Cosa c’è dietro la repressione contro i prigionieri palestinesi?

Yara Hawari

venerdì 25 gennaio 2019, Middle East Eye

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto

Questa settimana le guardie della prigione militare israeliana di Ofer hanno messo in atto pesanti attacchi contro i prigionieri palestinesi.

Le celle sono state messe a soqquadro, effetti personali sono stati distrutti e sono state effettuate perquisizioni corporali invasive. Per molti prigionieri l’aspetto peggiore è stato la confisca di foto, lettere e semplici doni dei membri della famiglia raccolti nel corso degli anni – un’ancora di salvezza per quanti devono scontare decenni di carcere.

I prigionieri sono stati anche obbligati a togliersi i vestiti e ad attendere l’ispezione all’aperto con un freddo intenso.

Non si tratta di nuove tecniche o tattiche, ma piuttosto di quelle che vengono utilizzate periodicamente come forma di punizione collettiva contro i prigionieri palestinesi.

Punizione collettiva.

L’ultima repressione nel carcere di Ofer si è scontrata con la resistenza collettiva dei prigionieri, che si sono rifiutati di collaborare con le forze israeliane. In seguito a ciò, sono stati attaccati con lacrimogeni, taser, pestaggi, cani poliziotto e persino proiettili di acciaio ricoperti di gomma sparati da breve distanza.

Più di 150 hanno dovuto ricevere cure mediche, sei prigionieri hanno subito fratture e più di 40 sono stati feriti alla testa. Molti hanno patito per le gravi conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeni in seguito al fatto che sono stati lanciati candelotti lacrimogeni nelle celle chiuse.

Di conseguenza “Addameer”, l’associazione per il sostegno e i diritti umani dei prigionieri, ha emesso un comunicato in cui chiede al Comitato Internazionale della Croce Rossa di avviare un’inchiesta su queste “gravissime violazioni” delle leggi internazionali e di fornire protezione ai prigionieri palestinesi.

In risposta a queste azioni e in solidarietà con i prigionieri sono state organizzate manifestazioni sia a Ramallah [in Cisgiordania, ndtr.] che ad Haifa [in Israele, ndtr.]. Durante quest’ultima dimostrazione due attivisti palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Torture e maltrattamenti

In effetti nella società palestinese il problema dei prigionieri è importante, e colpisce molte persone. Dal 1967 il 40% della popolazione maschile adulta in Cisgiordania e a Gaza – ossia circa 800.000 persone – è stato sottoposto a una qualche forma di detenzione da parte di Israele. 

La maggior parte delle comunità e delle famiglie è intimamente consapevole di cosa significhi avere un proprio caro in prigione. Attualmente, secondo i dati di “Addameer”, ci sono 5.500 prigionieri politici palestinesi.

Il sistema carcerario dell’esercito israeliano destinato specificamente ai palestinesi dei territori occupati nel 1967 è ingiusto e viola le leggi internazionali. I prigionieri sono sottoposti a torture, molestie sessuali, prolungati periodi in isolamento – a volte per un tempo fino a 10 anni – cure mediche inadeguate e condizioni di vita inumane, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, con la negazione dei diritti fondamentali dei detenuti.

Un altro meccanismo utilizzato dal regime israeliano è la detenzione amministrativa, che consente di trattenere i detenuti a tempo indeterminato senza un’imputazione o un processo. La detenzione più lunga di questo tipo è durata otto anni.

Tutto il sistema è essenzialmente destinato a sconvolgere e punire la società palestinese, con una percentuale del 99% di sentenze a lunghe pene detentive.

Violenza di genere

Anche nella prigione di Damon le prigioniere hanno dovuto affrontare la repressione. All’insaputa dei più fuori e dentro la Palestina, lo scorso mese il gruppo di detenute palestinesi (54 persone) è stato spostato dal carcere di Hasharon a quello di Damon, una struttura nei pressi di Haifa. Le condizioni sono significativamente peggiorate, con celle sovraffollate e docce all’esterno e al freddo, e a molte sono stati negati gli effetti personali che avevano nella prigione precedente.

La violenza di genere di Israele contro le detenute è ben documentata da ong e gruppi per i diritti umani palestinesi. Le strategie utilizzate contro di loro includono minacce, molestie sessuali, negazione di assorbenti igienici e umiliazioni generalizzate.

Israele è probabilmente l’unico Paese al mondo che processa metodicamente minorenni nel sistema dei tribunali militari. Migliaia di minori palestinesi sono stati arrestati e giudicati dai tribunali militari durante gli ultimi due decenni.

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto. Il loro movimento è limitato a determinate aree e sono costantemente sotto sorveglianza. Praticamente ogni aspetto della loro vita è controllato da Israele, mentre il sistema di incarcerazione continua a violare impunemente le leggi internazionali.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solamente l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le pressioni di Israele nel controllare il discorso globale hanno contaminato il mondo della medicina

Ghada Karmi

Giovedì 8 novembre 2018, Middle East Eye

Infiltrarsi in ogni ambito della vita pubblica nel tentativo di controllare il discorso globale può certamente fare da scudo temporaneamente ai crimini di Israele – ma a lungo termine non farà che smascherare la malvagità di Israele.

Nel febbrile clima di paura riguardo all’antisemitismo che attualmente avvince la Gran Bretagna, forse non sorprende che l’infezione si sia ormai propagata a settori improbabili, compresa la professione medica.

Forse il principale esempio della ‘longa manus’ filoisraeliana all’interno del mondo della medicina è stata la pubblica umiliazione di Richerd Horton, il direttore di una delle più antiche e prestigiose riviste mediche al mondo, ‘ Lancet’. Sotto la guida di Horton la rivista ha sviluppato un’imponente copertura della sanità mondiale, mettendo in luce l’impatto dei conflitti politici e dell’ingiustizia.

Il caso di Richard Horton

Sulla base di questa impostazione etica, e colpito dalla terribile situazione dei palestinesi, nel 2010 Horton ha fondato l’Alleanza Lancet per la Salute Palestinese, un partenariato con professionisti della sanità che lavorano nei territori occupati. Questo ha fornito una valida tribuna per la ricerca e la pratica in ambito medico palestinese, migliorando drasticamente la copertura delle problematiche sanitarie che colpiscono la popolazione sotto occupazione israeliana.

Nell’estate 2014, mentre era in corso il peggior attacco israeliano contro Gaza, Lancet pubblicò una “lettera aperta a favore del popolo di Gaza”, dai toni molto forti. Venne firmata da 24 medici di diversi Paesi e descriveva nel dettaglio le strazianti conseguenze a livello medico della guerra di Israele su civili innocenti, quali armi venivano usate ed i vari tipi di aggressioni.

Si definivano senza ambiguità le atrocità commesse contro l’indifesa popolazione di Gaza come crimini di guerra.

La lettera provocò una tempesta di proteste da parte dei difensori di Israele. Venne pubblicata una lettera firmata da 500 medici, compresi cinque premi Nobel, cui seguì una grave minaccia da parte di 396 professori di boicottare l’editore di Lancet, Reed Elsevier. Vi furono richieste di cacciare Horton; lui fu bombardato da mail di odio, minacciato ed accusato di antisemitismo; la sua fotografia fu postata accanto alle immagini di nazisti; sua moglie e sua figlia subirono molestie.

Mettere a tacere le critiche

Inizialmente egli tenne testa a questo assalto, rifiutando di ritrattare la lettera o di scusarsi. Tuttavia gli attacchi contro di lui e contro Lancet erano così gravi che nell’ottobre 2014 accettò un invito da parte dell’ospedale israeliano Rambam, dove alla fine cedette alle pressioni. Esprimendo il suo profondo rammarico per aver pubblicato la lettera aperta, promise di pubblicare una ritrattazione.

Il suo pentimento non è finito lì. Nel maggio 2017 Horton ha compiuto il passo senza precedenti di dedicare un intero numero del giornale al sistema sanitario israeliano, e da allora è stato attento a mostrarsi rispettoso ed amichevole nei confronti di Israele.

Certo, nulla nella lettera aperta su Gaza che ha correttamente pubblicato durante la guerra era falso o esagerato; casomai, la situazione di Gaza oggi è ancor più spaventosa. L’autore di questa devastazione è quello stesso Israele i cui amici hanno attaccato Horton così ferocemente non molto tempo fa, e che con tanta sofferenza egli ha dovuto placare.

Le linee rosse di Israele

Horton non è l’unico obbiettivo di questa caccia alle streghe in ambito medico. Secondo recenti notizie, la Scuola di Medicina Tropicale di Liverpool, che il mese scorso aveva invitato la collega britannica Baronessa Jenny Tonge a parlare ad un convegno sulla salute materna, ha improvvisamente ritirato l’invito. Avrebbe dovuto partecipare ad un gruppo di lavoro di esperti sulla diseguaglianza nella sanità nel mondo in via di sviluppo, dove lei ha ampiamente lavorato in diverse missioni ufficiali.

Janet Hemingway, la direttrice della scuola, ha spiegato che si sono sentiti obbligati ad agire a causa di un presunto “sentimento antisemita” e di “riscontri esterni” da parte di partecipanti al convegno. Erano presumibilmente preoccupati che la sua partecipazione contravvenisse all’ “etica organizzativa” della scuola e che avrebbe stornato l’attenzione dalla questione dell’ineguaglianza nella cura della maternità al problema dell’antisemitismo.

Prima della sua carriera parlamentare, Tonge ha esercitato la professione medica ed è stata membro della Facoltà di Ostetricia e Ginecologia del Royal College per la Pianificazione Familiare e la Salute Riproduttiva . Ha ripreso quel ruolo quando è entrata in politica come portavoce per la sanità del partito liberaldemocratico e più di recente come presidente del Gruppo Parlamentare interpartitico del Regno Unito sulla popolazione, lo sviluppo e la salute riproduttiva.

