Non solo a Sheikh Jarrah: i palestinesi rischiano sfratti ovunque

Redazione di MEE

11 maggio 2021- Middle East Eye

Le famiglie palestinesi hanno subito per decenni continue minacce di sfratti in Israele e nei territori occupati

Nelle ultime settimane la situazione nella Città Vecchia di Gerusalemme e dintorni è peggiorata e la repressione attuata dalle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti palestinesi che protestavano a causa degli sfratti è diventata progressivamente sempre più brutale.

Lunedì mattina le forze israeliane hanno ancora una volta fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa sparando proiettili di acciaio ricoperti di gomma e lanciando lacrimogeni all’interno del complesso, ferendo centinaia di palestinesi.

L’escalation di violenza sta avvenendo nel contesto della prevista espulsione di 40 palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, della Gerusalemme Est occupata.

Sin dall’inizio dell’anno scorso i tribunali israeliani avevano ordinato lo sfratto di 13 famiglie palestinesi del quartiere, basandosi su una deliberazione di un tribunale di prima istanza agli inizi del 2021 a favore di rivendicazioni vecchie di decenni su lotti di terra da parte di coloni israeliani.

Un’udienza della Corte Suprema per un appello palestinese era stata fissata per lunedì, ma il ministero della Giustizia israeliano l’ha rinviata a causa delle crescenti tensioni nelle ultime settimane.

Da quando Israele ha occupato Gerusalemme Est durante la guerra del 1967, le organizzazioni di coloni israeliani hanno rivendicato la proprietà di terre a Sheikh Jarrah e hanno presentato con esito positivo vari ricorsi per sfrattare i palestinesi dal quartiere.

Quattro delle 38 famiglie della zona rischiano lo sfratto imminente, mentre tre saranno probabilmente sfrattate il 1 agosto.

Quelle rimanenti si trovano a stadi diversi nell’iter giudiziario in vari tribunali israeliani in uno scontro frontale con potenti gruppi di coloni israeliani.

Nonostante l’attenzione recentemente sia concentrata su Sheikh Jarrah, molte famiglie palestinesi in Israele, a Gerusalemme Est e nella Cisgiordania occupata devono affrontare l’imminente pericolo di espulsione, il che evidenzia l’annoso schema di trasferimenti forzati ed espropriazioni di palestinesi da parte di Israele.

Qui di seguito elenchiamo varie zone dove i palestinesi stanno lottando per rimanere.

Silwan

Come a Sheikh Jarrah, i coloni israeliani hanno avanzato rivendicazioni simili per ottenere la proprietà di terre di palestinesi situate vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme.

Israele ha una strategia di insediamenti detta “Bacino Sacro”, che prevede unità abitative per i coloni e una sfilza di parchi intitolati a località e personaggi della Bibbia nei dintorni della Città Vecchia di Gerusalemme. Il piano richiede la rimozione degli abitanti palestinesi dal quartiere di Silwan.

A novembre un tribunale israeliano ha ratificato lo sfratto di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa a Silwan, a sud della moschea di al-Aqsa, a favore del gruppo di coloni israeliani di Ateret Cohanim.

Questo gruppo, che mira a espandere la presenza di coloni nei quartieri a maggioranza palestinese di Gerusalemme Est, intorno e all’interno della Città vecchia, ha fatto causa agli abitanti di Batan al-Hawa, sostenendo che, durante il periodo ottomano e fino al 1938, quando le autorità del mandato britannico le spostarono a causa di tensioni politiche, quei terreni erano di proprietà di ebrei yemeniti.

Anche gli abitanti di Wadi al-Rababa, un’altra zona che ospita circa 800 palestinesi gerosolimitani, sono da tempo in guerra con i bulldozer israeliani. A gennaio alcuni abitanti hanno riferito a Middle East Eye che soprusi e tentativi di demolizione da parte delle autorità israeliane sono aumentati durante la pandemia da Covid-19.

L’avanzata dei coloni israeliani a Silwan è cominciata nel 2004, quando furono fondati due avamposti di coloni. Il numero di avamposti era arrivato a sei nel 2014, da appartamenti isolati a interi caseggiati.

