La Sinistra israeliana oggi

Jon Wiener

14 dicembre 2023 – The Nation

Alcune domande a David Myers sul movimento per la pace in Israele

David Myers è professore emerito e Kahn Professor di storia ebraica presso l’UCLA (University of California – Los Angeles), dove ricopre il ruolo di direttore del Luskin Center for History and Policy e dell’Initiative to Study Hate [Centro Luskin per la Storia e la Politica e dell’Iniziativa per lo Studio dell’Odio]. Ha scritto per la pagina degli opinionisti del Los Angeles Times, The Forward e The Atlantic. Questa intervista è stata sintetizzata e rivista.

Jon Wiener: Il governo Netanyahu non ha alcun piano per ciò che accadrà dopo la guerra a Gaza. Sappiamo che abbiamo bisogno di una vera soluzione politica a quella che Edward Said chiamava “la questione palestinese”.

David Myers: I paradigmi esistenti sembrano essere due Stati o un unico Stato, entrambi ampiamente screditati. Questo è un momento in cui dobbiamo spingere verso una maggiore immaginazione politica nel pensare a ciò che esiste tra due e uno.

JW: Quali gruppi in Israele ora guidano questo tipo di pensiero? Storicamente, Peace Now è stato il grande gruppo in Israele – e negli Stati Uniti – che ha sostenuto uno Stato palestinese. Raccontaci del panorama della sinistra in questo momento.

DM: Nellattuale contesto, ci sono un paio di categorie di gruppi che stanno svolgendo un lavoro essenziale. La prima categoria sono i gruppi che riuniscono arabi ed ebrei, a cominciare dal movimento che opera un grande lavoro organizzativo: Standing Together [Stare Insieme]. È un gruppo di palestinesi israeliani ed ebrei israeliani impegnato nell’organizzazione di base in nome degli ideali di giustizia e uguaglianza per tutti. Si è dimostrato estremamente efficace, in questo senso, nella lotta contro la violenza contro le donne e nel chiedere la cessazione delle ostilità tra ebrei e arabi nelle città miste israeliane nel maggio 2021. Anche nell’’attuale contesto di enorme tensione, Standing Together ha avuto successo: è stato in prima linea per cercare di tenere insieme le diverse comunità di Israele.

JW: E oltre a Standing Together?

DM: Poi c’è il Parents Circle [Circolo dei Genitori], che riunisce i parenti delle vittime di violenza, sia palestinesi che ebrei. E Combatants for Peace [Combattenti per la Pace]: riuniscono ex combattenti delle due parti che riconoscono l’’inutilità di continuare l’’attuale schema di ciclica violenza. Le storie raccontate da questi ex combattenti sono straordinariamente avvincenti. Loro, insieme a Parents Circle, costituiscono il mondo che è stato ricreato in modo così brillante dall’autore irlandese-americano Colum McCann nel suo libro Apeirogon, [la storia vera dell’inaspettata amicizia fra due padri, un palestinese e un israeliano, che hanno rispettivamente perso le loro figlie a causa della violenza e che trasformano il loro dolore in attivismo per la pace, tradotto in italiano da Feltrinelli, ndt] che consiglio a tutti.

JW: E chi sta svolgendo un lavoro significativo su questioni a lungo termine?

DM: Mitvim è un think tank che immagina una politica estera diversa per Israele, una politica che non ignora o trascura il problema palestinese ma lo pone al centro della sua visione. E un altro gruppo davvero importante che penso sia diventato ancora più significativo negli ultimi mesi si chiama A Land for All [Una Terra per Tutti]. È un gruppo che si impegna esattamente nel tipo di immaginazione politica di cui abbiamo bisogno che propone una confederazione. È un’organizzazione che crede nel principio dei due Stati con alcune modifiche, come una frontiera aperta che consenta ai cittadini israeliani, in maggioranza ebrei, di vivere in uno Stato palestinese e ai cittadini palestinesi di uno Stato palestinese di vivere nello Stato di Israele. Ci sono molte questioni e dettagli ancora da capire, ma questo è il tipo di immaginazione e di nuovo modo di pensare di cui penso abbiamo bisogno, nella misura in cui fa crollare l’apparente dicotomia tra un ideale di separazione assoluta, che molti desiderano e tuttavia è impossibile e non è particolarmente favorevole alla crescita economica, e il principio dell’’integrazione sotto forma di un unico Stato di tutti i cittadini, che dopo il 7 ottobre sembra essere destinato al fallimento per la maggior parte degli israeliani. La bellezza di A Land for All è che in un certo senso fa crollare la distinzione tra separazione e integrazione in un formato noto, due Stati , ma la modifica in modo significativo.

Sia che sosteniamo questa particolare idea o qualche sua modifica, dobbiamo evitare quella che sarà la campana a morto per il futuro, ovvero la stasi, nessun cambiamento all’orizzonte.

JW: Sei stato un leader del New Israel Fund. Dove si inseriscono i suoi sostenitori in questa costellazione?

DM: Il New Israel Fund [Nuovo Fondo Israele] ha sostenuto finanziariamente quasi tutte le ONG sul lato progressista del panorama della società civile israeliana, ed è un sostenitore di molte delle organizzazioni di cui abbiamo parlato qui. Il NIF c’è stato, c’’è e continuerà ad esserci.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I giornalisti occidentali hanno le mani sporche del sangue palestinese

Mohammed El-Kurd

20 ottobre 2023 – The Nation

La continua de-umanizzazione dei palestinesi da parte dei principali mezzi di comunicazione sta favorendo i crimini di guerra israeliani.

Il 9 ottobre l’ambasciatore dell’Autorità Palestinese in Gran Bretagna Husam Zomlot ha concesso un’intervista alla conduttrice della BBC Kirsty Wark. “Sono stati semplicemente bombardati. Il loro edificio è stato totalmente demolito,” le ha detto. Poche ore prima dell’intervista sei dei suoi familiari erano stati vittime dell’operazione militare israeliana che ha lanciato più bombe sulla stretta e densamente popolata Striscia di Gaza in meno di una settimana di quante ne abbiano sganciate gli Stati Uniti in un anno intero sull’Afghanistan. Che è 1.800 volte più grande di Gaza.

“Mia cugina Ayah, i suoi due figli, suo marito, sua suocera e altri due parenti sono stati uccisi sul colpo mentre altri due figli più giovani, gemelli di 2 anni, ora sono in terapia intensiva,” le ha raccontato Zomlot. I membri della sua famiglia sono tra le migliaia di persone uccise dall’attacco contro la più grande prigione all’aperto del mondo, dove due milioni di persone sono sotto assedio. Wark ha risposto: “Mi spiace per il suo lutto personale. Ma intendo, per essere chiara, che lei non possa giustificare l’uccisione di civili in Israele, vero?”

La risposta di Wark alla terribile perdita di Zomlot non è semplicemente insensibile. Rivela uno sconcertante fenomeno nei principali mezzi di comunicazione: la norma del settore è la de-umanizzazione dei palestinesi. La nostra sofferenza è insignificante, la nostra rabbia è infondata. La nostra morte è così quotidiana che i giornalisti la riportano come se parlassero del tempo che fa: cielo nuvoloso, lievi piogge e 3.000 palestinesi morti negli ultimi 10 giorni. E proprio come per il meteo, solo dio è responsabile, non coloni armati, non attacchi mirati con i droni.

Io e pochi altri palestinesi siamo passati da canali TV a stazioni radio per parlare delle atrocità che avvengono a Gaza, la maggior parte delle quali sono assenti dalle prime pagine, ed abbiamo incontrato la stessa ostilità. I responsabili dei programmi ci invitano, a quanto pare, non per intervistarci sulla nostra esperienza o analisi o sul contesto che possiamo fornire, ma per interrogarci. Testano le nostre risposte contro i preconcetti insiti nello spettatore, preconcetti ben alimentati attraverso anni di islamofobia e discorsi antipalestinesi. Le bombe che piovono sulla Striscia di Gaza assediata diventano secondarie, se non del tutto irrilevanti, per i processi che ci fanno in televisione.

Non mi aspetto la messa in onda di frasi di circostanza, ma voglio un racconto accurato. La scorsa settimana sulla rete radiofonica britannica LBC la conduttrice Rachel Johnson (sorella dell’ex-primo ministro) si è presa una pausa dall’interrompermi ripetutamente per interrogarmi, di fatto accusarmi, riguardo a informazioni non verificate e per sentito dire secondo cui combattenti palestinesi avrebbero “decapitato e stuprato” israeliani. Non ha citato i vari video di israeliani che mutilano, calpestano e urinano su cadaveri palestinesi, molti già disponibili per gli 83.000 abbonati a un canale Telegram israeliano denominato “I terroristi stanno morendo”.