Ma presto ha incontrato l’opposizione degli amici di Israele. Nel 2004, quando era deputata liberaldemocratica, Tonge ricorda che il suo intervento su “Un punto di vista liberale sulla salute” presso la Società Medica di Londra fu annullato a causa delle accuse di essere simpatizzante dei palestinesi e di criticare Israele.  

Come personaggio politico, oggi Tonge è disprezzata da Israele e dai suoi amici per il suo presunto antisemitismo nell’esprimere opinioni problematiche, come la sua osservazione che i recenti assassinii di fedeli ebrei a Pittsburgh potrebbero essere in relazione ai maltrattamenti di Israele contro i palestinesi. Attaccare Tonge a livello politico è una cosa, ma gli amici di Israele adesso stanno premendo per renderla oggetto di disprezzo anche come professionista della salute – dando il messaggio che, se si oltrepassano le linee rosse di Israele, si viene esclusi da ogni settore della vita pubblica.

La caccia alle streghe in ambito medico

Analogamente, Derek Summerfield, importante psichiatra britannico e esplicito critico della politica israeliana, nel 2007 è stato costretto a disdire la propria partecipazione ad un importante incontro medico organizzato dalla ‘Royal Society of Medicine’ dalle pressioni di membri filoisraeliani.

I suoi tentativi di indagare il ruolo di medici israeliani nella supervisione della tortura ai prigionieri palestinesi si erano scontrati con un continuo ostruzionismo.

Intanto l’Unione Europea ha ricevuto pressioni perché raccomandasse a tutti i suoi Stati membri ed istituzioni di adottare la definizione di antisemitismo dell’Alleanza Internazionale in Ricordo dell’Olocausto, che deliberatamente fa coincidere le critiche ad Israele con l’antisemitismo ed ha già influenzato la libertà di parola.

Nel maggio scorso Israele si è spinto oltre, chiedendo all’UE di sospendere i finanziamenti alle Ong che sostengono il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). 

Lo scopo di questi sforzi è mettere a tacere le critiche alla politica israeliana. Ma Israele dovrebbe stare attento a ciò che intende fare. Infiltrare ogni ambito della vita pubblica nel tentativo di controllare il discorso globale può certamente fare da scudo temporaneamente ai crimini di Israele – ma a lungo termine non farà che destare un diffuso senso di risentimento e ostilità.

Ghada Karmi è una dottoressa palestinese, accademica e scrittrice.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Guai ai vinti

Ahron Bregman, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati. Einaudi, Torino 2017, pp. XXXVII – 340, 33 €.

Recensione di Francesco Ciafaloni

Ahron Bregman, nato nel ‘58 in Israele, ha partecipato come ufficiale di artiglieria dell’esercito israeliano – é facile scoprirlo in rete – alla campagna del Litani nel 1978 e alla Guerra del Libano del 1982. In un’intervista ad Haaretz nel 1988 dichiarò che avrebbe rifiutato di presentarsi se fosse stato richiamato come riservista nei territori occupati, emigrò in Inghilterra e condusse al King’s College il suo lavoro di storico, soprattutto sulle guerre di Israele e sulle politiche dell’occupazione, che aveva direttamente conosciuto e rifiutato.

La vittoria maledetta, quella di Israele del ‘67, è la storia delle politiche di occupazione e repressione, area per area, periodo per periodo, nei territori occupati, da Gerusalemme Est alla Cisgiordania, al Golan. A differenza di Cinquant’anni dopo di Chiara Cruciati e Michele Giorgio, non ha due soggetti in conflitto, gli israeliani, occupanti, e i palestinesi, occupati, ma un solo soggetto: Israele. La vittoria maledetta, secondo l’autore, e come sembra evidente a tutti col senno di poi, non è mai messa in forse da rivolte o scelte degli occupati. Il libro sostiene che Israele, in 50 anni di occupazione, di rivolte, conflitti, trattative, Camp David 1 e 2, Oslo, governi di destra e di sinistra, Rabin, Begin e Dayan, non ha mai veramente pensato di rinunciare a parte della sua sovranità sui territori tra il Giordano ed il mare. Carter pensò che la rinuncia su alcuni territori fosse possibile; lo pensò il ministro degli Esteri marocchino. Ceausescu, dopo un incontro, sostenne che “Begin vuole la pace ed è sufficientemente forte per concederla.” Sadat, alla Knesset, offrì pace e accoglienza in cambio della restituzione dei territori occupati. Ma il Governo di Israele non ha mai pensato a una cessione di sovranità. “Al cuore – scrive Bregman – vi era l’idea che, mentre Israele avrebbe garantito l’autonomia personale delle popolazioni palestinesi che vivevano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, grazie alla quale esse avrebbero potuto condurre la propria vita senza alcuna ingerenza israeliana, i palestinesi da parte loro non avrebbero detenuto alcun controllo del territorio perché questo sarebbe rimasto proprietà di Israele e sottoposto esclusivamente alla sua sovranità.” Il programma di Begin per l’autonomia palestinese prevedeva un consiglio amministrativo di 11 membri eletti a suffragio universale diretto, paritario e segreto: “la sicurezza e gli affari esteri, gli attributi della sovranità più importanti, avrebbero continuato ad essere materia di Israele.”

Il libro racconta le trattative, gli accordi di Oslo, i mutamenti di maggioranze, ma come schermaglie all’interno di una posizione inamovibile della potenza vincitrice, Israele, sulla sovranità. La documentazione, in parte di colloqui e posizioni riservate, è abbondante. È il contrario di molte cronache giornalistiche secondo cui il rifiuto a impegnarsi in una firma definitiva è stato sempre dei palestinesi, per diffidenza, per timore di perdere consensi. L’autore sostiene che non di un ingiustificato rifiuto si è trattato, ma dell’impossibilità di accettare la pura e semplice rinuncia all’indipendenza, anche solo di una parte, dei territori occupati.

In questo quadro complessivo, le storie delle singole aree sono storie di scelte arbitrarie di Israele subite dagli abitanti dei territori occupati; o, peggio, di trattamenti inumani e degradanti di prigionieri. Il controllo della forza ha sempre permesso ai vincitori di consentire o proibire, secondo la propria convenienza del momento, senza possibilità per i palestinesi di ricorrere ad una autorità imparziale, come avviene oggi con la dichiarazione di importanza militare di una certa area. Come è avvenuto anche nel Golan, che è territorio siriano, in cui spostamenti ritenuti temporanei si sono rivelati deportazioni permanenti.

Il libro ha un solo protagonista vero, ma dà voce a innumerevoli testimoni della parte sconfitta; testimoni della umiliazione, dell’impossibilità di prevedere, di conoscere i criteri del giusto e dell’ingiusto in base a cui dovevano comportarsi; dell’impossibilità di considerare sicuro neanche lo spazio della propria casa, il percorso dei propri figli.

È difficile per gente civile credere a quello che succede laggiù. L’umiliazione, la paura, le difficoltà materiali, l’angoscia del sapere che, senza alcuna ragione, puoi venir trattenuto, rimandato indietro, indurre la tua famiglia a pensare che, forse, come migliaia di altre persone, sei stato arrestato.” (citato da Izzeldin Abuelaish, Non odierò).

La distruzione delle case, su cui molto si è battuto e molto ha scritto Jeff Halper, è uno dei temi ricorrenti.

Sono particolarmente dettagliate le descrizioni di maltrattamenti e torture di detenuti: “Si picchiava il detenuto appeso a un sacco chiuso, con la testa coperta e le ginocchia legate; lo si legava tutto contorto a una conduttura esterna, con le mani dietro la schiena per ore.” (da un rapporto dell’asociazione israeliana per i diritti umani “B’Tselem”).

Non è un libro che si proponga di raccontare una storia equilibrata di un lungo conflitto in cui non si è direttamente coinvolti. È il libro di un cittadino dello Stato vincitore, che ha combattuto per il proprio Stato, ha partecipato all’ oppressione, si rifiuta di continuare a farlo e sceglie l’esilio per non farlo più. È un libro di denuncia non solo del proprio governo ma anche del proprio Stato, perché se ne denunciano gli atti costitutivi. Bregman non accetta l’apartheid costitutivo dello Stato di Israele, non crede alla possibilità di una via di uscita e perciò se n’è andato.

Il libro si legge con angoscia perché è il racconto di una serie di trappole a cui i palestinesi (o i siriani che abitavano le alture del Golan), una volta sconfitti e occupati, non hanno avuto la possibilità di sottrarsi. Le situazioni sono presentate dal punto di vista di chi le subisce, come mi sembra giusto.

L’autore, come è immaginabile data la sua storia, deve aver avuto accesso a fonti interne riservate, a testimonianze di chi ha condotto le trattative e preso le decisioni. Ha sostenuto che Ashraf Marwan, egiziano, genero di Nasser, nel ‘70 si arruolò nel Mossad, il servizio segreto israeliano, ma poi lo ingannò nel ‘73, durante la guerra dello Yom Kippur. Marwan fu trovato morto sotto la finestra della sua casa a Londra, il giorno in cui doveva incontrare Bregman, che ne ha raccontato la storia in un suo libro, The spy that fell to earth.

Vorrei aggiungere che La vittoria maledetta non è una storia di complotti ma la storia di una tragedia sociale, una delle molte di questo nostro secolo. È una storia di fatti evidenti interpretati secondo una tesi molto netta. Che l’oppressione ci sia e i fatti siano veri non è in dubbio. Che le trattative siano fallite è storia nota. Che siano fallite per la inflessibile volontà di Israele di non rinunciare alla sovranità su tutti i territori tra il Giordano e il mare, e quindi sulle popolazioni che li abitano, è la tesi che l’autore ritiene dimostrata dalle sue fonti.