Le autorità israeliane hanno annunciato a novembre un piano di scavi per la costruzione di una funivia sopra Silwan. Il controverso progetto altererebbe drasticamente il paesaggio della storica Città Vecchia ed espanderebbe la presenza israeliana nella zona, facilitando l’accesso dei turisti al Muro Occidentale a spese dei negozianti palestinesi della Città Vecchia

Sin dal 1995, l’Autorità israeliana per le antichità scava dei siti a Silwan con il sostegno della fondazione dei coloni “Ir David”, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e trovare testimonianze dell’esistenza della “Città di Davide” risalente a tremila anni fa.

Il completamento del progetto della “Città di Davide” che include un “viale” in stile romano costruito sulle strade che per generazioni sono state dei palestinesi, consoliderebbe la posizione illegale dei 450 coloni  che attualmente vivono a Silwan e marginalizzerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

Giaffa

Altrove, a Giaffa, nella zona costiera a sud di Tel Aviv, Middle East Eye ha riportato ad aprile che Amidar, un’impresa immobiliare israeliana statale, sta progettando di espellere gli abitanti palestinesi dalle proprie proprietà per venderne alcune a Eliyahu Mali, il capo di una sinagoga militante a Giaffa che sta cercando di impadronirsene per trasformarle in una sinagoga.

Decine di cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono il 20% della popolazione del Paese, sono stati attaccati lo stesso mese dalla polizia israeliana e dai seguaci di Mali.

Mali è a capo di “Settling in the Hearts“, [insediarsi nei cuori], un progetto di espansione di colonie israeliane che preme per stabilire avamposti nel cuore di città a maggioranza palestinese e nei quartieri della Gerusalemme Est occupata, in Cisgiordania e in Israele, come al-Ajami.

In aprile Mahmoud Abed, giornalista e attivista di Giaffa, ha detto a MEE che nella zona si stava attuando da parte delle autorità israeliane “un trasferimento silenzioso” di famiglie palestinesi risultante in “una mancanza di sicurezza personale e di una vita dignitosa” per i palestinesi.

Il 70% dei palestinesi che abitano a Giaffa vive in proprietà di cui Israele si è impadronito nel 1948 tramite società statali, come Amidar. Queste imprese possiedono un terzo della proprietà mentre gli abitanti ne possiedono i due terzi,” ha detto Abed.

In anni recenti Israele ha messo all’asta proprietà a Giaffa e chiesto agli abitanti palestinesi di fare delle offerte in concorrenza con ricchi investitori israeliani sulla quota di un terzo detenuta dalle società statali israeliane.

Nessuno può mettere insieme un milione e mezzo di dollari in 60 giorni per restituirli alle compagnie. Quasi 40 famiglie palestinesi se ne sono andate da Giaffa perché non possono comprare o affittare una casa nella zona,” ha detto Abed a MEE.

Umm al-Fahm

Anche Umm al-Fahm, una cittadina nella regione di Wadi Ara vicino ad Haifa, nel nord di Israele, dove recentemente i manifestanti hanno dimostrato contro la violenza e l’inerzia della polizia israeliana [nei confronti della delinquenza locale, ndtr.], ha visto tentativi di sfratto e demolizioni.

I cittadini palestinesi di Israele protestano da tempo che le proprie città e paesi sono poco serviti dalle autorità israeliane, mentre i permessi di costruzione per fornire alloggi per le comunità in espansione sono difficili da ottenere.

Secondo Arab48 [sito di notizie in arabo, ndtr.] la famiglia Eghbarieh, per esempio, da oltre dieci anni è bloccata da dispute con le autorità israeliane riguardo alla demolizione della loro casa. La famiglia ha recentemente presentato ricorso contro lo sfratto.

Secondo Bldtna, sito web palestinese di notizie che ha riferito di parecchie attività commerciali e case nella zona di Wadi Ara a cui recentemente sono state presentate ingiunzioni di demolizione e sfratto perché non avevano un permesso edilizio, lo scorso agosto bulldozer israeliani hanno demolito un edificio in costruzione a causa di una presunta mancanza di licenza edilizia.

Molti palestinesi hanno dovuto demolire loro stessi le proprie case e attività, di fronte all’alternativa fra il farlo loro stessi o pagare le demolizioni attuate dalle autorità israeliane.

