La raccomandazione di un ministero del governo israeliano: espellere tutti i palestinesi da Gaza

Yuval Abraham

30 ottobre 2023 – +972 Magazine

Un documento del ministero israeliano dell’Intelligence reso pubblico da Local Call e +972 mostra come l’idea di un trasferimento della popolazione nel Sinai stia raggiungendo il dibattito a livello ufficiale.

Secondo un documento ufficiale rivelato integralmente per la prima volta ieri da Local Call, sito partner di +972, il ministero israeliano dell’Intelligence propone il trasferimento forzato e permanente nella penisola del Sinai, Egitto, dei 2,2 milioni di palestinesi che abitano nella Striscia di Gaza

Il documento di 10 pagine datato 13 ottobre 2023 reca il logo del ministero dell’Intelligence, un piccolo organismo governativo che sforna ricerche politiche e condivide le sue proposte con agenzie di intelligence, esercito e altri ministeri. Esso valuta tre alternative riguardanti il futuro dei palestinesi della Striscia nel quadro della guerra in corso e raccomanda un trasferimento totale della popolazione quale linea d’azione da privilegiare. Sollecita anche Israele a coinvolgere a sostegno dell’impresa la comunità internazionale. Il documento, la cui autenticità è stata confermata dal ministero, è stato tradotto in inglese e si trova integralmente sul sito di +972.

L’esistenza del documento non indica necessariamente che le sue raccomandazioni verranno prese in considerazione dalle istituzioni militari di Israele. Nonostante il suo nome, il ministero dell’Intelligence non è direttamente responsabile di nessun ente di intelligence, ma piuttosto prepara in modo indipendente studi e documenti programmatici che sono sottoposti all’esame di organismi governativi e di sicurezza israeliani, senza essere vincolanti. Il suo budget annuale è di 25 milioni di shekel (circa 5 milioni di euro) e la sua influenza è considerata relativamente limitata. È attualmente guidato da Gila Gamliel del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Comunque il fatto che un ministero del governo israeliano abbia preparato una proposta così dettagliata nel corso di un’offensiva militare su larga scala contro Gaza, in seguito all’assalto mortale di Hamas e ai massacri nelle comunità nel sud di Israele il 7 ottobre, riflette come l’idea di un trasferimento forzato di popolazione abbia raggiunto il livello del dibattito politico ufficiale. Timori di un piano simile, che costituirebbe un grave crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale, sono cresciuti nelle ultime settimane, specialmente dopo che l’esercito israeliano ha ordinato a circa 1 milione di palestinesi di evacuare la parte settentrionale della Striscia in previsione dell’escalation di bombardamenti e crescenti incursioni di terra.

Il documento raccomanda ad Israele di agire per “evacuare la popolazione civile nel Sinai” durante la guerra, di erigere tendopoli temporanee e in seguito città più permanenti nel Sinai settentrionale che assorbiranno la popolazione espulsa e poi creare “una zona cuscinetto di parecchi chilometri… in Egitto e [di impedire] il ritorno della popolazione ad attività/residenza vicino al confine con Israele.” Allo stesso tempo i vari governi nel mondo, capeggiati dagli Stati Uniti, devono essere mobilitati per realizzare lo spostamento.

Una fonte del ministero dell’Intelligence ha confermato a Local Call/+972 che il documento è autentico, che era stato distribuito ai settori della difesa da parte della divisione per le politiche del ministero e che “non sarebbe dovuto arrivare ai media.”

Chiarite che non c’è speranza di ritornare’

Il documento raccomanda inequivocabilmente ed esplicitamente il trasferimento di civili palestinesi da Gaza come risultato auspicato della guerra. L’esistenza del piano è stata per la prima volta riportata la scorsa settimana dal quotidiano di affari israeliano Calcalist e il testo completo del documento vi è pubblicato e tradotto.

Il piano di trasferimento consta di parecchi stadi. Nel primo stadio l’azione deve essere condotta in modo tale che la popolazione di Gaza “evacui verso sud,” mentre gli attacchi aerei si concentrano nella parte settentrionale della Striscia. Il secondo comincerà un’incursione via terra che porterà all’occupazione di tutta la Striscia da nord a sud, e la “pulizia dei bunker sotterranei dei combattenti di Hamas.”

