato ad un’inaugurazione presso la Città di Davide.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’accordo ‘di pace’ di Trump calpesta palesemente i diritti e le libertà dei palestinesi

Yara Hawari

30 gennaio 2020 The Guardian

Questo piano è semplicemente una continuazione della politica USA-Israele. I palestinesi lo hanno già sentito e non lo accetteranno

Martedì alla Casa Bianca Donald Trump ha rivelato il suo “accordo del secolo”: un piano per la totale capitolazione palestinese. Esso invita i palestinesi a riconoscere Israele come Stato ebraico con l’intera Gerusalemme come capitale, a rinunciare al diritto al ritorno che consentirebbe ai rifugiati palestinesi di vivere in Israele, ad accettare l’annessione della Valle del Giordano e le relative colonie illegali israeliane e a vivere in una serie di bantustan collegati da strade e tunnel che sarebbero tutti sostanzialmente controllati da Israele.

Nulla di tutto ciò dovrebbe sorprendere. Non solo il piano è una continuazione della politica dell’amministrazione Trump verso Israele e Palestina fin dal giorno in cui egli è entrato in carica, ma giunge dopo decenni di disprezzo per le aspirazioni palestinesi di libertà e sovranità.

Quando nel 1993 furono firmati gli Accordi di Oslo, vennero acclamati come la base per una pace negoziata tra Israele e Palestina – una posizione che la maggior parte degli attori e delle istituzioni internazionali hanno continuato a mantenere nei decenni successivi. All’epoca tuttavia lo studioso palestinese Edward Said definì il tanto celebrato accordo “una Versailles palestinese”, uno spettacolo umiliante che minava la lotta di liberazione e ogni speranza di una futura sovranità palestinese. Purtroppo aveva ragione. La divisione della Cisgiordania in aree A, B e C in base agli accordi ha consentito a Israele di dominare le ultime due mentre la prima è diventata una sacca di limitata autonomia palestinese. In altre parole, ha facilitato la completa bantustanizzazione della Cisgiordania e l’isolamento di Gaza.

Nel frattempo gli accordi non sono riusciti ad affrontare correttamente le questioni fondamentali di Gerusalemme, dei rifugiati, delle colonie, dei confini e della sicurezza; esse sono state invece considerate “questioni inerenti allo status finale”, da risolvere come parte di qualche futuro accordo di pace. Inavvedutamente allora l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), guidata da Yasser Arafat, ha permesso che esse diventassero questioni in discussione, piuttosto che centrali per la lotta palestinese e chiaramente definite dalle leggi internazionali. Questo è risultato chiaro ieri alla Casa Bianca quando, accanto a Trump, Benjamin Netanyahu ha detto che parlare dell’occupazione come “illegale” è oltraggioso.

Non c’erano palestinesi alla Casa Bianca; certamente Jared Kushner, genero di Trump e architetto di questo piano, difficilmente si è dato la pena di parlare ai palestinesi. E nel piano di Trump non vi è menzione dei diritti dei palestinesi. Invece vengono loro promessi incentivi economici, per la precisione 50 miliardi di dollari di investimenti nei prossimi 10 anni, in cambio dei loro diritti sanciti a livello internazionale – un’altra fin troppo conosciuta componente dei precedenti piani di “pace”. Come se dare denaro ai palestinesi potesse far loro dimenticare i diritti a Gerusalemme, al ritorno ai propri villaggi e città di origine o alla possibilità di vivere come esseri umani uguali e con pieni diritti.

È chiaro quindi che il piano di Trump non solo è un attacco ai diritti e alla libertà dei palestinesi, ma anche un tentativo di promuovere un nuovo ordine mondiale che compromette del tutto il diritto internazionale. Qualunque cosa possa dire la Casa Bianca, non si è mai aspettata che la leadership palestinese avrebbe accettato questo piano né avrebbe nemmeno preso in considerazione qualche suo articolo e condizione. E ciò significa che può continuare ad investire sulla pluridecennale narrazione totalmente razzista secondo cui il popolo palestinese rifiuta e non intende negoziare. Questo è stato evidente nei commenti di Kushner: se i palestinesi non accettano questo accordo, ha sostenuto, “stanno gettando via un’altra opportunità come hanno fatto con tutte le altre che hanno avuto nella loro esistenza”.

