Rapporto OCHA del periodo 12 – 25 settembre 2017 (due settimane)

Nei territori palestinesi occupati [Cisgiordania e Striscia di Gaza], in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 48 palestinesi, tra cui dieci minori e sei donne.

Quattro i feriti nella Striscia di Gaza, durante le proteste presso la recinzione perimetrale, i rimanenti in Cisgiordania. Il numero più elevato di feriti (33) è stato registrato nel governatorato di Qalqiliya: nel villaggio di Azzun, durante un’operazione di ricerca-arresto e a Kafr Qaddum, durante la manifestazione settimanale contro le restrizioni di accesso. Inoltre, vicino al villaggio di Kiryat Arba (Hebron), le forze israeliane hanno colpito, ferito e successivamente arrestato un quindicenne palestinese che, a quanto riportato, aveva tentato di accoltellare un israeliano.

Complessivamente, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 123 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 152 palestinesi, di cui 20 minori. La maggior parte delle operazioni sono state svolte nei governatorati di Hebron e di Gerusalemme (37 ciascuno).

Il 20 settembre, nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), un bambino palestinese di 11 anni è stato ferito dalla detonazione di un ordigno inesploso.

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno dieci casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in direzione di civili palestinesi; un pescatore è stato ferito e la sua barca confiscata. Inoltre, è stato riferito che al valico di Erez un commerciante è stato arrestato dalle forze israeliane. In due occasioni le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza presso Khan Younis ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo lungo la recinzione perimetrale.

Il 13 settembre, nella città di Yatta (Hebron), durante uno scontro a fuoco avvenuto nel contesto di un’operazione di ordine pubblico, le forze di sicurezza palestinesi hanno ucciso un 34enne palestinese e ne hanno ferito un altro.

In Area C e Gerusalemme Est, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 21 strutture, sfollando 29 persone, di cui 16 minori, e compromettendo i mezzi di sostentamento di altre 40. La demolizione più ampia è avvenuta in Area C, nella comunità di Istaih, vicino alla città di Jericho dove le autorità israeliane hanno demolito 16 strutture, tutte, tranne una, in fase di costruzione. A Gerusalemme Est sono state demolite quattro strutture: un impianto di lavaggio auto, un riparo per animali e il secondo piano di un edificio a due piani. La demolizione di quest’ultimo ha gravemente danneggiato l’intero edificio.

Nella comunità pastorale di Umm al Oborin, nella valle del Giordano settentrionale, le forze israeliane hanno sequestrato due mucche e 50 barili per la conservazione dell’acqua. Il sequestro ha compromesso il sostentamento di 14 persone, di cui quattro minori. La Comunità si trova all’interno di un’area che Israele ha dichiarato “zona per esercitazioni a fuoco” e riserva naturale. Inoltre, in due distinti episodi che hanno interessato i villaggi di Beit Furik (Nablus) e Kafr Qaddum (Qalqiliya), le autorità israeliane hanno sequestrato tre bulldozer di proprietà palestinese, adducendo la motivazione che gli stessi erano impiegati per costruzione illegale in Area C.

Militari israeliani, presentatisi presso la comunità di Khan al-Ahmar / Abu al Helu (Gerusalemme), in Area C, hanno reiterato ai leader locali l’ordine di lasciare l’area per trasferirsi in un sito di rilocalizzazione a loro destinato. Secondo i resoconti dei media, il Procuratore di Stato israeliano ha informato la Corte di Giustizia israeliana della sua intenzione di trasferire la Comunità entro la metà del 2018. Questa è una delle 46 comunità beduine palestinesi della Cisgiordania centrale, in cui vivono complessivamente circa 8.100 persone, a rischio di trasferimento forzato e gravate da un contesto coercitivo prodotto da una serie di politiche israeliane (demolizioni incluse) e da un piano di rilocalizzazione [stilato da Israele].

Il 13 settembre, secondo quanto riferito, coloni israeliani hanno dato fuoco a circa 400 ulivi appartenenti a 19 agricoltori palestinesi di Burin (Nablus). L’area presa di mira è adiacente all’insediamento colonico di Yitzhar e, per accedervi, ai palestinesi è richiesto un coordinamento preventivo con le autorità israeliane. Dall’inizio dell’anno sono stati vandalizzati circa 2.800 alberi di proprietà palestinese; lo scorso anno furono 1.650.

Secondo i rapporti dei media israeliani, sulle strade principali dei governatori di Ramallah e Hebron, almeno cinque episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani hanno causato il ferimento di due coloni israeliani, tra cui un minore, e danni ad almeno quattro veicoli.

Durante il periodo di riferimento, il valico egiziano di Rafah è stato aperto per tre giorni in una sola direzione, consentendo a 2.083 pellegrini palestinesi di fare ritorno nella Striscia di Gaza. Nel corso del 2017 il valico è stato parzialmente aperto per soli 29 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrati e in attesa di attraversare.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 26 settembre, nei pressi del villaggio di Har Hadar (governatorato di Gerusalemme), un palestinese ha ucciso, con arma da fuoco, due guardie di sicurezza israeliane e un poliziotto di frontiera che erano in servizio presso un attraversamento della Barriera; l’aggressore è stato colpito e ucciso.

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Israele pianifica crimini di guerra contro le famiglie di Khan al-Ahmar

Tamara Nassar

26 settembre  2017,Electronic Intifada

Gruppi per i diritti umani avvertono che l’espulsione pianificata da Israele degli abitanti di Khan al-Ahmar e la distruzione del loro villaggio nella Cisgiordania occupata è un crimine di guerra. All’inizio di questo mese le autorità israeliane dell’occupazione hanno informato membri della comunità che sarebbero stati spostati in un altro luogo, benché siano in corso procedimenti giudiziari nei tribunali israeliani.

Ciò ha sollevato tra i funzionari ONU timori che l’espulsione possa avvenire a giorni. B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndt.] ha messo in guardia il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed altre personalità politiche israeliane che potrebbero essere considerati personalmente responsabili di crimini di guerra se continuassero con la demolizione di Khan al-Ahmar e di Susiya, un secondo villaggio, per fare spazio a colonie israeliane.

La demolizione di intere comunità nei territori occupati è praticamente senza precedenti dal 1967 [data d’inizio dell’occupazione israeliana, ndt.],” ha aggiunto il gruppo israeliano per i diritti umani.

Espandere le colonie

Khan al-Ahmar si trova tra le colonie israeliane di Maaleh Adumim e Kfar Adumim, nella cosiddetta area E1 della Cisgiordania occupata.

Su questa terra a est di Gerusalemme Israele prevede di estendere la sua grande colonia di Maaleh Adumim, per completare la separazione della parte nord da quella sud della Cisgiordania.

Tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata sono illegali in base al diritto internazionale.

A Khan al-Ahmar vivono i membri della tribù Jahalin, che comprende 32 famiglie beduine, e conta approssimativamente 173 persone.

E’ una delle 12 comunità palestinesi, per un totale di circa 1.400 abitanti, che devono far fronte all’espulsione da parte israeliana nella zona ad est di Gerusalemme.

Gli abitanti palestinesi di Khan al-Ahmar hanno in precedenza presentato un ricorso all’alta corte israeliana per bloccare gli ordini di demolizione che riguardano tutte le strutture del villaggio.

L’alta corte ha anche ricevuto un ricorso della colonia di Kfar Adumim, che chiede che l’unica scuola di Khan al-Ahmar venga demolita, insieme a più di 250 altri edifici palestinesi nella zona.

Le autorità israeliane hanno anche chiesto l’approvazione per completare la deportazione entro l’aprile 2018.

La corte ha annullato un’udienza che era stata fissata per lunedì per la discussione del caso, in attesa di ulteriore documentazione.

Deportazione

Israele vuole obbligare gli abitanti di Khan al-Ahmar a spostarsi in un’area chiamata “al-Jabal ovest,” situata nei pressi della discarica del villaggio palestinese di Abu Dis. E’ una zona in cui Israele ha già deportato famiglie Jahalin negli anni ’90 per far posto a Maaleh Adumim.

Se l’espulsione pianificata verrà messa in atto, sarebbe la seconda volta che la comunità di Khan al-Ahmar viene deportata. Negli anni ’50 le famiglie furono inizialmente cacciate dalla regione del Naqab [Negev in arabo, ndt.] dall’esercito israeliano.

Questa settimana B’Tselem ha affermato che, se Israele demolisce la scuola di Khan al-Ahmar o caccia a forza gli abitanti, anche rendendo le loro condizioni di vita insopportabili, “ciò violerebbe il divieto di trasferimento forzato stabilito dalle leggi umanitarie internazionali.”

B’Tselem ha aggiunto: “Una simile violazione costituisce un crimine di guerra, e ogni persona coinvolta nella sua messa in pratica ne dovrà rendere conto personalmente – compresi il primo ministro, i principali membri del governo, il capo di stato maggiore e il capo dell’Amministrazione Civile [governo militare nei territori palestinesi occupati, ndt.] – il sistema amministrativo dell’occupazione israeliana.

Israele ha cercato di distrarre l’attenzione dalla deportazione sostenendo che lo spostamento avvantaggerà gli abitanti di Khan al-Ahmar.

Ma i gruppi per i diritti umani, compreso Bimkom [Ong di architetti e urbanisti che sostiene una pianificazione condivisa con le comunità locali, ndt.] israeliano, sottolineano che la deportazione è vietata indipendentemente dalle sue ragioni. Danneggerebbe anche lo stile di vita rurale e la sopravvivenza delle comunità già impoverite.

Gli abitanti del villaggio dipendono per il loro modo di vita dai pascoli e dalla vicinanza ad altre tribù di beduini. Israele ha in precedenza tentato di spostare le famiglie in terre confiscate ad altre comunità palestinesi, una proposta rifiutata da tutti quelli che sarebbero stati coinvolti.

Continui soprusi

Khan al-Ahmar e Susiya, un villaggio sulle colline meridionali della zona di Hebron in Cisgiordania, si trovano entrambi nell’area C.

Si tratta di circa il 60% della Cisgiordania che rimane sotto completo controllo militare israeliano in base agli accordi di Oslo firmati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina all’inizio degli anni ’90.

Israele rifiuta di consentire praticamente ogni costruzione palestinese nell’area C, obbligando i palestinesi a costruire senza permesso e a vivere con il timore costante che le loro case siano demolite.

La scuola di Khan al-Ahmar è stata edificata nel 2009 usando copertoni e fango, nel tentativo di superare le restrizioni israeliane sull’uso di cemento da parte dei palestinesi per scopi edilizi.

Ma Israele ha trovato un’altra scusa per ordinare la demolizione della scuola, sostenendo che era troppo vicina alla strada principale.

La scuola era stata costruita con i finanziamenti dell’Unione europea e di altri donatori europei, che non hanno fatto niente per rendere Israele responsabile della demolizione di progetti che hanno appoggiato per decine di milioni di dollari.

Lo scorso mese Israele ha distrutto due scuole finanziate dagli europei in Cisgiordania.

Qui per rimanere per sempre”

Oltre alle demolizioni, Israele cerca di cacciare i palestinesi dalle loro case rendendo le loro condizioni di vita insopportabili.

Israele ha smantellato e confiscato pannelli solari di Khan al-Ahmar, bloccato l’accesso diretto tra il villaggio e la strada principale e l’ha privato di servizi essenziali come l’acqua, le fognature, l’elettricità e la disponibilità di mezzi di trasporto.

Il rinnovato impegno di Israele per la demolizione di Khan al-Ahmar arriva solo poche settimane dopo che Netanyahu ha partecipato nel nord della Cisgiordania ad una cerimonia per i 50 anni della colonizzazione israeliana.

Siamo qui per rimanere per sempre,” ha detto Netanyahu alla folla. “Non ci saranno più smantellamenti di colonie nella terra di Israele.”

Questa settimana i media israeliani hanno informato che il governo israeliano sta portando avanti progetti per altre 2.000 unità immobiliari delle colonie nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Poliziotto buono, poliziotto cattivo dell’espulsione

Amira Hass

18 settembre 2017 Haaretz

Il parlamentare dell’estrema destra Bezalel Smotrich si prende semplicemente la briga di rendere pubblico il suo piano, mentre il generale Yoav Mordechai preferisce lavorare in silenzio.

Mentre Bezalel Smotrich parla di espulsioni, Yoav Mordechai, coordinatore delle attività di governo nei territori [palestinesi occupati] fa in modo che avvengano. Mentre il primo blatera di espulsione definitiva, il secondo tace sulle decine di piccole espulsioni che egli approva e supervisiona.

Per esempio, completando il piano per obbligare il clan Jahalin a lasciare Khan al-Amar per andare in un luogo nei pressi della discarica di Abu Dis, in modo che i coloni di Kfar Adumim possano espandersi a piacimento. Presto Mordechai approverà anche l’evacuazione forzata dei residenti palestinesi di Sussia, in modo che i coloni della zona possano soddisfare il proprio desiderio di avere più spazio.

Il membro del parlamento israeliano per la fazione “Unione nazionale – Tekuma” del [partito di estrema destra, ndt.] “La Casa ebraica” cerca di ottenere le prime pagine dei giornali. La persona che guida l’unità del ministero della Difesa nota come COGAT [“Coordinator of Government Activities in the Territories”, cioè “Coordinamento delle Attività Governative nei Territori”, ndt.] non ne ha bisogno. Entrambi sono stati preceduti da altri che ne condividevano le idee, lo status e le funzioni.