Contemporaneamente alla rioccupazione di Gaza i civili palestinesi saranno spostati in territorio egiziano senza possibilità di ritorno. “È importante lasciare aperte le strade per raggiungere il sud e permettere l’evacuazione della popolazione civile verso Rafah,” afferma il documento.

Secondo un funzionario del ministero dell’Intelligence, dietro a tali raccomandazioni ci sarebbe il personale del ministero. La fonte sottolinea che la ricerca del ministero “non si fonda sull’intelligence militare” e serve solo come base per discussioni all’interno del governo.

Il documento propone di promuovere una campagna rivolta ai civili palestinesi a Gaza che “li motiverà ad accettare questo piano” e li porterà a rinunciare alla propria terra. “I messaggi dovrebbero essere incentrati sulla perdita di terra, chiarendo che non ci sarà speranza di ritornare nei territori che Israele presto occuperà, che questo sia vero o meno. Il messaggio deve essere: ‘Allah ha voluto che perdeste questa terra a causa dei leader di Hamas, non c’è altra scelta che trasferirsi in un altro posto con l’aiuto dei vostri fratelli mussulmani,’” dice il documento.

Inoltre esso invita il governo a condurre una campagna pubblica nel mondo occidentale per promuovere il piano di trasferimento “in modo che non inciti a denigrare Israele.” Per ottenere il sostegno internazionale ciò verrà fatto presentando l’espulsione come una necessità umanitaria e sostenendo che il trasferimento darà come risultato “un numero di vittime civili minore rispetto a quelle che ci sarebbero se la popolazione rimanesse.”

Il documento dice anche che gli Stati Uniti dovrebbero essere coinvolti nel processo per imporre una pressione sull’Egitto affinché accolga gli abitanti palestinesi di Gaza e che altri Paesi europei — in particolare Grecia e Spagna— ma anche Canada, dovrebbero contribuire ad accogliere e insediare i rifugiati palestinesi. il ministero dell’Intelligence ha detto che il documento non era ancora stato ufficialmente distribuito a funzionari USA, ma solo al governo e enti di sicurezza israeliani.

Una discussione politica più ampia

La scorsa settimana l’Istituto Misgav, un think tank di destra guidata da Meir Ben-Shabbat, stretto collaboratore del primo ministro Netanyahu ed ex direttore del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele, ha pubblicato una memoria ufficiale che suggeriva un simile trasferimento forzato della popolazione di Gaza nel Sinai. L’istituto ha recentemente rimosso il post da Twitter e dal suo sito web in seguito a una forte condanna internazionale.

Lo studio rimosso è stato scritto da Amir Weitmann, un attivista del Likud e, secondo fonti a lui vicine, uno stretto collaboratore della ministra dell’intelligence Gila Gamliel. La scorsa settimana, su una pagina Facebook intitolata “Il piano per reinserire Gaza in Egitto,” Weitmann ha intervistato il parlamentare del Likud Ariel Kallner che gli ha detto che “la soluzione che proponi di spostare la popolazione in Egitto è logica e necessaria.”

Questo non è il solo legame fra Likud, il ministero dell’Intelligence e il think tank di destra. Circa un mese fa il ministero dell’Intelligence ha promesso un trasferimento di circa 1 milione di shekel dal suo bilancio all’Istituto Misgav per condurre ricerche nei Paesi arabi. Che l’Istituto Misgav sia stato in un modo o in un altro coinvolto nella bozza delle raccomandazioni del ministero per il trasferimento dei gazawi, il suo logo comunque non appare sul documento.

Fonti presso il ministero dell’Intelligence dicono che il rapporto su Gaza è uno studio indipendente condotto dalla divisione delle politiche ministeriali senza un contributo esterno, ma non hanno confermato che recentemente il ministero abbia iniziato a lavorare con l’Istituto Misgav, sottolineando che l’ente governativo collabora con vari gruppi di ricerca con programmi politici diversi. L’Istituto Misgav non ha ancora risposto alle nostre domande per questo articolo.