L’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas guidano Stati di polizia paralleli — Human Rights Watch

Annelies Verbeek

23 ottobre 2018, Electronic Intifada

Un nuovo rapporto di Human Rights Watch ritiene sia l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania che Hamas a Gaza colpevoli di fare largo uso di arresti arbitrari e di tortura per reprimere le critiche e l’opposizione politica.

Il rapporto, intitolato “Due autorità, un sistema, zero dissenso”, è il risultato di due anni di ricerca. Si avvale di 86 casi di studio e 147 interviste, la maggior parte di ex detenuti.

Venticinque anni dopo Oslo, le autorità palestinesi hanno ottenuto un potere molto limitato in Cisgiordania e a Gaza, eppure, laddove hanno autonomia, hanno sviluppato stati di polizia paralleli”, ha detto Tom Porteous, un rappresentante di Human Rights Watch.

Gli appelli dei dirigenti palestinesi per salvaguardare i diritti dei palestinesi suonano vuoti dal momento che sopprimono il dissenso.”

Gli arresti arbitrari prendono di mira soprattutto coloro che criticano le autorità o esprimono sostegno per l’opposizione politica sui social media, sui giornali e nei campus universitari. Secondo Human Rights Watch le autorità spesso giustificano gli arresti sulla base di leggi generiche che criminalizzano attività che “provocano tensioni settarie” o “offendono le più alte autorità.”

Il rapporto riferisce numerosi esempi di casi individuali di abuso. Un uomo, precedentemente incarcerato da Israele, è stato in seguito arrestato 15 volte dalle forze di sicurezza dell’ANP per essersi affiliato al gruppo di Hamas quando era in prigione.

Un altro esempio è la detenzione per 15 giorni di un giornalista di Gaza che ha scritto su Facebook: “Mi chiedo se i figli dei nostri dirigenti dormono sul pavimento come i nostri figli”. È stato accusato di “uso scorretto della tecnologia” e definito “un istigatore alla sovversione”.

Tortura “abituale, deliberata e largamente utilizzata.”

Nel rapporto si afferma che la tortura e gli abusi durante la detenzione sono “abituali, deliberati e largamente impiegati”.

Entrambe le autorità utilizzano frequentemente un metodo di tortura chiamato ‘shabeh’, in cui i detenuti sono costretti in posizioni dolorose.

Human Rights Watch descrive i metodi usati come “analoghi alle annose prassi israeliane contro i palestinesi.”

Altri abusi documentati includono l’uso di scosse elettriche e colpi [inflitti] con cavi.

Human Rights Watch chiede agli USA e all’ Unione Europea, che sostengono finanziariamente l’Autorità Nazionale Palestinese, come anche al Qatar, all’Iran e alla Turchia, che sostengono Hamas, di sospendere l’assistenza alle forze di sicurezza coinvolte nei diffusi arresti arbitrari e torture. Inoltre raccomanda che gli arresti arbitrari e gli abusi da parte dell’ANP e di Hamas siano inclusi in ogni futura inchiesta della Corte Penale Internazionale sulla Palestina.

Sia Hamas che l’ANP negano che gli abusi siano sistematici e che vadano oltre casi limitati ed eccezionali. Inoltre entrambe le autorità affermano che tali casi vengono sottoposti ad indagine quando siano portati all’attenzione delle autorità.

Lo staff di Human Rights Watch non ha potuto recarsi a Gaza a parlare con le autorità di Hamas riguardo alle accuse, poiché Israele ha negato l’ingresso ai ricercatori.

Sia l’ANP che Hamas sono dotati di meccanismi interni idonei per presentare denunce contro gli abusi delle autorità. Centinaia di denunce sono state presentate da cittadini e organizzazioni per i diritti umani ma, secondo il rapporto di Human Rights Watch, solo “una esigua minoranza” ha avuto come esito un’azione disciplinare.

Associazioni per i diritti umani in Cisgiordania hanno posto l’Autorità Nazionale Palestinese – guidata da Mahmoud Abbas – sotto attenzione particolare a causa del suo coordinamento sulla sicurezza con Israele. L’ANP trasmette ad Israele le registrazioni dell’intelligence e degli interrogatori e vi sono stati casi documentati in cui gli israeliani che li interrogavano hanno detto ai prigionieri palestinesi di aver ricevuto le registrazioni dei loro interrogatori dall’ANP.

C’è la sensazione che non si possa criticare la leadership palestinese perché questo distoglierebbe l’attenzione dall’occupazione israeliana”, ha detto Yara Hawari del gruppo di esperti palestinese al-Shabaka.

Ma noi dobbiamo parlare degli abusi in modo da fornire il quadro completo. L’ANP e Hamas non stanno nel vuoto. Molte delle violazioni dei diritti umani che commettono avvengono sotto gli occhi di Israele e con l’avallo israeliano.”

Questo abuso di potere dimostra che le leadership palestinesi sono assolutamente deboli ed incapaci di guidare il loro popolo”, ha detto Hawari a ‘The Electronic Intifada’.

Ciò è triste. Ma io penso che questo tipo di rapporti sia importante perché dà ai palestinesi l’opportunità di ragionare su che genere di leadership in realtà vogliono e su che cosa, piuttosto che su chi, verrà dopo Abbas.”

Annelies Verbeek è una giornalista belga che vive a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il massacro di Pasqua a Gaza

Neve Gordon

1 aprile 2018, Al Jazeera

Il massacro di Pasqua a Gaza non è stato affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese

Per decenni i sionisti hanno imputato ai palestinesi la prosecuzione del progetto coloniale di Israele: “Se solo i palestinesi avessero un Mahatma Gandhi,” molti progressisti israeliani hanno esclamato, “allora l’occupazione finirebbe.”

Ma se si volessero realmente trovare dei Mahatma Gandhi palestinesi basterebbe vedere le immagini dei notiziari sui manifestanti di venerdì notte. Palestinesi, stimati in 30.000, si sono uniti nella “Marcia del Ritorno” nonviolenta, che intendeva piazzare alcuni campi a qualche centinaio di metri dalla barriera militarizzata che circonda la Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era protestare contro la loro incarcerazione nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, così come contro la massiccia espropriazione della loro terra ancestrale – dopotutto il 70% della popolazione di Gaza è composta da rifugiati del ’48 le cui famiglie sono state proprietarie di terre in quello che è diventato Israele.

Mentre gli abitanti di Gaza marciavano verso la barriera militarizzata, stavo seduto con la mia famiglia, recitando l’Haggadah [testo ebraico che ricorda l’esodo degli ebrei dall’Egitto, ndt.] per la festa di Pesach, che ci dice che “in ogni generazione c’è il dovere di guardare se stessi come se fossimo noi stessi usciti dall’Egitto”. In altre parole, mentre i soldati sparavano proiettili letali contro manifestanti pacifici, ai genitori di quei soldati veniva chiesto di immaginarsi cosa significhi vivere a Gaza e che cosa ci vorrebbe per liberarsi da una simile prigionia. E quando la mia famiglia ha iniziato a cantare “Non devono più faticare in schiavitù, lasciate che il mio popolo se ne vada,” i siti di notizie riferivano che il numero di palestinesi morti aveva raggiunto i 17, mentre parecchie centinaia erano stati feriti.

L’accusa che i palestinesi non hanno adottato metodi di resistenza non violenta e quindi condividono la responsabilità della continua oppressione e espropriazione da parte di Israele non solo nega completamente la notevole asimmetria delle relazioni di potere tra il colonizzatore ed il colonizzato, ma, cosa non meno importante, non prende in considerazione la storia politica e le lotte anticoloniali, non ultima proprio quella palestinese. Inoltre ignora totalmente il fatto che il progetto coloniale di Israele è stato condotto attraverso una violenza ususrante, prolungata e diffusa e che, a differenza di quello che certi mezzi di informazione occidentali propongono, i palestinesi hanno sviluppato una forte e persistente tradizione di resistenza non violenta. Oltretutto, la richiesta di adottare un’ideologia non violenta ignora completamente la storia di altre lotte di liberazione: dall’Algeria al Vietnam, fino ad arrivare al Sud Africa.

Nonviolenza palestinese

La “Marcia del Ritorno” nonviolenta di venerdì e la risposta israeliana non sono affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese. La marcia è stata organizzata in coincidenza con l’anniversario del “Giorno della Terra”, che commemora quel tragico giorno del 1976 in cui le forze di sicurezza israeliane affrontarono uno sciopero generale e una protesta di massa organizzata dai cittadini palestinesi di Israele, la cui terra era stata confiscata. In quella protesta pacifica sei palestinesi vennero uccisi e altre centinaia feriti dall’esercito israeliano.

In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le cose sono sempre andate molto peggio, dato che ogni forma di resistenza palestinese non violenta è stata un diritto vietato dopo la guerra del 1967. Tenere incontri politici, sventolare bandiere o altri simboli nazionali, pubblicare o distribuire articoli o disegni di carattere politico o persino cantare o ascoltare canzoni nazionaliste – per non parlare dell’organizzazione di scioperi e manifestazioni – sono stati illegali fino al 1993 (ed alcuni lo sono ancora nell’Area C [oltre il 60% dei territori occupati, sotto totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndt.]). Qualunque tentativo di protestare in uno di questi modi è stato inevitabilmente affrontato con la violenza.