Quelle affermazioni senza fondamento erano, e sono ancora, ovunque in rete. The Indipendent (edizione britannica) ha piazzato in prima pagina il reportage “impossibile da verificare” della sua corrispondente internazionale Bel Trew su “donne e bambini decapitati”. L’editorialista del Los Angeles Times Jonah Goldberg ha riportato, e poi cancellato, di “stupri”. Sulla CNN Sara Sidner, con le lacrime agli occhi, ha confermato dal vivo, sulla base di fonti ufficiali israeliane, che “bambini e neonati sono stati trovati con la testa tagliata,” poi si è scusata su Twitter (ora X) di essere stata indotta in errore dopo un comunicato, di nuovo di fonti ufficiali israeliane, che ammetteva che non c’erano informazioni che confermassero l’affermazione secondo cui “Hamas aveva decapitato bambini”.

Questo è un copione già noto. Un’affermazione viene fatta circolare senza prove; giornalisti occidentali la diffondono a macchia d’olio; diplomatici e politici la ripetono; si costruisce una narrazione; l’opinione pubblica ci crede e il danno è fatto.

Potrebbe sembrare irrilevante porre un tale peso sul modo in cui si uccide, dato che si è ucciso, ma tale linguaggio non è senza conseguenze. Lunedì un proprietario di casa dell’Illinois ha aggredito i suoi affittuari palestinesi-americani ferendo gravemente una donna e uccidendo suo figlio di 6 anni. “Voi musulmani dovete morire,” ha gridato mentre li accoltellava per decine di volte ognuno. Joe Biden ha detto di essere rimasto “scioccato e disgustato” dall’attacco, come se potesse dissociarsi dall’affermazione che aveva fatto qualche giorno prima secondo cui aveva visto “foto di terroristi che decapitavano bambini” (una dichiarazione che ha tranquillamente ritrattato qualche ora dopo).

Evocare stupri e decapitazioni alimenta luoghi comuni islamofobi. Nel contempo contribuisce alla strategia propagandistica del regime israeliano, che ha cercato di equiparare Hamas e ISIS nell’immaginario pubblico, risvegliando la cultura che ha prodotto la “guerra al terrorismo”. Potrebbe essere la nebbia della guerra che fa sì che i giornalisti ripetano invenzioni (o, quanto meno, riportino come fatti affermazioni non verificate), o forse è un errore di giudizio che li ha portati a equiparare l’attacco di Hamas all’11 settembre senza prendere in considerazione le conseguenze di tali analogie. O, si potrebbe supporre, si tratta di un malcostume giornalistico. In ogni caso, abbandonando l’etica professionale, i giornalisti stanno assecondando la brutalità che incombe sul popolo palestinese di Gaza: un possibile genocidio.

Non si tratta di un’ardita teoria cospirativa. Il 13 ottobre il Centro per i Diritti Costituzionali ha affermato che il regime israeliano, agendo per “distruggere del tutto o in parte un’organizzazione, anche uccidendo o creando condizioni di vita per determinare la sua distruzione” sta commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza. Il giorno dopo l’Istituto Lemkin per la Prevenzione del Genocidio ha mandato un messaggio di allarme avvertendo che “senza immediati tentativi di pacificazione la comunità internazionale assisterà e sarà complice del genocidio di Gaza.” Raz Segal, professore di studi sull’Olocausto e il genocidio, lo ha definito un “caso da manuale di genocidio che avviene davanti ai vostri occhi”.

Se ciò suona assurdo è proprio perché i principali mezzi di comunicazione hanno evitato, o impedito, ai lettori e spettatori di conoscere le innumerevoli dichiarazioni fatte da politici israeliani che suggeriscono che è in corso un genocidio. Quando il New York Times ha informato sulle istruzioni del ministro della Difesa israeliano per stringere l’assedio contro Gaza bloccando acqua, elettricità e cibo nell’enclave, guarda caso l’articolo ha omesso la sua descrizione dei palestinesi come “animali umani”. Quando il presidente israeliano Isaac Herzog ha cercato di giustificare il violentissimo attacco contro Gaza con l’argomento genocidario che “un’intera nazione è responsabile,” il Financial Times inizialmente ha riportato la sua frase: “Non è vero questo discorso che i civili non erano informati, non hanno partecipato”. Ma il giornale ha rapidamente tolto dall’articolo quelle parole e il resto delle sue affermazioni rivelatrici.

Nel contempo un soldato israeliano ha “corretto” la presentatrice della CNN Abby D. Phillip dicendole che “la guerra non è solo contro Hamas” ma “contro tutti i civili,” tuttavia non ci sono stati titoli in prima pagina. Un famoso riservista israeliano che nel 1948 ha partecipato al massacro di Deir Yassin [la strage più nota di civili palestinesi della guerra del 1947-49, ndt.] ha detto alle truppe che i palestinesi sono “animali” le cui “famiglie, madri e figli” devono essere cancellati: “Se avete un vicino arabo, non aspettate, andate a casa sua e sparategli,” ha affermato – di nuovo, nessun titolo in prima pagina. E nella via più trafficata di Tel Aviv alcuni israeliani hanno appeso un cartello che afferma: “Genocidio a Gaza.” Nessuna notizia.

Ancora peggio delle dichiarazioni genocidarie sono le azioni genocidarie, anch’esse accolte con pochissima rilevanza: minaccia di bombardare l’invio di aiuti se dovessero tentare di entrare a Gaza; bombardamento reale di ambulanze; uccidere (e, secondo molti, prendere di mira) medici e giornalisti; bombardare ripetutamente il valico di Rafah; cancellare intere famiglie dall’anagrafe.

Si è informato poco sulle accuse secondo cui l’esercito israeliano ha usato bombe al fosforo bianco a Gaza e nel sud del Libano, nonostante il divieto internazionale contro il suo utilizzo in aree densamente popolate. E non ci sono stati titoli in prima pagina sulle amministrazioni comunali nella Cisgiordania occupata che hanno iniziato ad armare coloni israeliani (spesso già armati) con migliaia di fucili o sul fatto che il numero di palestinesi uccisi da coloni o soldati in Cisgiordania dal 7 ottobre ha superato di molto i 50. E chissà cos’altro sta per succedere.

Sinceramente dubito che l’americano medio sappia che l’esercito israeliano ha ordinato l’evacuazione di 22 ospedali palestinesi, o che ha colpito l’ospedale pediatrico Al Durrah a Gaza est con fosforo bianco, o che ha ordinato l’espulsione entro 24 ore di oltre 1 milione di palestinesi dalla parte settentrionale di Gaza, in violazione delle leggi umanitarie internazionali (l’ho inclusa solo perché i politici che fanno il tifo per questa aggressione amano citarla). Quando in migliaia hanno cercato di spostarsi da nord a sud, gli israeliani li hanno bombardati mentre scappavano. E quando MSNBC [canale statunitense di notizie via cavo, ndt.] ha informato di questo massacro, il canale ha messo in dubbio la loro innocenza chiamandoli “quelli che sembrano profughi”.

Nelle ultime settimane giornali come il Daily Telegraph hanno associato le immagini di edifici residenziali palestinesi distrutti dagli aerei da guerra israeliani a titoli che sembravano suggerire che si trattasse di costruzioni israeliane, mentre The Times (edizione britannica) ha pubblicato un’immagine di bambini palestinesi feriti con un titolo che suggeriva che fossero israeliani (solo uno sguardo attento alla didascalia scritta in piccolo rivela che si trattava di palestinesi).

E proprio oggi l’Associated Press ha pubblicato un articolo con varie frasi sorprendenti, che il sito di notizie poi ha tagliato, che descrivevano come i diplomatici americani “sono sempre più preoccupati” per i commenti genocidari fatti dalle loro “controparti” israeliane. Queste affermazioni riguardavano “la loro intenzione di negare acqua, cibo, medicine, elettricità e carburante a Gaza, così come l’inevitabilità di vittime civili,” e ha incluso osservazioni secondo cui “lo sradicamento di Hamas avrebbe richiesto metodi usati per sconfiggere le potenze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale.”

Informare su una “guerra” senza presentarne le radici ai lettori è impreciso. Ignorare il blocco israeliano della Striscia di Gaza durato 17 anni o pretendere che il regime israeliano non abbia il controllo dei suoi confini e risorse (come evidenziato dalla possibilità per Israele di bloccare acqua, cibo ed elettricità) è subdolo. Omettere decenni di violenza colonialista è disonesto. Riguardo al rifiuto di riconoscere che il 70% dei palestinesi di Gaza proviene dalle terre in cui ora si trovano molti insediamenti israeliani e da cui le milizie sioniste li cacciarono… non ho aggettivi per questa omissione.

Sfortunatamente quando si tratta di Palestina, sono consentite omissioni e falsificazioni. Regna la forma passiva. Sparisce l’impegno per la verità, così come per la corretta verifica. Un tempo credevo che il giornalismo fosse il settore del “non fare del male” e “dire la verità al potere”. Ma i reporter troppo spesso sembrano stenografi e impiegati statali, che amplificano inconsciamente (o intenzionalmente) la propaganda israeliana.

