Perché Karim Khan ha congelato il fascicolo sulla Palestina: la CPI e i crimini di guerra israeliani a Gaza

Romana Rubeo Dott. Ramzy Baroud

24 maggio 2023 – Middle East Monitor

L’ultima guerra di Israele contro Gaza, iniziata il 9 maggio, ha causato la morte di 33 palestinesi, tra cui sei bambini, e il ferimento di altre centinaia. La maggior parte delle persone uccise e ferite erano civili.

Il primo giorno di guerra Maurice Hirsh, ex capo della procura militare dell’IDF [esercito israeliano, ndt.], ha espresso una giustificazione “giuridica” della guerra israeliana. Ha scritto il seguente passaggio su Twitter: “Se si considera il vantaggio militare ottenuto eliminando questi importanti terroristi è irrilevante chiedersi quanti bambini siano stati uccisi accidentalmente”.

Hirsh ha già usato in precedenza questo tipo di logica. Ad esempio, nell’agosto 2022 ha scritto un articolo sul quotidiano israeliano Jerusalem Post in cui ha giustificato gli attacchi dell’esercito israeliano contro la popolazione civile di Gaza. “Nel mondo della propaganda anti-israeliana e dei cicli apparentemente infiniti di violenza contro i terroristi a Gaza, la moltitudine di odiatori e irragionevolmente ignoranti spesso usa le parole ‘sproporzionato’ e ‘proporzionalità’ come mezzo per rimproverare lo Stato ebraico.”

Sebbene per molti tale logica equivalga all’incitamento all’odio e alla totale giustificazione dei crimini di guerra abbiamo deciso di chiedere il parere legale di un esperto di diritto internazionale. Gli abbiamo chiesto se le opinioni di Hirsh sono in qualche modo giustificate.

Triestino Mariniello è un esperto di diritto internazionale e membro del team legale che rappresenta le vittime di Gaza davanti alla Corte penale internazionale (CPI).

Abbiamo chiesto al dott. Mariniello un parere sui commenti di Hirsh all’interno del contesto della legalità, o illegalità, dell’ultima guerra israeliana a Gaza.

“Il principio di distinzione”

“La dichiarazione di Hirsh non ha validità in termini di diritto internazionale o diritto umanitario”, afferma Mariniello.

“Anche in quest’ultima operazione militare le autorità israeliane sembrano aver violato i principi fondamentali della legge sui conflitti armati, in particolare il principio di distinzione, che vieta a qualsiasi Paese di attaccare direttamente obiettivi civili”, aggiunge.

Secondo Mariniello il comportamento dell’esercito israeliano nel suo ultimo attacco alla Striscia assediata ha seguito uno schema simile alle guerre precedenti.

“I crimini più evidenti presumibilmente commessi durante l’ultima operazione militare israeliana sono gli attacchi deliberati e intenzionali contro obiettivi civili e l’uso eccessivo della forza. Queste violazioni non sono una novità. Hanno caratterizzato nel corso degli anni ogni singola operazione militare israeliana contro Gaza assediata, compresi gli attacchi contro scuole, ospedali, luoghi religiosi e uffici giornalistici”.

Obiettivi militari?

Tuttavia Israele ribatte sostenendo che i suoi attacchi prenderebbero di mira le infrastrutture militari e accusa i cosiddetti militanti di rifugiarsi in mezzo ai civili.

Ma è così?

Gli attacchi israeliani sono stati effettuati su edifici residenziali di notte, mentre la popolazione civile dormiva, con la presenza di persone non direttamente coinvolte nelle ostilità, e in assenza di ostilità in corso. In sostanza, secondo le leggi internazionali non erano obiettivi militari”, dice Mariniello.

Nel suo articolo sul Jerusalem Post Hirsh attacca “la moltitudine di denigratori e irriducibili ignoranti” per aver enfatizzato concetti come proporzionalità e sproporzione nel diritto internazionale.

Tuttavia per Mariniello questi principi non sono opinabili ma fondamentali per il diritto internazionale durante i conflitti armati.

“L’altro pilastro del diritto internazionale e umanitario che sembra essere stato ignorato da Israele è il principio di proporzionalità che proibisce attacchi sproporzionati. Questo è già accaduto nei precedenti attacchi militari a Gaza”.