Appena tre mesi dopo la Guerra del 1967, i palestinesi lanciarono con successo uno sciopero generale delle scuole in Cisgiordania: i docenti rifiutarono di presentarsi al lavoro, i ragazzini occuparono le strade per protestare contro l’occupazione e molti commercianti non aprirono i propri negozi. In risposta a questi atti di disobbedienza civile Israele mise in atto severe misure poliziesche, dal coprifuoco notturno ad altre restrizioni alla libertà di movimento, fino all’interruzione delle linee telefoniche, all’arresto di dirigenti e a crescenti maltrattamenti nei confronti della popolazione. Questo, in molti modi, diventò il modus operandi di Israele quando dovette affrontare la continua resistenza nonviolenta dei palestinesi.

Eppure sembra che vi sia una generale amnesia sociale riguardo alla reazione di Israele alle tattiche gandhiane. Quando i palestinesi lanciarono uno sciopero del commercio in Cisgiordania, il governo militare chiuse decine di negozi “fino a nuovo ordine”. Quando tentarono di emulare lo sciopero dei trasporti di Martin Luther King, le forze di sicurezza bloccarono completamente le linee dei bus locali. Inoltre durante la Prima Intifada i palestinesi adottarono strategie di disobbedienza civile di massa, compresi scioperi dei negozianti, boicottaggio dei prodotti israeliani, una rivolta fiscale e proteste quotidiane contro le forze di occupazione. Israele rispose con l’imposizione del coprifuoco, la limitazione della libertà di movimento e arresti di massa (per citare solo alcune delle misure violente). Tra il 1987 e il 1994, per esempio, i servizi segreti interrogarono più di 23.000 palestinesi, uno ogni cento abitanti della Cisgiordania e di Gaza. Ora sappiamo che molti di loro vennero torturati.

Quindi il dramma è che questo massacro di Pasqua non fa che unirsi a questa lunga lista della resistenza nonviolenta che è stata storicamente affrontata da Israele con la violenza e la repressione.

Le sommosse sono il linguaggio di chi non viene ascoltato”

Immaginiamo per un momento cosa significhi vivere in una prigione a cielo aperto, anno dopo anno. Immaginiamo di essere i prigionieri e che il carceriere abbia il potere di decidere quanto cibo possiamo mangiare, quando possiamo avere l’elettricità, quando possiamo ricevere trattamenti sanitari specialistici e se possiamo avere abbastanza acqua da bere. Immaginiamo anche che ogni volta che camminiamo nei pressi della barriera diventiamo bersaglio delle guardie. Quali azioni di resistenza nonviolenta sono effettivamente a nostra disposizione? Andreste pacificamente ad attraversare la barriera? Migliaia di palestinesi l’hanno coraggiosamente fatto e molti hanno pagato con la vita.

Anche se Gaza è, da molti punti di vista, unica, storicamente le popolazioni indigene si sono trovate in situazioni simili. Ciò è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, quando hanno affermato “la legittimità della lotta dei popoli per la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione ad altri con ogni mezzo possibile, compresa la lotta armata.” Lo stesso Gandhi pensava che in certe circostanze la violenza fosse una scelta strategica legittima: “Io credo”, scrisse, “che dove c’è solo la scelta tra la vigliaccheria e la violenza io raccomanderei la violenza…Pertanto io sostengo anche l’addestramento all’uso delle armi per quelli che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il proprio onore piuttosto che diventasse o rimanesse vigliaccamente testimone impotente del proprio disonore.”

Si potrebbe sperare altrimenti – ed io sicuramente lo faccio -, ma nessun progetto coloniale è terminato senza che i colonizzati abbiano fatto ricorso alla violenza contro i loro oppressori. Chiedere o persino domandare con rabbia la liberazione non è mai stato efficace.

Ironicamente questo è anche uno dei messaggi fondamentali della festa della Pasqua ebraica. La storia dell’Esodo racconta come Mosè si rivolse varie volte al faraone, chiedendogli di liberare i figli di Israele dalla schiavitù. Eppure ogni volta il faraone rifiutò. Fu solo dopo che una terribile violenza venne scatenata contro gli egiziani che gli israeliti vennero liberati.

Questa di certo non è una cosa che possiamo mai augurarci, ma quando si guarda la risposta di Israele alla marcia non violenta dei palestinesi, quello che è chiaro è che dobbiamo urgentemente trovare un modo per capovolgere la domanda sionista per evitare futuri bagni di sangue. Piuttosto che chiedere quando i palestinesi produrranno un Mahatma Gandhi, dobbiamo domandarci: quando Israele produrrà un dirigente politico che non sostenga l’oppressione dei palestinesi attraverso l’uso di una violenza omicida? Quando, in altre parole, Israele finalmente si libererà di questa etica da faraone e comprenderà che i palestinesi hanno diritto alla libertà?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon ha conseguito una borsa di studio “Marie Curie” ed è professore di Diritto Internazionale alla Queen Mary University di Londra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Infanzia rubata: la vita dei minori palestinesi dopo la prigione

Chloé Benoist

5 marzo 2018, Middle East Eye

I minori palestinesi incarcerati da Israele affrontano il trauma e la sfida di cercare di riconquistare la propria infanzia.

CISGIORDANIA OCCUPATA – A volte il diciottenne Mohammad sogna di essere ancora nella prigione militare di Ofer.

“Ricordo i miei amici in prigione. Mi sembra di essere di nuovo là”, dice sommessamente il giovane palestinese, tenendo gli occhi bassi mentre ricordava gli otto mesi passati nella prigione israeliana tra il 2016 e il 2017.

Mohammad, che preferisce non rivelare il suo cognome per motivi di sicurezza, è stato incarcerato quando aveva solo 16 anni.

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri palestinesi “Addameer”, in gennaio sono stati incarcerati 330 minori palestinesi.

Tra loro vi è Ahed Tamimi, la ragazza di 17 anni il cui caso è stato una notizia da prima pagina sui giornali di tutto il mondo da quando è stata incarcerata a dicembre.

“Sì, sono orgoglioso. Sì, lei è forte”, dice l’attivista politico e padre di Ahed, Bassem Tamimi. “Ma è cresciuta troppo presto per la sua età. Ha perduto la sua infanzia a causa di qualcosa di cui noi –il mondo, gli adulti – siamo responsabili.”

Violenza fisica

Secondo Carol Zoughbi-Janineh, supervisore amministrativo di YMCA di Gerusalemme est, programma di riabilitazione per ragazzini che sono stati in prigione, il numero di minori palestinesi detenuti dalle forze israeliane è costantemente aumentato dal 2000.

“Quando abbiamo dato inizio al programma (nel 2008) vi erano tra 500 e 700 minori detenuti all’anno. L’anno scorso sono stati 1.467”, dice a MEE. “È davvero un dato allarmante.”

Zoughbu-Janineh dice che, benché la stragrande maggioranza dei minori detenuti sia costituita da maschi, le ragazze sono state arrestate in sempre maggior numero negli ultimi tre anni, con oltre 60 ragazze arrestate nel 2017, un forte aumento rispetto a una o due per ogni anno antecedente il 2015.

Diverse associazioni per i diritti nel corso degli anni hanno denunciato le condizioni di incarcerazione dei minori palestinesi – puntando l’indice sulla sistematica incriminazione di fronte ai tribunali militari, con un tasso di condanne vicino al 100%.

Secondo “Defense for Children Iternational – Palestina “(DCIP), tre minori su quattro subiscono violenza fisica durante l’arresto o l’interrogatorio.

Rapporti di “Human Rights Watch” (HRW) e delle associazioni israeliane per i diritti B’Tselem e HaMoked hanno rivelato che le forze israeliane usano violenza non necessaria durante l’arresto di minori e “ regolarmente” li interrogano senza la presenza di un parente o di un avvocato. Parecchi minori hanno riferito di essere stati presi a schiaffi e calci, picchiati e bendati durante il loro arresto o interrogatorio.

Secondo le associazioni per i diritti umani, spesso ai minori vengono fatti firmare documenti scritti in ebraico, anche se non capiscono la lingua. Inoltre i minori sono abitualmente detenuti insieme agli adulti.

Il Servizio Carcerario Israeliano (IPS) non ha risposto alla richiesta di MEE di parlare delle condizioni detentive e delle violazioni riferite su minori palestinesi, o di dire quali servizi psicologici, se esistenti, fossero disponibili per i prigionieri minori al momento della pubblicazione [di questo articolo].

Quasi la metà dei palestinesi nei territori occupati sono minori di 18 anni. Per Mohammad, Ahed e molti altri giovani palestinesi che sono stati nelle carceri israeliane, le difficoltà non finiscono dopo essere usciti di prigione. Questi ragazzi devono imparare come riconquistare la propria infanzia dopo una così traumatica esperienza.

Acclamati come eroi

Mohammad è stato arrestato dalle forze israeliane alla fine del 2016 insieme a parecchi suoi amici, mentre si trovavano vicino ad un centro giovanile locale.

Secondo lui, è stato picchiato durante l’arresto e quando era sotto custodia israeliana ed accusato di aver lanciato pietre, che è un’ imputazione usuale contro i minori palestinesi.

La condanna, se c’è, può arrivare fino a 20 anni di prigione, ma Mohammad è stato rilasciato otto mesi dopo, senza aver subito alcuna condanna per alcun reato.

“Quando mi hanno rilasciato sono rimasto sorpreso”, dice Mohammad, ricordando quasi un anno dopo quel momento. “La liberazione dopo una detenzione di otto mesi, dopo che mi hanno detto che non ero colpevole di niente, ero felice e al tempo stesso sbalordito, perché non mi aspettavo di essere rilasciato.”

Mentre la liberazione di un prigioniero è un momento di grandi celebrazioni nei territori occupati, in seguito gli ex prigionieri vengono spesso lasciati a lottare con pensieri ed emozioni difficili quando tornano alla vita normale – un processo complicato, che è molto più arduo per dei ragazzi.