Il cittadino S. si prende il disturbo di rendere pubblico il proprio piano, il generale M. preferisce lavorare in silenzio. Come i suoi predecessori, sa che i giornalisti israeliani non sono interessati a queste piccole e continue espulsioni, per cui non ne riferiscono. Sicuramente i reporter non vogliono vedere il rapporto tra loro; dopo tutto che cos’hanno in comune quelli che vivono nelle baracche senza elettricità con la donna americana, sposata con un palestinese, a cui è stato detto da un arrogante impiegato dell’Amministrazione Civile [il governo militare sui territori palestinesi occupati, ndt.] che la sua richiesta di prolungamento del suo permesso di residenza era stato rifiutato perché aveva osato viaggiare dall’aeroporto internazionale Ben-Gurion?

Sia il civile che il militare sembrano abbastanza gradevoli. Il civile con la kippah [copricapo ebraico, ndt.] in testa sembra a qualcuno assolutamente velleitario, mentre ad altri pare un razzista allucinato che puoi odiare e sei invitato a detestare. L’uomo in uniforme e il basco è dipinto come un adulto responsabile, nel sistema quello equilibrato e logico. Fornisce ai commentatori militari e agli esperti di questioni palestinesi le sue informazioni sintetiche e filtrate senza concessioni e senza timore dello scetticismo professionale. Le indicazioni date a diplomatici stranieri e a importanti uomini politici palestinesi è di tenersi alla larga da Smotrich. Il COGAT, invece è un interlocutore ufficiale dei rappresentanti degli Stati donatori dell’Autorità Nazionale Palestinese, e un collaboratore ammirato e abituale di importanti uomini politici del governo palestinese e di Fatah.

Tentacoli di un sistema simile a un polpo

Il cittadino S., il più giovane dei due, rappresenta una corrente politica minoritaria, anche se in espansione. Il generale M., il più anziano, è parte di una burocrazia ben oliata, ibrida, civile-militare, che è consolidata, con esperienza e simile a un polipo: l’Amministrazione Civile, impiegati governativi e personale dell’esercito, il Coordinamento Distrettuale e l’Amministrazione di Contatto, gli uffici di coordinamento distrettuale, l’amministrazione della Linea di Congiunzione, l’amministrazione dell’area di Gerusalemme, la Commissione Suprema di Pianificazione in Giudea e Samaria [denominazione israeliana di Cisgiordania, ndt.], il subcomitato di ispezione, i comitati di orientamento ispirati da o in collaborazione con lo Shin Bet [servizio di intelligence israeliano, ndt.], chiamateli come volete.

Negli scorsi anni l’assillo razzista dell’associazione no profit “Regavim”, che Smotrich ha contribuito a fondare, ha esortato l’Amministrazione Civile (subordinata al COGAT) ad accelerare la demolizione di strutture palestinesi. Inviando una richiesta all’Alta Corte di Giustizia, il gruppo, che intende preservare le terre della Nazione, ha fatto pressione per espellere dalle loro case gli abitanti di Sussia e di Khan al-Amar. Ma è l’Amministrazione civile che mette in pratica la politica di divieto di costruzione, di demolizioni e di furto delle terre palestinesi per darle agli ebrei – con ogni sorta di metodi palesi o occulti, che sono stati elaborati molto prima che Smotrich nascesse e “Regavim” fosse fondato.

Il COGAT e l’Amministrazione Civile agiscono lentamente ma inesorabilmente. Forniscono anche puntuali spiegazioni burocratiche per le loro iniziative che sono in apparenza puramente obiettive e professionali. Il 13 settembre rappresentanti dell’Amministrazione Civile si sono presentati al campo di tende del clan Jahalin a est di Gerusalemme e hanno informato gli abitanti che lo Stato aveva destinato loro un terreno in un misero, affollato e poverissimo villaggio chiamato “al-Jabal”, che era stato fondato 20 anni fa per beduini che erano stati espulsi per permettere a Ma’aleh Adumim [grande colonia israeliana a est di Gerusalemme, ndt.] di espandersi. L’avvocato della comunità, Shlomo Lecker, aveva informato il funzionario dell’Amministrazione Civile che a lui non era consentito incontrare i suoi clienti senza la sua presenza ed il suo consenso, ma il pubblico ufficiale ha semplicemente ignorato il messaggio.

L’Amministrazione Civile si sta preparando per il prossimo lunedì, il 25 settembre, quando il ricorso della comunità contro la demolizione delle sue strutture dovrebbe essere preso in considerazione. Come ha scritto B’Tselem: “Sembra che le azioni dell’Amministrazione Civile stiano preparando il terreno affinché lo Stato sostenga che sta agendo con buona volontà e che ha consultato la comunità.”

La scorsa settimana ho scritto un reportage, che probabilmente interessava a due lettori e mezzo, sui palestinesi (soprattutto maschi) che hanno osato sposare cittadini di Paesi con cui Israele ha rapporti diplomatici ed accordi per l’ingresso. Improvvisamente, senza preavviso o prendersi la briga di spiegare, il COGAT sta rendendo difficile per le loro famiglie rimanere unite. Per un verso, da molto tempo ha bloccato il processo attraverso cui chi è in possesso di passaporti stranieri e con famiglia palestinese può diventare residente permanente in Cisgiordania. Per l’altro, limita i loro visti e vieta loro di lavorare.

Come i suoi predecessori, questo coordinatore sta facendo il lavoro di mettere in pratica le politiche del governo. E’ così che obbliga famiglie “miste” a lasciare la Cisgiordania per andare all’estero, senza sbandierare quella che è l’intenzione reale.

L’espulsione di palestinesi dalle loro terre e case attraversa come una linea di filo spinato la storia di Israele, dal periodo precedente la costituzione dello Stato fino ad ora. Smotrich e Mordechai sono sia i prodotti che gli artefici di quella storia e di quella società, che negano le espulsioni che hanno attuato e continuano ad attuare, mentre al contempo non comprendono la ragione di tutto questo polverone e perché ciò sia un crimine.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Per Israele espellere i beduini è economicamente remunerativo

Jeff Halper 30 agosto 2017, Middle East Monitor

Quando si parla di occupazione, repressione, deportazione e controllo, si tende a guardare alle fonti più potenti ed evidenti della coercizione e dell’ingiustizia: eserciti, politiche governative, poliziesche e diplomatiche.

La decisione della pretura di Be’er Sheva che sei abitanti beduini del villaggio di Al-Araqeeb, nel Naqb/Negev, tutti cittadini israeliani, paghino circa 100.000 dollari allo Stato come indennizzo per le spese sostenute per la demolizione delle loro case dimostra l’efficacia di micro-meccanismi meno visibili per colpire questi obiettivi fondamentali. In questo caso dimostra in che modo la legge possa essere utilizzata come un’efficace arma di deportazione.

Quando la gente non può essere intimidita perché smetta di fare resistenza contro la demolizione delle proprie case, una popolazione povera come quella beduina può essere aggredita nel punto più vulnerabile: economicamente. Circa il 75% della popolazione beduina – 200.000 persone su un totale in tutto il Paese di circa 270.000– vive nel Naqab, rappresentando oltre il 30% della popolazione totale di quella regione. Circa il 65% di loro è stato finora confinato nelle sette township [termine che in Sudafrica indica le baraccopoli in cui vivono i neri, ndt.] che Israele ha costruito per loro, posti isolati carenti di infrastrutture e di posti di lavoro, da cui sono trasportati nelle comunità israeliane come lavoratori manuali. Tutte e sette sono tra le dieci località più povere di Israele. Un terzo dei loro residenti non ha accesso ai servizi elettrici ed idrici nazionali. Solo il 37% dei beduini in età lavorativa ha un’occupazione e il 90% di loro guadagna meno dello stipendio minimo. Il salario medio di un beduino maschio è di 1.200 dollari al mese, quello di una donna di 730 dollari.

Dal 2010 Al-Araqeeb è stato demolito dalle autorità e ricostruito dagli abitanti 116 volte, un caso veramente impressionante di resistenza popolare all’espulsione e allo sradicamento culturale. (Non avendo perso il loro acuto senso di amara ironia, le 500 persone di Al-Araqeeb hanno fatto domanda di essere incluse nel Guinness dei primati per aver superato il record nel numero di demolizioni). Cambiando tattica, lo Stato ha quindi deciso di perseguire ognuna delle famiglie beduine impoverite con ordini giudiziari per fargli pagare i costi della demolizione delle loro case.

Il Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case (ICAHD) stima che più di 130.000 case di palestinesi (compresi i beduini) sono state demolite in tutto il Paese dal 1948. Come nel caso di molte demolizioni di case, l’obiettivo sotteso è di occupare terra araba e confinare la popolazione araba in angoli e nicchie ristretti del Paese. Gli “arabo-israeliani” rappresentano il 20% della popolazione israeliana, ma sono confinati dalle leggi, dalle politiche del territorio e dai piani regolatori solo sul 3,5% della terra.

Quasi metà della popolazione beduina, 90.000 persone, vive in “villaggi non riconosciuti”, come Al-Araqeeb. Dato che storicamente i beduini non registravano la proprietà della terra, sicuramente non come singoli proprietari privati, è stato facile per Israele sostenere in tribunale che non hanno la proprietà giuridica e che le loro terre tradizionali vengano restituite allo Stato. Ciononostante i beduini hanno lottato per i loro diritti sulla terra per anni nei tribunali israeliani, e il risultato finale deve ancora essere definito. Ciò rende le demolizioni delle case di Al-Araqeeb se non illegali (dato che non possono ottenere dallo Stato i permessi edilizi necessari), quanto meno ingiustificate e fatte in malafede, soprattutto dato che il vero motivo dello Stato non è la regolarizzazione della terra a beneficio di tutti i suoi cittadini, ma di impossessarsi delle terre dei beduini per le colonie ebraiche e per ragioni militari. Allontanata dalle proprie terre e dalla vita nomade, la popolazione beduina è quindi trasferita nelle township per languirvi in povertà.

Obbligare i palestinesi a pagare per la demolizione delle proprie case è una prassi comune anche in altre parti del Paese, compresa Gerusalemme est. Una variante di ciò è l’imposizione di pesanti sanzioni pecuniarie a famiglie che costruiscono “illegalmente” (anche se, di nuovo, non c’è modo in cui gli arabi possano ottenere da qualche parte permessi edilizi al di fuori di enclave approvate che non includono la grande maggioranza delle abitazioni e fattorie arabe) – multe che raggiungono i 15-20.000 dollari. Dato che la maggioranza delle famiglie arabe vive al di sotto del livello di povertà, possono essere obbligate dai tribunali a demolire esse stesse le proprie case in cambio di una riduzione dell’ammenda. L’ICAHD stima che l’autodemolizione, anche se non è stata rilevata, rappresenti un ulteriore terzo delle demolizioni di case.

Benché i diritti umani dovrebbero essere messi in pratica all’interno di Israele come nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), è molto più difficile che lo siano là, dato che i tribunali israeliani non riconoscono la loro applicazione all’interno di Israele o sentenziano (come nel caso di Al-Araqeeb) sulla base di tecnicismi giuridici, escludendo quindi considerazioni relative ai diritti umani. Nei TPO la situazione è diversa, e a Israele è stata contestata la violazione dei diritti umani – soprattutto della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta le demolizioni di case.

Sfortunatamente gli attivisti per i diritti umani e l’ANP non sono riusciti a fare in modo che i tribunali internazionali si occupino di questi casi, come hanno l’obbligo di fare in base alla giurisdizione universale. Il sistema legale israeliano sostiene che le Leggi Umanitarie Internazionali (IHL) non si applicano ai TPO perché non c’è un’occupazione. (Israele sostiene che c’è un’occupazione solo quando uno Stato sovrano conquista il territorio di un altro Stato sovrano e che nessuno ha mai avuto sovranità sui TPO, una posizione non accettata da nessuno nella comunità giuridica internazionale, ma efficace nell’intralciare il lavoro giuridico e politico). I tribunali israeliani, quindi, nei TPO decidono solo sulla base delle leggi israeliane. Ciò è doppiamente illegale – rappresenta un’estensione di fatto delle leggi israeliane in un territorio occupato, in violazione delle IHL, e ignora le protezioni che le IHL garantiscono ai palestinesi che vivono sotto occupazione.

Le sei famiglie non hanno ancora deciso se presentare appello. Nel frattempo altre comunità beduine lottano per conservare le proprie terre e il proprio modo di vita – Umm Al-Hiran, le cui terre Israele vuole per un insediamento militare (non si pensi che tutte le colonie sono nei TPO) –rappresentando il bersaglio più immediato – mentre gli abitanti delle township stanno lottando semplicemente per sopravvivere nel sottoproletariato di Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 1- 14 agosto 2017 (due settimane)

Il 13 agosto, per carenza di carburante, l’unica centrale elettrica di Gaza ha fermato una delle due turbine ancora operative; le interruzioni di elettricità sono così passate dalle precedenti 18-20 ore/giorno alle 22 ore/giorno.