Inoltre il documento è prima stato fatto trapelare a un piccolo gruppo interno WhatsApp di attivisti di destra che, insieme al sostenitore del Likud Whiteman, promuove il reinsediamento delle colonie israeliane nella Striscia di Gaza e il trasferimento dei palestinesi che ci vivono.

Secondo uno di questi attivisti il documento del ministero dell’Intelligence è arrivato a loro tramite la mediazione di una “fonte del Likud,” e la sua distribuzione pubblica è legata al tentativo di scoprire se “l’opinione pubblica israeliana è pronta ad accettare l’idea del trasferimento da Gaza.”

L’opzione preferita

Le possibilità di implementare completamente tale piano, che costituirebbe una totale pulizia etnica della Striscia di Gaza, sono molto scarse sotto molti aspetti. Il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha dichiarato di opporsi fermamente all’apertura del valico di Rafah per assorbire la popolazione palestinese di Gaza. Ha affermato che il trasferimento dei palestinesi nel Sinai minaccerebbe la pace fra Israele ed Egitto e ha ammonito che porterebbe i palestinesi a usare il territorio egiziano come base per continuare gli scontri armati contro Israele. Un piano simile era stato presentato in passato da funzionari israeliani e, fino ad ora, non si è mai sviluppato in una seria discussione politica.

Inoltre, dopo settimane di segnalazioni che gli Stati Uniti stavano cercando di sollevare l’idea di spostare i palestinesi in Egitto quale parte di un “corridoio umanitario,” ieri Joe Biden ha affermato che lui e Sisi erano impegnati a “garantire che i palestinesi di Gaza non fossero evacuati in Egitto o in nessuna altra Nazione.”

Il documento del ministero afferma che l’Egitto avrà l’“obbligo ai sensi del diritto internazionale di permettere il passaggio della popolazione,” e che gli Stati Uniti possono contribuire al processo “esercitando una pressione su Egitto, Turchia, Qatar, Arabia Saudita, e gli EAU perché contribuiscano all’iniziativa, o con risorse o assorbendo rifugiati.” Propone anche di condurre una campagna pubblica specifica mirata al mondo arabo “che si concentri sul messaggio di assistere i fratelli palestinesi e di reinserirli, anche al costo di usare un tono che incolpi o persino danneggi Israele.”

In conclusione il documento evidenzia che “la migrazione su larga scala” di non combattenti da zone di combattimento è un “esito naturale e ambito” che si è anche verificato in Siria, Afghanistan e Ucraina, per poi concludere che solo l’espulsione della popolazione palestinese costituirà “una risposta appropriata [che] permetterà la creazione di una deterrenza significativa nell’intera regione.”

Il documento offre altre due opzioni su cosa fare degli abitanti di Gaza alla fine della guerra. La prima permette all’Autorità Palestinese (AP), guidata dal partito Fatah della Cisgiordania occupata, di governare Gaza sotto l’egida di Israele. La seconda è di far nascere un’altra “autorità locale araba” come alternativa ad Hamas. Entrambe le alternative, afferma il documento, per Israele sono indesiderabili da una prospettiva strategica e di sicurezza e non costituiranno un sufficiente messaggio di deterrenza, specialmente per Hezbollah in Libano.

Gli autori dello studio precisano inoltre che delle tre alternative quella di portare a Gaza l’AP sarebbe la più pericolosa, perché potrebbe portare all’insediamento di uno Stato palestinese. “La divisione tra la popolazione palestinese in Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania, ndt.] e quella di Gaza è oggi uno degli ostacoli principali alla formazione di uno Stato palestinese. È inconcepibile che il risultato di questo attacco [i massacri di Hamas del 7ottobre] sia una vittoria senza precedenti del movimento nazionale palestinese e un percorso per la creazione di uno Stato palestinese,” precisa il documento.

Esso continua affermando che un modello di governo militare israeliano e uno civile dell’AP, come in Cisgiordania, probabilmente a Gaza fallirebbe. “Non si può mantenere un’efficace occupazione militare a Gaza solo sulla base di una presenza militare senza colonie [israeliane] ed entro un breve lasso di tempo nascerebbe una pressione interna israeliana e una internazionale per il ritiro.”