“I ragazzi sono più colpiti degli adulti (dal carcere), perché i loro meccanismi di difesa sono più deboli, in quanto il loro cervello è ancora in evoluzione”, avverte la psichiatra e psicoterapeuta palestinese Samah Jabr. “Un’esperienza come questa può spezzare il tessuto sociale intorno al giovane, il suo rapporto con la famiglia e la società.”

I prigionieri detenuti da Israele sono celebrati come eroi nella società palestinese, un ruolo che può spingere i minori a non mostrare segni di debolezza.

“A volte quel ruolo costringe le persone in una camicia di forza. Non possono esprimere il dolore; non possono chiedere aiuto; non possono mostrare le loro vulnerabilità”, dice Jabr.

Sia Jabr che Zoughbi-Janineh elencano una serie di sintomi psicologici manifestati dai minori dopo che erano stati rilasciati dal carcere, compresi depressione, ansia, problemi di concentrazione, introversione o comportamento aggressivo.

“Se sono con i miei amici o con la mia famiglia non sono triste. Ma se sono da solo a casa, incomincio a pensare alla prigione e a tutto il resto. E incomincio a sentirmi triste”, ha detto Mohammed, aggiungendo che passa molto tempo fuori con gli amici, per evitare di restare solo con i suoi pensieri.

Mentre Jabr dice che molti dei sintomi mostrati dai ragazzi ex prigionieri potrebbero rientrare nella classificazione di disordine da stress post-traumatico (PTSD), il perdurante trauma causato dai settant’anni di occupazione israeliana ha reso difficile affrontare tali questioni in passato.

“Raramente faccio per questi minori una diagnosi di PTSD [disturbi da stress post-traumatico]. Penso che ciò che accade sia una distruzione più subdola della loro personalità. Non si tratta solo di un evento traumatico, dopo il quale le persone vivono in pace per sempre”, dice Jabr, che ha scritto il libro “Derrière les fronts” [Dietro i fronti], che getta lo sguardo sull’impatto psicologico dell’occupazione. Il libro dovrebbe uscire verso la fine del mese.

‘Impotenti a proteggere i propri figli’

Dal momento dell’arresto – che spesso avviene in casa in piena notte – i minori imprigionati sono afflitti da “impressionanti immagini di impotenza, debolezza e disperazione dei genitori” incapaci di proteggere i propri figli, dice Jabr.

Zoughbi sottolinea un problema ancor più grande per le famiglie di Gerusalemme est annessa, dove molti minori sono condannati agli arresti domiciliari invece che al carcere.

“All’inizio potresti pensare ‘mio figlio non è in prigione’, ma dover stare in casa è psicologicamente ancor più devastante perché si chiede ai genitori di imprigionare il proprio stesso figlio”, dice. “Non vedi più i tuoi genitori come tali. Li vedi come carcerieri.”

Dopo la liberazione, le famiglie spesso lottano per ricostruire il rapporto di fiducia tra genitori e figli, in quanto i ragazzi si ribellano contro l’autorità dei genitori.

Molti ragazzi lottano per reinserirsi a scuola, soffrendo di problemi psicologici e venendo inquadrati in classi inferiori dopo aver passato molto tempo in prigione con un accesso minimo all’educazione. Il risultato è che minori ex prigionieri come Mohammad spesso lasciano la scuola. Lui ha lasciato la scuola superiore ed ora fa due lavori part-time.

Anche le amicizie finiscono per risentirne, in quanto i ragazzi ex detenuti faticano a rapportarsi con i loro pari e mostrano tendenze a isolarsi.

“Prima del carcere ero estroverso, parlavo a voce alta, ma ora sono più silenzioso”, dice Mohammad, aggiungendo di sentire una maggiore affinità con amici che sono stati in carcere con lui piuttosto che con quelli che non sono mai stati in prigione, “perché quelli fuori non hanno mai provato niente di simile.”

Per paura di essere nuovamente arrestato, Mohammad non va più al centro giovanile locale vicino al quale è stato arrestato e al più tardi alle dieci di sera è sempre a casa.

Un membro della comunità ha detto a MEE che le forze israeliane hanno fatto irruzione nella città di Mohammed ed arrestato il giovane ed un amico per alcune ore, alcuni giorni dopo l’intervista. Sono stati rilasciati senza essere informati del perché fossero stati presi, confermando i timori di Mohammad.

Quando non hai scelta’

Le Ong come YMCA forniscono servizi di riabilitazione per ragazzi ex prigionieri, ma Zoughbi-Janineh dice che l’organizzazione può farsi carico di 400 casi all’anno al massimo, sottolineando che le risorse limitate impediscono seriamente di raggiungere tutti i giovani colpiti che necessitano di supporto.

Intanto, Bassem Tamimi ammonisce che molte famiglie, soprattutto in zone politicamente attive come il villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania, diffidano delle Ong che si occupano di fornire supporto psicologico. Sospettano che queste organizzazioni potrebbero scoraggiare i ragazzi dall’impegnarsi nelle attività della resistenza.

“Lanciare pietre fa parte del trauma? Qualcuno potrebbe ritenere che sia così, sì”, dice. “O è una cura per la rabbia interiore? Magari i ragazzi curano se stessi evitando di essere solo vittime.”

Bassem afferma che gli abitanti di Nabi Saleh, dove vive la famiglia Tamimi, hanno inventato il loro modo per aiutare i ragazzi di fronte alla minaccia di arresto. Dice che lui cerca sempre di spiegare la situazione ai suoi figli fin da piccoli, invece di nascondergliela.

“Se spavento i miei figli e li tengo da parte, allora verranno spezzati dentro, e questo per loro è peggio che se gli venisse spezzata una mano”, dice.

Bassem racconta che il villaggio ha organizzato diverse sessioni di formazione durante le quali ai ragazzi viene detto che cosa aspettarsi durante l’arresto, l’interrogatorio e il processo, comprese simulazioni in cui i minori vengono bendati e ammanettati. Manal Tamimi, zia di Ahed, commenta una di queste sessioni di formazione su Facebook, dicendo:

“Certo non è normale sottoporre questi ragazzini ad una simile formazione, e non stiamo dipingendo come normale la situazione, ma questa è la nostra realtà e la nostra vita e quei minori devono essere preparati a tutto ciò che potrebbe succedere.”

Da parte sua, Jabr esprime delle riserve su queste sessioni di formazione.

“Preferisco un approccio più generale e meno ansiogeno”, dice. “Un approccio in cui stimoliamo la resilienza, i punti di forza delle persone, le loro abilità sociali, la loro assertività, le tecniche di relazione”, sostiene.

Jabr afferma di aver lavorato con consulenti scolastici, insegnanti, organizzatori di comunità e allenatori per creare reti comunitarie di adulti sensibilizzati ai bisogni psicologici dei minori. È un approccio che secondo lei potrebbe evitare lo stigma legato al cercare aiuto psicologico.

Per Jabr, l’incarcerazione di minori indica una politica israeliana consapevole che prende di mira la gioventù palestinese.

“Penso che questa sia un’azione deliberata per intimidire la comunità palestinese”, dice. “Ritengo che, quando una popolazione vive questa esperienza in età molto giovane, si tratti di un tentativo di mettere in ginocchio la comunità. Gli israeliani sperano che i palestinesi diventino l’ombra di ciò che sono.”

Bassem respinge le illazioni, diffuse da dirigenti israeliani, che i palestinesi tengano poco al benessere dei loro figli.

“A volte ci accusano di usare i nostri figli, di metterli in pericolo”, dice Tamimi. “Se qualcuno ci desse un posto sicuro in Palestina, metteremmo là i nostri figli. Ma lei (Ahed) non è in una condizione che le permetta di vivere una vita normale.”

“La nostra situazione ha bisogno di una cura: la fine dell’occupazione”, aggiunge. “Quando non hai scelta, che cosa dovresti fare? Noi dobbiamo imparare a fare i conti con questa situazione, ad essere abbastanza forti per affrontarla, a crescere i nostri figli in un modo diverso.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)





Un ragazzo palestinese ripreso in una foto virale sarà giudicato da un tribunale con il 99,74% di probabilità di condanna

Sheren Khalel

18 dicembre 2017, Mondoweiss

Fawzi al-Junaidi, di 16 anni, affronterà oggi un’audizione presso un tribunale militare israeliano, dopo essere stato detenuto dagli israeliani per più di una settimana.

Junaidi è stato arrestato durante gli scontri scoppiati nella città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, il 7 dicembre, il giorno dopo l’annuncio del Presidente USA Donald Trump del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.

Una foto scattata dal fotografo Wisam Hashlamoun durante l’arresto è diventata virale: mostrava il ragazzo disorientato e bendato mentre era malmenato, circondato da almeno venti soldati israeliani armati quando è stato portato via.

Brad Parker, dirigente ed avvocato per la Difesa Internazionale di ‘Defense for Children International – Palestine (DCIP)’, ha detto a Mondoweiss che la foto dovrebbe essere considerata come un simbolo delle normali pratiche israeliane riguardo ai ragazzi palestinesi, e non come una situazione eccezionale.

L’immagine ha fornito un’istantanea vivida e cruda della disparità di potere implicita nell’occupazione militare israeliana dei palestinesi ed ha contribuito a palesare i continui e diffusi maltrattamenti, sistematici ed istituzionalizzati, dei minori palestinesi detenuti dalle forze israeliane”, ha detto Parker.

L’avvocata di Fawzi, Farah Bayadsi, ha riferito ai media che il ragazzo era stato picchiato e presentava “contusioni sul collo, sul petto e sulla schiena.” Il ragazzo ha detto che i soldati lo hanno colpito con un fucile. Fawzi è accusato di aver lanciato pietre durante gli scontri, fatto che lui nega. Se ritenuto colpevole, la massima pena per il lancio di pietre è di 20 anni nelle prigioni israeliane.