Khan al-Ahmar

Prima di Sheikh Jarrah nel 2021, il destino di Khan al-Ahmar aveva attirato l’attenzione mondiale nel 2018.

Il villaggio si trova in Cisgiordania, fra Gerusalemme Est e le colonie illegali israeliane di Maale Adumim e Kfar Adumim.

Nel settembre del 2018, nonostante richieste di Paesi europei, organizzazioni per i diritti umani e attivisti affinché Israele bloccasse il progetto, la Corte Suprema israeliana ha approvato la demolizione di Khan al-Ahmar.

I piani per demolire Khan al-Ahmar fanno parte del cosiddetto piano E1, che prevede la costruzione di centinaia di unità abitative per collegare Kfar Adumim e Maale Adumim con Gerusalemme Est, nell’Area C della Cisgiordania controllata da Israele.

Se implementato completamente, il piano E1 di fatto dividerebbe a metà la Cisgiordania, separando Gerusalemme Est dalla Cisgiordania e costringendo i palestinesi a fare una deviazione ancora più lunga per andare da un posto all’altro, mentre le colonie illegali potrebbero continuare ad espandersi.

Nel 2018, causa della pressione internazionale, Israele ha sospeso i piani di demolire Khan al-Ahmar, ma a marzo il quotidiano israeliano Yedioth Athronoth ha rivelato che i funzionari stavano di nuovo pianificando di sfrattare i palestinesi dal villaggio.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar appartengono alla tribù degli Jahalin, un gruppo di beduini espulso dal deserto di Naqab, anche detto Negev, durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Gli Jahalin si sono poi stabiliti sulle pendici orientali di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie, le cui abitazioni e scuole di fortuna, fatte di ondulato e legno, sono state demolite parecchie volte in anni recenti dall’esercito israeliano.

Legislazione delle colonie

Dall’annessione di Gerusalemme Est nel 1967, Israele ha usato due leggi principali per sfrattare i palestinesi dalle loro case.

La Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 classifica i palestinesi che sono stati espulsi o che hanno lasciato il Paese dopo il novembre 1947 come “assenti” mette le loro proprietà sotto il controllo dello Stato israeliano.

La Legge e Ordinanza Amministrativa del 1970 permette il trasferimento di proprietà perdute a Gerusalemme Est nel 1948 solo agli ebrei.

I palestinesi non possono rivendicare diritti su beni posseduti prima del 1948.

La politica israeliana di insediare i propri civili nei territori palestinesi occupati e cacciando la popolazione locale viola norme fondamentali della legislazione umanitaria internazionale,” ha rilevato Amnesty International, citando le Convenzioni dell’Aia e la Quarta Convenzione di Ginevra.

L’ong aggiunge che “stabilire insediamenti comporta atti importanti”, compresa l’ingiustificata “massiccia distruzione e appropriazione di proprietà” e “trasferimento… da parte della potenza occupante di parti della propria popolazione civile nei territori che occupa, o la deportazione o il trasferimento di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di questo territorio” costituisce crimini di guerra secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Amnesty ha anche criticato quello che chiama “urbanistica e sistema di zone discriminatori” da parte di Israele.

Nel frattempo, dagli Accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania è stata divisa in Aree A, B e C, con la maggior parte della popolazione palestinese nelle Aree A e B. L’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania, è sotto totale controllo militare israeliano, con comunità palestinesi più piccole che nella zona vengono regolarmente minacciate di demolizioni delle proprie case, mentre le colonie israeliane nelle vicinanze prosperano.

Nell’Area C, dove si trova la maggior parte della costruzione delle colonie, Israele ha allocato il 70% della terra alle colonie e solo l’1% ai palestinesi,” secondo Amnesty, mentre a Gerusalemme Est, “Israele ha espropriato il 35% della città per la costruzione di colonie, permettendo ai palestinesi di costruire su solo il 13% della terra.”

Mentre continua la lotta per Sheikh Jarrah nei tribunali e nelle strade, il fato di altre comunità palestinesi mostra che il problema non comincia né finisce con questo quartiere di Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele e il “trasferimento silenzioso” dei palestinesi fuori dalla Palestina

Ibrahim Husseini

27 settembre 2020 – Al Jazeera

Conferendo un precario status di residenza a Gerusalemme Est, Israele è riuscito a revocare e successivamente sradicare più di 14.200 palestinesi.