E le loro mani grondano sangue.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cosa vuol dire impadronirsi della Statua della Libertà

Centinaia di membri di Jewish Voice for Peace che chiedono un cessate il fuoco a Gaza hanno occupato il piedistallo della statua. Ecco come è successo.

Sophie Hurwitz

7 novembre 2023 – The Nation

Un traghetto pieno di turisti diretto alla Statua della Libertà si è fermato completamente alle 13:15 di lunedì. Le file di visitatori che speravano di entrare nella base della statua si sono bloccate. E’ stato detto loro che a Liberty Island si stava verificando un problema e che non avrebbero visitato la statua finché il problema non fosse stato risolto.

Sull’isola, a poche centinaia di metri di distanza, circa 400 manifestanti di Jewish Voice for Peace occupavano la base della statua. Hanno tenuto quello spazio per poco meno di un’ora e poi sono tornati indietro catturando l’attenzione di tutti sull’isola.

Jane Hirschmann, settantasette anni, era una delle manifestanti più anziane. Ha portato le sue due figlie adulte con lei ad appendere gli striscioni su Lady Liberty. La disobbedienza civile è diventata una sorta di nuova tradizione familiare, ha detto.

“Siamo stati arrestati nella rotonda [dell’edificio del Congresso] a Washington e nella Grand Central”, ha detto, riferendosi alle due azioni di disobbedienza civile di massa nelle ultime due settimane di ebrei che chiedevano la liberazione della Palestina. “A Grand Central avevo con me tutti i miei figli e tutti i miei nipoti. Eravamo un gruppo di 13. I nipoti se ne sono andati, non sono stati arrestati”. I suoi nipoti, alcuni di appena 1 anno, sono un po’ troppo piccoli.

La famiglia di Hirschmann non era certo l’unico gruppo intergenerazionale sull’isola. Intere famiglie si sono unite alla protesta perché, per molti, la loro storia familiare li obbligava a farlo. Hirschmann ha parlato di suo nonno, morto di infarto sulla barca diretta a Ellis Island mentre fuggiva dall’Olocausto. Ha visto la sua famiglia sparpagliata in giro per il mondo, costretta a lasciare le proprie case e, ha detto Hirschmann, “è morto di crepacuore”.

“Non ho mai avuto modo di incontrare quel nonno. Ma il suo ricordo è impresso nel mio cuore”, ha detto. Nello sfollamento di massa e nell’uccisione dei palestinesi, vede gli echi della storia di suo nonno. “Ha capito quando ha visto il fascismo che doveva proteggere la famiglia e fuggire. Ora stiamo andando verso il fascismo, in questo paese, e certamente in Israele. Questo genocidio deve finire”.

Portare centinaia di manifestanti in un pezzo di territorio federale fortemente sorvegliato non è un’impresa da poco. Le persone sono entrate in piccoli gruppi scaglionati in un periodo di diverse ore, giurando di mantenere il segreto assoluto su dove stavano andando. Alle 13:00 tutti e 400 erano riuniti sulla base di Lady Liberty e si sono tolte le giacche per mostrare le loro T-shirt con le scritte.

Alcuni manifestanti indossavano fasce con corona di Lady Liberty in schiuma verde, mentre altri interpretavano il ruolo di turisti in modo meno convincente. (Molti degli ebrei newyorkesi che partecipavano alla protesta hanno sottolineato di non essere stati alla Statua della Libertà da quando erano bambini in gita.)

Ogni giorno circa 10.000 persone attraversano il complesso della Statua della Libertà, rendendolo uno dei monumenti nazionali più frequentati del Paese, quindi ai manifestanti è stata garantita una grande folla di spettatori. Alcuni hanno manifestato la loro opposizione gridando contro il gruppo o mostrando il dito medio. Ma altri, come i visitatori scozzesi David e Sheila Miller, erano entusiasti.

La coppia ha deciso che scattare foto con i manifestanti sullo sfondo era più importante che cercare di inclinare la fotocamera per farsi un selfie con la parte superiore della torcia della statua.

“Penso che sia un ottimo messaggio che stanno inviando”, ha detto Miller. “È fantastico! Penso solo che sia bello essere qui a testimoniarlo. Quando siamo saliti sulla corona, pensavo che sarebbe stato il momento clou della giornata, ma invece è stato questo. Essere testimoni di questo evento in prima linea”.

Joe Biden ha appoggiato l’idea di una “pausa umanitaria” in cui le bombe israeliane smettono di cadere per un breve periodo non specificato per consentire agli aiuti umanitari di entrare a Gaza. Parlando con il primo ministro israeliano Netanyahu, le definisce “pause tattiche”. Biden, tuttavia, non ha sostenuto un cessate il fuoco totale. In caso di pausa umanitaria alla fine le bombe cadranno di nuovo.

Le proteste in tutto il mondo sono continuate quotidianamente dall’inizio dell’incursione israeliana a Gaza. Mentre gli attivisti di tutto il mondo sono stati accusati di antisemitismo per aver definito genocidio le azioni del governo israeliano, funzionari delle Nazioni Unite e studiosi dell’Olocausto hanno usato lo stesso termine per descrivere l’uccisione di massa e lo sfollamento di una popolazione civile imprigionata.

Le Nazioni Unite affermano che non è stato consentito l’ingresso di carburante a Gaza nel mese successivo agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, il che significa che gli ospedali e altri servizi essenziali stanno lentamente chiudendo del tutto. In quel periodo sono stati uccisi oltre 10.000 palestinesi, tra cui più di 4.000 bambini.

La scrittrice Molly Crabapple faceva parte di un gruppo di artisti che hanno partecipato alla protesta vestiti in modo appariscente. Come molti operatori culturali ebrei di New York, è una firmataria della lettera aperta di Writers Against the War on Gaza. E per Crabapple, che ha lavorato a Gaza, questa guerra è anche un fatto personale.

“Ci sono persone a cui tengo che vivono a Gaza”, ha detto Crabapple. “Diecimila persone sono morte. Quattromila di loro sono bambini. Ogni giorno questo genocidio continua, altri bambini e altre brave persone stanno morendo. Questo genocidio deve finire adesso”.

Crabapple, la fotografa Nan Goldin e gli scrittori Raquel Willis e Tavi Gevinson erano tra gli artisti presenti. Si sono uniti alla protesta anche dei politici. Dopotutto la Statua della Libertà è stata teatro di clamorose azioni di disobbedienza civile sin dalla sua inaugurazione nel 1886. Zohran Mamdani membro del consiglio di quartiere dei Queens ha partecipato spesso alle manifestazioni pro-Palestina che si sono tenute in città dall’attacco di Hamas il 7 ottobre e si è unita al gruppo sul basamento della statua.

“Non posso votare sulla questione se debbano o meno essere stanziati altri 14 miliardi di dollari in finanziamenti militari. Ma io, come ogni altro politico locale, ho una piattaforma”, ha detto. “È con quella piattaforma che… ognuno di noi dovrebbe chiarire che non esiste un consenso di massa per l’uccisione di un bambino palestinese ogni 10 minuti. Gran parte della politica federale e della Casa Bianca in questo momento si basa sull’idea che gli americani, in massa, sostengano questo. Sappiamo che il 66% degli americani vuole un cessate il fuoco, la maggioranza di loro si oppone all’invio di ulteriori finanziamenti a Israele”. Ora, ha detto Mamdani, è tempo di fare in modo che la politica statunitense rifletta quella maggioranza.

L’occupazione della Statua della Libertà da parte della JVP è stata solo una delle numerose azioni contro la guerra nella giornata di lunedì. A St. Louis, 75 manifestanti contro la guerra del gruppo Dissenters hanno formato un cordone e bloccato gli ingressi ad uno stabilimento Boeing dove vengono costruite le bombe sganciate su Gaza. E a Tacoma, nello stato di Washington, i manifestanti hanno bloccato l’accesso al porto dove stava attraccando una nave da carico militare che si pensava fosse diretta in Israele. Alcuni attivisti sono addirittura saliti su canoe per fermare il movimento della nave.

Di ritorno a New York, le proteste si sono svolte su un diverso tipo di imbarcazione: un traghetto turistico.

Molti di quelli in fila hanno battuto le mani e scandito: “Cessate il fuoco adesso!” e “Non in nostro nome!”

Il gruppo è uscito lentamente dal complesso della Statua della Libertà verso le 14:30, una grande nuvola di persone in maglietta nera che scandivano: “Fine all’assedio di Gaza adesso!” lungo la via del ritorno su un traghetto. Una volta sulla barca, hanno riappeso i loro striscioni, salutando le persone che guardavano dalla riva. Hanno urlato e pestato i piedi così forte che la barca ha tremato per tutto il tragitto verso Manhattan.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Guardare l’Ucraina attraverso gli occhi dei palestinesi

Yousef Munayyer

4 marzo 2022 – The Nation

La legittima corsa al sostegno dell’Ucraina ci insegna che quando vuole l’occidente può condannare l’occupazione.