Le probabilità che Fawzi venga giudicato colpevole sono alte, poiché, in base alla stessa documentazione interna del tribunale, il 99,74% dei casi portati davanti al tribunale militare israeliano si conclude con un verdetto di colpevolezza.

Tuttavia Parker ha detto che il tribunale non è in errore, ma agisce piuttosto secondo le direttive per cui è stato concepito. “Se i ragazzi palestinesi come Fawzi continuano a subire diffuse esperienze di maltrattamenti e torture e il sistematico diniego dei dovuti diritti al processo, è evidente che la detenzione militare israeliana ed il sistema giudiziario non non sono interessati a fare giustizia”, ha spiegato Parker. “Ciò che emerge è un sistema di controllo che si spaccia per giustizia. Non è che sistema di detenzione militare non funzioni, sta lavorando precisamente come previsto per negare i diritti fondamentali.”

In un reportage di al Jazeera, l’avvocata di Fawzi ha detto ai giornalisti che il primo giudice che ha esaminato il suo caso è rimasto “sbalordito dall’eccessivo uso della forza” a cui è stato sottoposto il ragazzo.

Si è presentato con grosse ciabatte fornite dal carcere. Aveva perso le sue scarpe ed ha parlato del modo in cui è stato maltrattato durante il trasferimento alla prigione,” ha detto l’avvocata ai giornalisti.

La procura non ha neanche detto se i soldati saranno indagati per l’uso eccessivo della forza. Finora l’intero caso è stato trattato con negligenza.”

Parker ha detto a Mondoweiss di dubitare che gli agenti che lo hanno arrestato verranno accusati o giudicati responsabili di uso eccessivo della forza, visto che tre ragazzi palestinesi su quattro arrestati dalle forze israeliane riferiscono di aver subito aggressioni fisiche.

Le forze israeliane godono di completa impunità per le violenze fisiche contro i ragazzi palestinesi detenuti. Anche nei casi in cui le prove evidenziano che esse hanno illegalmente ucciso un ragazzo con proiettili veri, senza che egli rappresentasse una minaccia nei confronti dei soldati, non vi è stata giustizia né attribuzione di responsabilità.”

Secondo la documentazione di Addameer [associazione palestinese per la difesa dei detenuti, ndtr.], attualmente ci sono più di 300 minori palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.

In un rapporto diffuso da Addameer il 17 dicembre, l’associazione rivela che almeno 350 palestinesi sono stati arrestati nei primi 11 giorni dopo l’annuncio di Trump, che ha scatenato disordini in tutta la Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e a Gaza. Almeno nove degli arrestati sono minori palestinesi – anche se il numero potrebbe essere più elevato, in quanto il lavoro di documentazione è lento e complicato.

Il 16 dicembre le forze israeliane hanno arrestato nella Città Vecchia di Gerusalemme Sultan Ashour, di 16 anni, Mahmoud Taha, di 15, Muhammad Hamadeh, di 14 e Adnan Siyam, di 16. Il 15 dicembre hanno arrestato il tredicenne Abed al-Kareem Yassien, il quindicenne Muhammad Lutfi Melhem del villaggio di A’aneen e il diciassettenne Muhammad Ayman Sherydeh è stato arrestato a Tubas. Giovedì 14 dicembre il quindicenne Mutassem Hammas è stato arrestato a Ramallah.

In media, ogni anno vengono arrestati, detenuti e giudicati dal sistema giudiziario militare israeliano tra i 500 e i 700 minori palestinesi – dal 2000 sono passati nel sistema più di 8.000 minori palestinesi.

Dopo la condanna, circa il 60% dei ragazzi viene trasferito dai territori occupati alle carceri all’interno di Israele – una chiara violazione della Quarta Convenzione di Ginevra.

La conseguenza pratica di ciò è che molti di loro ricevono poche visite dei familiari, quando non nessuna, a causa delle restrizioni nella libertà di movimento e del tempo necessario a rilasciare un permesso di visita in carcere”, ha rilevato il DCIP.

Dato che nel 1991 Israele ha firmato la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia, dovrebbe attenersi agli standard della giustizia minorile internazionale, che prevedono che i minori “vengano privati della libertà soltanto come misura estrema”; tuttavia le associazioni internazionali per i diritti hanno riscontrato che l’arresto di minori palestinesi da parte delle forze israeliane e la condanna presso il sistema dei tribunali militari è una pratica diffusa e normale, anche per violazioni della legge di scarsa gravità.

Sheren Khalel è una giornalista multimediale indipendente, che si occupa di Israele, Palestina e Giordania. È specializzata in diritti umani, questioni femminili e conflitto israelo-palestinese. Khalel ha precedentemente lavorato per l’Agenzia Ma’an News a Betlemme e vive attualmente a Ramallah e Gerusalemme.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Università belga interrompe partenariato con torturatori israeliani

Ali Abunimah

7 Dicembre 2017, Electronic Intifada

L’università KU Leuven in Belgio ha intenzione di interrompere il suo ruolo nel progetto di “ricerca” finanziato dall’Unione Europea che si svolge in partenariato/collaborazione con i torturatori israeliani.

Luc Sels, rettore dell’università, ha annunciato mercoledì che i ricercatori avrebbero potuto completare la fase attualmente in corso del progetto LAW-TRAIN, che avrà termine in Aprile del 2018, ma che non prenderanno parte a fasi future.

LAW-TRAIN non può essere considerato separatamente dalla composizione del consorzio”, ha dichiarato Sels. “La partecipazione del Ministero della Pubblica Sicurezza israeliano pone per forza un problema etico, considerato il ruolo che il forte braccio del governo israeliano gioca nell’imporre un’occupazione illegale dei Territori Palestinesi e la collegata repressione della popolazione palestinese.” Sels ha aggiunto: “Per tale motivo non ritengo opportuno presentare progetti di prosecuzione con un simile consorzio.”

Plate-forme Charleroi-Palestina, un gruppo di solidarietà belga, ha definito la decisione “una bellissima vittoria per le organizzazioni e gli individui che si sono mobilitati contro questa collaborazione con la polizia israeliana.”

    1. Lavorare con i torturatori

LAW-TRAIN è cominciato nel maggio del 2015 con l’apparente scopo di “armonizzare e condividere tecniche di interrogatorio tra paesi coinvolti in modo da far fronte alle nuove sfide della criminalità transnazionale.”

Oltre a KU Leuven, LAW-TRAIN coinvolge anche l’università israeliana Bar-Ilan, il Ministero della Pubblica Sicurezza israeliano, il Ministero di Giustizia belga, la polizia Guardia Civile paramilitare spagnola, e la polizia rumena.

L’UE sostiene che LAW-TRAIN risponde a linee guida etiche. Tuttavia, esperti legali internazionali hanno affermato a giugno che LAW-TRAIN viola i regolamenti UE e il diritto internazionale, in quanto il Ministero della Sicurezza Pubblica israeliano “è responsabile di, o complice in, torture, altri crimini contro l’umanità e crimini di guerra.”

Accademici e attivisti belgi e palestinesi hanno chiesto che i partecipanti europei, inclusi la KU Leuven e l’istituto di ricerca portoghese INESC-ID, si ritirassero da LAW-TRAIN.

LAW-TRAIN è finanziato da Horizon 2020, un programma UE che fornisce milioni di dollari ai produttori di armi e ai trasgressori dei diritti umani israeliani sotto l’apparenza del supporto alla “ricerca”.

    1. Carta dei Diritti Umani

Sels, del KU Leuven ha scritto che uno dei futuri progetti di LAW-TRAIN era “una della questioni con cui mi sono dovuto confrontare subito” appena entrato in carica in agosto. Ha fatto notare che “gli attivisti hanno chiesto che interrompessimo subito il progetto, inclusi tutti i contratti (ad esso) relativi.”

Un altro risultato positivo è che Sels ha preso l’impegno a che la KU Leuven sviluppi “una carta dei diritti umani come strumento per valutare la partecipazione in progetti di ricerca.”

Questo potrebbe avere ampi benefici e spronare altri istituti e accademici a riesaminare la loro stessa complicità nelle violazioni dei diritti umani di Israele e di altri trasgressori.

Il governo portoghese si è già ritirato da LAW-TRAIN l’anno scorso, dopo che gli attivisti hanno sollevato preoccupazioni riguardo ai diritti umani.

Cornelia Geldermans, pubblico ministero olandese, indicata precedentemente nel comitato consultivo di LAW-TRAIN, sembra non essere più coinvolta, ma ci sono ancora tre accademici inglesi indicati come consulenti.

    1. Abusi finanziati dall’UE

Sels ha sottolineato che l’università avrebbe adottato un approccio imparziale alle questioni sui diritti umani, facendo notare che “i diritti umani vengono calpestati anche da alcune organizzazioni palestinesi.”

Ha ragione, e tali abusi sono facilitati anche dall’UE.

Per esempio, L’UE finanzia EUPOL-COPPS, una programma che forma le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese che reprimono violentemente l’opposizione palestinese all’occupazione militare israeliana.

Alcuni dei dirigenti che hanno guidato il programma sono stati, in precedenza, membri del Royal Ulster Constabulary, una realtà settaria smantellata, nota per abusi dei diritti umani nel Nord dell’Irlanda sotto governo inglese.

LAW-TRAIN non è l’unico progetto problematico finanziato dal progetto di ricerca Horizon 2020. L’iniziativa elargisce anche milioni di dollari a Elbit Systems, una compagnia israeliana che sta aiutando l’esercito israeliano ad eludere il divieto internazionale sulle bombe a frammentazione.