Dal 21 giugno la Centrale opera con il combustibile importato dall’Egitto le cui consegne, tuttavia, sono state ripetutamente interrotte, innescando carenze. Ciò ha ulteriormente aggravato la già precaria erogazione dei servizi di base; in particolare le prestazioni sanitarie, la fornitura di acqua potabile ed il trattamento delle acque reflue.

Due uomini sono stati feriti da palestinesi in due distinte aggressioni con coltello. Il 2 agosto, all’interno di un supermercato nella città di Yavne, in Israele, un palestinese di Yatta (Hebron) ha accoltellato e ferito un civile israeliano. Il 12 agosto, a Gerusalemme Est, una donna palestinese ha accoltellato e ferito un palestinese, guardia di sicurezza della società che gestisce la metropolitana leggera. I due colpevoli sono stati arrestati. In un altro episodio, verificatosi il 5 agosto al checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah), gli aggressori hanno aperto il fuoco da un veicolo in corsa; non vi sono stati feriti. Tre sospetti palestinesi sono stati arrestati. Il checkpoint è stato chiuso, e riaperto l’8 agosto.

Nei Territori occupati, in scontri con le forze israeliane, scoppiati prevalentemente durante proteste e operazioni di ricerca-arresto, sono stati feriti 61 palestinesi, di cui 12 minori. 13 di questi feriti sono stati registrati in scontri vicino alla recinzione perimetrale di Gaza; i rimanenti in Cisgiordania, con una prevalenza nel governatorato di Ramallah. Queste numeri mostrano una forte contrazione rispetto al precedente periodo di osservazione [18-31 luglio], durante il quale, in Gerusalemme Est, furono registrati numerosi scontri e vittime nel contesto delle proteste contro le misure israeliane relative al Complesso Haram ash Sharif / Monte del Tempio.

Nel governatorato di Ramallah, le autorità israeliane hanno demolito tre case nel villaggio di Deir Abu Mash’al e ne hanno sigillata una quarta a Silwad, sfollando 19 palestinesi, di cui 6 minori: si tratta di “demolizioni punitive”. Infatti le tre case del primo villaggio appartenevano alle famiglie degli autori di una aggressione che ebbe luogo a Gerusalemme Est, il 16 giugno, nel corso della quale fu uccisa una poliziotta israeliana. L’altra casa apparteneva alla famiglia del presunto autore di uno speronamento volontario con auto, avvenuto il 6 aprile presso l’insediamento di Ofra, in cui fu ucciso un soldato israeliano.

Per la mancanza di permessi di costruzione israeliani, altre tredici strutture sono state demolite o sequestrate nella zona C e in Gerusalemme Est, sfollando 19 palestinesi, di cui 7 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altri 128. Sei delle strutture oggetto dell’intervento erano state fornite come assistenza umanitaria a due vulnerabili comunità di pastori in Area C: Abu Nuwar (Gerusalemme) e Khashem ad Daraj (Hebron). Nella prima Comunità (una delle 46 della Cisgiordania centrale a rischio di trasferimento forzato) le autorità hanno sequestrato pannelli solari che fornivano elettricità alla scuola locale.

Nella Striscia di Gaza, quattro palestinesi (di identità non confermata) sono stati feriti a nordovest della città di Gaza e due scuole hanno subito danni in conseguenza di raid aerei israeliani, effettuati il 9 agosto, che, a quanto riferito, avevano come obiettivo installazioni militari. L’attacco ha fatto seguito al lancio, da parte di un gruppo armato palestinese, di un missile, caduto nel sud di Israele senza provocare danni.

Per far rispettare le Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare di Gaza, in almeno 18 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco; non sono stati segnalati ferimenti, tuttavia due pescatori sono stati arrestati e il lavoro ed il sostentamento di agricoltori e pescatori palestinesi sono stati interrotti. In tre occasioni, le forze israeliane hanno effettuato spianature del terreno e scavi all’interno di Gaza, lungo la recinzione perimetrale.

Il 14 agosto, l’UNRWA [Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati nel Vicino Oriente] ha annunciato la chiusura di un tunnel che, nella Striscia di Gaza, correva sotto due delle sue scuole nel Campo Profughi di Maghazi. Il tunnel era stato scoperto lo scorso giugno.

Tra il 14 e il 17 agosto le autorità egiziane hanno eccezionalmente aperto il valico di Rafah per i pellegrini palestinesi con visti validi per recarsi a La Mecca. A partire dal 16 agosto, sono stati autorizzati al transito 2.371 pellegrini e 320 palestinesi con urgenti necessità umanitarie. L’ultima apertura del valico era stata autorizzata l’8 marzo per l’uscita delle persone, e il 9 maggio per l’ingresso. Tranne sporadiche eccezioni soggette a restrizioni, il valico di Rafah era rimasto sempre chiuso dal 24 ottobre 2014.

I media israeliani hanno segnalato tre episodi di lancio di pietre e, in un caso, il lancio di bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani in Cisgiordania. Sono stati causati danni ad almeno sei veicoli e la distruzione totale di un altro andato a fuoco.

Sette palestinesi sono stati feriti, circa 100 ulivi e due veicoli sono stati bruciati in vari episodi attribuiti a coloni israeliani. I feriti includono tre uomini aggrediti fisicamente nella zona H2 di Hebron controllata da Israele e quattro minori feriti nella zona Silwan di Gerusalemme Est, nel corso di un episodio in cui è stato coinvolto il veicolo di un colono israeliano. È stato riferito che vicino ad Aqraba (Nablus) coloni hanno incendiato circa 100 ulivi ed hanno impedito ai vigili del fuoco palestinesi di accedere alla zona interessata. Nel villaggio di Umm Safa (Ramallah) coloni israeliani hanno incendiato due veicoli palestinesi e, sui muri di una vicina casa palestinese, hanno spruzzato graffiti razzisti e scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare”.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 17 agosto, nella Striscia di Gaza, ad est del valico di Rafah, un palestinese si è fatto saltare in aria, uccidendo un membro di Hamas addetto alla sicurezza e ferendone altri quattro.

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Rapporto OCHA periodo 20 giugno- 3luglio (2 settimmane)

Nel periodo di riferimento, con fluttuazioni delle fonti di approvvigionamento, i blackout elettrici nella Striscia di Gaza sono proseguiti per 18-20 ore/giorno, stravolgendo le condizioni di vita e destabilizzando la fornitura di servizi essenziali.

Dal 21 giugno, carburante importato dall’Egitto è entrato in Gaza attraverso il valico di Rafah, consentendo alla Centrale Elettrica di riprendere una parziale operatività dopo uno spegnimento durato due mesi. Tuttavia, questa ripresa ha solo compensato la riduzione del 30-35% di fornitura elettrica da parte di Israele, iniziata dopo il 19 giugno su richiesta dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania. Il riavvio della Centrale Elettrica non ha comportato un miglioramento complessivo nella fornitura di elettricità. Inoltre, tra il 30 giugno e il 2 luglio, la fornitura di energia elettrica dall’Egitto, tramite linee di alimentazione (15-20% della fornitura totale a Gaza), non è avvenuta a causa di un malfunzionamento tecnico.

Il 3 luglio, le agenzie umanitarie operanti nei territori palestinesi occupati hanno chiesto alla comunità internazionale un nuovo stanziamento umanitario di 25 milioni di dollari per fermare il deterioramento della situazione umanitaria nella Striscia di Gaza. In un documento presentato ai diplomatici, le agenzie hanno individuato interventi ad alta priorità e di salvaguardia delle vite nei settori: sanitario, acqua potabile, igienico-sanitario e sicurezza alimentare. “Le capacità delle famiglie di Gaza di affrontare queste avversità sono esaurite, poiché l’impatto cumulativo di 10 anni di isolamento, di divisione e di insicurezza presenta ora il suo conto”, ha dichiarato Robert Piper, Coordinatore Umanitario per il territorio palestinese occupato.

Il 26 giugno, un gruppo armato palestinese ha lanciato un razzo verso Israele: il razzo è caduto in un’area aperta, senza causare vittime o danni. Il lancio è stato seguito da una serie di attacchi aerei israeliani che hanno danneggiato due siti militari all’interno di Gaza. Inoltre, in almeno 15 occasioni durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti in Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare; non sono stati segnalati feriti. Infine, un civile palestinese è stato arrestato dalle forze israeliane ed un altro dalla polizia palestinese di Gaza, presumibilmente durante tentativi di attraversamento illegale in Israele.

Due palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due separati episodi, a Gerusalemme ed Hebron, secondo quanto riferito dopo aver attaccato le forze israeliane; non sono state segnalate lesioni ad israeliani. Il 20 giugno, le forze israeliane hanno ucciso un palestinese 23enne all’incrocio di Jaba, a nord-est di Gerusalemme; secondo quanto riferito, il giovane aveva tentato di accoltellare soldati israeliani. Il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane, insieme a quello di altri cinque palestinesi uccisi nei mesi precedenti in episodi simili. Un altro palestinese di 23 anni è stato ucciso da un’unità israeliana sotto copertura il 28 giugno nella zona H2 della città di Hebron, durante un’operazione di ricerca-arresto; secondo fonti israeliane, l’uomo portava un’arma improvvisata ed è stato colpito durante uno scambio a fuoco.

Un totale di 70 palestinesi, di cui dieci minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante diversi scontri nei territori occupati. Otto dei ferimenti, tra cui uno riguardante un minore, si sono verificati durante le proteste ed i relativi confronti nei pressi della recinzione perimetrale della Striscia di Gaza. I restanti ferimenti sono avvenuti in Cisgiordania: nel contesto di sei operazioni di ricerca e arresto; nella dimostrazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya); durante scontri all’entrata del Campo Profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est); durante un processione funebre nella Città Vecchia di Gerusalemme. Inoltre, secondo i media israeliani, quattro soldati israeliani sono stati feriti in due distinti episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi: in Al ‘Isawiya (Gerusalemme) e nel villaggio di Beit Ummar (Hebron).

Il 27 giugno Israele ha ridotto la zona di pesca lungo la costa meridionale di Gaza a sei miglia nautiche, dopo averla estesa a nove miglia dal 3 maggio, in occasione della stagione di pesca delle sardine. L’espansione temporanea ha portato ad un significativo aumento della quantità e della qualità delle catture di pesca, secondo il Ministero dell’Agricoltura palestinese. Oltre 35.000 palestinesi dipendono dall’industria della pesca per il loro sostentamento.

Le autorità israeliane hanno smantellato e sequestrato un impianto di pannelli solari ed hanno demolito, o costretto i proprietari a demolire, quattro strutture, a motivo della mancanza dei permessi di costruzione israeliani. L’impianto solare, composto da 96 pannelli, era stato fornito da una organizzazione umanitaria internazionale alla Comunità di Jubbet adh Dhib (Betlemme, in Area C) per fornire energia elettrica alle sue 27 famiglie. Altre tre strutture sono state demolite nelle aree di Jabal al Mukkabir e Al ‘Isawiya di Gerusalemme Est e una nella Comunità di Az Zayyem (Area C, governatorato di Gerusalemme), sfollando tre palestinesi e colpendone altri 177.

Sempre in tema di demolizioni, le autorità israeliane hanno emesso almeno 38 ordini di demolizione e/o arresto-lavori nei confronti di strutture abitative e di sussistenza in sette Comunità dell’Area C e di Gerusalemme Est. Sette di questi ordini riguardano Jabal al Baba (Gerusalemme), una delle 46 Comunità beduine palestinesi della Cisgiordania centrale a rischio di trasferimento forzato e soggette a politiche israeliane miranti a fare sì che abbandonino il territorio. Altre sette strutture prese di mira, locate nella Comunità di Shi’b al Butum (Hebron), sono state fornite come assistenza umanitaria e finanziate dal Fondo Umanitario per i territori palestinesi occupati.

Secondo fonti palestinesi, circa duecento alberi ed alberelli appartenenti a due famiglie palestinesi di Burin (Nablus), sono stati bruciati in due separate azioni condotte da coloni di Yitzhar. La sicurezza ed i mezzi di sostentamento di circa 20.000 palestinesi che vivono in sei villaggi che circondano Yitzhar, tra cui Burin, sono stati minacciati negli ultimi anni dalla violenza sistematica e dalle intimidazioni di coloni. A quanto riferito, altri sette alberi appartenenti ad una famiglia di Turmus’ayya (Ramallah), sono stati incendiati da coloni dell’insediamento di Adei Ad. Sempre durante il periodo di questo rapporto, un uomo palestinese è stato fisicamente aggredito e ferito da coloni israeliani nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Secondo media israeliani, nei pressi di Gerusalemme, Ramallah e Betlemme, una colona israeliana è stata ferita e quattro veicoli israeliani sono stati danneggiati in altrettanti episodi di lancio di pietre da parte palestinese. Un terreno agricolo nei pressi dell’insediamento colonico di Karme Tzur (vicino ad Hebron) è stata incendiato da palestinesi tramite bottiglia incendiaria.