Carri armati che sferragliano per le strade della città. Bombe sganciate dai caccia su palazzi civili. Posti di blocco militari. Città sotto assedio. Famiglie separate, in fuga per cercare rifugio e senza sapere quando rivedranno i loro familiari o le loro case. Quando un’occupazione militare inizia a prendere corpo davanti ai nostri occhi il mondo intero è costretto a prestare attenzione. Ma mentre possiamo guardare tutti la stessa cosa, alcuni di noi la vedono in modo leggermente diverso.

Il mio primo pensiero quando l’invasione russa dell’Ucraina è iniziata la scorsa settimana è stato per la popolazione civile in Ucraina che dovrà affrontare il fardello più pesante dato che una forza molto più potente cerca di imporre loro la propria volontà. Quanti devono morire? Quanti civili saranno uccisi da “bombe di precisione” tutt’altro che precise? Quando arriverà la libertà per loro? La vedranno durante la loro vita? Oppure, come noi palestinesi, vedranno la lotta durare per generazioni? Spero, per il loro bene, che la risposta sia la prima.

Tuttavia, anche se come palestinese è stato facile identificarsi con le scene di bombardamenti, distruzione e rifugiati, la risposta internazionale all’invasione russa dell’Ucraina è stata per noi qualcosa di totalmente alieno.

Da un giorno all’altro, il diritto internazionale sembra essere di nuovo importante. L’idea che un territorio non possa essere preso con la forza è divenuta improvvisamente una norma internazionale da difendere. I Paesi occidentali hanno cercato di promuovere una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condannasse le azioni della Russia, nonostante sapessero perfettamente che la Russia, membro permanente del Consiglio di sicurezza, avrebbe posto il veto. “La Russia può porre il veto a questa risoluzione, ma non può porre il veto alle nostre voci”, ha affermato l’ambasciatrice degli Stati Uniti, Linda Thomas-Greenfield. “La Russia non può porre il veto alla Carta delle Nazioni Unite. E la Russia non porrà il veto alla sua responsabilità [di fronte alla comunità internazionale, ndt]”.

Quando è piombato l’inevitabile veto russo, i diplomatici occidentali hanno sottolineato come esso abbia messo in evidenza l’isolamento della Russia. In effetti, la Russia è stata isolata. Proprio come lo sono stati gli Stati Uniti ogni volta che hanno posto un veto solitario al Consiglio di Sicurezza su oltre 40 risoluzioni che condannano le violazioni israeliane del diritto internazionale e gli abusi contro i palestinesi.

Gli Stati Uniti hanno anche deciso di rientrare nel Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite proprio in questo momento. Avevano lasciato l’UNHRC diversi anni fa perché si opponevano agli sforzi del consiglio di chiedere conto a Israele. Nel frattempo, diversi paesi hanno chiesto alla Corte penale internazionale di agire sull’invasione della Russia, la stessa Corte il cui Pubblico Ministero è stato sottoposto a sanzioni dagli Stati Uniti per aver indagato sui crimini di guerra commessi in Palestina.

Poi c’è il regime delle “misure economiche restrittive” che gli Stati Uniti e i loro partner europei hanno adottato contro la Russia. Insieme non solo hanno imposto ampie sanzioni, ma hanno avviato una impressionante serie di sanzioni ad personam per colpire i potenti attori che ritengono responsabili dell’aggressione. Nel frattempo, non solo le nazioni occidentali si sono rifiutate di usare sanzioni per colpire le responsabilità di Israele per le sue violazioni, ma le hanno attivamente favorite attraverso sostegno economico, militare e diplomatico.

L’occidente annuncia anche iniziative di boicottaggio e disinvestimento. I negozi di liquori in Canada e negli Stati Uniti stanno ritirando dagli scaffali la vodka russa. Il Metropolitan Opera ha dichiarato che non impiegherà più artisti che supportano Putin. Entro due giorni dall’invasione, la Russia è stata espulsa dall’Eurovision. È stata anche sospesa dai principali campionati di calcio internazionali come FIFA e UEFA. I balletti russi vengono cancellati.

Tutto questo dopo appena cinque giorni. Non cinque settimane o mesi, per non parlare di decenni. Cinque giorni.

Sorprendentemente, boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni non sono controversi se usati per colpire le responsabilità di alcuni trasgressori, ma quando si tratta dei diritti dei palestinesi ci viene ripetutamente detto che misure economiche non violente come il boicottaggio sono sbagliate. In effetti, diversi Stati degli Stati Uniti che hanno preso provvedimenti per vietare l’uso del boicottaggio per i diritti dei palestinesi stanno ora approvando risoluzioni di boicottaggio e disinvestimento contro la Russia!

I doppi standard non si fermano alle iniziative non violente. In Ucraina l’occidente sostiene attivamente la resistenza armata sia inviando armi sia glorificandone l’uso. Anche in Palestina l’occidente sta inviando armi … a un governo israeliano che pratica l’apartheid.

Quando gli ucraini preparano bottiglie molotov da utilizzare nella resistenza contro l’esercito russo, li chiamiamo combattenti per la libertà e il New York Times esalta i loro sforzi con video girati da esperti che mostrano il processo di produzione degli ordigni. Quando i palestinesi lo fanno contro l’esercito israeliano, vengono invariabilmente uccisi da un’arma finanziata dall’occidente nelle mani di un soldato israeliano che poi proteggeremo dal renderne conto presso le Nazioni Unite e la Corte penale internazionale.

E mentre i social media sono pieni di link di crowdfunding per aiutare l’acquisto armi per l’Ucraina, quelli di noi che cercano di inviare denaro per cibo o medicine alle famiglie a Gaza, in Siria o nello Yemen si vedono regolarmente respinte le loro transazioni.

Cosa potrebbe mai spiegare questi sbalorditivi doppi standard che sono stati applicati senza vergogna questa settimana?

Bene, alcuni giornalisti occidentali ci hanno offerto degli indizi. Gli ucraini, ci viene detto, non sono come gli iracheni o gli afgani, perché l’Ucraina è “relativamente civile, relativamente europea”. Questa non è “una nazione in via di sviluppo del terzo mondo”. Le loro auto “sembrano le nostre”. Sembrano “persone prospere della classe media… come qualsiasi famiglia europea a cui potresti vivere accanto”. Sono “persone con gli occhi azzurri e i capelli biondi. O, come ha detto un corrispondente, “sono cristiani. Sono bianchi”.

Quanto profondamente è radicato questo razzismo? Quando i soldati russi sono entrati in Ucraina, la foto di una giovane e bionda ragazza ucraina che si è fatta valere coraggiosamente davanti a un soldato russo è diventata virale sui social media. Cioè, stava diventando virale, finché non è stato rivelato che la ragazza non era ucraina ma palestinese e il soldato era israeliano, non russo.

Sembra che il motivo principale per cui gli occidentali si sono affrettati a difendere i diritti umani degli ucraini mentre hanno ignorato i diritti umani dei palestinesi e di tanti altri è che vedono alcuni di noi come meno umani di altri.

Per essere chiari, la comunità internazionale deve assolutamente chiedere conto a coloro che violano i diritti umani e le leggi: la rapida azione contro l’invasione russa dell’Ucraina dimostra inequivocabilmente che tale azione è possibile quando i governi hanno il coraggio politico di farlo. Ma non farlo quando i nostri alleati sono gli oppressori, o quando le vittime hanno un aspetto diverso da noi, ha costi significativi, più direttamente per persone come i palestinesi e altri con una carnagione e occhi generalmente più scuri, ma anche per il mondo in generale.

Quando il diritto internazionale viene applicato solo quando fa comodo a nazioni potenti farlo rispettare e viene ignorato quando fa comodo a nazioni potenti ignorarlo, allora il diritto internazionale esiste solo come strumento di potere. Se vogliamo che ci sia una norma internazionale contro l’aggressione, la colonizzazione e l’acquisizione di terra con la forza, non possiamo continuare a fare eccezioni per i nostri amici quando la violano.

Quando facciamo queste cose, e lo abbiamo fatto in modo sistematico, per esempio, quando si trattava di Israele, rendiamo evidente che non esiste un ordine internazionale basato su regole: esiste solo la regola della forza. La forza stabilisce il diritto.

Un mondo basato sulla forza che stabilisce il diritto è in definitiva una minaccia per tutti – umani con gli occhi azzurri e marroni allo stesso modo – e chiunque dubiti di questo dovrebbe semplicemente guardare l’Ucraina.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

 




Esplorare la nostra umanità: Ilan Pappé sulle quattro lezioni dall’Ucraina.