Per quanto il piano di Trump possa essere scoraggiante, esso suggerisce una possibile opportunità. Stabilisce che, mentre hanno luogo i negoziati, l’OLP non partecipi ad alcuna iniziativa contro Israele presso la Corte Penale Internazionale – con riferimento alla recente inchiesta su crimini di guerra avviata dalla capo procuratrice della Corte. Questo rivela che Israele è veramente spaventato da una simile mossa, se qualche soggetto internazionale fosse così coraggioso da tentarla.

Comunque nulla di tutto ciò modifica la realtà sul campo: c’è effettivamente un’unica entità che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, dove due popoli vivono vite ampiamente ineguali e separate. Israele e gli USA stanno lavorando sodo per consolidare e portare a termine questa situazione – e, con l’aiuto di una comunità internazionale paralizzata e codarda, ci riusciranno. Ma l’altra faccia della realtà è che i palestinesi non andranno da nessuna parte. Continueranno a vivere a milioni a Haifa, Giaffa, Gerusalemme, Ramallah, Hebron e altrove. Dovranno cambiare drasticamente la loro situazione attuale, mobilitandosi e chiedendo di più alla loro dirigenza e immaginando un futuro radicalmente diverso anche quando questo sembra impossibile.

Yara Hawari è un’autorevole collaboratrice su questioni politiche di Al Shabaka, la rete di politica palestinese.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Ho stilato la definizione di antisemitismo. Gli ebrei di destra la stanno usando come un’arma

Kenneth Stern

venerdì 13 dicembre 2019 – The Guardian

La “bozza di definizione di antisemitismo” non è mai stata pensata per silenziare la libertà di parola, ma è ciò che ha ottenuto questa settimana il decreto di Trump

Quindici anni fa, in quanto esperto di antisemitismo della Commissione Ebraica Americana, sono stato il principale estensore di quella che allora venne denominata la “definizione provvisoria di antisemitismo” [La definizione è stata promossa dall’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, Alleanza per il Ricordo dell’Olocausto] cui aderiscono 31 governi, ndtr.]. Essa venne ideata principalmente perché gli osservatori enti di monitoraggio o europei potessero sapere cosa includere e cosa escludere. In questo modo l’antisemitismo avrebbe potuto essere monitorato in modo migliore nel tempo e tra diversi Paesi.

Non è mai stata pensata come un modo per definire i discorsi d’odio nei campus, ma questo è ciò che ha ottenuto questa settimana il decreto di Donald Trump [L’11 dicembre 2019 Trump ha firmato un decreto che estende l’applicazione del titolo VI della legge sui diritti civili ai casi di antisemitismo., ndtr.].

Questo decreto è un attacco contro la libertà accademica e la libertà di parola e danneggerà non solo i sostenitori dei palestinesi, ma anche gli studenti e i docenti ebrei, e lo stesso mondo academico.

Il problema non è che il decreto protegge gli studenti ebrei in base al titolo VI della legge sui diritti civili [Il titolo VI previene la discriminazione nelle agenzie governative che ricevono fondi federali. Se un’agenzia viola il titolo VI, può perdere i finanziamenti federali, ndtr.]. Il ministero dell’Educazione ha chiarito nel 2010 che in base a queste disposizioni ebrei, sikh e musulmani (in quanto etnie) possono protestare contro intimidazioni, soprusi e discriminazioni. Ho appoggiato questo chiarimento ed ho in seguito presentato una denuncia, che ha dato esito positivo, per studenti ebrei di scuola superiore quando sono stati minacciati e persino percossi (era una giornata “picchia un ebreo”).

Ma a partire dal 2010 gruppi ebraici di destra hanno adottato la “definizione provvisoria”, che presenta alcuni esempi riguardanti Israele (come considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni di Israele e negare il diritto degli ebrei all’autodeterminazione), e hanno deciso di utilizzarla come arma in casi relativi al titolo VI. Mentre alcune denunce riguardavano azioni, per lo più hanno preso di mira chi ha fatto discorsi, testi di programmi di studio e proteste che secondo loro violerebbero la definizione. Avendo perso in tutte queste cause, a quel punto questi stessi gruppi hanno poi chiesto all’università della California di adottare la definizione e di renderla operativa nei suoi campus. Quando ciò è fallito, si sono rivolti al Congresso e, quando questi tentativi si sono arenati, al presidente.