Gli autori aggiungono che in tale situazione lo Stato di Israele “sarebbe considerato una potenza coloniale con un esercito di occupazione—simile alla presente situazione in Giudea e Samaria, o anche peggio.” Essi osservano che l’AP ha una scarsa legittimità presso l’opinione pubblica palestinese e che, basandosi sulla precedente esperienza di Israele, nel passaggio del controllo di Gaza all’AP l’eventuale presa di potere di Hamas, Israele non dovrebbe “ripetere lo stesso errore che ha portato alla situazione attuale.”

L’altra alternativa, la formazione di una leadership araba locale per rimpiazzare Hamas, secondo il documento non è desiderabile, perché non c’è un movimento locale di opposizione ad Hamas ed è possibile che una nuova leadership sarebbe più radicale. “Lo scenario più plausibile non è … uno spostamento ideologico ma piuttosto l’emergere di movimenti islamisti nuovi e forse persino più estremisti,” si dice. Gli autori menzionano la necessità di “creare un cambiamento ideologico” nella popolazione palestinese tramite un processo che paragona alla “denazificazione,” che richiederebbe che Israele “scrivesse i programmi scolastici e ne imponesse l’uso a un’intera generazione.”

In conclusione il documento sostiene che se la popolazione di Gaza rimanesse nella Striscia ci sarebbero “molte vittime arabe” durante la prevista rioccupazione del territorio, cosa che danneggerebbe l’immagine internazionale di Israele persino più dell’espulsione della popolazione. Per tutte queste ragioni, la raccomandazione del ministero dell’Intelligence è di promuovere il trasferimento permanente di tutti i civili palestinesi da Gaza al Sinai.

Al momento della pubblicazione di questo articolo né il ministero della Difesa, né l’ufficio del portavoce dell’esercito e neppure l’Istituto Misgav avevano ancora risposto alle richieste da parte di +972 di un commento. Ogni risposta ricevuta verrà aggiunta qui.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista residente a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Manifestazioni dopo le minacce israeliane di distruggere un villaggio palestinese

Redazione di Al Jazeera

23 gennaio 2023 – Al Jazeera

Khan al-Ahmar si trova nella Cisgiordania occupata in un corridoio che Israele progetta di usare per collegare colonie israeliane illegali.

Decine di palestinesi hanno manifestato contro le minacce dei massimi dirigenti politici israeliani di attuare a breve lo spostamento forzato del villaggio beduino palestinese di Khan al-Ahmar, situato alla periferia orientale di Gerusalemme, ove risiedono circa 180 persone.

La protesta si è svolta lunedì dopo che Itamar Ben-Gvir, politico di estrema destra e ministro della Sicurezza Nazionale, ha detto che avrebbe proceduto con la rimozione forzata del villaggio e dopo che sono emersi i piani per una visita alla località dei ministri di estrema destra, inclusi Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

Alla fine vari politici del Likud, il principale partito del parlamento israeliano, si sono riuniti vicino al villaggio per poi andarsene.

Sabato Ben-Gvir ha detto che il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu “non adotterà norme giuridiche diverse per ebrei e per arabi” dopo lo sgombero da parte delle forze israeliane di un avamposto illegale ebraico nella Cisgiordania settentrionale occupata.

Comunque i palestinesi hanno precisato che si oppongono al paragone, secondo loro falso, fra Khan al-Ahmar e le colonie israeliane che sono illegali secondo il diritto internazionale.

Eid Jahalin, che si definisce il portavoce del villaggio, alle manifestazioni di lunedì ha detto che “dal 1967 ci sono state ordinanze militari per demolire case, istituire aree militari chiuse e altre che poi queste zone sono state trasformate in colonie illegali e riserve naturali”.

Il nostro destino è di rimanere in questa zona,” sostiene Jahalin. “E non si pensi che si tratti solo di Khan al-Ahmar, ci sono demolizioni nella valle del Giordano, a Masafer Yatta, nella città di Gerusalemme, succede continuamente in tutta la Palestina.”

