Per il sionismo le vite degli ebrei hanno sempre avuto più valore

Tom Pessah

8 luglio 2020 – +972

Il sionismo non è mai stato solo l’idea che “le vite degli ebrei siano importanti” – ha sempre privilegiato i coloni ebrei rispetto al popolo nativo. Basta chiederlo a Theodor Herzl.

Alla fine di giugno The Forward [storico giornale ebraico americano, ndtr.] ha pubblicato un articolo di Moshe Daniel Levine con il titolo “Il sionismo è il Black Lives Matter [Le vite dei neri sono importanti, movimento di protesta degli afroamericani contro le discriminazioni e la violenza della polizia, ndtr.] degli ebrei” Nell’articolo Levine, l’importante insegnante ebreo dell’ Orange County Hillel [istituzione ebraica che si rivolge agli studenti ebrei nell’omonima università, ndtr.] chiede agli ebrei di sostenere il movimento Black Lives Matter come estensione del loro sionismo. Secondo lui gli ebrei hanno tradizionalmente predicato il messaggio universale secondo cui “ogni vita è importante”, finché Theodor Herzl – il cosiddetto padre fondatore del sionismo – alla fine del XIX secolo comprese che l’antisemitismo non sarebbe finito senza uno Stato per gli ebrei.

Di conseguenza il sionismo è, scrive Levine, “la più alta rivendicazione che le vite degli ebrei sono importanti. Gli ebrei sono arrivati alla difficile ma importante consapevolezza che in alcune particolari circostanze è necessario mettere da parte l’universalismo a favore del particolarismo. Comprendiamo che, mentre dobbiamo impegnarci costantemente in problemi globali e universali, l’educazione e la protezione specifica degli ebrei è fondamentale per il nostro benessere.” In breve, quello che Levine sta sostenendo è che l’appoggio ebraico a Black Lives Matter è un obbligo precisamente perché lo è l’appoggio ebraico al sionismo.

Ma il sionismo non ha niente a che vedere con la giusta richiesta che gli ebrei sostengano le vite dei neri. Anch’io credo che dovremmo farlo. Il problema è che il ragionamento di Levine legittima di fatto una serie di pratiche razziste che il sionismo consente, pratiche che svalutano le vite degli altri. In altre parole Levine sta ripulendo la storia.

In particolare la sua descrizione trascura un fattore cruciale: l’ammirazione di Herzl per il colonialismo. Oggi è probabile che qualunque associazione tra Herzl e il colonialismo sollevi forti obiezioni da parte di sionisti come Levine. Eppure il sionismo di Herzl era effettivamente radicato nel suo desiderio di emulare il colonialismo europeo della sua epoca.

Il diario di Herzl cita una lettera che egli mandò nel 1902 a Cecil Rhodes, un affarista britannico e uno dei più famosi colonialisti del periodo. Rhodes fu il fondatore della compagnia mineraria De Beers, che prese il controllo dei diamanti del Sudafrica. Le condizioni di lavoro nelle miniere della De Beers erano di sfruttamento e pericolo: parte del lavoro veniva svolto da prigionieri non pagati, mentre persino ai lavoratori stipendiati non era consentito lasciare il baraccamento in cui abitavano. Prima di fondare la compagnia, Rhodes era il proprietario della British South Africa Company, che vi controllava le miniere d’oro e sfruttava allo stesso modo i lavoratori africani.

Nella sua lettera Herzl scrive a Rhodes: “Lei è invitato a contribuire a fare la storia. Ciò non riguarda l’Africa, ma una parte dell’Asia minore; non inglesi ma ebrei… Come mai, allora, si dà il caso che io mi rivolga a lei, dato che questa è una materia estranea dai suoi interessi? Com’è possibile? Perché si tratta di una questione coloniale.”

Gli apologeti di Herzl possono ben sostenere che fosse un uomo del suo tempo. Eppure il colonialismo era di fatto considerato discutibile persino quando era in corso, non solo retroattivamente, e non solo tra le sue vittime. Nel 1901 Mark Twain scrisse saggi a sostegno della Lega Imperialista [si tratta di un refuso: in realtà si chiamava Antimperialista, ndtr.] Americana, che si oppose all’annessione delle Filippine da parte dell’America. L’anno seguente il famoso economista britannico John A. Hobson pubblicò Imperialismo, che metteva in rapporto capitalismo ed espansione imperialista – un lavoro che scaturì dalla sua critica alle azioni di Rhodes in Sudafrica.

La decisione di Herzl di avvicinarsi a Rhodes non era affatto casuale. Levine ha ragione nel sostenere che Herzl pensava che uno Stato ebraico sarebbe stato la soluzione dell’antisemitismo in Europa, però evita di menzionare come Herzl pensava che sarebbe stato raggiunto. Nel suo pamphlet del 1896 Lo Stato Ebraico, il progetto di Herzl per la creazione di uno Stato ebraico si basa sulla creazione di una “Agenzia ebraica”. Per spiegare come questa agenzia avrebbe funzionato Herzl si chiede:

Cos’è oggi l’estrazione dell’oro nel Transvaal (regione del Sudafrica)? Non ci sono vagabondi avventurieri, solo geologi e ingegneri esperti sono sul luogo per controllarvi l‘industria dell’oro e per utilizzare ingegnosi macchinari per separare il minerale dalle pietre. Ben poco ora è lasciato al caso.