Secondo i dati ufficiali forniti da Israele, circa 46.900 palestinesi con documenti di identità della Cisgiordania sono entrati a Gerusalemme Est il quarto venerdì del Ramadan (23 giugno) attraverso i quattro punti di controllo designati lungo la Barriera, mentre il 21 giugno, per la celebrazione del Laylat al Qadr (Notte del Destino), ne sono entrati 56.500. I criteri per l’accesso senza permessi sono rimasti gli stessi delle settimane precedenti: uomini di età superiore a 40 anni e donne di tutte le età sono stati ammessi a entrare in Gerusalemme senza permesso.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, a controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto solo per l’ingresso di carburante destinato primariamente alla Centrale Elettrica (vedi sopra), ma è rimasto chiuso alle persone. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate per l’attraversamento. Il valico venne eccezionalmente aperto per i passeggeri il 9 maggio, portando a 16, finora, il numero di giorni di apertura nel 2017.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Sullo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi

Dal Coordinamento Prigionieri

Oggi, 22 maggio, 36° giorno di sciopero in Palestina, sciopero generale di solidarietà dei palestinesi

 

Chiuse le istituzioni pubbliche e private, comprese scuole, università, esercizi commerciali, trasporti ed altre attività con l’esclusone dei servizi sanitari, della farmacie e delle panetterie.

La commissione dei prigionieri e la Associazione dei prigionieri palestinesi (PPS) hanno detto che le condizioni di salute dei prigionieri si stanno aggravando sempre di più e che molti prigionieri in sciopero sono stati traferiti nelle infermerie delle prigioni, negli ospedali da campo e in ospedali civili.

La commissione ha negato che esistano report israeliani circa negoziati tra la leadership dei prigionieri e l’amministrazione carceraria. (IPS)

Attivisti presidiano e bloccano le strade dei Territori occupati per impedire l’accesso dei pendolari a Ramallah e al Bireh, e nei dintorni di Gerusalemme. Anche i diplomatici esteri e i dipendenti delle organizzazioni internazionali che vivono nella periferia di Ramallah, compresi i Consoli, non hanno potuto raggiungere i loro posti di lavoro. Molte città appaiono deserte.

 

Il Comitato dei media per lo sciopero della fame ha detto che è “la prima volta dalla prima Intifada palestinese (1987-1993) che si fa uno sciopero generale in Cisgiordania, nei territori palestinesi occupati nel 1948 (attuale Israele) e nella diaspora”.

Il Comitato ha invitato inoltre tutti i palestinesi ad allestire sit-in e tende in tutti i territori, a svolgere dimostrazioni  e a partecipare ad uno “sciopero della fame”di 12  ore, dalle 10 dalle 22 di oggi (lunedì).

 

Lo sciopero generale coincide anche con l’arrivo di Donald Trump in Israele proprio oggi.

Per domani, giorno in cui Trump si incontrerà con il presidente palestinese Mahmoud Abbas a Betlemme in Cisgiordania, i palestinesi sono chiamati a partecipare ad una “giornata della collera”

 

Alcune fazioni palestrinesi hanno esortato la popolazione a scendere in piazza e nelle strade per esprimere il proprio dissenso sulla ripresa dei colloqui di pace tra l’autorità palestinese e Israele sotto il patrocinio di US.

 

Continuano raid e incursioni delle forze israeliane nelle città e nei villaggi della Cisgiordania.

 

Notizie anche da Gaza tramite Meri. La popolazione e tutte le fazioni partecipano compatte alle proteste e sit-in in appoggio ai prigionieri in sciopero della fame, nonostante Hamas non si sia associata pubblicamente.

Fonti: Ma’an News e Wafa

Al 35°giorno di sciopero altri 220 prigionieri palestinesi si uniscono agli oltre 1800 già in sciopero della fame

I leader palestinesi hanno di nuovo invitato i media a “restare prudenti” per quanto riguarda le notizie di presunte trattative tra funzionari israeliani e palestinesi per il raggiungimento di un accordo per porre fine a uno sciopero di massa prigione che, entrato nel suo 35 ° giorno, ha visto aderire altre centinaia di prigionieri.

Notizie su presunti negoziati tra funzionari della sicurezza palestinesi e funzionari dello Shin Bet erano emerse nell’ultima settimana http://www.maannews.com/Content.aspx?id=777072

Sulla veridicità di tali notizie, ha detto il Comitato per i media, formatosi a sostengo dello sciopero, bisogna essere cauti, soprattutto se le notizie provengono dai media israeliani.

Il comitato ha aggiunto che i palestinesi in sciopero della fame hanno sempre rifiutato di accettare negoziati senza la presenza della leadership dello sciopero, ed in particolare del leader di Fatah Marwan Barghouthi, che è in isolamento fin dall’inizio dello sciopero il 17 aprile. 

Ha inoltre riferito, citando Fadwa Barghouthi, moglie di Marwan Barghouthi, che altri 220 prigionieri palestinesi, appartenenti a diverse fazioni politiche, si sono uniti allo sciopero oggi.

Muhammad Dwikat, membro del Comitato centrale FDLP, ha detto che Samer Issawi, noto per aver condotto in precedenza uno degli scioperi della fame più lunghi nella storia, è stato trasferito nell’infermeria della prigione di Ramla, Israele, a causa del deteriorarsi della sua salute.

Anche le condizioni del più giovane prigioniero in sciopero della fame, il 19enne Saed Yihya Dwikat, si sono deteriorate secondo quanto comunicato alla sua famiglia dal Comitato Internazionale della Croce rossa (CICR), che lo ha visitato.

Nel frattempo, Issa Qaraque, responsabile OLP per i prigionieri, ha detto in una dichiarazione che il CICR deve “prendere posizione” circa lo stato della salute dei prigionieri in sciopero e “condurre ogni sforzo per proteggere i prigionieri e monitorare il trattamento degli stessi da parte degli israeliani.” 

Ciò è tanto più necessario, ha proseguito, dal momento che le autorità israeliane hanno imposto un blocco totale sull’informazione. In particolare mancano notizie sulle reali condizioni dei prigionieri, ed in particolare di quelli, come Marwan Barghouti, che hanno deciso di intraprendere anche lo sciopero della sete. Ha quindi attaccato Israele, per l’occultamento della realtà in corso e per gli abusi che continua a perpetrare nei confronti dei prigionieri per spezzarne la volontà.

Ad un giornalista che gli chiedeva se fossero in corso negoziati con la parte israeliana, ha confermato che vi erano degli incontri con la parte israeliana e che l’amministrazione carceraria aveva fatto filtrare alcune notizie su possibili negoziati; allo stesso tempo ha però espresso dubbi circa la reale volontà degli israeliani di voler trattare, e che tali voci, a suo parere, venivano fatte filtrare per impedire la crescita del sostegno popolare.

Proseguono gli arresti di leader palestinesi per il loro sostegno allo sciopero mentre la mobilitazione non si ferma.

Almeno 13 palestinesi sono stati arrestati in un raid all’alba del 21 maggio dalle forze israeliane nell’area di Gerusalemme. Tra questi, Nasser Abu Khdeir, leader di comunità a Gerusalemme e già prigioniero, Eteraf Rimawi, direttore del centro Bisan per la ricerca e lo sviluppo e Abdul Razeq Ferraj, direttore amministrativo e finanziario dell’Unione dei Comitati di lavoro per l’agricoltura

Sempre a Gerusalemme, scontri si sono verificati a Silwan ed in altre aree, tra manifestanti e forze israeliane, che hanno reagito con lancio di lacrimogeni e granate stordenti, che hanno causato numerosi casi di soffocamento

A Betlemme, nel corso di scontri, le forze israeliane hanno lanciato gas lacrimogeni, granate stordenti e usato proiettili di gomma contro studenti che tornavano da scuola, ferendo un bambino di 7 anni alla testa.

A Jericho nel corso di dimostrazioni sono state ferite almeno otto persone e altre hanno avuto problemi di soffocamento per i gas lacrimogeni.

Nelle colline a sud di Hebrron le forse israeliane hanno compiuto raid ed hanno distrutto un campo a presidio della popolazione minacciata di sgombero, che in quel momento ospitava quasi 200 tra attivisti israeliani e palestinesi.

Scontri e arresti si sono verificati anche in altre parti: Ramallah, Issawwiya, dintorni di Betlemme.

Continuazione della mobilitazione

Il Comitato dei prigionieri (OLP) ha dichiarato uno sciopero commerciale per la giornata odierna, in tutti Territori Occupati e in Israele, dalle 11 fino alle 14, con la partecipazione di tutti i settori, eccetto i settori dell’istruzione e della salute. 

A tal proposito, centinaia di commercianti hanno bloccato un checkpoint a Jenin e dichiarato uno sciopero commerciale, per le continue ispezioni umilianti e provocatorie che vengono condotte nei loro confronti

Nel frattempo, è stato programmato uno sciopero generale, nella giornata di lunedì, in concomitanza con l’arrivo in Israele del presidente USA Donald Trump, mentre la leadership palestinese ha chiamato ad  una “giornata della collera” martedì durante la sua prevista visita con Abbas a Betlemme.

A livello internazionale attivisti ed organizzazioni hanno lanciato una giornata di mobilitazione per il 25 maggio.

21 maggio 2017

Fonti: Sunday Daily Summary, Ma’an news, Wafa

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“Addameer” visita il leader politico in sciopero della fame Ahmad Sa’adat

Addameer

14 maggio 2017

Oggi, 14 maggio 2017, l’avvocato di “Addameer” Farah Bayadsi  ha visitato nella prigione di Ohli Kedar Ahmad Sa’adat, il dirigente politico e segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) in sciopero della fame. All’avvocato di “Addameer” era stata in precedenza negata la visita, ma ha ricevuto il permesso in seguito ad una richiesta all’Alta Corte [israeliana] presentata il 10 maggio 2017. Dall’inizio dello sciopero, il 17 aprile 2017, “Addameer” ha chiesto molti permessi al Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) per visitare prigionieri e detenuti in sciopero della fame, ma l’IPS o non ha risposto o ha rifiutato le richieste.

Il 3 maggio 2017 Sa’adat si è unito allo sciopero della fame, insieme a numerosi importanti dirigenti politici palestinesi, compresi Nael Barghouthi, Hassan Salameh, Ahed Abu Ghoulmeh, Abbas al-Sayed, Ziad Bseiso, Basem al-Khandakji, Mohammed al-Malah, Tamim Salem, Mahmoud Issa e Said al-Tubasi.

Giovedì 11 maggio 2017 Sa’adat, insieme a 38 carcerati e detenuti in sciopero della fame, è stato trasferito dall’isolamento nel carcere di Ashkelon alla prigione di Ohli Kedar, sempre in isolamento. Sa’adat ha informato l’avvocato di “Addameer” che i prigionieri sono stati sottoposti a due violente perquisizioni al giorno, durante le quali i carcerati sono stati obbligati a lasciare la loro stanza, cosa che è fisicamente estenuante per i prigionieri a causa dello sciopero della fame. Ha anche aggiunto che 10 prigionieri sono tenuti in una stretta cella con un solo lavandino, un solo bagno e senza ventilatore o aria condizionata ( con un clima molto caldo), e che a ogni prigioniero sono state date tre coperte.

Bayadsi ha notato che le condizioni di salute di Sa’adat stanno peggiorando e che sembra debole, cammina e parla molto lentamente e ha perso molto peso. Inoltre il suo volto appare pallido e sta bevendo solo acqua. Sa’adat ha aggiunto che i controlli medici realizzati dall’IPS non sono sufficienti, in quanto vengono verificati solo la pressione sanguigna e il peso degli scioperanti. Secondo Bayadsi, nonostante il peggioramento delle sue condizioni di salute, Sa’adat mantiene il morale alto e intende continuare lo sciopero della fame finché le richieste dei prigionieri verranno accolte.

Sa’adat ha inoltre aggiunto che l’IPS ha imposto limitazioni ai prigionieri in sciopero della fame, tra cui un’ammenda per indisciplina di 200 shekel [circa 50 €, ndtr.]; il divieto di visite di familiari per 2 mesi; il divieto di accesso alla “mensa” (lo spaccio della prigione); sequestro del sale [il sale viene aggiunto all’acqua durante lo sciopero della fame per alleviarne le conseguenze, ndtr.] e di tutti i vestiti tranne un capo di abbigliamento per prigioniero.

Cosa più preoccupante, l’IPS ha reso ulteriormente difficile a medici indipendenti visitare i detenuti in sciopero della fame ed ha fornito loro tazze di plastica per bere dal rubinetto invece dell’acqua potabile normalmente fornita.

“Addameer”condanna fermamente un simile trattamento, che viola le “Disposizioni Standard Minime dell’ONU per il Trattamento dei Prigionieri”, che evidenziano la necessità di cure mediche adeguate in caso di detenzione. Oltre a ciò, le “Disposizioni Standard Minime dell’ONU per il Trattamento dei Prigionieri” stabiliscono che “ai prigionieri deve essere concesso, sotto il controllo necessario, di comunicare con le famiglie e con amici affidabili a intervalli regolari, sia attraverso la corrispondenza che tramite visite.”

Mentre lo sciopero della fame è arrivato al suo 28° giorno, l’ “Assistenza ai Prigionieri di Addameer” invita chi sostiene la giustizia in tutto il mondo a prendere iniziative per appoggiare i prigionieri palestinesi i cui corpi e le cui vite sono messi in pericolo per la libertà e la dignità. “Addameer” invita tutti a organizzare eventi in solidarietà con la lotta dei prigionieri e detenuti in sciopero della fame. “Addameer” chiede inoltre alla diplomazia di fare pressione su Israele perché consenta immediatamente agli scioperanti di avere accesso alle cure mediche ed alla consulenza legale necessarie.