Come hanno chiarito i sostenitori del decreto, ad esempio la Zionist Organization of America [Organizzazione Sionista d’America, ZOA, ndtr.], essi vedono la messa in pratica della definizione come “relativa a molte offese…frequentemente guidate da… Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina], compresi…richiami all’‘Intifada’ [e] la demonizzazione di Israele.” Per quanto io sia in disaccordo con SJP, essi hanno il diritto di fare “appelli”. Questo si chiama libertà di parola.

Se si pensa che ciò non riguardi la repressione del discorso politico, si consideri un parallelo. Non c’è nessuna definizione del razzismo contro i neri che abbia forza di legge quando si prende in considerazione un caso relativo al titolo VI. Se se ne dovesse elaborare una, vi si includerebbe l’opposizione all’ affirmative action [discriminazioni positive, vasta gamma di politiche relative a favorire la presenza di minoranze discriminate in contesti in cui sono sottorappresentate, come ad esempio tra gli studenti universitari, assegnando quote alle persone svantaggiate per questa ragione, ndtr.].? L’opposizione alla rimozione di statue di confederati [in un contesto in cui sono tornati in evidenza i problemi razziali negli USA, sono state avviate campagne per eliminare i simboli che rappresentano la memoria dei confederali che, durante la Guerra Civile, difendevano la conservazione della schiavitù degli afroamericani negli Stati del sud, ndtr.]?

Jared Kushner, il genero e consigliere speciale del presidente, ha scritto sul New York Times che la definizione “stabilisce chiaramente [che] l’antisionismo è antisemitismo.” Sono un sionista. Ma nel campus di un college, in cui l’obiettivo è mettere a confronto le idee, gli antisionisti hanno il diritto di esprimersi liberamente. Sospetto che, se Kushner o io fossimo nati in una famiglia palestinese espulsa nel 1948, avremmo una visione diversa del sionismo e non necessariamente perché denigriamo gli ebrei o pensiamo che cospirino per danneggiare l’umanità. Inoltre c’è un dibattito all’interno della comunità ebraica sul fatto se essere ebreo comporti l’essere sionista. Non so se questa domanda possa essere risolta, ma tutti gli ebrei dovrebbero essere spaventati che il governo stia sostanzialmente definendo la risposta per noi.

Il vero obiettivo del decreto non è far pendere la bilancia a favore di qualche causa basata sul titolo VI, ma piuttosto avere un effetto dissuasivo. ZOA e altri gruppi andranno a caccia di discorsi politici con cui sono in disaccordo e minacceranno di sollevare azioni legali. Temo che ora gli amministratori delle università avranno una forte motivazione a reprimere, o almeno a condannare, discorsi politici per timore di contenziosi. Temo che docenti che potrebbero altrettanto facilmente insegnare la vita degli ebrei nella Polonia del XIX° secolo o l’Israele contemporaneo probabilmente sceglieranno il primo argomento in quanto più sicuro. Temo che gli studenti e i gruppi ebrei filo-israeliani, che giustamente si lamentano quando qualche conferenziere filo-israeliano viene interrotto, verranno accusati di utilizzare strumenti statali per reprimere gli oppositori politici.

L’antisemitismo è un problema reale, ma troppo spesso persone sia di destra che di sinistra chiudono un occhio se una persona ha la “giusta” opinione su Israele. Storicamente l’antisemitismo prospera quando i leader alimentano la facoltà dell’uomo di definire un “noi” e un “loro” e quando l’integrità delle istituzioni e le regole democratiche (quali la libertà di parola) sono sotto attacco.