Quindi dobbiamo studiare e prendere possesso del nuovo Paese ebraico mediante ogni moderno espediente.”

Il modello operativo dell’Agenzia Ebraica di Herzl si rivela essere la Compagnia Britannica del Sudafrica di Rhodes, la principale responsabile dell’estrazione dell’oro nella regione del Transvaal in Sudafrica, a spese degli africani e delle loro risorse.

L’adozione di un modello colonialista ebbe altri effetti. In Lo Stato Ebraico Herzl spiega perché il consenso di una potenza europea fosse necessario per permettere l’immigrazione e la colonizzazione ebraica del territorio destinato allo Stato [ebraico]:

Sono stati presi in considerazione due territori, la Palestina e l’Argentina. In entrambi i Paesi sono stati fatti importanti esperimenti di colonizzazione, benché sulla base del principio sbagliato di una graduale infiltrazione degli ebrei. Un’infiltrazione è destinata a finire male. Continua fino al momento inevitabile in cui la popolazione nativa si sente minacciata e obbliga il governo a bloccare un’ulteriore afflusso di ebrei. Di conseguenza l’immigrazione è inutile se non abbiamo il diritto sovrano di continuare tale immigrazione.”

La “popolazione nativa” non avrebbe certo concesso il diritto sovrano di colonizzare il proprio Paese. Proprio come la regina Vittoria diede alla British South African Company una concessione per estrarre minerali in Sudafrica nel 1889, così Herzl progettò che la sua iniziativa cominciasse “sotto la protezione delle potenze europee.”

Infine è importante evidenziare che la scelta della Palestina come obiettivo della colonizzazione non era fondamentale nel progetto di Herzl. Le sue ragioni per prendere in considerazione la Palestina (invece dell’Argentina) furono che molti ebrei erano già immigrati là; che più ebrei avrebbero appoggiato il sionismo per ragioni religiose (“Il nome stesso della Palestina attirerebbe il nostro popolo con una forza di straordinaria efficacia”); che “là dovremmo costituire parte di un bastione dell’Europa contro l’Asia, un avamposto di civiltà contro la barbarie.”

In base al progetto di Herzl i nativi palestinesi, o quanti si trovassero a vivere nel territorio scelto per la colonizzazione, sarebbero stati obbligati a lasciare la loro terra, proprio come i minerali sudafricani finirono nelle mani di Rhodes. Herzl pronosticò che i nativi si sarebbero “sentiti minacciati” da questo accordo, ma depose la propria fiducia in una potenza europea per risolvere la questione.

È assolutamente possibile affermare che le vite dei neri sono importanti senza svalutare le vite di qualunque altro gruppo. Invece, a differenza di quanto sostiene Levine, il sionismo non ha mai riguardato solo l’idea che le vite degli ebrei siano importanti; fin dall’inizio, ciò ha significato che le vite dei coloni ebrei sarebbero state considerate più importanti di quelle dei gruppi indigeni, dai tempi di Herzl fino ad oggi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nel suo nuovo libro Khalidi affronta la “narrazione egemonica” del nazionalismo ebraico

Steve France

17 febbraio 2020 – MondoWeiss

Cover of The Hundred Years War on Palestine: A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917–2017

C’era del fervore in Rashid Khalidi quando il 10 febbraio il decano degli storici palestinesi-americani si è rivolto ad una folla gremita nella prestigiosa libreria Politics & Prose di Washington DC. Ci ha detto che nel suo nuovo libro, “La guerra dei cent’anni contro la Palestina”, si è sfilato i guanti dell’accademico. “Questo libro è più personale”, ha affermato. Si basa sull’esperienza più che centenaria della sua illustre famiglia che ha assistito, opponendovisi apertamente, all'”invasione coloniale” del suo Paese, e continua tuttora attraverso il suo impegno di studioso che dice la verità.

Qualcuno è intervenuto per contestare a Khalidi il fatto che non fosse rimasto fedele al dovere di “obiettività” dello storico. Lui ha risposto: “Il fatto è che esiste una narrazione egemonica su Israele e la Palestina che assume la prospettiva occidentale e filo-sionista. L’ottanta percento di ciò che si dice sul’argomento negli Stati Uniti è collegato alla narrazione egemonica. Non è mio compito riproporre quella narrazione. Inoltre gli storici, appunto, di solito propongono un discorso o una tesi. Non dicono semplicemente: ‘Da un lato e dall’altro.’ “

Khalidi ha affermato che il libro si rivolge deliberatamente ai “comuni lettori americani”, che spesso non sanno quasi nulla su Palestina-Israele e, nella migliore delle ipotesi, vedono il conflitto come una tragedia di due popoli che lottano per il loro legittimo destino nazionale. Ma, sostiene, la vera storia è quella di una “conquista coloniale” da parte dell’Occidente nei confronti della piccola terra della Palestina – e una successiva repressione senza fine della resistenza palestinese. “I palestinesi sono David; Israele è Golia, con i suoi sostenitori esterni. ” Dal 1917, tra i sostenitori ci sono sempre state le potenze egemoni del mondo: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica (nel periodo della competizione per l’egemonia) e la Francia (negli anni ’50). Altrettanto essenziale è stato il sostegno materiale e politico di vaste reti etniche e religiose di sionisti (si pensi ai sionisti cristiani).