Mariniello prosegue parlando di altri due importanti principi del diritto internazionale anch’essi ‘presumibilmente’ violati da Israele, in questa guerra e nelle guerre precedenti: “Il principio di necessità e l’obbligo di precauzione, che prevede che ‘la popolazione civile e i singoli civili godano di una protezione globale contro i pericoli derivanti dalle operazioni militari.'”

Israele ha agito in aperta violazione di questi principi “perché non c’è stato alcun preavviso (nonostante) la consapevolezza che i civili si trovassero nell’edificio durante la notte”.

Contesto mancante

Quello che di solito manca nelle tipiche analisi delle operazioni militari israeliane sulla [Striscia di] Gaza assediata è il più ampio contesto. Ma questo contesto è rilevante quando si esamina la legalità o illegalità della guerra secondo il diritto internazionale?

Mariniello risponde: Contesto e ostilità non possono essere analizzati separatamente. Lanci di razzi e bombardamenti fanno notizia, ma bisogna ricordare l’impatto permanente e quotidiano dell’occupazione israeliana e del controllo militare sulla popolazione civile (che ne paga il prezzo più alto), sia in Cisgiordania e Gaza”.

“Gaza è ancora in stato di occupazione sulla base del diritto internazionale ed è soggetta a un blocco che è entrato nel suo 17esimo anno. Il blocco ha un impatto devastante sulla vita dei residenti della Striscia, come evidenziato dalle organizzazioni per i diritti umani palestinesi, internazionali e israeliane, che lo descrivono apertamente come una catastrofe umanitaria.”

Giustizia ritardata

Una cosa che frustra costantemente i palestinesi è il doppio standard esibito dalle istituzioni legali e politiche internazionali nei riguardi di Israele come violatore seriale del diritto internazionale, rispetto a molti altri Paesi o entità.

Israele non è mai stato veramente chiamato a rispondere della sua occupazione militare, del regime di apartheid o dei numerosi crimini di guerra commessi contro i palestinesi.

Ma i palestinesi e i loro sostenitori non si arrendono.

Abbiamo chiesto a Mariniello se le vittime palestinesi possono sperare in qualche forma di giustizia e risarcimento.

“Gli attacchi rivolti contro i civili e l’uso sproporzionato della forza non sono solo violazioni del diritto umanitario ma sono anche crimini di guerra, che possono essere perseguiti anche in conformità con l’articolo 8 dello Statuto di Roma”, che riguarda i crimini di guerra, dice Mariniello.

Doppi standard

La storia recente ci ha insegnato che quando la comunità internazionale è decisa a punire e sanzionare un Paese che viola il diritto internazionale sono molte le misure che possono essere adottate. Immediatamente dopo il lancio dell’operazione militare russa in Ucraina nel febbraio 2022, ad esempio, sono state imposte migliaia di sanzioni a Mosca.

La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto per il presidente russo Vladimir Putin e la Commissaria per i diritti dell’infanzia Maria Lvova-Belova, nonostante il fatto che né la Russia né l’Ucraina siano membri della CPI. Ciò significa che alla Corte non è stata concessa una giurisdizione automatica per indagare sui crimini commessi durante il conflitto in corso.

Nel caso della Palestina, nonostante l’avvio di un’indagine nel marzo 2021, il procedimento investigativo della CPI sembra trovarsi a un punto morto. Come spiegare tutto questo? Questo è l’ennesimo caso di doppi standard?

Spiega Mariniello: Dal punto di vista legale la politica del doppio standard applicata dai Paesi occidentali è inaccettabile. I meccanismi del diritto internazionale non possono essere applicati in alcuni casi e ignorati in altri. Ad esempio, nel caso dell’Ucraina 43 Paesi si sono rivolti alla CPI, di cui cinque si sono opposti all’indagine della CPI in Palestina”.

“Questa selettività non riguarda solo la comunità internazionale ma anche la CPI. La CPI rappresenta l’unica possibilità di giustizia per le vittime di crimini di guerra o crimini contro l’umanità, considerando gli attacchi sistematici contro le popolazioni civili”.

Quanto all’affermazione che Israele è una democrazia con un sistema giudiziario vitale e plausibilmente in grado di processare i propri presunti criminali di guerra, Mariniello ribatte: “Il sistema giudiziario israeliano ha dimostrato più e più volte di non essere in grado di rendere giustizia alle vittime di questi abusi. Ne abbiamo avuto recentemente la conferma nel caso dell’uccisione della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh”.