Invece di propugnare la dissuasione di espressioni che gli ebrei filoisraeliani considerano fastidiose o criticare in modo molto moderato (o non criticare affatto) un presidente che utilizza ripetutamente luoghi comuni antisemiti, perché questi rappresentanti ufficiali delle organizzazioni ebraiche che erano presenti quando Trump ha firmato il decreto non gli hanno ricordato che lo scorso anno, quando ha demonizzato gli immigrati definendoli “invasori”, Robert Bowers è entrato in una sinagoga di Pittsburgh perché credeva che gli ebrei stessero dietro questa “invasione” di gente di colore come parte di un piano per danneggiare i bianchi, ed ha ucciso 11 di noi?

Kenneth Stern è il direttore del Bard Center for the Study of Hate [Centro Bard per lo Studio dell’Odio] ed è l’autore di The Conflict Over the Conflict: The Israel/Palestine Campus Debate [Il conflitto sul conflitto: il dibattito su Israele/Palestina nei campus], di imminente pubblicazione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Recensione di Stone Men – the Palestinians who built Israel [Uomini di pietra: i palestinesi che hanno costruito Israele] di Andrew Ross (Verso, 2019)

Ben Ehrenreich

mercoledì 1 maggio 2019 – The Guardian

Un segreto di cui nessuno vuole parlare: come le colonie in Cisgiordania vengono costruite da palestinesi espulsi dalla loro terra.

Non lontano dall’orrendo posto di controllo di Qalandia – la principale porta d’entrata attraverso la quale l’esercito israeliano controlla il passaggio di esseri umani tra Ramallah e Gerusalemme – c’è un piccolo laboratorio all’aperto di tagliatori di pietre, uno delle centinaia sparsi in tutta la Cisgiordania. Qualunque cosa accada al checkpoint, in genere si può vedere almeno un lavoratore nel cortile dove vengono tagliate le pietre, con il volto, i capelli e i vestiti incrostati della stessa polvere bianca che copre l’alto muro di cemento e la torre di guardia, dove si mescola con il fumo e il carbone neri dei pneumatici bruciati e delle bottiglie molotov che i giovani del posto, in giornate particolarmente brutte, lanciano contro il posto di controllo e le barriere che li rinchiudono.

Quando chi va a visitare la regione scrive di pietre, tende a concentrarsi su quelle che i giovani palestinesi lanciano contro soldati armati e blindati. E sui molto più letali proiettili che i soldati gli sparano contro. È facile perdersi in quel parapiglia. Andrew Ross non è né distratto né affascinato da tali scene emblematiche. È più interessato al tagliatore di pietre che in genere rimane fuori dall’inquadratura. Attraverso lui ed altri come lui, Ross esamina le strutture non visibili dell’espropriazione e dello sfruttamento che stanno alla base dell’occupazione altrettanto concretamente quanto tutti quei muri e fucili.

Stone Men” può essere asciutto, persino aspro, ma fornisce in modo coerente la comprensione dei rapporti travagliati e inquietanti tra israeliani e palestinesi che è difficile trovare altrove. Questa è soprattutto una storia di lavoro. La Palestina si trova su riserve di pietra calcarea di alta qualità valutate 20 miliardi di dollari [18 miliardi di euro], e in Cisgiordania l’attività economica per estrarla, tagliarla e lavorarla fornisce più lavoro nel settore privato di qualunque altra industria. Dato che sia i palestinesi che gli israeliani attribuiscono un’importanza mitica alla terra, concentrarsi sulla pietra che da essa viene estratta – e sulle relazioni di potere in gioco quando viene trasformata in case da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania, ndtr.] – consente a Ross di demistificare il conflitto mettendo al contempo in evidenza le basi profondamente inique su cui è stato costruito Israele. Il fatto che la maggior parte di quel Paese, le colonie in Cisgiordania e persino la stessa barriera di sicurezza [il Muro di Separazione, ndtr.] è stato costruito da palestinesi, e con materiali estratti dalla stessa ossatura della terra che hanno perduto è un segreto di cui nessuno vuole parlare.