Ilan Pappe

4 marzo 2022 – Palestine Chronicle

USA Today [terzo quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] ha informato che una foto diventata virale di un grattacielo colpito da un bombardamento russo in Ucraina è risultata essere di un grattacielo demolito nella Striscia di Gaza dall’aviazione israeliana nel maggio 2021. Pochi giorni prima il ministero degli Esteri ucraino si è lamentato con l’ambasciatore israeliano a Kiev che “ci state trattando come Gaza”. Era furioso che Israele non avesse condannato l’invasione russa e fosse interessato esclusivamente a portare via i cittadini israeliani dallo Stato (Haaretz, 17 febbraio 2022). Si è trattato di un misto di riferimenti all’evacuazione da parte dell’Ucraina di mogli ucraine sposate con palestinesi dalla Striscia di Gaza nel maggio 2021 e un ricordo a Israele del pieno appoggio del presidente ucraino all’attacco israeliano contro la Striscia di Gaza di quel mese (tornerò a quell’appoggio verso la fine di questo articolo).

In effetti quando si valuta l’attuale crisi in Ucraina gli attacchi israeliani contro Gaza dovrebbero essere citati e presi in considerazione. Non è un caso che alcune foto vengano confuse: non ci sono molti grattacieli che siano stati abbattuti in Ucraina, ma ce ne sono parecchi che sono stati distrutti nella Striscia di Gaza. Tuttavia quando si prende in considerazione la crisi ucraina in un contesto più ampio non emerge solo l’ipocrisia riguardo alla Palestina. È il complessivo doppio standard dell’Occidente che dovrebbe essere analizzato, senza rimanere neppure per un istante indifferenti alle notizie e alle immagini che ci giungono dalla zona di guerra in Ucraina: bambini traumatizzati, flussi di rifugiati, bellezze architettoniche distrutte dai bombardamenti e il pericolo incombente che ciò sia solo l’inizio di una catastrofe umanitaria nel cuore dell’Europa.

Nel contempo quanti di noi hanno sperimentato, informato e raccontato le catastrofi umanitarie in Palestina non possono ignorare l’ipocrisia dell’Occidente, e possiamo evidenziarlo senza sminuire per un solo momento la nostra solidarietà umana ed empatia con le vittime di ogni guerra.

Lo dobbiamo fare in quanto la disonestà etica che è implicita negli scopi ingannevoli stabiliti dalle élite politiche e dai media occidentali li porterà ancora una volta a nascondere il loro razzismo e la loro impunità in quanto continuerà a garantire l’immunità a Israele e alla sua oppressione dei palestinesi. Ho individuato quattro affermazioni false che fino ad ora sono al centro dell’impegno delle élite occidentali con la crisi ucraina e le ho strutturate come quattro lezioni.

Prima lezione: i rifugiati bianchi sono benvenuti, gli altri molto meno

L’inedita decisione collettiva dell’UE di aprire le sue frontiere ai rifugiati ucraini, seguita da una politica più prudente della Gran Bretagna, non può passare inosservata rispetto alla chiusura della maggior parte degli ingressi in Europa ai rifugiati che arrivano dal mondo arabo e dall’Africa dal 2015. La priorità chiaramente razzista che distingue in base al colore, alla religione e all’etnia tra chi cerca di salvarsi la vita è aberrante, ma è improbabile che cambi molto rapidamente. Alcuni dirigenti europei non si vergognano neppure di esprimere pubblicamente il proprio razzismo, come ha fatto il primo ministro bulgaro Kiril Petkov:

Questi (i rifugiati ucraini) non sono i rifugiati a cui siamo abituati…questa gente è europea. Queste persone sono intelligenti, sono istruite… Non è l’ondata di rifugiati a cui siamo abituati, persone della cui identità non siamo sicuri, senza un passato chiaro, che potrebbero persino essere stati dei terroristi…

Non è solo. I mezzi di comunicazione occidentali parlano tutto il tempo del “nostro tipo di rifugiati”, e questo razzismo si esprime chiaramente ai valichi di confine tra l’Ucraina e i suoi vicini europei. Questo atteggiamento razzista, con sfumature chiaramente islamofobe, non cambierà, dato che i dirigenti europei stanno ancora negando il tessuto multietnico e multiculturale delle società in tutto il continente. Una realtà umana creata da anni di colonialismo e imperialismo europei che gli attuali governi europei negano e ignorano e, nel contempo, questi governi perseguono politiche migratorie basate sullo stesso razzismo che permeava il colonialismo e l’imperialismo del passato.

Seconda lezione: puoi invadere l’Iraq ma non l’Ucraina

La mancanza di volontà dei media occidentali di contestualizzare la decisione russa di invadere all’interno di una più ampia, e ovvia, analisi di come nel 2003 siano cambiate le regole del gioco internazionale è veramente sconcertante. È difficile trovare un’analisi che evidenzi il fatto che gli USA e la Gran Bretagna violarono le leggi internazionali contro la sovranità di uno Stato quando i loro eserciti, con una coalizione di Paesi occidentali, invasero l’Afghanistan e l’Iraq. Occupare un intero Paese per scopi politici non è stato inventato in questo secolo da Vladimir Putin, è stato inaugurato dall’Occidente come uno strumento giustificato di politica.

Terza lezione: a volte il neonazismo può essere accettabile

L’analisi riguardo all’Ucraina non evidenzia neppure alcuni dei validi argomenti di Putin, che non giustificano affatto l’invasione, ma che richiedono la nostra attenzione persino durante l’invasione. Fino all’attuale crisi i mezzi di comunicazione progressisti occidentali, come The Nation, the Guardian, the Washington Post, ecc., ci hanno messi in guardia dal crescente potere dei gruppi neonazisti in Ucraina che potrebbe incidere sul futuro dell’Europa, e non solo. Gli stessi mezzi di informazione oggi ignorano l’importanza del neonazismo in Ucraina.

Il 22 febbraio 2019 The Nation informava:

Oggi crescenti notizie sulla violenza di estrema destra, dell’ultranazionalismo e dell’erosione delle libertà fondamentali stanno smentendo l’iniziale euforia dell’Occidente. Ci sono pogrom neonazisti contro i rom, crescenti aggressioni contro femministe e gruppi LGBT, censura di libri e glorificazione sponsorizzata dallo Stato di collaboratori del nazismo.”

Due anni prima il Washington Post (15 giugno 2017) aveva avvertito, in modo molto perspicace, che uno scontro dell’Ucraina con la Russia non avrebbe dovuto portarci a dimenticare il potere del neonazismo in Ucraina:

Mentre la lotta dell’Ucraina contro i separatisti appoggiati dalla Russia continua, Kiev affronta un’altra minaccia a lungo termine alla sua sovranità: potenti gruppi ultranazionalisti di estrema destra. Queste organizzazioni non si vergognano di utilizzare la violenza per raggiungere i propri obiettivi, che sono sicuramente in contrasto con la tollerante democrazia di tipo occidentale che Kiev cerca apparentemente di diventare.”

Tuttavia oggi il Washington Post adotta un atteggiamento sprezzante e definisce una descrizione simile come un’“accusa falsa”:

In Ucraina agiscono una serie di gruppi nazionalisti paramilitari, come il movimento Azov e il Settore di Destra, che abbracciano un’ideologia neonazista. Benché di spicco, sembrano avere scarse adesioni. Solo un partito di estrema destra, Svoboda, è rappresentato nel parlamento ucraino, e ha solo un deputato.”

I precedenti avvertimenti di un mezzo di comunicazione come The Hill (9 novembre 2017), il principale sito indipendente di notizie degli USA, sono dimenticate:

In effetti ci sono formazioni neonaziste in Ucraina. Ciò è stato massicciamente confermato da quasi tutti i principali mezzi di informazione occidentali. Il fatto che alcuni analisti possano smentirlo come propaganda diffusa da Mosca è profondamente inquietante, soprattutto alla luce dell’attuale incremento di neonazisti e suprematisti bianchi in tutto il pianeta.”

Quarta lezione: colpire grattacieli è un crimine di guerra solo in Europa

Non solo la dirigenza ucraina ha rapporti con questi gruppi e milizie neonazisti, è anche filo-israeliano in modo preoccupante e imbarazzante. Uno dei primi atti del presidente Volodymyr Zelensky è stato il ritiro dell’Ucraina dalla Commissione delle Nazioni Unite sull’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese, l’unico tribunale internazionale a garantire che la Nakba non venga negata o dimenticata.

L’iniziativa è stata del presidente ucraino. Egli non ha dimostrato alcuna solidarietà nei confronti delle sofferenze dei rifugiati palestinesi, né li ha considerati vittime di crimini. Nella sua intervista dopo l’ultimo barbaro bombardamento israeliano della Striscia di Gaza nel maggio 2021 ha affermato che l’unica tragedia a Gaza è stata quella patita dagli israeliani. Se è così, allora sono solo i russi che soffrono in Ucraina.