Gerusalemme Est occupata – Mentre un numero sempre maggiore di Paesi arabi normalizza le relazioni con Israele, si procede con una politica di “trasferimento silenzioso” – un intricato sistema che prende di mira i palestinesi nella Gerusalemme est occupata con revoca della residenza, espulsione attraverso la demolizione di case, ostacoli per ottenere licenze edilizie e tasse elevate.

Il ricercatore palestinese Manosur Manasra segnala che Israele ha iniziato questa politica ostile di trasferimento dei palestinesi da Gerusalemme est quasi immediatamente dopo la guerra del 1967 e la successiva occupazione della parte orientale della città.

Questa politica continua ancora oggi, con l’obiettivo di prendere il controllo di Gerusalemme Est.

L’espropriazione di terra per permettere l’insediamento di ebrei è avvenuta sin dal 1968 intorno a Gerusalemme est e nel cuore dei quartieri palestinesi quali i quartieri musulmani e cristiani della città vecchia e oltre, a Sheikh Jarrah, Silwan, Ras al-Amoud e Abu Tur.

Dopo la guerra del giugno 1967, Israele ha applicato la legge israeliana a Gerusalemme Est e ha concesso ai palestinesi uno status di “residente permanente”, che però è in realtà precario. B’tselem, il centro israeliano di informazione sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, descrive questo status come “accordato a cittadini stranieri che desiderano risiedere in Israele” – senonché i palestinesi sono nativi del territorio.

I palestinesi di Gerusalemme est non hanno automaticamente diritto alla cittadinanza israeliana né l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) rilascia passaporti palestinesi. Di solito possono ottenere documenti di viaggio temporanei giordani e israeliani.

Assegnando ai palestinesi di Gerusalemme est un precario status di residenza, Israele è riuscito dal 1967 a revocare e successivamente sradicare da Gerusalemme est più di 14.200 palestinesi.

Queste misure sono unite ad una aggressiva pratica di demolizione di case. Le demolizioni di case in Cisgiordania non si sono fermate nonostante la pandemia di coronavirus.

Secondo le Nazioni Unite, il numero degli sfrattati è quasi quadruplicato da gennaio ad agosto 2020 e c’è stato un aumento del 55% delle strutture oggetto di demolizione o confisca rispetto all’anno precedente.

Il mese scorso a Gerusalemme Est sono stati demoliti 24 edifici, metà dei quali dagli stessi proprietari a seguito dell’emissione di un ordine di demolizione da parte del comune di Gerusalemme.

Lo status di “residenza permanente” si mantiene fino a che i palestinesi rimangono fisicamente in città. Tuttavia, in alcuni casi, le autorità israeliane decidono di ritirare lo status di residenza ai palestinesi di Gerusalemme est come provvedimento punitivo perché sono dissidenti politici. La persecuzione da parte di Israele degli attivisti palestinesi è tentacolare e non esclude alcuna fazione.

Il caso più recente è quello del 35enne Salah Hammouri, avvocato e attivista. Arye Deri, ministro degli Interni israeliano, afferma che Salah è membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Israele ha messo fuori legge il gruppo e vuole cacciarlo dal Paese.

In alcuni casi, le autorità israeliane annullano per rappresaglia i permessi di soggiorno dei coniugi di attivisti politici. Shadi Mtoor, un membro di Fatah a Gerusalemme Est, sta attualmente combattendo una causa nei tribunali israeliani per mantenere a Gerusalemme Est la residenza di sua moglie, originaria della Cisgiordania.

Nel 2010, Israele ha revocato la residenza a Gerusalemme di quattro alti membri di Hamas – tre dei quali sono stati eletti al parlamento palestinese nel 2006 e uno è stato ministro di gabinetto – perché rappresentano un pericolo per lo Stato. Tre ora vivono a Ramallah e uno è in detenzione amministrativa [cioè senza imputazione, ndtr.]. Il 26 ottobre è prevista un’udienza presso l’Alta Corte israeliana.

In alcuni casi, Israele non rilascia il documento di residenza a bambini il cui padre sia di Gerusalemme e la madre cisgiordana.