“Addameer” inoltre sollecita tutti i partiti politici, le istituzioni, le organizzazioni e i gruppi solidali che lavorano nel campo dei diritti umani nei territori palestinesi occupati e all’estero ad appoggiare i detenuti nel loro sciopero della fame e chiede che vengano garantite le loro legittime richieste. “Addameer” continuerà a seguire da vicino lo sciopero dei prigionieri e a fornire aggiornamenti regolari sugli sviluppi della situazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il dibattito sulla legalità delle colonie: domande ricorrenti

Nathaniel Berman – 11 maggio 2017,Tikkun


I. Perché adesso?

Durante lo scorso decennio la ripresa dei dibattiti sulla legalità, in particolare sulla legalità delle colonie israeliane in Cisgiordania, è diventata un aspetto inatteso della discussione pubblica su Israele/Palestina. Questa ripresa è stata principalmente il prodotto di due tipi di forze. Per un verso, chi appoggia la colonizzazione ha sostenuto che la diffusa opinione internazionale sull’illegalità delle colonie è semplicemente sbagliata. Questi sostegni vanno da un “Rapporto sullo Stato delle Costruzioni nella Regione della Giudea e Samaria” (il “Rapporto della Commissione Levy”) del governo israeliano nel 2012, fino agli articoli pubblicati sulla stampa di destra e agli attivisti che appoggiano senza sosta queste posizioni nelle reti sociali. Dall’altro, l’illegalità delle colonie è stata fortemente sostenuta dagli attivisti delle campagne critiche nei confronti di Israele, soprattutto dal movimento BDS. Questo articolo prenderà in considerazione in primo luogo l’uso dell’argomento della legalità a favore della colonizzazione, valutandone la validità ed esaminando il significato contestuale di questo ritorno.

La ripresa del dibattito sulla legalità è sorprendente perchè, di primo acchito, sembra in contrasto con gli attuali sviluppi globali. Di sicuro c’è stato un periodo, all’incirca tra il 1990 e il 2003, in cui il dibattito internazionale sull’uso della forza è stato pervaso da argomentazioni giuridiche. A posteriori è stupefacente quanto del dibattito sull’invasione del Kuwait nell’agosto 1990 e sulla risposta militare guidata dagli Stati uniti nel gennaio 1991 sia stato inquadrato in un contesto giuridico. Il periodo che ne è seguito è stato una specie di età dell’oro per i giuristi di diritto internazionale. La convinzione che la fine della Guerra Fredda significasse che le leggi internazionali che regolano l’uso della forza potessero “finalmente” essere applicate, che il Consiglio di Sicurezza potesse “finalmente” giocare il ruolo per il quale era stato istituito, divenne praticamente unanime. Anche quando simili speranze vennero infrante nel corso del decennio – in particolare per l’incapacità internazionale di bloccare il genocidio in Ruanda del 1993 -, il discorso sul diritto internazionale rimase un punto fermo fondamentale dell’opinione pubblica mondiale sull’uso della forza. Ogni intervento – od ogni assenza di intervento – venne accompagnato da vivaci dibattiti sulla sua legalità. L’invasione del Kosovo da parte della NATO nel 1999, nonostante – o forse proprio a causa di ciò – la sua dubbia legalità, produsse una grande quantità di discussioni giuridiche originali.

Ora quel periodo sembra un lontano passato, benché non si possa identificare il momento preciso della sua fine. Il Kosovo ha giocato un ruolo, come anche la decisione degli USA di non chiedere l’approvazione del Consiglio di Sicurezza perl’invasione dell’Afghanistan. Tuttavia entrambe queste azioni potrebbero essere plausibilmente (se non incontestabilmente) giustificate in base a teorie di lungo periodo (intervento umanitario nel primo caso, auto-difesa nel secondo). Ma furono l’invasione americana dell’Iraq nel 2001 e la successiva, anche se riluttante, acquiescenza nei suoi confronti da parte di gran parte della comunità internazionale, che indicarono il fatto che le norme internazionali sull’uso della forza avevano perso il loro potere di determinare la politica internazionale. Con l’invasione russa della Crimea nel 2014, entrambe le “superpotenze” di un tempo hanno chiaramente dimostrato il proprio disprezzo per queste norme internazionali. Di sicuro molti hanno condannato quell’invasione in base ad una flagrante illegalità, ma questi termini sono sembrati ben lontani dal nuovo carattere discorsivo del dibattito internazionale.

Nel conflitto Israele/Palestina, il dibattito giuridico ha giocato a lungo un ruolo centrale, anche se intermittente. Benché io non possa qui ripercorrerne l’intera storia, è sufficiente dire che il conflitto è stato modellato in modo decisivo dal dibattito su, e dall’adozione di, strumenti internazionali come il Mandato [inglese, ndtr.] in Palestina del 1922, la Risoluzione [dell’ONU, ndtr.] sulla partizione [della Palestina, ndtr.] del 1947, la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza del 1967 [che chiedeva il ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania, ndtr.], e così di seguito. Ma ci sono stati periodi in cui la questione della legalità pareva più o meno irrilevante per gli sviluppi politici in corso.

A mio parere, furono gli accordi di Oslo del 1993 e le loro conseguenze che hanno in gran parte favorito la più recente (anche se temporanea) marginalizzazione delle questioni giuridiche fondamentali del conflitto, come la legittimità dello Stato di Israele, il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, la legalità delle colonie e via di seguito. Il riconoscimento reciproco dello Stato di Israele e dell’esistenza del popolo palestinese da parte di Rabin e di Arafat nel 1993 si impegnava a mettere da parte dibattiti a somma zero su pretese legali opposte e totalizzanti. Al loro posto, Oslo sembrò (anche se per poco) presagire una particolare attenzione verso un pragmatico adeguamento degli interessi reciproci, la creazione di una società palestinese e una israeliana complementari e l’oblio graduale di richieste incompatibili sulla terra e sulla sua storia.

La morte di Oslo ha avuto dimensioni sia immediate che graduali, con cause troppo complesse per essere discusse in questa sede. La seconda Intifada ha segnato la sua fine – anche se alcune delle sue strutture formali hanno resistito, e continuano ad esistere. Tuttavia questa fine non è stata inizialmente accompagnata da un ritorno alla centralità del dibattito giuridico. Ciò è stato in parte dovuto alla violenza che l’ha accompagnata: sembrava che né i principi giuridici né gli interessi concreti da quel momento in poi sarebbero più stati importanti, ma solo la forza bruta.

Tuttavia, come sempre in questo conflitto, la forza bruta non ha deciso la questione, e la battaglia ideologica a somma zero è ritornata all’ordine del giorno: da una parte, la delegittimazione di Israele come tale; dall’altra, la delegittimazione di ogni rivendicazione palestinese sulla terra. O, per usare una sintesi corrente: i sostenitori di una “soluzione dello Stato unico”, che sia Israele o Palestina, sembrano aver conquistato il sopravvento nel determinare il dibattito internazionale, utilizzando argomentazioni giuridiche per proporre richieste inconciliabili.

II. Che cos’è la legge?

Passo a una rassegna delle questioni giuridiche relative alle colonie, iniziando da quelle basilari. Una discussione giuridica esaustiva richiederebbe un intero libro (o più di uno); mi sono sforzato qui di prendere in considerazione le questioni più importanti.

Israele è uno Stato (nel significato delle leggi internazionali, non in quello americano – cioè un Paese indipendente). La sua statualità è stata riconosciuta da molti altri Stati e, cosa più importante, dalla sua condizione di Stato membro dell’ONU. Se qualunque altro Stato dovesse usare la forza contro la sua “integrità territoriale o indipendenza politica…, o in qualunque altro modo incompatibile con le finalità delle Nazioni Unite,” violerebbe l’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite, una delle regole più sacre delle leggi internazionali successive alla Seconda Guerra Mondiale. Ad un livello giuridico formale, problemi quali la “legittimità” del Sionismo, le rivendicazioni storiche ebraiche sulla terra ed altre sono semplicemente irrilevanti per lo status giuridico dello Stato di Israele.

Per parte loro, i palestinesi sono stati riconosciuti dall’ONU, da molti Stati e dalla Corte Internazionale di Giustizia (la “CIG”, ovvero la “Corte Internazionale”) come “popolo” con il diritto all’ “autodeterminazione”. In base alla Risoluzione 2625 (1970) dell’Assemblea Generale, la maggior parte delle cui norme sono considerate dall’autorità giudiziaria internazionale come vincolanti, il diritto all’autodeterminazione può essere messo in pratica in uno di questi tre modi: “la costituzione di uno Stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione con uno Stato indipendente o la formazione in qualunque altro status politico determinata da un popolo.” Quindi, in quanto “popolo”, i palestinesi sono in possesso del diritto, anche se non ancora messo in pratica, di scegliere una di queste tre opzioni. C’è una netta preferenza internazionale perché il diritto di auto-determinazione venga realizzato attraverso uno Stato indipendente, come espresso nelle prassi statuali durante la decolonizzazione e nella Risoluzione 1514 (1960) dell’Assemblea Generale, che ha preceduto la 2625 e documento fondamentale nel processo di maturazione dell’auto-determinazione come diritto internazionale generale.

La dimensione territoriale dello Stato di Israele e l’autodeterminazione palestinese richiedono la discussione di almeno altre due questioni giuridiche. La prima riguarda lo status della “Linea Verde”, il confine che ha delimitato Israele in base agli accordi armistiziali del 1949 tra Israele e i suoi vicini, in particolare l’Egitto e la Giordania. Gli accordi dichiararono esplicitamente che non erano definitivi riguardo alle rivendicazioni giuridiche delle due parti, comprese quelle territoriali. Tuttavia gli anni successivi al 1949 videro un crescente riconoscimento internazionale, per lo meno di fatto, della Linea Verde come il confine dello Stato di Israele. Il momento esatto in cui questo riconoscimento di fatto ha acquisito un valore legale può essere difficile da indicare, anche se a quanto pare si è ampiamente verificato. Pertanto, nella sua sentenza del 2004 sul Muro di sicurezza israeliano, la CIG ha accolto implicitamente lo status de jure della Linea Verde – in particolare nella sua dichiarazione secondo cui le disposizioni della Convenzione di Ginevra per i territori occupati si applicano ai “territori palestinesi…ad est della Linea Verde,” dichiarando implicitamente che sono inapplicabili ai territori ad ovest della Linea Verde perché si trovano all’interno del territorio sovrano di Israele.

Questa dichiarazione della CIG ci porta al termine legale “occupazione”. I recenti sostenitori della colonizzazione negano insistentemente che questo termine possa essere applicato alla Cisgiordania. Essi affermano che il termine “occupazione” si possa applicare solo quando un territorio è stato tolto da uno Stato sovrano ad un altro Stato sovrano. La Cisgiordania non ha avuto un riconoscimento internazionale fin dal lontano crollo dell’Impero ottomano. Gli inglesi, succeduti agli Ottomani nel governo della Palestina, erano solo un “Potere mandatario” , una specie di fiduciario che amministrava il territorio in nome della Società delle Nazioni. La Giordania, che conquistò la Cisgiordania nella guerra del 1948, venne condannata da tutti per la successiva annessione – un’annessione riconosciuta formalmente solo dalla Gran Bretagna e forse, a un livello informale e de facto, dagli USA. L’annessione venne inizialmente condannata in quanto illegale dalla Lega Araba, che per poco non espulse la Giordania per questo problema.

Nel 1968 Yehuda Blum, uno studioso israeliano di diritto internazionale e diplomatico, fornì quello che forse fu il primo, e il più influente, argomento legale per una rivendicazione israeliana della Cisgiordania: la teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] “. In base a questa teoria, l’insieme delle norme internazionali che regolano “l’occupazione in situazioni di conflitto” non si applica a causa dell’assenza di un legittimo potere governante precedente a cui il territorio potesse essere “restituito”. Tuttavia Blum non arrivò fino al punto di negare che si applicasse il termine “occupazione in situazione di conflitto”. Piuttosto, la “mancanza di qualcuno a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” significava che venissero applicate solo le norme “dirette a salvaguardare i diritti umani della popolazione”, e non quelle “che garantiscono i diritti di restituzione al potere legittimo”. Gli attuali sostenitori della rivendicazione israeliana, tuttavia, hanno assunto con decisione il punto da cui Blum si è astenuto: la negazione della reale esistenza di un’ “occupazione”. [1]

In ogni caso, la rilevanza della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] ” per la legge internazionale dell’occupazione è stata solidamente rifiutata dalla Corte Internazionale di Giustizia (così come da quasi ogni altra autorità) nella sua decisione del 2004, come ho rimarcato in precedenza. La CIG ha fondato il suo rifiuto sullo scopo delle disposizioni fondamentali delle Convenzioni di Ginevra, dei lavori preparatori (registrazione delle discussioni tra le parti della Convenzione), della successiva conferma dei pareri delle parti delle Convenzioni e di molte risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – i metodi standard utilizzati per determinare il significato delle disposizioni di un trattato. Inoltre, come evidenzierò in seguito, la dichiarazione della Corte che tutte le disposizioni delle Convenzioni di Ginevra che governano l’occupazione di forze ostili si applicano alla Cisgiordania è ampiamente supportata dalle politiche complessive sottintese in queste disposizioni, così come altri sviluppi legali, su tutti il diritto all’autodeterminazione.