Ma Zelensky non è solo. Quando si tratta della Palestina l’ipocrisia raggiunge livelli mai visti. Un grattacielo vuoto colpito in Ucraina ha dominato le notizie e provocato profonde analisi su brutalità umana, Putin e disumanità. Ovviamente questi bombardamenti devono essere condannati, ma risulta che quelli tra i leader del mondo che guidano la condanna rimasero in silenzio quando Israele rase al suolo la città di Jenin nel 2000, il quartiere di Al-Dahaya a Beirut nel 2006 e la città di Gaza negli ultimi 15 anni in un’ondata di brutalità dietro l’altra.

Non è stata discussa, per non dire imposta, alcuna sanzione di qualunque tipo contro Israele per i suoi crimini di guerra dal 1948 in poi. Di fatto nella stragrande maggioranza dei Paesi occidentali che oggi stanno guidando le sanzioni contro la Russia persino menzionare la possibilità di imporre sanzioni contro Israele è illegale e considerato antisemita.

Persino quando è giustamente espressa la sincera solidarietà umana dell’Occidente nei confronti dell’Ucraina non possiamo ignorare questo contesto razzista ed eurocentrico. La massiccia solidarietà dell’Occidente è riservata a chi voglia unirsi al suo blocco e alla sua sfera di influenza. Questa empatia ufficiale non appare affatto quando violenze simili, e peggiori, sono dirette contro non-europei in generale, e verso i palestinesi in particolare.

Ci possiamo orientare come persone di coscienza tra le nostre risposte alle calamità e la nostra responsabilità per evidenziare l’ipocrisia che in molti modi ha aperto la strada a queste catastrofi. Legittimare a livello internazionale l’invasione di Paesi sovrani e consentire la continua colonizzazione e oppressione di altri, come la Palestina e il suo popolo, porterà in futuro a ulteriori tragedie come quella dell’Ucraina, e ovunque sul nostro pianeta.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché gli americani dovrebbero appoggiare il BDS

Omar Barghouti

29 luglio – The Nation

Ispirato ai movimenti per i diritti civili e contro l’apartheid, chiede la liberazione dei palestinesi nei termini di una piena uguaglianza con gli israeliani e si oppone in modo netto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo.

Martedì scorso la Camera dei Rappresentanti [USA, ndtr.] ha approvato una risoluzione, la “H.Res. 246”, che prende di mira il movimento internazionale di base per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi che ho contribuito a fondare nel 2005. Purtroppo la H.Res. 246, che fondamentalmente travisa i nostri obiettivi e le mie opinioni personali, è solo l’ultimo tentativo da parte dei sostenitori di Israele nel Congresso di demonizzare e reprimere la nostra lotta pacifica.

La H. Res. 246 è una radicale condanna degli americani che sostengono i diritti dei palestinesi utilizzando le tattiche del BDS. Rafforza altre misure incostituzionali contro il boicottaggio, comprese quelle approvate da circa 27 Stati, che, secondo l’“American Civil Liberties Union” [Unione per le Libertà Civili Americane, storica associazione USA a favore dei diritti e delle libertà costituzionali, ndtr.] ricordano le “tattiche dell’epoca di McCarthy”. Esaspera anche l’atmosfera oppressiva che i palestinesi e i loro sostenitori già devono affrontare, scoraggiando ulteriormente i discorsi che criticano Israele in un momento in cui il presidente Donald Trump sta pubblicamente calunniando membri del Congresso che si esprimono a favore della libertà dei palestinesi.

In risposta alla H.Res. 246 e a misure legislative simili, la deputata Ilhan Omar, affiancata da Rashida Tlaib, dall’icona dei diritti civili John Lewis [deputato afro-americano della Georgia, ndtr.] e da altri 12 co-firmatari, ha presentato la H.Res. 496, che difende “il diritto di partecipare a boicottaggi a favore di diritti civili e umani in patria e all’estero, in quanto protetto dal Primo emendamento della Costituzione.”

Ispirato al movimento USA per i diritti civili e a quello sudafricano contro l’apartheid, il BDS chiede la fine dell’occupazione militare israeliana del 1967, la piena uguaglianza per i cittadini palestinesi di Israele e il diritto stabilito dall’ONU al ritorno dei rifugiati palestinesi alla patria da cui vennero cacciati.

Il BDS si oppone nel modo più assoluto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Contrariamente alle false affermazioni della H.Res. 246, il BDS non prende di mira i singoli individui, ma piuttosto le istituzioni e le compagnie che sono coinvolte nella sistematica violazione dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.

La H.Res. 246 include anche una specifica calunnia contro di me, sostenuta dai gruppi della lobby israeliana come l’AIPAC, estrapolando un’unica frase fuori di contesto da un discorso che ho fatto nel 2013. La stessa affermazione falsa viene ripetuta in una risoluzione simile del Senato, la S.Res. 120.

In quel discorso ho sostenuto un unico Stato democratico che riconosca e accetti gli ebrei israeliani come cittadini uguali e partner a pieno diritto nella costruzione e nello sviluppo di una nuova società condivisa, libera da ogni sottomissione colonialista e discriminazione razziale e in cui Stato e chiesa siano separati. Chiunque, compresi i rifugiati palestinesi rimpatriati, saranno titolari degli stessi diritti indipendentemente dall’identità etnica, religiosa, di genere, sessuale o altre. Ho affermato che qualunque “Stato musulmano”, “Stato cristiano” o “Stato ebraico” escludente e suprematista negherebbe per definizione uguali diritti ai cittadini con identità differenti e precluderebbe la possibilità di una vera democrazia, che è la condizione per una pace giusta e duratura. Le risoluzioni della Camera e del Senato, così come il video propagandistico dell’AIPAC, cancellano tutto quel contesto, distorcendo intenzionalmente le mie opinioni.

Ad ogni modo questa è la mia opinione personale, non la posizione del movimento BDS. In quanto movimento per i diritti umani ampio ed inclusivo, il BDS non prende posizione su una soluzione politica definitiva per palestinesi ed israeliani. Include sostenitori sia dei due Stati che di uno Stato democratico unico con uguali diritti per tutti.

In quanto difensore dei diritti umani, non sono solo oggetto di una costante denigrazione da parte di Israele e dei suoi sostenitori anti-palestinesi. Sono anche stato sottoposto, con le parole di Amnesty International, a un “arbitrario divieto de facto di viaggiare da parte di Israele”, anche nel 2018, quando mi è stato impedito di andare in Giordania per accompagnare la mia defunta madre per un’operazione per un tumore. Nel 2016 il ministero dell’Intelligence di Israele mi ha minacciato di “eliminazione civile mirata”, attirando la condanna da parte di Amnesty. E per la prima volta in assoluto lo scorso aprile mi è stato vietato di entrare negli Stati Uniti, impedendomi di partecipare al matrimonio di mia figlia e a un incontro al Congresso.

Israele non ha semplicemente intensificato il suo pluridecennale sistema di occupazione, apartheid e pulizia etnica contro i palestinesi, sta sempre più esternalizzando le sue tattiche repressive all’amministrazione USA.

Trump sta sfacciatamente appoggiando e proteggendo dall’essere chiamato a rispondere delle proprie azioni il governo israeliano di estrema destra, mentre esso annienta le vite e i mezzi di sostentamento di milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione e sotto l’assedio a Gaza, di fronte alla spoliazione e l’espulsione nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est e a pari diritti negati nell’Israele attuale. Solo due settimane fa egli [Trump, ndtr.] ha accentuato il suo incitamento contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi, attaccando quattro nuovi membri progressisti del Congresso, tutte donne di colore, dicendo loro di “chiedere scusa” a Israele e di “tornare” ai loro Paesi d’origine, benché tre di esse siano nate negli Stati Uniti.

Nonostante tutto ciò, la disperata guerra di Israele contro il BDS, combattuta con la falsificazione, la demonizzazione e l’intimidazione, come esemplificato da parte di questa risoluzione della Camera da poco approvata, sta fallendo. La nostra speranza rimane viva in quanto assistiamo a un promettente cambiamento nell’opinione pubblica a favore dei diritti umani dei palestinesi, anche negli Stati Uniti. L’orribile situazione del regime di apartheid israeliano e delle sue alleanza con forze xenofobe e palesemente antisemite stanno diventando incompatibili ovunque con valori liberali e democratici.

Guidati da comunità di colore, gruppi progressisti ebraici, importanti chiese, sindacati, associazioni accademiche, gruppi LGBTQI, movimenti per la giustizia per gli indigeni e studenti universitari, molti americani stanno abbandonando la posizione eticamente insostenibile dell’“eccezione progressista sulla Palestina”. Al contrario stanno adottando il principio moralmente conseguente di essere progressisti anche sulla Palestina.

Oggi essere progressisti comporta essere moralmente coerenti, stare dalla parte giusta della storia appoggiando noi che lottiamo per la nostra libertà, giustizia ed uguaglianza a lungo negate.