Il diritto internazionale condanna esplicitamente il trasferimento forzato di civili.

“In definitiva, la nostra decisione è di rimanere in questa città”, dice Hammouri.

All’inizio di settembre è stato convocato dalla polizia israeliana e informato dell’intenzione del Ministero degli Interni israeliano di revocare la sua residenza a Gerusalemme.

“Mi è stato detto che costituisco un pericolo per lo Stato e che appartengo al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”, ha detto Hammouri.

Cittadino francese, Hammouri è nato a Gerusalemme da padre palestinese e madre francese. Nel 2017, la famiglia si è divisa quando Israele ha vietato a sua moglie, Elsa, anche lei di nazionalità francese e all’epoca incinta, di entrare nel Paese. Si disse che fosse a causa di un file segreto in possesso di Israele.

Hammouri si aspetta che, dopo la revoca formale della sua residenza, Israele lo espellerà verso la Francia. Il governo francese, in risposta, ha rilasciato una dichiarazione chiedendo a Israele di consentire ad Hammouri di continuare a risiedere a Gerusalemme.

E afferma: “Il signor Salah Hammouri deve poter condurre una vita normale a Gerusalemme, dove è nato e dove risiede”.

Il Ministero degli Esteri israeliano sostiene che Hammouri è “un agente operativo di alto livello” di un’organizzazione terroristica e continua a impegnarsi in “attività ostili” contro lo Stato di Israele.

È ora in corso in Francia una campagna di solidarietà che invoca il diritto di Hammouri di mantenere la sua residenza a Gerusalemme, e i diplomatici francesi a Gerusalemme stanno attualmente negoziando con i funzionari israeliani per convincerli a revocare la decisione. Hammouri intende ricorrere in tribunale contro la revoca della sua residenza.

Hammouri ha trascorso in tempi diversi più di otto anni nelle carceri israeliane. Nel 2011, dopo una condanna a sette anni di reclusione, è stato liberato grazie ad un accordo per lo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele (noto come accordo Shalit [dal nome di un soldato israeliano rimasto per 5 anni prigioniero a Gaza e scambiato con più di 1.000 detenuti palestinesi, ndtr.]).

Sahar Francis, direttore della Prisoner Support and Human Rights Association [Associazione per il Sostegno e i Diritti Umani dei Prigionieri, ndtr.] nota come Addameer, ha detto ad Al Jazeera: “Secondo il diritto internazionale la revoca della residenza è illegale “.

Lo Stato di occupazione non ha il diritto di togliere la residenza alle persone, protette ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra. Si chiama trasferimento forzato, e il trasferimento forzato è proibito”, ha detto Francis.

Il FPLP si è inizialmente opposto agli accordi di Oslo del 1993, ma poi è arrivato ad accettare la soluzione dei due Stati. Tuttavia nel 2010 ha invitato l’OLP a porre fine ai negoziati con Israele e ha affermato che è possibile solo la soluzione di uno Stato unico per palestinesi ed ebrei.

“Vedo un orizzonte molto buio”, dice Khaled Abu Arafeh, 59 anni, ex Ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese.

“Israele farà fruttare i recenti sviluppi locali e regionali della normalizzazione e il risultato sarà l’espulsione degli abitanti della Cisgiordania e la riformulazione dello status dei palestinesi del 1948”, aggiunge.

Abu Arafeh è stato Ministro per le Questioni di Gerusalemme tra marzo 2006 e marzo 2007 nel governo di Ismail Haniyeh, formato dopo che Hamas ha ottenuto la maggioranza dei seggi alle elezioni parlamentari del 2006.

Due mesi dopo la formazione del governo palestinese, la polizia israeliana ha notificato a tre membri del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) e al ministro del governo Abu Arafeh, tutti di Gerusalemme, che avevano 30 giorni per lasciare il loro incarico o il loro status di residenti sarebbe stato revocato.

La minaccia della polizia israeliana è stata respinta e i quattro sono ricorsi in tribunale per contestare l’ultimatum del ministero dell’Interno.