Ross inizia dai primi anni del Mandato britannico, con la spinta sionista – attraverso il boicottaggio, i soprusi e la violenza – per creare un’economia autosufficiente libera dal “lavoro arabo”. Questa strategia avrebbe modellato persino l’architettura. Le cave erano di proprietà di palestinesi, e gli immigrati ebrei appena arrivati dall’Europa non erano esperti nella lavorazione della pietra locale. La maggior parte di Tel Aviv venne costruita in cemento e blocchi di silicato, che permisero ai costruttori ebrei di evitare di dipendere dai lavoratori palestinesi. Questi materiali avrebbero anche consentito loro di costruire una città modernista nuova di zecca, diversa – e segregata – dalla sua antica vicina, la palestinese Jaffa, che era stata costruita con pietra erosa. Nel 1948 Jaffa sarebbe stata svuotata del 97% della sua popolazione araba. Interi quartieri vennero in seguito distrutti con i bolldozer.

Il famoso centro di Tel Aviv in stile Bauhaus sarebbe in seguito stato chiamato la “Città Bianca” – il nome si riferiva al colore dei mattoni di silicato e del cemento stuccato con cui era stata costruita. Nei decenni seguenti la fondazione di Israele il lavoro arabo avrebbe cessato di essere visto come una minaccia per l’autonomia ebraica. Molte migliaia di case dovevano essere costruite sul territorio appena conquistato. I suoi precedenti abitanti sarebbero stati impiegati, con salari a buon mercato, per costruire il nuovo Stato. Ingabbiati da restrizioni negli spostamenti ed esclusi dalla maggior parte delle altre occupazioni, avevano poche alternative:

I palestinesi in Israele vennero sottoposti alla legge marziale fino al 1966. Condizioni simili avrebbero creato una classe di lavoratori da sfruttare nelle terre occupate prima della guerra del 1967. Da allora il calcare – denominato “pietra di Gerusalemme”, benché la maggior parte di essa venga estratta dalle colline della Cisgiordania – sarebbe diventato il materiale predominante utilizzato per costruire le comunità israeliane, con una funzione sia ideologica che pratica, trasmettendo un’immagine di omogeneità e di antichi legami con la terra.”

Ross non risparmia l’élite palestinese. Include un capitolo tra i più completi e approfonditi che abbia letto sull’area residenziale di Rawabi, nella zona di Ramallah. Messa in vendita per i ricchi professionisti palestinesi, Rawabi è stata costruita in collaborazione con impresari israeliani su terreni confiscati a contadini del posto dall’Autorità Nazionale Palestinese. Il discorso di Ross gli consente di tracciare la rete di complicità che ha consentito a un piccolo gruppo di ricchi palestinesi di approfittare della spoliazione dei loro compatrioti.

Le parti più tristi di “Stone Men” – e quelle in cui avrei voluto che si fosse soffermato di più e avesse consentito ai suoi interlocutori di apparire con maggiori sfumature e dettagli – si basa sulle sue interviste a lavoratori palestinesi. Uno di loro costruisce case in una colonia edificata su terreni sottratti al villaggio in cui vive. È stato in grado di sopportare le provocazioni razziste dei coloni, dice a Ross, ma quando un colono ha cercato di assumerlo per costruire una casa su un terreno di proprietà della sua stessa famiglia per lui è stato troppo. “Non l’ho potuto fare,” dice. Un’altra delle fonti di Ross, che egli identifica solo come Samir, aveva lavorato per anni in cantieri in Israele, risparmiando per costruirsi una casa, solo per vederla demolire dai soldati israeliani che hanno spianato la strada per il percorso della barriera di sicurezza. In seguito, incapace di trovare un altro impiego, ha accettato un lavoro per la costruzione della barriera. Amici d’infanzia gli hanno tirato pietre mentre stava lavorando.

Storie come questa e gli altri racconti di umiliazione e resistenza che Ross narra valgono più di intere biblioteche di discussioni astratte. Eppure, egli propone ripetutamente la tesi secondo cui, in ogni futuro accordo per uno “status finale”, il lavoro che i palestinesi hanno fatto per costruire Israele debba essere preso in considerazione, “in quanto i palestinesi si sono meritati diritti civili e politici attraverso il loro lavoro complessivo.” È un’argomentazione infelice, che segue una logica che Ross riconosce essere stata utilizzata frequentemente da “colonialisti d’insediamento…per giustificare l’espropriazione di terre dei popoli indigeni,” secondo cui il diritto sulla terra si conquista solo con il suo “miglioramento”. Condizionato dalla negazione della validità di ogni presenza palestinese nella regione prima del sionismo, ciò ripete la cancellazione storica che Ross, in tutti tranne che in pochi punti del suo libro, documenta con notevole competenza ed impegno.