Omar Barghouti è un palestinese difensore dei diritti umani e co-fondatore del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi. È stato uno dei vincitori del premio Gandhi per la Pace del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Con la Grande Marcia del Ritorno, i palestinesi chiedono una vita dignitosa

Ahmad Abu Rtemah

The Nation – 6 aprile, 2018

La Nakba non è solo una memoria [da coltivare], è una realtà tuttora in atto. Possiamo accettare che alla fine dobbiamo morire tutti; a Gaza la tragedia è che non riusciamo a vivere.

Khan Younis- Negli ultimi otto giorni, decine di migliaia di manifestanti a Gaza hanno ridato vita a un luogo che lentamente se ne stava impoverendo. Siamo venuti in massa, lanciando slogan e cantando una ninna nanna che tutti abbiamo desiderato, “Noi ritorneremo”, portando tutto quello che ci è rimasto da offrire nel tentativo di reclamare i nostri diritti a vivere in libertà e giustizia. Nonostante la nostra marcia pacifica, ci siamo imbattuti in una pioggia di gas lacrimogeni e di fuoco letale [lanciati] dai soldati israeliani. Sfortunatamente non è una novità per i palestinesi di Gaza che hanno vissuto molte guerre e un brutale assedio e blocco.

A Gaza abitano quasi 1 milione e 900.000 persone di cui 1 milione e 200.000 sono rifugiati espulsi dalle loro case e dalle loro terre durante la formazione di Israele 70 anni addietro, conosciuta come la Nakba ( la Catastrofe) per i palestinesi. Sin dall’inizio dell’assedio quasi 11 anni fa, il semplice obiettivo di sopravvivere ogni giorno si è dimostrato essere una sfida. Adesso solamente svegliarsi e potere usare acqua pulita ed elettricità è un lusso. L’assedio è stato particolarmente duro per i giovani, che soffrono a causa di un tasso di disoccupazione pari al 58%. Quello che è peggio è che tutto ciò è il risultato della politica di Israele che può essere cambiata. Questa vita dura e difficile non deve essere la realtà di Gaza.

I pescatori non possono avventurarsi oltre le sei miglia marine, il che trasforma in una sfida pescare abbastanza da mantenere i loro familiari. Dopo le guerre di Israele del 2008-09 e poi di nuovo del 2012 e del 2014 e tutte le uccisioni che sono avvenute in quel periodo, alla gente qui non è nemmeno concessa l’opportunità di ricostruire, giacché Israele ha ridotto i permessi di ingresso dei materiali di costruzione. Le condizioni degli ospedali sono allarmanti, e ai pazienti di rado viene data l’opportunità di andare a curarsi fuori [da Gaza]. Non vale la pena nemmeno di menzionare la perpetua condizione di oscurità in cui viviamo, praticamente senza elettricità o acqua pulita. Non è stato sufficiente averci cacciati; è come se tutta la memoria dei rifugiati palestinesi debba essere confinata e cancellata.

 Sono nato nel campo profughi di Rafah a Gaza. I miei genitori sono della città di Ramle in quello che ora è conosciuto come Israele. Come la maggior parte dei rifugiati palestinesi, ho sentito le storie dai membri più anziani della mia famiglia riguardo alla brutalità con cui sono stati cacciati dalle loro case durante la Nakba. Nonostante siano passati molti decenni, essi, come centinaia di migliaia di altre persone, non sono capaci di dimenticare gli orrori di cui sono stati testimoni durante il loro esproprio e tutte le violenze e sofferenze che si sono accompagnate a ciò.

Non ho mai visto la casa della mia famiglia a Ramle e i miei figli non hanno mai visto niente oltre i confini di Gaza e dell’assedio. Il mio più grande figlio di 7 anni e il più piccolo di 2 non conoscono nessuna realtà all’infuori del rumore delle bombe, del buio della notte senza elettricità, dell’impossibilità di viaggiare liberamente, o il fatto che queste cose non sono normali. Niente nella vita di Gaza è normale. La Nakba non è solo una pratica di memoria, è una realtà tuttora in atto. E se possiamo rassegnarci che tutti alla fine dobbiamo morire, a Gaza la tragedia è che non riusciamo a vivere.

 E’ contro questa dura realtà che resistiamo. Gli ultimi due venerdì, abbiamo resistito contro tutte le potenze che ci dicevano di smettere e morire in silenzio e abbiamo deciso di marciare per la vita. Si tratta di una protesta di una popolazione che non vuole altro che vivere in dignità.

 Nel 2011 i palestinesi hanno marciato verso i confini dalla Siria , dal Libano, dalla Giordania, da Gaza e dalla Cisgiordania. Alcuni sono stati uccisi, altri che sono riusciti a oltrepassare il confine sono stati arrestati dai soldati israeliani. Ma molto tempo prima, nel 1976, i palestinesi hanno protestato contro l’esproprio da parte di Israele delle loro terre in quello che più tardi è stato conosciuto come il Giorno della Terra. Allora sei palestinesi furono uccisi e 42 anni dopo Israele sta ancora facendo ricorso a una violenza omicida per impedire ai rifugiati di ritornare, ammazzando almeno 25 palestinesi a Gaza dallo scorso venerdì. Quegli esseri umani hanno osato sognare [di andare] al di là di tutte le strade dei campi profughi; avevano avuto la visione di una casa che non hanno mai avuto l’occasione di vedere.

 Ero preoccupato per la nostra incolumità quando siamo arrivati in migliaia in quella che Israele ritiene “ zona da non percorrere”. Ho riflettuto sulle conseguenze. Quando mi sono trovato con la mia famiglia nei pressi della piazza della Marcia del Ritorno nella zona orientale di Khan Younis, abbiamo respirato i gas lacrimogeni, compresi i miei figli. Ho sofferto nel vedere l’infanzia innocente colpita da un’esperienza così traumatica. Ma quello che molte persone non riescono a riconoscere è che sia che stiamo a casa, sia che protestiamo all’aperto, non siamo mai veramente sicuri a Gaza, né siamo realmente vivi. È come se tutta la nostra esistenza e i sogni di ritornare a casa e vivere con dignità debba essere nascosta nell’oscurità.

Tuttavia, quest’anno, dopo il riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e la possibilità di realizzare quello che ha definito come “l’accordo del secolo”, i palestinesi hanno sentito un’imminente minaccia al diritto al ritorno dei rifugiati, nonostante venga riconosciuto dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite. È una preoccupazione di tutti che i nostri diritti in quanto rifugiati siano in serio pericolo e noi dobbiamo resistere in un modo nuovo, unitario, rivoluzionario, un modo che è al di fuori delle modalità dei negoziati e di quelle delle fazioni, per fare pressione su Israele e reclamare i nostri diritti.

Nei 70 anni trascorsi, Israele ha continuamente cacciato e umiliato i palestinesi. L’abbiamo visto nel ’48 e di nuovo nel ’67 e ora ancora ne siamo testimoni con l’espansione delle colonie. Mentre Israele butta fuori i palestinesi, porta nuovi immigrati da ogni parte del globo e li insedia su terre rubate ai palestinesi in violazione del diritto internazionale. Tuttora Israele continua ad essere incoraggiata dalla mancanza di pressioni da parte della comunità internazionale e dal sostegno dell’amministrazione Trump, cosicché le colonie continuano inesorabilmente ad espandersi.

Israele vorrebbe che il mondo credesse che noi palestinesi abbiamo lasciato volontariamente le nostre case ed abbiamo scelto questa vita di umiliazione, senza i diritti umani fondamentali, e che abbiamo imposto tutto ciò a noi stessi.

 Oggi i palestinesi di Gaza stanno provando a rompere le catene in cui Israele ha tentato così duramente di imprigionarci. Siamo dei manifestanti inermi che affrontano, protestando pacificamente, soldati pesantemente armati. Come risultato è difficile per Israele calunniarci e giustificare la sua brutale violenza e il mondo ha davanti a sé la realtà che innocenti civili vengono uccisi solo per avere esercitato il loro diritto a protestare pacificamente. Le scuse che Israele usa per giustificare le sue politiche nei confronti dei palestinesi stanno lentamente perdendo la loro efficacia, dal momento che a livello mondiale le persone realizzano sempre più che il vero volto di Israele è quello di un brutale regime di apartheid.

Nonostante la violenza voluta e mirata verso manifestanti inermi da parte di Israele, con la nostra Grande Marcia del Ritorno noi palestinesi a Gaza stiamo affermando ad alta voce e chiaramente che noi siamo ancora qui. Per Israele , è la nostra identità il nostro crimine, ma noi stiamo celebrando proprio quell’ identità che Israele cerca di criminalizzare. Persone di tutti i ceti stanno partecipando alla marcia. Artisti contribuiscono con la tradizionale danza dabka, intellettuali organizzano circoli di lettura, volontari si vestono da clown e giocano con i bambini. Quello che è più sorprendente sono i giovani che vivono e giocano, la loro risata, la più grande protesta fra tutte.