Il 29 giugno 2006, la polizia israeliana ha condotto un’ampia campagna di arresti che ha preso di mira 45 membri neoeletti del PLC e 10 ministri del governo. I membri del PLC di Gerusalemme Muhammad Abu Teir, Muhammad Totah, Ahmad Atoun e Abu Arafeh erano tra gli arrestati. Israele li ha accusati di appartenere alla lista “Riforma e Cambiamento”, affiliata al movimento islamico Hamas.

Abu Arafeh è stato condannato a 27 mesi di prigione ed è stato rilasciato nel settembre 2008. Abu Teir e Totah sono stati condannati a pene più lunghe e sono stati rilasciati solo a maggio 2010.

Il 1 giugno 2010, la polizia israeliana ha di nuovo convocato i quattro. Questa volta è stato ordinato loro di consegnare i loro documenti di identità di Gerusalemme e gli è stato concesso un mese per lasciare Israele.

Proprio quando il termine stava per scadere, la polizia israeliana ha arrestato Abu Teir.

Abu Arafeh, Atoun e Totah, presentendo un imminente arresto, si sono rifugiati nell’edificio del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. La loro permanenza è durata 19 mesi, e vivevano in una tenda all’interno dei locali. La polizia israeliana ha infine preso d’assalto l’edificio e arrestato i tre uomini.

Sono stati accusati di appartenere a un “gruppo terroristico” e di ricoprire ruoli importanti nel movimento di Hamas, nonché di istigazione contro lo Stato di Israele. Sono stati condannati a due anni di carcere. Dopo il loro rilascio, si sono stabiliti a Ramallah.

“Lontano da al-Quds [Gerusalemme per i musulmani, ndtr.], mi sento tagliato fuori, assolutamente un estraneo”, ha lamentato Abu Arafeh.

La famiglia di Abu Arafeh continua a risiedere a Gerusalemme est. “Vivo a Ramallah e loro vivono ad al-Quds”, ha detto Abu Arafeh ad Al Jazeera. “Mi vengono a trovare ogni fine settimana e poi tornano a casa.”

Atoun è attualmente in detenzione amministrativa, la sua quarta dal 2014.

Nel 2018, l’Alta Corte israeliana ha stabilito che la decisione del Ministero degli Interni di revocare lo status di residente era illegale in quanto non c’erano leggi a sostegno. Tuttavia, ha dato al ministro degli Interni sei mesi per presentare una legge alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. La Knesset ha approvato una legge che consente la revoca della residenza a individui ritenuti non fedeli allo Stato di Israele.

Fino ad oggi i quattro palestinesi non hanno documenti d’identità che permettano loro di attraversare i posti di blocco israeliani all’interno della Cisgiordania. L’unico documento che hanno potuto ottenere è stata la patente di guida dall’Autorità Nazionale Palestinese, ma solo dopo l’approvazione da parte dell’esercito israeliano.

Poiché non hanno documenti d’identità, raramente si avventurano fuori Ramallah per paura di essere fermati e arrestati a un posto di blocco israeliano.

I quattro si sono appellati alle leggi dell’Alta Corte e hanno chiesto a Israele di fornire loro una residenza alternativa che consenta loro di vivere legalmente in Cisgiordania. Per il 26 ottobre è prevista un’udienza in tribunale, ma Abu Arafeh non si aspetta una sentenza.

Non ci aspettiamo una decisione; l’autorità di occupazione sta usando il tempo contro di noi”, ha detto.

Una donna palestinese ventiquattrenne, che ha chiesto di essere identificata come JA, è nata nella città di Betlemme in Cisgiordania. Suo padre è di Gerusalemme Est e possiede un documento di identità di Gerusalemme. Ma sua madre è di Betlemme e possiede una carta d’identità rilasciata dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Il Ministero degli Interni israeliano ha respinto tutte le domande di rilascio di una carta d’identità a JA perché è nata in Cisgiordania. Peraltro, l’ANP non le ha rilasciato una carta d’identità perché suo padre ha un documento d’identità di Gerusalemme.

Quindi attualmente JA non ha alcun documento. Questa situazione le ha causato infiniti problemi nell’iscrizione a scuola, nella ricerca di un impiego, nell’apertura di un conto in banca e in altre necessità ordinarie. Non ha mai viaggiato.

JA sta ora intentando una causa contro il Ministero degli Interni israeliano nel tentativo di ottenere una residenza legale.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)