Karim Khan

Considerando che la CPI è uno dei più importanti tribunali in cui le vittime di crimini di guerra possano in una qualche misura ottenere giustizia, pur tenendo presente i doppi standard e le carenze della stessa CPI, cosa possono aspettarsi i palestinesi?

Questa domanda diventa ancora più rilevante se teniamo presente il fatto che, secondo il rapporto dell’Assemblea degli Stati aderenti alla CPI, il budget stanziato per l’indagine sulla Palestina è molto piccolo. Ciò non è affatto promettente.

“Sfortunatamente, dall’avvento di Karim Khan come procuratore capo della CPI le indagini si sono fermate”, dice Mariniello. “Khan ha dimostrato che in altri casi le procedure possono essere molto rapide, quando c’è la volontà di andare avanti, come nel caso dell’Ucraina”.

Purtroppo la “volontà di procedere” sembra assente nel caso della Palestina.

“Nonostante il procedimento relativo alla Palestina sia ben documentato e sia stato avviato già nel 2009, l’attuale Procuratore non sembra avere alcuna intenzione di portarlo avanti”. Per Khan, “la Palestina non sembra una priorità”.

Molte voci critiche hanno condannato questo atteggiamento, sottolineando come la Procura sia interessata solo alle indagini che godono dell’appoggio degli Stati Uniti e dei suoi potenti alleati. Queste accuse sembrano trovare riscontro nella decisione di congelare le indagini su presunti crimini di guerra sia in Afghanistan che in Palestina”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Palestina e Ucraina: un esperto di diritto internazionale parla dei doppi standard della Corte Penale Internazionale (INTERVISTA ESCLUSIVA)

Romana Rubeo

7 marzo 2022 – PALESTINE CHRONICLE

Il 2 marzo la Corte Penale Internazionale (CPI) ha annunciato che procederà immediatamente ad un’indagine sull’operazione militare russa in Ucraina. Quella che è stata denominata “invasione” dall’Occidente e “operazione militare speciale” da Mosca, ha immediatamente generato una rapida condanna e reazione internazionale. La CPI è stata in prima linea in questa reazione.

Il procuratore della CPI Karim Khan ha affermato in un intervento che l’indagine è stata richiesta da 39 Stati membri e che il suo ufficio ha già trovato una base ragionevole per ritenere che siano stati commessi crimini rientranti nell’ambito giurisdizionale della Corte e ha identificato dei casi come potenzialmente ammissibili.”

Mentre qualsiasi procedura genuina e non politicizzata volta a indagare su possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità in qualsiasi parte del mondo dovrebbe, in effetti, essere accolta favorevolmente, il doppio standard della CPI è palpabile. Tra le altre nazioni, i palestinesi e i loro sostenitori sono perplessi in considerazione dei numerosi indugi da parte della CPI nell’indagare sui crimini di guerra e contro l’umanità in Palestina, che si trova da decenni sotto l’occupazione militare israeliana.

Per comprendere meglio questo argomento ho parlato con il Dr. Triestino Mariniello, professore associato di diritto presso la Liverpool John Moores University, e membro della squadra di avvocati per le vittime di Gaza presso la Corte Penale Internazionale. Gli ho chiesto:

D. Per prima cosa, ci faccia conoscere a quale stadio si trova attualmente il procedimento della CPI sulla Palestina.

R. Il 3 marzo 2021 l’ex procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha aperto ufficialmente un’indagine, attualmente incentrata su possibili crimini di guerra, in particolare legati all’aggressione militare del 2014 a Gaza, alla Grande Marcia del Ritorno e alle colonie israeliane illegali in Cisgiordania.

Tecnicamente, il passo successivo dovrebbe essere la richiesta di mandati di arresto o di comparizione, passando quindi da una fase procedurale” a una fase processuale”, sulla base dello Statuto di Roma [trattato internazionale istitutivo della Corte Penale Internazionale, ndtr.].

D. Tuttavia, finora non è successo nulla.

R. Tutto è iniziato molto prima del 2021. La situazione della Palestina è stata inizialmente portata all’attenzione della Corte nel 2009. Nel 2015, a seguito dell’aggressione israeliana alla Striscia di Gaza assediata, lo Stato di Palestina ha formalmente accettato l’autorità della Corte e ha ratificato lo Statuto di Roma. Ci sono voluti quasi sei anni (dicembre 2019) perché Bensouda dichiarasse che sussisteva “una base ragionevole per procedere ad un’indagine sulla situazione in Palestina”. La questione è stata deferita alla Camera preliminare, alla quale è stato chiesto di deliberare in merito alla giurisdizione sulla Palestina. La Camera ha emesso una decisione solo più di un anno dopo, nel febbraio 2021.