L’anno scorso Carlos Moedas, il commissario scientifico dell’UE a guida di Horizon 2020, ha fatto visita in Israele. Nonostante l’UE sostenga spesso che mantiene un “dialogo” con Israele sui diritti umani, a Moedas è stato suggerito da dirigenti UE che organizzavano il suo viaggio, di evitare commenti riguardo alle attività di sviluppo delle colonie da parte di Israele quando avesse incontrato il Ministro israeliano della Scienza.

Emanuele Giaufret, l’ambasciatore UE a Tel Aviv, ha recentemente vantato che Israele ha ricevuto la sbalorditiva somma di 534 milioni di dollari da Horizon 2020 fino ad ora.

Questa settimana Giaufret è stato visto “mentre celebrava la Giornata dei Diritti Umani” con il Ministero della Giustizia israeliano, il cui capo, Ayelet Shaked, ha notoriamente pubblicato un appello al genocidio dei palestinesi.

Giaufret ha anche stretto la mano a Uri Ariel, un ministro israeliano dell’ala di estrema destra che ha appoggiato un piano per espellere i palestinesi fuori dalla loro terra.

Uno studioso ben noto sull’Olocausto ha definito il piano sostenuto da Ariel come potenzialmente genocida e ha equiparato i valori del suo principale proponente, un altro legislatore israeliano, a quelli delle SS naziste.

In contrasto, gli attivisti accolgono certamente la decisione di KU Leuven di mettere fine al suo ruolo in LAW-TRAIN come una genuina vittoria per i diritti umani, contro la crescente complicità dei politici UE e il loro supporto per le politiche più estreme di Israele.

    1. Centinaia di politici spagnoli sostengono il BDS

Questa vittoria arriva tra altre grandi indicazioni della crescente consapevolezza europea del bisogno di mettere fine alla complicità, istituzionale e governativa, con i crimini di Israele contro i diritti umani.

La settimana scorsa, il Comitato Nazionale palestinese del BDS (BNC) ha accolto una dichiarazione firmata da centinaia di politici eletti in Spagna che esprimono supporto al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) come unico approccio per realizzare la giustizia e una pace duratura per il popolo palestinese.

Subito dopo la decisione del presidente USA Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, i palestinesi fanno appello ad una crescita di tali campagne.

I palestinesi, supportati dall’assoluta maggioranza nel mondo arabo e da milioni di persone di coscienza in giro per il mondo, non accetteranno l’ultima delle concessioni USA all’agenda estremista israeliana” ha detto il BNC.

Continueremo ad insistere per ottenere i nostri diritti sanciti dall’ONU e per mettere fine al regime di occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid di Israele attraverso la resistenza popolare e il movimento globale di boicottaggio, sanzioni e disinvestimento.”

Ari Nieuwhof ha contribuito alla traduzione [in inglese ndt].

(Traduzione.di Tamara Taher)




L’organo internazionale di controllo della medicina complice degli abusi israeliani

Derek Summerfield

17 novembre 2017, Electronic Intifada

Sono passati ormai 20 anni da quando Amnesty International ha sostenuto che i medici israeliani che lavorano con i servizi di sicurezza di Israele “costituiscono una parte del sistema in cui i prigionieri sono torturati, maltrattati e umiliati in modi che rendono le pratiche mediche in prigione in contrasto con l’etica medica.”

Da allora ci sono stati ripetuti tentativi – a cui il sottoscritto ha partecipato – per far sì che il cane da guardia internazionale della deontologia medica, la World Medical Association (WMA), chieda conto alla Israeli Medical Association (IMA) di queste pratiche.

Tuttavia, con il fallimento dell’ultimo tentativo l’anno scorso, e nonostante i cambiamenti della leadership negli anni, oggi si deve trarre la conclusione che, quando si tratta di Israele, la WMA non è adatta a svolgere il ruolo per cui è stata creata dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La WMA ha il mandato si assicurarsi che le associazioni che ne fanno parte rispettino i suoi codici, in particolare la sua fondamentale dichiarazione di Tokyo del 1975 contro la tortura. Quest’ultima obbliga i medici non solo a non partecipare direttamente alla tortura, ma anche a proteggere le vittime e a pronunciarsi (contro di essa) ogniqualvolta essi vi si imbattano.

Il precedente significativo per la nostra azione contro l’associazione israeliana era l’espulsione dalla WMA della Medical Association del Sud Africa durante l’epoca dell’apartheid, precisamente per il fatto che i medici erano diventati parte di un sistema in cui la tortura era diventata routine, proprio come Amnesty International ha sostenuto essere nel caso di Israele.

Da allora, Physicians for Human Rights-Israel ha spesso affermato che, se la IMA avesse rifiutato di permettere ai medici di prestare servizio nelle unità di sicurezza dove comunemente viene praticata la tortura, la pratica sarebbe stata interrotta. La presenza dei medici in queste unità offre legittimazione morale agli interrogatori di Israele.

Azione globale

Il primo tentativo di far emergere la responsabilità della IMA è avvenuto nel 2009, quando 725 medici da 43 Paesi fecero appello alla WMA, allegando la documentazione di diversi gruppi per i diritti umani inclusi “Amnesty”, il “Public Committee Against Torture in Israel” e la coalizione “United Against Torture”. Il tentativo terminò quando divenne chiaro che l’allora presidente della WMA, Yoram Blacher, che era anche il presidente della IMA, non avrebbe preso nessuna iniziativa, ed egli rifiutò persino di attestare che aveva ricevuto l’atto.

Piuttosto che indagare su quanto veniva sostenuto nell’appello, Blachar fece causa per diffamazione a Londra contro la persona che era stata a capo della campagna nel 2009 (e che è anche l’autore di questo articolo). Abbiamo confutato l’accusa, che sosteneva che avevamo ingannato i firmatari per far loro firmare la petizione.

I firmatari ci hanno aiutato nella nostra confutazione, che ha avuto successo, assicurando agli avvocati della denuncia per diffamazione che [i firmatari] non erano affatto stati ingannati. Noam Chomsky fu tra coloro che diedero pubblicamente supporto al nostro impegno.

Il più recente di questi tentativi di dimostrare la responsabilità dell’IMA è giunto l’anno scorso, quando 71 medici inglesi hanno presentato un nuovo ricorso alla WMA. Questa volta, l’appello poggiava anche sul rapporto del 2011 di “Physicians for Human Rights-Israel,” “ Doctoring the Evidence, Abandoning the Victim: The Involvement of Medical Professionals in Torture and Ill Treatment in Israel” [“Fare il medico delle prove, abbandonare la vittima: il coinvolgimento dei professionisti della medicina nella tortura e nei maltrattamenti in Israele”], che riguardava il lavoro dei medici israeliani nelle unità della sicurezza dove la tortura dei detenuti era una regola.

Perché, chiedeva l’appello del 2016, i medici assegnati a queste unità non stavano proteggendo i prigionieri e non si stavano opponendo al loro trattamento? E perché la “Israeli Medical Association” non era intervenuta in base a questi rapporti, come avrebbe dovuto fare secondo gli standard definiti dalla “World Medical Association”?

Una speranza infranta

Questa volta speravamo che la reputazione internazionale del noto medico e accademico inglese Sir Michael Marmot, che in quel momento era presidente della WMA, avrebbe potuto avere un peso in un caso che rappresentava una critica evidente all’idea che le norme internazionali sul comportamento etico dei medici fossero sempre eque ed efficaci.

Marmot ci ha inviato una ricevuta che attestava la ricezione del ricorso (a differenza del suo predecessore), ma nel giro di pochi giorni dalla ricezione, fummo sorpresi di vedere una lettera di Marmot al “Simon Wiesenthal Center” pubblicata sul sito di quest’ultimo.

Diretta al Dottor Shimon Samuels, direttore per le relazioni internazionali del “Centro Wiesenthal”, la lettera sosteneva incredibilmente che, riguardo alle denunce del passato, le indagini non avevano rivelato alcun comportamento illecito o cattiva gestione dei casi da parte della ‘Israeli Medical Association’.”

Questo è totalmente falso. Per molti anni“Physicians for Human Rights-Israel” ha provato a far sì che la IMA facesse una tale indagine, ma ha trovato l’associazione costantemente indisponibile. In “Doctoring the Evidence” il gruppo per i diritti umani ha sostenuto nel 2011 che “Ripetuti e continui tentativi di richiamare l’attenzione della IMA sui casi che sollevavano dubbi sul coinvolgimento dei medici nella tortura e in trattamenti crudeli o degradanti, non erano stati effettivamente presi in considerazione.”

Nel 2009 la IMA si era occupata delle testimonianze di vittime di tortura raccolte nel 2007 dal “Public Committee Against Torture in Israel”, ma aveva concluso, dopo qualche telefonata, che le accuse erano prive di fondamento e falsate perché non c’erano altre prove “se non la parola dei prigionieri.” La conclusione delegittimava nei fatti a priori le lamentele dei prigionieri.

Non adatto allo scopo

La lettera di Marmot a Samuels ha in effetti regalato all’IMA una significativa vittoria propagandistica. Non solo ha fatto delle affermazioni errate: ha di fatto offerto alla IMA un’assoluzione pubblica e immediata. Pronunciata dal presidente della WMA in persona, che si suppone parli per l’intera organizzazione, questa è stata un vero successo propagandistico, ripreso da fonti mediatiche come “The Jerusalem Post”[giornale israeliano di destra, ndt.], il cui articolo è stato debitamente intitolato “La World Medical Association esprime fiducia nei medici israeliani in risposta alla campagna del BDS.”