Le Nazioni Unite hanno ammonito che Gaza può essere invivibile entro soli due anni. Resistendo al destino che Israele ha programmato per noi, stiamo lottando pacificamente con i nostri corpi e il nostro amore per la vita, appellandoci alla giustizia che rimane nel mondo.

Ahmad Abu Rtemah è uno scrittore indipendente di Gaza, attivista di un social media e uno degli organizzatori della Grande Marcia del Ritorno.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Ahed Tamimi è diventata il simbolo di una nuova generazione della resistenza palestinese

Ben Ehrenreich

24 dicembre 2017,The Nation

Sarebbe molto meglio, tuttavia, se potesse essere solo una ragazzina

Pronti a resistere?

Ahed Tamimi aveva 11 anni quando l’ho incontrata [per la prima volta], era una piccola cosa bionda, con i capelli quasi più grandi di lei. La ricordo fare delle smorfie quando ogni mattina sua madre scioglieva con il pettine i nodi [nei suoi capelli] nel loro soggiorno. La seconda volta andai ad una manifestazione a Nabi Saleh, il villaggio della Cisgiordania dove vive, e Ahed e sua cugina Marah finirono per guidare il corteo. Non perché lo volessero, ma perché la polizia di frontiera israeliana si mise ad inseguire tutti quanti, a sparare e lanciare granate assordanti e lei e Marah corsero davanti alla folla. Ed è stato così da allora. L’esercito israeliano continua a fare pressione – nel villaggio, nel cortile, nella casa, sotto la pelle, nelle teste e nei tessuti e nelle ossa dei suoi familiari ed amici –e Ahed finisce per andare davanti, dove tutti possono vederla. Era là di nuovo la scorsa settimana dopo che un video di lei che prende a schiaffi un soldato israeliano è diventato virale. Posso garantire che non è lì che lei vorrebbe essere. Vorrebbe piuttosto stare con i suoi amici, sui loro telefonini, facendo quello che fanno gli adolescenti. Preferirebbe essere una ragazzina piuttosto che un’eroina.

L’immagine di Ahed venne diffusa in tutto il mondo per la prima volta poco dopo che l’incontrai [per la prima volta]. In quella foto stava sollevando il suo magro braccio nudo per agitare il pugno davanti a un soldato israeliano grande due volte lei. I suoi commilitoni avevano appena arrestato suo fratello. All’improvviso divenne quello che nessun bambino dovrebbe mai essere: un simbolo.

Era allora il terzo anno delle manifestazioni a Nabi Saleh. I coloni israeliani avevano confiscato una sorgente nella valle tra il villaggio e la colonia di Halamish, e Nabi Saleh si era unito a un pugno di altri villaggi che avevano scelto il cammino della resistenza disarmata, manifestando per protestare ogni venerdì, settimana dopo settimana, contro l’occupazione. Il cugino di Ahed, Mustafa Tamimi, era già stato ucciso, colpito al volto da un candelotto lacrimogeno sparato da dietro una jeep dell’esercito israeliano. Suo zio materno, Rushdie Tamimi, sarebbe stato ucciso pochi mesi dopo. Nel novembre del 2012 un soldato israeliano gli sparò alla schiena appena sotto la collina su cui sorge la casa di Ahed . Non era affatto qualcosa di inconsueto, solo che il piccolo villaggio non si fermò. Iniziarono ad accumulare vittime, e continuarono a marciare, ogni venerdì, verso la sorgente. Non vi si sono quasi mai avvicinati. La maggior parte dei venerdì, prima di arrivare alla curva sulla strada, i soldati li fermavano con gas lacrimogeni e vari altri proiettili. L’esercito arrivava anche durante la settimana, in genere prima dell’alba, procedendo a fare arresti, perquisendo le case, seminando la paura, consegnando un messaggio diventato sempre più chiaro: le vostre vite, le vostre case, la vostra terra, persino i vostri corpi e quelli dei vostri bambini, niente vi appartiene.

La scorsa settimana i soldati sono arrivati per prendere Ahed. Mi risulta difficile comprenderlo ora, ma non avrei mai pensato che le potesse succedere. Pensavo che le sarebbe stato risparmiato, che le sarebbe stato consentito di finire la scuola e di andare all’università e senza questa interruzione sarebbe diventata la coraggiosa e brillante donna che un giorno era sicuramente destinata ad essere. Credevo che i suoi fratelli e suo cugino sarebbero tutti finiti in carcere prima o poi – la maggior parte di loro in effetti ci è finita – e che qualcuno di loro sarebbe rimasto ferito, o peggio. Ogni volta che vado a visitare Nabi Saleh e guardo i volti dei bambini cerco di non immaginare chi lo sarà, e quanto gravemente. Due venerdì fa, una settimana prima che Ahed cacciasse i soldati dal suo cortile, è stato ferito suo cugino Mohammed, uno degli amici più intimi del suo fratello minore. Un soldato gli ha sparato in faccia. La pallottola – rivestita di gomma, ma comunque una pallottola – si è conficcato nella sua testa. Una settimana dopo era ancora in coma farmacologico.

Se avete visto il video che ha portato al suo arresto, potreste esservi chiesti perché Ahed fosse così arrabbiata contro i soldati che sono entrati nel suo cortile, perché gridava loro di andarsene, perché li ha presi a sberle. Questa è la ragione. Questa e un migliaio di altre. Suo zio e suo cugino sono stati uccisi. Sua madre colpita a una gamba e con le stampelle per più di un anno. I suoi genitori e suo fratello portati via per mesi. E mai una notte di riposo senza la possibilità di doversi svegliare, come ha fatto martedì mattina presto, come ha dovuto fare per tante volte prima, con i soldati alla porta, nella sua casa, nella sua stanza, là per portare via qualcuno.

Non faccio affidamento sul sorprendente timore dell’opinione pubblica israeliana, o che un video di Ahed, senza paura, che schiaffeggia un soldato per obbligarlo ad uscire dal cortile, possa scuotere una simile faccia tosta. Ahed Tamimi non è stata arrestata per aver infranto la legge – Israele, nel suo controllo della terra che occupa, mostra uno scarso rispetto della legalità. È stata arrestata perché era su tutte le prime pagine e l’opinione pubblica e i politici stavano chiedendo che venisse punita. Hanno usato parole come “castrati” e “impotenti” per descrivere come si sentissero quando hanno visto quel soldato con il suo elmetto, il giubbotto antiproiettile e il fucile e la ragazzina con la maglietta rosa e la giacca a vento blu che lo ha messo in ridicolo. Ha fatto vergognare tutti quanti per tutta la loro forza, il loro potere, il loro benessere e la loro arroganza.

Il divario tra le due opposte fantasie che definiscono l’autorappresentazione di Israele non ha fatto che crescere negli anni: un Paese che si immagina ancora come Davide contro il Golia arabo – nobile, in inferiorità numerica e coraggioso –, mentre si compiace del suo esercito senza pari, letale e tecnologicamente sofisticato. Ahed ha mandato in frantumi queste due convinzioni. Di fronte al mondo, ha di nuovo messo in evidenza che Israele è il prevaricatore. E, guardando quel filmato, si sono resi conto che i loro fucili sono inutili, che la loro forza è una finzione. Ahed doveva essere punita per aver svelato questi segreti, per aver mostrato al mondo quanto deboli e paurosi sanno di essere. E così il ministro della Difesa del Paese con l’esercito tecnologicamente più avanzato al mondo è sceso dal suo trono per promettere di persona che non solo Ahed e i suoi genitori, ma “chiunque intorno a loro” avrebbero avuto “quello che meritano”. Il ministro dell’Educazione è stato più preciso: Ahed dovrebbe essere imprigionata a vita, ha detto, dato che il suo reato è stato così grave.

Per ora hanno arrestato Ahed, sua madre Nariman e sua cugina Nour, anche loro nel filmato. Hanno arrestato Nariman quando è andata al commissariato per vedere sua figlia e sono tornati a prendere Nour il giorno dopo. Gli uomini della propaganda hanno lavorato duro diffondendo menzogne – che Ahed non è una ragazzina o che non è palestinese, che i Tamimi non sono affatto una famiglia, o sono tutti quanti dei terroristi, che niente di tutto questo è vero, che l’occupazione non è un’occupazione e quello che pensi di vedere nel filmato è una finzione messa in scena per gli stranieri in modo da far apparire Israele come malvagio. Tutto è più facile da accettare della verità, che Ahed ha mostrato loro come sono, e come cinquant’anni di occupazione li hanno svuotati come Nazione, come li renda ogni giorno più deboli e più spaventati.

Per favore, non fate di Ahed un idolo. Gli eroi, quando sono palestinesi, finiscono per morire o dietro le sbarre. Lasciate che sia una ragazzina. Lottate per renderla libera, in modo che un giorno possa essere una donna qualunque, in una terra qualunque.

(traduzione di Amedeo Rossi)