Le persone devono comprendere che Israele è uno Stato colonialista, ha detto Khalidi, ma peculiare. I coloni ebrei europei – che si definivano letteralmente colonizzatori prima che il colonialismo cadesse in discredito dopo la seconda guerra mondiale – non provenivano da una “madre patria” e non facevano parte di un’altra Nazione, come la Gran Bretagna. Piuttosto, venivano da molti Paesi e facevano parte di un “movimento nazionale del tutto moderno”. La storia degli ebrei iniziò in Palestina ai tempi biblici, ma prima dell’invenzione del sionismo alla fine del 1800 “realizzare uno Stato Nazione non era ciò che gli ebrei avevano mai voluto”.

Nel 1899 lo zio trisavolo di Khalidi, Yusuf Diya al-Din Pasha al-Khalidi, comprese i motivi e gli obiettivi dei primi coloni sionisti. Ex sindaco di Gerusalemme, con ottima padronanza di turco, tedesco, francese e inglese, conosceva l’antisemitismo europeo e gli scritti del fondatore del sionismo, Theodor Herzl, in cui veniva chiesta la creazione di uno Stato ebraico. Mandò una lunga lettera in francese al rabbino capo francese perché fosse consegnata a Herzl, che aveva vissuto a lungo a Parigi. Esprimeva simpatia e comprensione per le aspirazioni sioniste. Ma avvertiva che sarebbe stata “una follia” cercare di imporre uno Stato ebraico ai palestinesi, che abitavano a pieno titolo la Palestina. Implorava Herzl di abbandonare tali intenzioni. Sottolineava che una tale mossa avrebbe compromesso le vaste comunità ebraiche che esistevano da tempo in tutto il Medio Oriente. La risposta di Herzl fu educata, ha detto Khalidi al suo pubblico, ma “semplicemente ignorò” il punto fondamentale di Yusuf Diya secondo il quale la Palestina era già abitata da persone che non volevano essere soppiantate.

E così ebbe origine l’atteggiamento persistente dei sionisti e degli Stati loro sostenitori, che ignorano i palestinesi ritenendoli insignificanti se non inesistenti. Su questo aspetto Khalidi ha citato come punti di riferimento la Dichiarazione Balfour del 1917 [lettera scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour con la quale il governo britannico si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, ndtr.]; il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito perché governasse la Palestina; la Risoluzione delle Nazioni Unite del 1947 che fu “stravolta nell’ambito dell’Assemblea Generale dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica”[la risoluzione 181 del 29 novembre 1947 venne stravolta dalle due grandi potenze a favore dei sionisti, ndtr.]; il via libera degli Stati Uniti a Israele nel 1967 per la conquista della Cisgiordania, di Gaza e delle alture del Golan dai vicini Stati arabi; la risposta delle Nazioni Unite a tale aggressione nella risoluzione 242; fino al “piano di pace” appena comunicato dal presidente Trump.

In conclusione, Khalidi ha affermato che “tutti i nazionalismi costruiscono una storia per darsi una giustificazione”. Ma la cosa “particolare e peculiare” nel caso di Israele è che “le sofferenze e le idee che hanno generato il colonialismo ebraico hanno tutte avuto luogo in Europa, ma sono state trasferite in Palestina”. In altre parole, per più di 100 anni il popolo palestinese ha avuto a che fare con un sogno nazionalista da parte degli ebrei, coltivato fuori dalla propria terra, [che consisteva] nel sottrarre le loro proprietà ed i loro diritti, la loro dignità e la loro vita.

All’inizio c’era la Palestina. Trasformarla nella “Terra di Israele” ha significato ignorare i palestinesi che lì vivevano, farli “scomparire” fisicamente quando possibile, e nel frattempo delegittimare la loro storia. Khalidi, erede di una famiglia antica e onorata, spezza l’incantesimo del sogno nazionalista ponendoci davanti all’esistenza del popolo palestinese, allora e adesso, e raccontando la sua storia agrodolce.

Steve France

Steve France è un giornalista e avvocato in pensione della zona di Washington DC. Attivista per i diritti dei palestinesi, è membro della Episcopal Peace Fellowship Palestine-Israel Network [Fratellanza episcopale per la pace – Rete Palestina-Israele] e altri gruppi cristiani di solidarietà con i palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)