Il destino di Khan al-Ahmar ha attirato l’attenzione internazionale per la sua pluriennale battaglia legale per la sopravvivenza contro le autorità israeliane.[ cfr. i molti articoli su Zeitun riguardo all’argomento]

Nel settembre 2018, la Corte Suprema Israeliana ha dato il via libera alla rimozione del villaggio, ora in pericolo di essere smantellato in ogni momento, ma da allora i piani di demolizione sono stati sospesi parecchie volte.

Il governo ha fino al primo febbraio per spiegare alla Corte Suprema perché il villaggio non è ancora stato demolito e per presentare un progetto.

Il governo israeliano ha detto che il villaggio è stato “costruito senza permesso”, ma le autorità rendono estremamente difficile ai palestinesi l’ottenimento di permessi di costruzione nella Gerusalemme Est occupata e in quella che è conosciuta come Area C, [sotto il totale ma temporaneo controllo israeliano, N.d.T.] che occupa più del 60% della Cisgiordania occupata. I palestinesi e le organizzazioni per i diritti umani dicono che la politica è parte di una più vasta strategia israeliana per rafforzare e mantenere nella regione una maggioranza demografica ebraica.

Il trasferimento forzato di persone protette in territori occupati è classificata come crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale.

Precedentemente Amnesty International ha definito gli sforzi per spostare gli abitanti di Khan al-Ahmar “non solo spietati e discriminatori [ma anche] illegali”.

Nel 2018 Amnesty ha affermato che “il trasferimento forzato della comunità di Khan al-Ahmar costituisce un crimine di guerra”. Israele deve porre termine alla sua politica di distruzione delle abitazioni dei palestinesi e dei loro mezzi di sostentamento per far posto alle colonie.”

Khan al-Ahmar è situato in Cisgiordania, a pochi chilometri da Gerusalemme, e fra le due più grandi colonie illegali israeliane, Maale Adumim e Kfar Adumim.

È situato lungo un corridoio chiave che si estende alla valle del Giordano dove Israele mira a espandere e collegare le colonie, in pratica tagliando in due la Cisgiordania.

Il nostro messaggio principale ai leader palestinesi: … se questo villaggio sarà distrutto, ci sarà una Cisgiordania settentrionale e una Cisgiordania meridionale,” dice Jahalin. “In ciò risiede l’importanza di Khan al-Ahmar.”

Maarouf Rifai, consulente legale della commissione contro il muro e le colonie dell’Autorità Palestinese (AP), ha detto ad Al Jazeera che l’AP non permetterà la demolizione del villaggio.

Questa è terra palestinese. È terra palestinese privata,” ha aggiunto. “Non ci sono altre scuse per il governo israeliano se non lo sviluppo del piano per una ‘Gerusalemme più grande’ e per collegare le colonie intorno Gerusalemme Est e scacciare da questa zona gli arabi palestinesi. Siamo qui per far sentire la nostra voce, per dire che non permetteremo che ciò accada.”

Secondo Amnesty International dall’inizio della sua occupazione della Cisgiordania nel 1967, Israele ha sfrattato forzosamente e sfollato intere comunità e demolito oltre 50.000 abitazioni e strutture palestinesi.

Anche un’altra comunità palestinese, una costellazione di villaggi nota come Masafer Yatta dove vivono oltre 1000 palestinesi vicino a Hebron, nella Cisgiordania meridionale, sta affrontando uno sfratto forzoso imminente da parte del governo israeliano.

L’attivista palestinese Khairy Hanoun, che era presente alla manifestazione a Khan al-Ahmar, dice: “Siamo qui per sfidare la decisione di Ben-Gvir’ e le scelte di tutto questo governo di destra.”

Siamo venuti qui per dir loro: voi demolite i nostri villaggi, le nostre città e le nostre abitazioni, ma non distruggerete la nostra perseveranza,” ha ripetuto ad Al Jazeera.

Usando l’esempio di al-Araqib, un villaggio demolito e ricostruito 211 volte, Hanoun conclude: “Se demolite Khan al-Ahmar, anche se lo demolite 100 volte, noi continueremo a ricostruirlo.”