– The Way to the Spring: Life and Death in Palestine [La via verso la sorgente: vita e morte in Palestina] di Ben Ehrenreich è pubblicato da Granta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Candidata laburista si ritira dopo aver paragonato Israele a un “adulto maltrattatore”

Rowena Mason

7 novembre 2019 The Guardian

Kate Ramsden prima ha messo in rapporto lo Stato di Israele con un “bambino maltrattato” e potrebbe dover affrontare una sanzione disciplinare del partito

Una candidata laburista ha rinunciato [a partecipare alle elezioni] dopo essere stata messa sotto accusa per un blog in cui ha paragonato Israele a “un bambino maltrattato che diventa un adulto maltrattatore.”

Kate Ramsden, candidata a Gordon, nell’ Aberdeenshire [in Scozia, ndtr.], si è ritirata per “ragioni personali” dopo che il partito Laburista le ha chiesto di essere di nuovo sottoposta a selezione ed ha affermato che potrebbe dover affrontare un procedimento disciplinare.

Nel blog, riportato dal Jewish Chronicle [storico settimanale degli ebrei britannici schierato con Israele e sostenitore della campagna contro il presunto antisemitismo nel partito Laburista, ndtr.], lei ha detto: “Per me, lo Stato israeliano è come un bambino maltrattato che diventa un adulto maltrattatore.” L’articolo afferma che ha aggiunto: “Come i maltrattamenti contro i bambini, deve smetterla…Come interveniamo sui maltrattamenti contro i bambini, la comunità internazionale deve intervenire su Israele.”

Il partito Laburista ha detto di aver scoperto il blog e quindi di averle chiesto di essere di nuovo sottoposta a selezione, ma i dettagli sono comparsi sul “Jewish Chronicle” prima che lei venisse riesaminata. Ramsden allora ha dichiarato di rinunciare a candidarsi di sua spontanea volontà.

Una fonte laburista ha affermato: “Abbiamo immediatamente preso un’iniziativa perché la candidatura di Kate Ramsden venisse riconsiderata alla luce del materiale che abbiamo trovato. Personale della sede centrale del partito Laburista ha scoperto questi post quando stava facendo controlli supplementari relativi a comportamenti corretti.

Il personale ha immediatamente allertato il partito Laburista scozzese, che ha informato il comitato esecutivo scozzese, il quale ha deciso di rivalutare la candidatura di Kate Ramsden riguardo ai nuovi post che erano stati trovati. Kate Ramsden ha rinunciato alla candidatura e quindi non è una candidata del partito Laburista alle elezioni. Il partito ha preso un’iniziativa rapida e decisa sull’argomento.”

Un’altra candidata laburista, Zarah Sultana, è stata oggetto di una polemica dopo che ha accusato la destra del partito di “utilizzare come arma” contro la dirigenza accuse di antisemitismo. La candidata per Coventry Sud in precedenza era stata obbligata a chiedere scusa per aver detto che avrebbe festeggiato la morte di Tony Blair e di Benjamin Netanyahu.

Una terza candidata, Jane Aitchison, che si presenta a Pudsey, Yorkshire ovest, è stata criticata dai conservatori per la sua reazione alle affermazioni di Sultana. Intervistata da Emma Barnett della rete radiofonica 5 Live della BBC, Aitchison ha detto di ritenere che “a volte si dicono cose con molta passione e che sono sbagliate.”

Ma ha aggiunto: “A volte si festeggia la morte di qualcuno…Per esempio quella di Hitler.”

Andrew Percy, vice presidente del gruppo parlamentare interpartitico contro l’antisemitismo, ha affermato: “Paragonare il leader israeliano con Adolf Hitler, un uomo responsabile della morte di 6 milioni di ebrei, non è solo profondamente sconvolgente per la comunità ebraica, ma anche folle.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)