(Noto di non avere qui lo spazio per discutere della legalità dell’occupazione in quanto tale, ma solo quella della legalità delle colonie in ogni territorio occupato. Si potrebbe sostenere in modo plausibile che l’inizio dell’occupazione fosse legale nel 1967, in quanto esercizio del diritto all’auto-difesa, ma che, come ha mostrato recentemente Aeyal Gross, rimane la questione se sia diventata illegale a causa del modo in cui è stata condotta. [2])

L’argomento principale per sostenere l’illegalità delle colonie si basa su uno dei principali scopi delle regole che governano l’occupazione ostile: l’obbligo da parte dell’occupante di non cambiare il carattere del territorio occupato oltre a ciò che è richiesto da necessità strettamente militari. Questo scopo è alla base di una norma fondamentale sull’occupazione, codificata nell’articolo 43 delle Disposizioni dell’Aja del 1907: l’obbligo per lo Stato occupante di “prendere tutte le misure in suo potere per ripristinare, e garantire, il più possibile, l’ordine pubblico e la sicurezza, rispettando al contempo, eccetto in casi estremi, le leggi in vigore nel Paese.” Questa politica indica anche la proibizione di obbligare gli abitanti a giurare fedeltà allo Stato occupante (art. 45) e di confiscare la proprietà privata (art. 46), così come le norme sulla proprietà pubblica: “Lo Stato occupante deve essere visto solo come un amministratore ed usufruttuario di edifici pubblici, beni immobili, foreste e proprietà agricole dello Stato ostile, e situate nel Paese occupato. Esso deve salvaguardare il patrimonio di queste proprietà ed amministrarle in base alle norme sull’usufrutto” (art. 55). Gli articoli 46 e 55 non prevedono nessun terreno su cui un occupante possa costruire un insediamento civile, ancora meno di carattere permanente.

Di sicuro, le disposizioni dell’Aja sembrano supporre l’esistenza di un “potere sovrano a cui restituire [la terra occupata]” e vedere il ruolo dello Stato occupante come una specie di amministratore per questo potere sovrano fino ai negoziati di un trattato di pace. La teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” definirebbe ogni disposizione riguardante questo assunto inapplicabile alla Cisgiordania. E, di conseguenza, ci si potrebbe benissimo chiedere: per chi lo Stato occupante sarebbe un amministratore in assenza di un potere sovrano legittimo, per chi sarebbe obbligato ad osservare le norme di usufrutto riguardo alla proprietà pubblica, in nome di chi gli sarebbe vietato imporre il proprio sistema normativo – e, in generale, i diritti di chi dovrebbe salvaguardare?

La risposta in base alle attuali leggi internazionali è chiara: la beneficiaria di tutte queste norme è la popolazione, o piuttosto il “popolo”, dei territori occupati. Va ricordato che persino Blum ha affermato che, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, queste norme intese a garantire i “diritti umani della popolazione” sono applicabili alla Cisgiordania, riconoscendo quindi che l’assenza di un “potere a cui restituire” non implica l’assenza di un beneficiario di almeno alcuni dei diritti concessi dalla legge dell’occupazione. Di sicuro Blum ha fatto una distinzione tra tali “diritti umani” e le rivendicazioni politiche – queste ultime, in base alla sua teoria, inapplicabili in virtù dell’assenza di un precedente potere legittimo. E la posizione di Blum sarebbe stata plausibile nel 1907.

Ma la distinzione di Blum non è più valida in base alle attuali leggi internazionali, a causa del diritto all’ autodeterminazione, che riconosce i diritti politici di “popoli” non ancora organizzati in uno Stato sovrano, e l’applicazione delle leggi internazionali in generale, con i valori che rappresentano. In base a questo riconoscimento dei diritti politici dei popoli senza Stato, il beneficiario dello status simile a quello fiduciario del territorio occupato, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, deve essere “il popolo” del territorio. E’ a suo beneficio che lo Stato occupante deve governare il territorio, astenersi da cambiamenti giuridici non necessari, salvaguardare la proprietà pubblica, e via di seguito.

L’argomentazione a favore della colonizzazione (e quindi dell’annessione) – secondo cui l’assenza di un precedente potere sovrano legittimo rende il territorio disponibile all’appropriazione da parte dell’occupante – ignora quindi del tutto l’emergere graduale nelle leggi internazionali del diritto all’autodeterminazione politica. Sebbene l’autodeterminazione dei popoli possa essere maturata pienamente nel diritto internazionale generale solo dopo il 1960, il principio regolò buona parte della ridefinizione dei confini europei nel primo dopoguerra. Woodrow Wilson fornì nel 1918 una delle sue prime e più esplicite formulazioni nel discorso “Quattro principi”, quando dichiarò che “popoli e province non devono essere barattati da un potere sovrano all’altro come se fossero beni mobili e pedine di un gioco” – un principio che va direttamente in senso contrario rispetto alla teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione.”

In effetti, il concetto del diritto internazionale prima del XX° secolo, che il diritto all’autodeterminazione rigetta esplicitamente, è l’antenato diretto della teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione” : quello di “ terra nullius”, terra che non è di proprietà di nessuno e di conseguenza disponibile per l’acquisizione. Questa nozione ha un lungo ed ignobile percorso nella storia dell’imperialismo, le cui fasi sono state tratteggiate dal giudice della CIG Ammoun nel caso del Sahara occidentale del 1975:

(1) L’antichità romana, quando ogni territorio che non fosse romano era nullius.

(2) L’epoca delle grandi scoperte del XVI° e XVII° secolo, durante la quale ogni territorio che non era di un sovrano cristiano era nullius.

(3) Il XIX° secolo, durante il quale ogni territorio che non fosse di proprietà di un cosiddetto Stato civilizzato era nullius.

Nel caso del Sahara occidentale la CIG respinse totalmente la nozione di terra nullius, dichiarando che “territori abitati da tribù o popoli che hanno un’organizzazione sociale e politica” non possono essere visti come terrae nullius dal punto di vista legale. Poiché tutte le “tribù” e i “popoli” hanno “un’organizzazione sociale e politica,” la Corte correttamente dichiarò che solo un territorio disabitato può eventualmente essere nullius. Pertanto l’ “acquisizione di sovranità” su un qualunque territorio abitato non può essere “effettuata unilateralmente attraverso un’ ‘occupazione'”, ma piuttosto solo tramite “accordi conclusi con i poteri locali”, che tali poteri locali siano o meno i rappresentanti di Stati.

Torniamo ora alla norma giuridica fondamentale che regola specificamente la colonizzazione, l’articolo 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra: “Il potere occupante non deve deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa.” Il significato di questa disposizione è stato duramente messo in discussione nel contesto della Cisgiordania. I fautori della colonizzazione sostengono che si riferisce solo ai trasferimenti forzati di popolazione, e lo mette in relazione con le deportazioni di massa naziste nei campi di concentramento. Questa interpretazione considera i due termini, “deportazione” e “trasferimento” come sinonimi. Tuttavia l’autorevole commento sulle Convenzioni di Ginevra da parte del Comitato Internazionale della Croce Rossa (“CICR”) del 1958 ne fa una lettura molto diversa:

E’ intesa a proibire una pratica adottata durante la Seconda Guerra Mondiale da certe potenze, che trasferirono parte della propria popolazione in territori occupati per ragioni politiche e razziali o con lo scopo, come esse sostennero, di colonizzare questi territori. Tali trasferimenti peggiorarono la situazione economica della popolazione nativa e misero in pericolo la sua esistenza come etnia separata.

Nelle parole della CIG nel 2004, la norma proibisce “non solo le deportazioni o i trasferimenti forzati di popolazione come quelli messi in atto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche qualunque misura presa da un potere occupante per organizzare o incoraggiare trasferimenti di parti della sua stessa popolazione nel territorio occupato.” Questa interpretazione, sostenuta dal CICR, dalla CIG e dalla maggior parte dei giuristi internazionali, è in linea con il quadro politico complessivo delle leggi sull’occupazione, secondo cui gli Stati occupanti devono evitare di fare passi per cambiare il carattere del territorio occupato – e tentativi di modificare il carattere demografico con insediamenti, e a maggior ragione qualunque passo unilaterale verso l’annessione, vanno direttamente in senso contrario rispetto a questa politica.

III. E riguardo a Sanremo?

Uno degli aspetti più sorprendenti della recente argomentazione a favore della colonizzazoine è la sua ossessione per tre testi, di circa un secolo fa, che sono culminati nella nascita del Mandato in Palestina della Società delle Nazioni: la “Dichiarazione Balfour” (1917), la Risoluzione di Sanremo (1920) e il Mandato sulla Palestina (1922). Questi documenti hanno un signficato giuridico diverso. La “Dichiarazione Balfour” britannica, che “vede(va) con favore la costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”, era una dichiarazione unilaterale di politica da parte di uno Stato impegnato, all’epoca, in una lotta militare per il controllo della Palestina. Di per sé, non ha nessun valore giuridico internazionale. La Risoluzione di Sanremo fu un accordo tra quattro Stati (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone), che dichiararono la propria intenzione di accettare alcune condizioni per essere inclusi nei Mandati in Palestina, in Siria (che evidentemente includeva il Libano) e nella Mesopotamia (che sarebbe presto stata chiamata Iraq).

I quattro Stati concordarono che il Mandato in Palestina sarebbe stato concesso alla Gran Bretagna che sarebbe stata “responsabile della messa in pratica della Dichiarazione (Balfour)”. Di nuovo, la risoluzione era una dichiarazione politica da parte di quattro Stati, ma non aveva un valore giuridico indipendente. Infine, il Mandato sulla Palestina, un trattato internazionale vincolante tra la Gran Bretagna e la Società delle Nazioni, nel suo preambolo adottò la Dichiarazione Balfour e fornì un certo numero di disposizioni dettagliate per la sua attuazione. Di questi documenti, solo il Mandato, un trattato internazionale, era legalmente vincolante – il che rende l’attuale enfasi dei sostenitori della colonizzazione sulla Dichiarazione Balfour e sulla Risoluzione di Sanremo alquanto inspiegabile da un punto di vista giuridico.

In ogni caso, persino il Mandato ha perso ogni rilevanza giuridica attuale. Il Mandato ed i testi che lo hanno preceduto furono scritti in un periodo totalmente diverso, prima di una lunga serie di radicali cambiamenti di fatto e giuridici nella situazione internazionale e regionale. Prima di tutto, questi documenti furono adottati prima della fondazione dello Stato di Israele, internazionalmente riconosciuto. La fondazione dello Stato fece più che ottenere l’obiettivo della ” costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”: lo ha sovra-realizzato – in quanto il vago termine “focolare”, una definizione senza un preciso significato giuridico nel 1917 o in qualunque tempo precedente o successivo, venne scelto proprio per evitare la promessa di uno Stato ebraico. Un confronto del Mandato sulla Palestina con qualunque altro trattato successivo alla Prima Guerra Mondiale lo evidenzia: quando l’intenzione era quella di garantire la creazione di uno Stato indipendente per i popoli, il testo lo affermava esplicitamente.

Si potrebbe cavillare ulteriormente sul linguaggio della Dichiarazione Balfour (per esempio, sembra promettere solo che “il focolare per il popolo ebraico” sarebbe stato da qualche parte “in Palestina”, piuttosto che prevedere la costituzione della Palestina nel suo complesso come focolare ebraico). Tuttavia, la fondazione dello Stato di Israele, con la sua sovra- realizzazione della politica del “focolare”, è sufficiente a rendere superate le relative disposizioni del Mandato. In base a una norma definita da molto tempo che guida i trattati internazionali, “rebus sic stantibus,” un “fondamentale cambiamento delle circostanze” che alteri le condizioni di base sotto le quali le disposizioni di un trattato sono state adottate rende nullo il loro carattere vincolante.

Altre due disposizioni sono spesso menzionate dai fautori della colonizzazione. La prima è la disposizione del Mandato che chiede alla Gran Bretagna di “incoraggiare…un insediamento concentrato da parte degli ebrei sul territorio.” Di nuovo, con la decadenza di tutte le disposizioni relative al “focolare” in seguito all’esecutività del rebus sic stantibus, anche questa disposizione è obsoleta. Quindi la fondazione di uno Stato di Israele internazionalmente riconosciuto rende piuttosto assurda l’obbligatorietà di un potere mandatario straniero di “ incoraggiare…un insediamento concentrato”.

La seconda disposizione è l’articolo 80 della Carta dell’ONU. L’articolo 80 è parte del capitolo XII della Carta, che stabilisce la costituzione di un “Sistema internazionale di amministrazione fiduciaria” per sostituire i Mandati della Società delle Nazioni. L’articolo 80 prevede che “niente nel” capitolo XII “deve essere interpretato in sé e per sé per alterare in alcun modo i diritti, qualunque essi siano, di ogni Stato o popolo o le disposizioni di documenti internazionali esistenti.” I sostenitori della colonizzazione, facendo ricorso ad un articolo scritto da Eugene Rostow nel 1978, interpretano questa norma come se mantenesse in vigore tutte le disposizioni del Mandato sulla Palestina in relazione ad ogni parte del territorio che non sia stata “assegnata” – un termine che utilizzano per significare un territorio non ancora concesso a un potere sovrano internazionalmente riconosciuto.