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il paradigma umanitario della Palestina serve solo gli interessi israeliani

Ramona Wadi

10 ottobre 2022 Middle East Monitor

Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU, ha ancora una volta sottolineato che l’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees (UNRWA) [Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i rifugiati palestinesi, N.d.T.] e gli stessi rifugiati palestinesi sono sottoposti a un ciclo di sfruttamento violento che più che altro soddisfa il paradigma umanitario dell’organizzazione internazionale. Guterres, durante un incontro a latere della 77esima Assemblea Generale dell’ONU, ha invocato ulteriori donazioni per l’agenzia, dicendo che c’è stata una continua discrepanza fra il supporto retorico all’UNRWA e i finanziamenti.

Descrivendo l’agenzia come “una rete di protezione per i più vulnerabili,” Guterres ha aggiunto: “Continuiamo tuttavia a tenere l’UNRWA intrappolata in un limbo finanziario. È ora di abbinare l’enorme sostegno per il mandato con finanziamenti alle sue attività più solidi e prevedibili. Cerchiamo di aiutare l’UNRWA ad aiutare i rifugiati palestinesi. Cerchiamo di investire in pace, stabilità e speranza.”

Anche se l’UNRWA ha certamente fornito servizi essenziali ai rifugiati palestinesi dal 1949, la sua totale dipendenza già agli inizi da fondi esterni non può essere separata dall’abbandono del problema dei rifugiati palestinesi da parte dell’ONU. Il mandato dell’UNRWA doveva essere temporaneo fino a quando non si fosse trovata una soluzione per i rifugiati palestinesi. Eppure, anche prima della sua fondazione, la complicità dell’ONU nel fornire a Israele il quadro complessivo per le espulsioni forzate dei rifugiati palestinesi grazie al Piano di Partizione 1947 ha contribuito alla crisi attuale. Non solo i rifugiati palestinesi dipendono dall’UNRWA, ma l’agenzia stessa dipende quasi totalmente da finanziamenti esterni grazie a donazioni volontarie di Stati membri dell’ONU.

I rifugiati palestinesi sono anche stati isolati dalle politiche del diritto al ritorno che è ora il più usato per giustificare l’esistenza dell’UNRWA. Non è mai stato permesso di esercitare questo legittimo diritto a causa del rifiuto di Israele di accettarlo, anche se l’adesione all’ONU dello Stato occupante dipendeva dal ritorno dei rifugiati. Perciò l’UNRWA è diventata, più o meno, una presenza fissa. Per la comunità internazionale l’esistenza dell’UNRWA, dipendente com’è dalle condizioni di neutralità che generano impunità per il trasferimento forzato dei palestinesi attuato da Israele, è certamente un’opzione migliore che accordarsi collettivamente su un processo di decolonizzazione che permetterebbe il ritorno dei palestinesi alle loro terre. La Risoluzione 194 dell’ONU stipula le condizioni per il diritto al ritorno dei palestinesi, avalla tacitamente il colonialismo e assolve Israele da tutte le responsabilità per aver creato i rifugiati palestinesi fin dall’inizio per fondare un’entità coloniale in Palestina.

Il mese scorso organizzazioni ebraiche e sioniste in Australia hanno citato la solita litania di ragioni e accuse per giustificare il motivo per cui il governo australiano non dovrebbe raddoppiare la sua donazione finanziaria all’UNWRA portandola da 10 a 20 milioni di dollari. “L’UNRWA contribuisce a perpetuare il conflitto,” ha affermato Jeremy Leibler, presidente della Federazione sionista d’Australia. Tuttavia l’unico conflitto è il diretto risultato del colonialismo di Israele e finanziare l’UNRWA è il modo più sicuro per la comunità internazionale di evitare di fare i conti direttamente non solo con Israele, ma anche con la propria complicità.

Forse Guterres potrebbe fare un appello diverso. Per esempio potrebbe invocare un processo di decolonizzazione in parallelo al finanziamento dell’UNRWA che permetterebbe all’agenzia di condurre la propria missione umanitaria con in mente l’obiettivo finale, in contrasto con il pantano in cui l’agenzia e i rifugiati palestinesi sono stati bloccati per decenni. Il paradigma umanitario ha sempre solo servito gli interessi israeliani, e continua a farlo. Guterres non dovrebbe far finta del contrario.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)