Dopo ripetuti tentativi di far sì che la WMA imponga alla IMA il compito di un definitivo insieme di prove che dimostrino che l’establishment medico israeliano consente – nel migliore dei casi – un sistema di tortura nei confronti dei prigionieri, l’attenzione deve ora spostarsi sulla stessa WMA.

Sfortunatamente, come il caso di Israele dimostra, la WMA non sembra disposta ad agire contro soggetti con amici potenti come gli Stati Uniti. È molto meno esitante nel denunciare Stati meno potenti come l’Iran e il Bahrein, per citarne solo due.

Dobbiamo perciò concludere che l’ente medico internazionale è complice delle violazioni israeliane e che la sua presunta missione di sostenere gli standard etici in giro per il mondo è una farsa.

Questa è una cattiva notizia per i medici israeliani inseriti in ruoli eticamente compromettenti. È una notizia ancora peggiore per i prigionieri palestinesi che hanno poco che possa proteggerli.

Derek Summerfield è un medico accademico che vive a Londra, impegnato da 25 anni nelle campagne per i diritti umani in Israele/Palestina.

(Traduzione di Tamara Taher)




Un nuovo rapporto fornisce dettagli sul “vasto e sistematico abuso” da parte di Israele su minori a Gerusalemme est

Sheren Khalel

25 ottobre 2017, MondoWeiss

Un nuovo rapporto stilato dalle associazioni israeliane per i diritti umani ‘HaMoked:Centro per la difesa delle persone’ e B’Tselem, con l’appoggio dell’Unione Europea, ha rivelato “un vasto, sistematico abuso da parte delle autorità israeliane” nei confronti di centinaia di ragazzi detenuti a Gerusalemme est occupata.

Il rapporto, intitolato ‘Senza protezione: la detenzione degli adolescenti palestinesi a Gerusalemme est’, è stato diffuso mercoledì e riporta in dettaglio una ricerca su 60 dichiarazioni giurate raccolte tra maggio 2015 e ottobre 2016.

Le associazioni hanno riscontrato diversi casi di abuso su minori in custodia della polizia israeliana.

I ragazzi palestinesi di Gerusalemme est vengono tirati giù dal letto nel mezzo della notte, ammanettati senza che ve ne fosse la necessità, interrogati senza aver avuto la possibilità di parlare con un avvocato o con i loro familiari prima dell’inizio dell’interrogatorio e senza essere informati del loro diritto a rimanere in silenzio”, hanno riscontrato le associazioni. “Vengono poi tenuti in condizioni durissime, trattenuti ripetutamente in custodia cautelare per ulteriori periodi di giorni e persino di settimane, anche dopo che il loro interrogatorio è terminato. In alcuni casi, a tutto ciò si accompagnano insulti o minacce verbali e violenze fisiche.”

Mentre il rapporto raccoglie casi di un anno fa, questi arresti di ragazzi continuano. Per esempio, il 23 ottobre le forze israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio di Issawiya a Gerusalemme est durante incursioni notturne, provocando scontri tra i giovani del luogo e le forze israeliane armate di tutto punto.

Gli scontri non sono una novità per il conflittuale villaggio, situato vicino all’università ebraica di Israele e all’ospedale Hadassah, ma quel che in genere finisce magari con qualche arresto e ferimento, ha invece provocato fino a 51 palestinesi arrestati e portati via dalle forze israeliane – 27 dei quali tra i 15 e i 18 anni di età, secondo le informazioni del Comitato palestinese per le questioni dei prigionieri.

Il rapporto diffuso mercoledì dà un’idea di ciò che quei ragazzi potrebbero stare affrontando adesso.

I ragazzi si trovano soli in una situazione minacciosa e sconcertante, senza che nessuno spieghi loro di che cosa sono sospettati, quali siano i loro diritti, con chi possano comunicare, quanto durerà il processo e quando potranno tornare alle loro case e famiglie,” afferma il rapporto. “Fino a quando non vengono rilasciati, non hanno accanto nessun adulto di cui si possano fidare e i loro genitori sono tenuti lontani. Queste prassi di arresto ed interrogatorio lasciano libere le autorità di far pressione sui minori detenuti perché confessino le accuse.”

Andare contro il protocollo

Analizzando la legislazione ed il protocollo israeliani, le associazioni hanno scoperto che in questi casi le forze israeliane hanno spesso violato le loro stesse regole.

Per esempio, mentre la legge israeliana prevede che le forze di polizia arrestino i giovani solo in casi estremi, le testimonianze raccolte da B’Tselem e HaMoked dimostrano che solo nel 13% dei casi “la polizia non ha proceduto all’arresto”, per cui le associazioni hanno potuto stabilire che gli arresti sono “la prassi di azione prevalente” della polizia israeliana, quando ha a che fare con minori palestinesi nella Gerusalemme est occupata.

Inoltre, in base alla procedura israeliana, la contenzione fisica dei giovani “può essere utilizzata sui minori solo in casi eccezionali”; tuttavia, nei 60 casi esaminati dal rapporto, almeno l’81% dei minori è stato ammanettato prima di essere caricato su un veicolo della polizia, mentre il 70% è rimasto in manette durante gli interrogatori.

La legge israeliana vieta anche che, tranne che in circostanze eccezionali, i minori siano interrogati di notte, ma il 25% dei minori ha riferito di interrogatori notturni e il 91% è stato arrestato nel proprio letto nel mezzo della notte.

Il rapporto ha documentato che “anche se, almeno in alcuni casi, i poliziotti hanno aspettato fino al mattino per iniziare l’interrogatorio, i ragazzi vi sono giunti stanchi e spaventati dopo una notte insonne.”

I minori, arrestati nel loro letto nel mezzo della notte, hanno potuto contattare le loro famiglie solo “in rari casi”. Consentire la presenza dei genitori non è previsto dalla legge israeliana dopo un arresto ufficiale e, pur se la polizia ha la discrezionalità di concederla, al 95% dei minori presi in considerazione nel rapporto non è stata consentita la presenza di un genitore dopo l’arresto.

Il rapporto ha scoperto che solo il 70% dei minori ha compreso di avere il diritto di rimanere in silenzio, perché temevano che gli venisse fatto del male se non avessero risposto alle domande dei poliziotti.

Mentre il 70% di loro ha potuto parlare con un avvocato durante o prima degli interrogatori, B’Tselem e HaMoked hanno rilevato che in molti casi ai ragazzi è stato dato il telefono privato di chi li stava interrogando per parlare con l’avvocato e le conversazioni erano “inadeguate ed inutili perché i minori capissero i propri diritti e ciò a cui andavano incontro.”

Sarebbe ovvio che il sistema di applicazione della legge trattasse questi ragazzi in un modo consono alla loro età, che tenga conto della loro maturità fisica e psichica, riconoscendo che ogni atto potrebbe avere ripercussioni a lungo termine sugli stessi adolescenti e sulle loro famiglie”, spiega il rapporto. “Sarebbe ovvio che il sistema trattasse i ragazzi umanamente e correttamente e fornisse loro le protezioni fondamentali. Ma non è così.”

Secondo il rapporto, il 25% dei minori interrogati ha detto che è stata usata violenza su di loro, benché il rapporto non fornisca dettagli specifici su quale tipo di lesioni siano state provocate.

Inoltre, più della metà dei ragazzi ha detto che quelli che li interrogavano gli urlavano minacce e offese verbali. A quasi un quarto di loro non è stato permesso di andare in bagno e non è stato fornito cibo quando lo chiedevano.

Negare ai ragazzi cibo ed acqua è stato uno dei metodi principali per farli confessare, in quanto l’83% dei minori ha detto che una delle principali ragioni per cui ha firmato le confessioni è stato che aveva fame – l’80% delle dichiarazioni di confessione era in ebraico, per cui i ragazzi non potevano leggere ciò che stavano firmando.

Dietro gli arresti

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, vi sono diverse importanti ragioni per cui le forze israeliane fanno la scelta di arrestare minori nella Gerusalemme est occupata, oltre al mantenimento della legge e dell’ordine.

Addameer ritiene che i soldati e i poliziotti israeliani prendano di mira i giovani per esercitare pressione sulle famiglie e le comunità, spingendole a “interrompere la mobilitazione sociale” contro l’occupazione. Inoltre Addameer ha rilevato che l’arresto dei ragazzi quando sono giovani potrebbe dissuaderli dal partecipare a scontri e lanci di pietre – l’accusa più comune sollevata contro i giovani. Infine, Addameer riferisce di aver raccolto testimonianze che suggeriscono che i minori vengono “sistematicamente” arrestati e sollecitati a “divenire informatori” e a “fornire informazioni sia su importanti personalità coinvolte nelle attività militanti, sia su altri ragazzi partecipanti alle manifestazioni.”

Il rapporto di B’Tselem e HaMoked conclude che la politica israeliana nei confronti dei minori di Gerusalemme est è una politica appositamente creata e utilizzata dallo Stato per far pressione sui palestinesi della città perché se ne vadano, trattando la popolazione come se fosse esclusa dal sistema.

Il regime israeliano di applicazione della legge tratta i palestinesi di Gerusalemme est come membri di una popolazione ostile, che sono tutti, minori ed adulti, presunti colpevoli fino a che non si provi la loro innocenza, e mette in atto contro di loro misure estreme che non oserebbe mai impiegare contro altri settori della popolazione”, continua il rapporto. “Il sistema della giustizia di Israele sta, per definizione, da un lato della barricata e i palestinesi dall’altro: i poliziotti, gli agenti carcerari, i procuratori e i giudici sono sempre cittadini israeliani che arrestano, interrogano, giudicano e imprigionano ragazzi palestinesi che vengono considerati come nemici pronti a nuocere agli interessi della società israeliana.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)