Questa tesi è confutabile sotto almeno due aspetti. Anzitutto l’effettività del rebus sic stantibus, che rende obsolete le disposizioni del focolare ebraico del Mandato, non è un portato del capitolo XII, e quindi le limitazioni dell’articolo 80 semplicemente non sono pertinenti. In secondo luogo, la trasformazione dell’auto-determinazione in un diritto internazionale non solo ha cambiato la situazione giuridica (rafforzando l’argomento del rebus sic stantibus), ma significa anche che il territorio non può essere considerato “non assegnato”, semplicemente in quanto non c’è un potere sovrano riconosciuto su di esso. In ogni caso tutti questi argomenti sono stati implicitamente rifiutati dalla CIG, da quasi tutti i giuristi e dalla comunità internazionale degli Stati.

IV. E riguardo alla Risoluzione 242?

Un altro vecchio dibattito che i fautori della colonizzazione hanno rispolverato riguarda il significato della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, adottata nel novembre 1967. Tra le altre cose, la risoluzione chiede “il ritiro delle forze armate di Israele da territori occupati” durante la Guerra dei Sei Giorni. I sostenitori della colonizzazione affermano che l’assenza di un articolo determinativo prima della parola “territori” significa che la risoluzione non chiede ad Israele di ritirarsi da tutti i territori occupati durante la guerra e che questa disposizione può essere rispettata ritirandosi da uno qualsiasi dei territori occupati – per esempio, ritirandosi dal Sinai in base agli accordi di Camp David del 1979. Simili argomentazioni spesso implicano il confronto tra il testo in francese ed in inglese, sottigliezze grammaticali tra l’inglese e il francese e affermazioni di varie persone coinvolte nella stesura della risoluzione. Chi appoggia la colonizzazione sostiene anche che la risoluzione legittima così le colonie israeliane.

Queste argomentazioni sono piuttosto sconcertanti. Anche se la questione grammaticale fosse corretta (cosa che non è affatto certa), la risoluzione deve essere interpretata alla luce delle norme giuridiche internazionali generali sui territori occupati. In base a queste norme, un territorio occupato durante una guerra non può essere annesso unilateralmente. Peraltro questo divieto è stabilito nella stessa Risoluzione 242, il cui secondo paragrafo introduttivo “sottolinea l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra…” Anche se l’interpretazione di “territori” a favore della colonizzazione fosse corretta, la risoluzione stabilirebbe semplicemente che, in una soluzione negoziata del conflitto, le parti sarebbero libere di accettare cambiamenti dei confini di anteguerra. Questa lettura rende compatibile il secondo paragrafo dell’introduzione con la (controversa) interpretazione della parola “territori”. Faccio anche notare che la risoluzione non cita per niente le colonie.

In ogni caso, la risoluzione deve essere interpretata alla luce di sviluppi giuridici successivi, su tutti il quasi universale riconoscimento dei palestinesi come “popolo” con un diritto all’auto-determinazione. La risoluzione non menziona i palestinesi, che compaiono solo come anonimi “rifugiati”.

V. E riguardo ad Howard Grief?

Uno degli aspetti deludenti delle argomentazioni giuridiche a favore delle colonie è la loro apparente indifferenza verso le regole fondamentali che presiedono alla definizione dello Stato nel diritto internazionale. Ribadiscono ripetutamente l’esistenza di un piccolo numero di autori giuridici che hanno argomentato la legalità delle colonie, ignorando le migliaia che hanno espresso parere contrario, come anche le istituzioni autorevoli che hanno sostenuto la stessa cosa (quasi tutti gli Stati, le Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, il Comitato Internazionale della Croce Rossa, ecc.). Sostengono la superiorità degli argomenti degli autori da loro scelti e adducono che, quanto meno, la questione è “controversa” e che l’illegalità non può essere considerata definitivamente stabilita.

Gli autori giuridici citati a favore delle colonie sono un gruppo eterogeneo – comprendono alcuni avvocati di livello internazionale, come anche studiosi giuridici in altri campi che si sono occupati in certa misura di diritto internazionale; le carriere di alcuni di loro includono posizioni ufficiali nel governo di Israele. Uno di questi ultimi, particolarmente citato dai sostenitori delle colonie, è Howard Grief, un per altro oscuro avvocato canadese che è stato consulente ministeriale durante il governo Shamir, che pare sia responsabile della loro ossessione per la Risoluzione di San Remo. Quasi tutti sono personaggi chiaramente appartenenti alla destra o persino all’estrema destra dello spettro politico – compreso Howard Grief, la cui richiesta alla Corte Suprema israeliana di dichiarare illegittimi gli accordi di Oslo è stata sbrigativamente liquidata come “una posizione politica”.

Qualunque siano le variegate competenze in merito di questo gruppo, gli argomenti che prendono di mira le singole persone sono irrilevanti. Il diritto internazionale non è una scienza esatta in cui qualcosa può essere oggettivamente vera, anche se la grande maggioranza delle autorità non la riconosce come tale. E non è neppure un’indagine etica in cui (almeno secondo alcune teorie etiche) un valore può essere superiore agli altri nonostante il parere della maggioranza. Né si occupa di una ricerca religiosa sul disegno divino di una sacra scrittura. Al contrario, il diritto internazionale si definisce come relativo all’accordo tra Stati, al consenso o quasi-consenso degli studiosi e alle autorevoli interpretazioni istituzionali dei testi. Secondo le categorie universalmente accettate (codificate, tra l’altro, nello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia), le fonti del diritto internazionale sono: 1) i trattati ratificati dagli Stati; 2) il “diritto consuetudinario internazionale” – prassi statali ampiamente diffuse che si trasformano in norme giuridiche in virtù della loro accettazione in quanto tali dalla maggioranza degli Stati (quest’ultima nota con l’espressione latina “opinio juris”); 3) “principi legislativi generali” – principi della legislazione interna agli Stati, che sono così diffusi da diventare norme giuridiche internazionali.

Inoltre, poiché molte controversie riguardano l’interpretazione dei trattati, dovremmo sottolineare che il principio che governa la formazione del diritto consuetudinario internazionale – che può essere sintetizzato nella formula “prassi + opinio juris” – ricompare in forma solo leggermente differente in relazione all’interpretazione di testi giuridici potenzialmente ambigui. Come stabilito nella Convenzione di Vienna sul “Diritto dei Trattati”:

Si dovrà prendere in considerazione, insieme al contesto:

  1. ogni successivo accordo tra le parti relativo all’interpretazione del trattato o all’applicazione delle sue disposizioni;

  2. ogni successiva prassi nell’applicazione del trattato che stabilisca l’accordo delle parti riguardo alla sua interpretazione;

  3. tutte le norme pertinenti di diritto internazionale applicabili alle relazioni tra le parti.

La polemica sull’erroneità del consenso preponderante riguardo all’illegalità delle colonie – condiviso da Stati, Corti e dall’ampia maggioranza dei giuristi di diritto internazionale – fraintende la natura del diritto internazionale. Si può, ovviamente, contestare in tutto o in parte il diritto internazionale. Ma trattarlo come se contenesse una verità eterna, che un singolo studioso o un gruppo di studiosi potrebbe scoprire indipendentemente da un simile consenso, è semplicemente un equivoco.

VI. Il dibattito come sintomo tragico ….e un’ultima fandonia

Come ho detto all’inizio, la mia opinione complessiva è che questa strana rinascita del dibattito giuridico sia un sintomo di una crescente sfiducia in una possibile soluzione del conflitto in un contesto che darebbe almeno una parziale espressione ad ognuna delle aspirazioni nazionaliste in confitto. Ma indica anche un fenomeno ancor più inquietante. Come è stato evidenziato per anni da molti osservatori, la soluzione dei due Stati – che a molti, me compreso, sembra tuttora fornire l’unico schema che potrebbe plausibilmente condurre ad una giusta e pacifica risoluzione del conflitto – è contraddetta da una “realtà di uno Stato unico” per la quale serve come alibi.

Inoltre, poiché l’occupazione appare sempre più permanente, l’argomentazione giuridica comincia ad apparire sempre più staccata dalla realtà, perché la permanenza è proprio la condizione che le norme giuridiche intendono impedire. E ancora, per tutte le ragioni esposte prima, una volta che [il termine] “occupazione” diventa obsoleto, l’alternativa non è legittimare la sovranità israeliana sulla Cisgiordania, come pretendono i sostenitori delle colonie. Piuttosto, può essere sostituita solo da termini quali “colonialismo” e “apartheid”, categorie storiche che descrivono sistemi di governo in cui i coloni e la maggioranza della popolazione sono governati da due sistemi giuridici e in cui solo i primi hanno la cittadinanza e i diritti civili e politici. Nel contesto di una “realtà di uno Stato unico”, la campagna contro l’applicabilità della forma legale “occupazione” è quindi davvero agghiacciante.

Bisogna menzionare qui un’ ultima, spiacevole fandonia. I sostenitori delle colonie contestano che coloro che ritengono che tutte le colonie debbano essere evacuate auspicano che la Cisgiordania sia “judenrein” [libera dagli ebrei, ndtr.], paragonando così gli oppositori delle colonie ai nazisti. Questo è falso, davvero osceno, per così tanti aspetti ed in così tanti modi, che ci vorrebbe un altro saggio per citarli tutti. Dato che la mia attenzione qui si incentra sul diritto internazionale, mi limiterò ad un solo punto. Il progetto coloniale non può essere onestamente descritto come uno sforzo da parte di singoli ebrei di affittare o acquistare case e il cui diritto di farlo dovrebbe essere garantito da qualcosa come una legge anti-discriminazione. Il progetto coloniale implica lo spostamento collettivo di parti della popolazione civile di uno Stato in un territorio sotto occupazione militare di quello Stato.

Il progetto è stato avviato e continua ad essere diretto da dirigenti, dello Stato e non, la cui intenzione dichiarata era, ed è, agevolare la definitiva imposizione della sovranità israeliana sull’intero territorio o su parte di esso. Il progetto è stato avviato soprattutto (benché non esclusivamente), e continua ad essere ampiamente gestito, da persone guidate da un’ideologia nazionalista-messianica, che ritiene che la proprietà della terra da parte dello Stato di Israele e/o del popolo ebraico sia disposta dalla volontà divina. Il progetto è condotto con l’appoggio dell’intera potenza militare israeliana e da una massiccia spesa del governo in case ed infrastrutture. In breve: le questioni giuridiche essenziali non riguardano la discriminazione abitativa o la proprietà privata –e ancor meno il giudizio morale dei singoli coloni.

Se alcuni coloni sono estremisti violenti e razzisti e molti sono semplicemente indifferenti alla realtà umana dei palestinesi in quanto individui e in quanto popolo, altri sono normali famiglie attirate in Cisgiordania dagli incentivi economici del governo, alcuni sono esempi di spiriti apolitici e vi sono persino alcuni, come il rabbino Menachem Froman, che sono sinceri pacifisti. Le questioni giuridiche riguardano le azioni di uno Stato tenuto al rispetto di norme internazionali che regolano un territorio occupato durante un conflitto armato, norme che proibiscono atti che mirino all’imposizione unilaterale della sovranità su tale territorio ed alla subordinazione della sua popolazione, di cui il progetto di colonizzazione è la forma più eclatante.

1) Bisogna anche notare che gli scritti successivi di Blum, pubblicati dopo Oslo, indicano che non attribuisce più la stessa rilevanza alla teoria che propose nel 1968.

2) Aeyal Gross, “The writing on the wall: rethinking the international law of occupation” [ “La scritta sul muro: ripensare le leggi internazionali sull’occupazione”] (Cambridge, 2017).

Nathaniel Berman è professore di Affari Internazionali, Diritto e Cultura Moderna della cattedra Rahel Varnhagen presso il Centro Cogut per le Discipline Umanistiche della Brown University, e condirettore del progetto “Religione e Internazionalismo”.

Ha di recente pubblicato “Passion and ambivalence: colonialism, nationalism and international law” [“Passione e ambivalenza: colonialismo, nazionalismo e diritto internazionale”] (Brill, 2012).

(traduzione di Amedeo Rossi e Cristiana Cavagna)




Il comitato [di appoggio ai prigionieri]: il servizio penitenziario israeliano sposta tutti i detenuti in sciopero della fame verso prigioni con ospedali da campo

17 maggio 2017,Ma’an News

Ramallah (Ma’an) – Mercoledì sera [17 maggio 2017] il capo del “Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri” Issa Qaraqe ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che tutti i prigionieri palestinesi in sciopero della fame, il cui numero è stimato attorno ai 1.300, sono stati trasferiti in tre prigioni israeliane “per il fatto che si trovano nei pressi di ospedali israeliani,”

Qaraqe ha detto che tutti i prigionieri che partecipano allo sciopero della fame di massa [denominato] “Libertà e Dignità”, che è entrato mercoledì nel 31° giorno, sono stati trasferiti da decine di prigioni israeliane e concentrati nelle prigioni israeliane di Beersheba a sud, di Shatta a nord e di Ramla al centro – ciascuna delle quali è dotata al proprio interno di un ospedale da campo predisposto all’inizio dello sciopero.

“Questo passo evidenzia la gravità delle condizioni di salute degli scioperanti,” ha affermato Qaraqe. Un portavoce del servizio penitenziario israeliano (ISP), tuttavia, ha detto a Ma’an che solo i prigionieri in sciopero della fame delle prigioni di Ketziot e Nafha, nella zona desertica del Negev, sono stati trasferiti nella prigione di Beersheba, “in modo che si trovino più vicini alla zona centrale di Israele, nel caso abbiano bisogno di un trattamento ospedaliero.”

Alla domanda se i prigionieri fossero curati in ospedali civili, il portavoce ha affermato che i detenuti sono in genere assistiti negli ospedali da campo delle carceri, ma che, su indicazione dei medici, se necessario verranno trasferiti in un ospedale civile.

Il ministero dell’Interno israeliano ha confermato che dall’inizio dello sciopero della fame le autorità israeliane hanno installato ospedali da campo per i prigionieri palestinesi.

L’iniziativa ha provocato la preoccupazione che gli scioperanti, che negli ultimi giorni hanno subito un grave deterioramento delle condizioni di salute, siano alimentati a forza in massa – violando gli standard internazionali di etica professionale dei medici e le leggi internazionali, che considerano questa pratica inumana o persino come una forma di tortura.

Una dichiarazione rilasciata martedì dal comitato informativo istituito per appoggiare lo sciopero ha avvertito che i detenuti in sciopero della fame sono “arrivati ad una condizione di salute critica”, segnata da vomito cronico, riduzione della vista, svenimenti e una perdita di peso in media di 20 chili.

Ai prigionieri in sciopero della fame è stato anche imposto il divieto assoluto di ricevere visite dai familiari e devono affrontare continui trasferimenti arbitrari nel tentativo dell’IPS di interrompere il loro sciopero.

Secondo il comitato informativo, lunedì l’IPS ha spostato 36 prigionieri in sciopero dalla prigione di Ofer a un cosiddetto ospedale da campo nella prigione di Hadarim.

Lunedì il comitato ha ribadito le preoccupazioni sugli ospedali da campo, affermando che “in quelle strutture il ruolo dei dottori ricorda quello dei carcerieri che offrono ogni genere di cibo ai detenuti malati e propongono di fornire trattamenti medici in cambio della fine dello sciopero,” sostiene la dichiarazione, denunciando che gli ospedali da campo sono inadeguati e non equipaggaiti per fornire cure mediche, e sono semplicemente solo un altro mezzo per portare e spingere i detenuti a interrompere il loro sciopero.

I partecipanti allo sciopero stanno rifiutando cibo e vitamine dall’inizio dello sciopero il 17 aprile, e per il loro sostentamento bevono solo una miscela di sale ed acqua.

Tra le altre rivendicazioni di diritti fondamentali, gli scioperanti stanno chiedendo la fine del divieto alle visite dei familiari, il diritto di continuare a studiare, cure e assistenza medica adeguate e la fine del regime in isolamento e della detenzione amministrativa – incarcerazione senza imputazione o processo.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il disegno di legge sullo Stato-Nazione ebraico di Israele è una ‘dichiarazione di guerra’

Jonathan Cook

per Al Jazeera – 11 Maggio 2017

Il parlamento Israeliano ha approvato in via preliminare un nuovo disegno di legge che definisce Israele come ‘nazione del popolo ebraico’.

La nuova legislazione tesa a consolidare la definizione di Israele come Stato che appartiene esclusivamente agli ebrei di tutto il mondo è una “dichiarazione di guerra” nei confronti dei cittadini Palestinesi di Israele, hanno annunciato i leader della minoranza questa settimana.

Il disegno di legge, che definisce Israele come la “Nazione del popolo ebraico”, ha superato mercoledì il suo primo voto nel parlamento israeliano, dopo che domenica aveva già ricevuto il supporto unanime di una commissione governativa.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promesso di fare in modo che il provvedimento sia tradotto in legge entro 60 giorni.

Tra le altre disposizioni, la legge – conosciuta comunemente come disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico – revoca lo status di lingua ufficiale dell’arabo, nonostante esso sia la lingua madre di un cittadino su cinque.

La popolazione di Israele include una numerosa minoranza di 1,7 milioni di palestinesi.

La legge afferma che gli ebrei di tutto il mondo hanno un diritto “esclusivo” all’auto-determinazione in Israele, e chiede al governo di rafforzare i legami con le comunità ebraiche al di fuori di Israele.

Inoltre assegna maggiore potere ai cosiddetti “comitati di ammissione” che impediscono ai cittadini palestinesi di vivere in centinaia di comunità che controllano la maggior parte del territorio di Israele.

 

Un pericolo per i colloqui di pace

Oltre a questo, chi la critica teme che la legge sia finalizzata ad intralciare ogni prospettiva di ripristinare i colloqui di pace con la leadership palestinese nei Territori Occupati. Il presidente USA Donald Trump è atteso nella regione per la fine di questo mese, per quello che si presume sia un tentativo di riavviare il processo di pace, il quale è in fase di stallo da molto tempo.

Netanyahu però ha già chiarito che insisterà sulla condizione preliminare che, il presidente palestinese Mahmoud Abbas, riconosca Israele come Stato ebraico. Il nuovo disegno di legge di fatto enuncia le caratteristiche dello Stato che Abbas sarebbe tenuto a riconoscere.

Netanyahu ha detto questa settimana che tutti i partiti sionisti in parlamento dovrebbero supportare la legge. “Il disegno di legge stabilisce il fatto che lo Stato di Israele è lo Stato-Nazione del popolo ebraico nella nostra patria storica”, ha detto ai sostenitori del suo partito, il Likud.

Ha poi aggiunto: “Non c’è nessuna contraddizione tra questo disegno di legge e l’uguaglianza di diritti per tutti i cittadini di Israele.”

Tuttavia i leader della minoranza palestinese si sono dichiarati assolutamente contrari.

 

Non spariremo’

Ayman Odeh, capo del partito a maggioranza palestinese “Lista Unitaria” del parlamento Israeliano, ha avvertito che la legge assicurerebbe “la tirannia della maggioranza sulla minoranza”.

Sulla base del disegno di legge solo l’ebraico sarebbe lingua ufficiale, mentre all’arabo sarebbe soltanto concesso uno “status speciale”. I cittadini palestinesi già lamentano come la maggior parte dei servizi pubblici e dei documenti ufficiali non siano forniti in arabo.

L’obiettivo è quello di dipingere il razzismo istituzionale in Israele come assolutamente normale, e garantire che la realtà dell’apartheid sia irreversibile”, ha detto ad Al Jazeera Haneen Zoabi, membro palestinese del parlamento israeliano.

Fa parte dell’immaginario della destra – loro negano che qui ci sia una popolazione indigena che vive ancora nella propria terra. Non spariremo a causa di questa legge.”

 

Maggiori diritti

Sul piano strettamente giuridico, il disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico apporta dei cambiamenti limitati. Sin dalla sua fondazione nel 1948 Israele si è definito come uno Stato del popolo ebraico anziché di tutti i cittadini del Paese, inclusa la sua minoranza palestinese.

La “Legge del Ritorno” del 1950 permette solo agli ebrei di emigrare in Israele e di ricevere la cittadinanza. Adalah, un’associazione per i diritti legali, ha documentato la presenza di decine di leggi che discriminano esplicitamente i cittadini palestinesi.

Ma la nuova legge è significativa per ragioni che vanno al di là del suo immediato impatto giuridico.

Non da ultimo essa fornisce all’auto-definizione di Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico qualcosa di simile ad uno status costituzionale, ha osservato Ali Haider, avvocato per i diritti umani ed ex co-direttore di Sikkuy, un’organizzazione che fa pressione a favore di eguali diritti di cittadinanza.

Il disegno di legge, se approvato, si unirà ad un gruppo di Leggi Fondamentali destinate a costituire le fondamenta di ogni futura costituzione. Tali leggi prevalgono sulle leggi ordinarie e sono molto più difficili da abrogare.

Questo è un passo molto pericoloso perché rende esplicito in una Legge Fondamentale il fatto che tutti gli ebrei, anche quelli che non sono cittadini, hanno maggiori diritti in Israele di quei cittadini che sono palestinesi,” ha detto ad Al Jazeera.

 

Intimidazione dei giudici

Una bozza alternativa della nuova legge, che concedeva uguali diritti a tutti i cittadini, è stata effettivamente bloccata dal governo a gennaio, quando stava per essere presa in esame.

Haider ha detto che la nuova versione fornirebbe le basi costituzionali per giustificare un’ondata di leggi finalizzate alla marginalizzazione dei cittadini palestinesi ed all’erosione dei loro diritti in quanto cittadini.

Una” Legge di Espulsione” approvata l’anno scorso dà al parlamento israeliano il potere di espellere i deputati palestinesi se fanno dichiarazioni politiche che la maggioranza ebraica non approva. Un altro disegno di legge presentato al parlamento, la “Legge dei Muezzin“, mette a tacere la chiamata islamica alla preghiera.

Tali leggi saranno quasi sicuramente contestate dinanzi alla Corte Suprema di Israele. “I giudici saranno molto più riluttanti ad intervenire se il disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico sarà in vigore,” ha detto Haider. “Si sentiranno costretti ad ignorare fondamentali principi democratici ed a dare priorità al carattere ebraico di Israele.”

Ha inoltre aggiunto che ci sarà una scarsa opposizione da parte dell’opinione pubblica ebraica. Un sondaggio dell’Istituto Israeliano per la Democrazia dello scorso dicembre ha rilevato che più della metà degli ebrei Israeliani vorrebbe che qualunque cittadino che rifiuta la definizione di Israele come Stato ebraico fosse privato di diritti fondamentali.

 

Preparativi per l’annessione

Un altro obiettivo chiave del disegno di legge per il governo di Netanyahu è il suo probabile impatto su ogni iniziativa finalizzata a riattivare i colloqui di pace con i palestinesi. Abbas e Donald Trump si sono incontrati la scorsa settimana.

Il governo di Netanyahu non aderisce più nemmeno a parole all’idea che potrebbe accettare uno Stato palestinese. La maggior parte dei dibattiti all’interno del governo israeliano si concentra invece sull’intensificazione della costruzione degli insediamenti e sui preparativi per l’annessione di aree della Cisgiordania.

Zoabi ha osservato che, da quando è salito al potere nel 2009, Netanyahu ha lavorato instancabilmente per persuadere Washington ad accettare un nuovo prerequisito per il dialogo, ovvero che la leadership Palestinese dovrà prima di tutto riconoscere Israele come Stato ebraico.

 

Sacrificare i diritti dei rifugiati

Il nuovo disegno di legge metterebbe Abbas in una difficile posizione, che gli consentirebbe di iniziare le trattative con Israele solo se egli prima accettasse di sacrificare sia i diritti dei cittadini palestinesi di Israele alla pari cittadinanza, sia quelli dei milioni di rifugiati palestinesi al ritorno alle proprie vecchie case.

La legge è rivolta non solo ad Abbas ma anche a Trump,” ha detto Zoabi. “Gli fornisce una mappa che spiega con esattezza su cosa si potrà negoziare e come dovranno essere le condizioni della soluzione.”

Avi Dichter, un membro del partito di Netanyahu che ha preparato la bozza del disegno di legge, ha spiegato lo scopo diplomatico con il quale sarebbe utilizzato.

Ha detto al sito Israeliano Ynet: “L’aspirazione dei palestinesi di eliminare lo Stato-Nazione del popolo ebraico non è più un segreto”. Ha aggiunto che Israele dovrà “pretendere che i propri nemici lo riconoscano come lo Stato-Nazione del popolo ebraico”.

Netanyahu gli ha fatto eco, dicendo questa settimana che il disegno di legge è “la risposta più chiara possibile a coloro che stanno provando a negare la profonda connessione tra il popolo di Israele e la sua terra”.

 

Regime di apartheid

Probabilmente non è una coincidenza il fatto che al disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico venga assegnato un trattamento prioritario, mentre ministri dell’estrema destra nel governo di Netanyahu stanno preparando un provvedimento separato per applicare la legge israeliana in Cisgiordania. Questo è un elemento chiave per il tentativo dei coloni e dei loro sostenitori all’interno del governo di annettere la Cisgiordania di soppiatto.

Marzuq al-Halabi, un giornalista palestinese che scrive per il sito israeliano “972”, ha avvertito questa settimana che, sulla scia del disegno di legge dello Stato-Nazione ebraico, il governo cercherà di ridisegnare i confini di Israele in modo da includere una parte o tutta la Cisgiordania.

Il “regime di apartheid” che ne risulterebbe “creerebbe… ‘crimini giustificati’ contro il popolo palestinese, come ad esempio il trasferimento o la rimozione della popolazione,” ha scritto.

Un editoriale di Haaretz ha concordato sul fatto che Netanyahu stia gettando le fondamenta per annettere la Cisgiordania senza conferire diritti alla popolazione palestinese ivi presente.

La nuova legge, ha dichiarato, è finalizzata ad essere “la base costituzionale per l’apartheid” in Israele e nei territori occupati, in modo da consentire ad Israele di “mantenere il controllo su… una maggioranza palestinese che vive sotto il proprio dominio”.

(Traduzione di Francesco Balzani)