D. Come descriverebbe le differenze tra i due casi: Russia in Ucraina, Israele in Palestina? E perché nel caso russo il tribunale ha potuto agire immediatamente e senza indugi?

R. Ovviamente è difficile mettere a confronto le due situazioni.

L’Ucraina ha accettato l’autorità della CPI nel 2013 e l’ex procuratore capo della CPI Bensouda aveva già dichiarato che esisteva una base ragionevole per procedere.

Dopo l’inizio dell’operazione militare russa, l’attuale procuratore della CPI Khan ha annunciato l’apertura ufficiale delle indagini.

Avendo già ricevuto mandati da 39 Stati contraenti la CPI il suo ufficio non è tenuto a richiedere un’autorizzazione alla Camera preliminare competente. In realtà anche nella situazione della Palestina la Corte non necessitava di ulteriori autorizzazioni e la richiesta della Procura alla Camera era del tutto facoltativa.

In qualità di rappresentanti legali delle vittime, abbiamo espresso ai giudici della CPI le nostre preoccupazioni sul fatto che questa richiesta non necessaria della Procura avrebbe causato un ulteriore ritardo nell’apertura delle indagini.

Tra i 39 Stati ci sono tre paesi che si erano apertamente opposti alle indagini in ambito israelo-palestinese, ovvero Austria, Germania e Ungheria.

 Generalmente si dice che i procedimenti penali internazionali siano particolarmente lunghi. Se questo è vero nel caso della Palestina, per l’Ucraina la durata è ridotta al minimo. Lo stesso è accaduto per la situazione libica, dove la decisione di aprire un’indagine è stata presa con una rapidità senza precedenti, a soli sette giorni dal deferimento del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU, ndtr.].

Tuttavia, nel caso della Palestina la quantità di prove è molto più significativa. Anche prima di avviare le indagini la Corte dispone di una quantità impressionante di prove, grazie al meticoloso lavoro della società civile palestinese, che non ha mai smesso di raccogliere prove, anche durante le guerre israeliane.

D. Lei fa parte di una squadra che difende le vittime di Gaza. Ritenete che da parte della CPI ci sia una politica di doppio standard?

R. Indagare su gravi violazioni dei diritti umani è sempre un’iniziativa lodevole. Ciò che è meno lodevole è la politica del doppio standard. La realtà dolorosa è che dopo 13 anni non abbiamo ancora un procedimento.

Per decenni i civili palestinesi hanno subito le più gravi violazioni dei loro diritti fondamentali, equivalenti a crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’interesse principale delle vittime di Gaza è che l’indagine tanto attesa e tanto necessaria passi immediatamente alla fase successiva: l’identificazione dei presunti colpevoli. Per loro è davvero difficile capire quali siano gli ostacoli che gli impediscono di presentarsi in tribunale per raccontare finalmente le loro vicende e ottenere giustizia.

L’assenza fino ad ora di misure efficaci adottate dalla Corte rafforza l’opinione delle vittime di aver subito per lungo tempo una negazione della giustizia. Inoltre l’impunità concessa da tanto tempo a Israele incoraggia i responsabili a commettere nuovi crimini.

Dall’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina abbiamo assistito al ritorno del diritto internazionale nell’arena globale. Quello che sta accadendo ora mostra che il diritto internazionale può essere, nei fatti, uno strumento efficace, se attuato correttamente.

Le vittime palestinesi continuano a nutrire grandi speranze per le indagini della CPI, ma sono seriamente preoccupate che “la giustizia rimandata sia giustizia negata”.

D. Cosa può fare la società civile per accelerare le procedure relative alla Palestina?

È essenziale continuare a fare pressione sulla CPI anche presentando ulteriori prove che possano attestare gravi violazioni dei diritti umani in corso, equivalenti a crimini di guerra. Pensiamo, ad esempio, ai crimini di guerra commessi lo scorso maggio a Gaza, che dovrebbero essere immediatamente inseriti nell’indagine in corso.

Inoltre, la società civile dovrebbe invitare la CPI ad ampliare l’ambito delle indagini per includere altri crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità, compreso il crimine di apartheid, anche alla luce dei recenti rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani.

Il messaggio alla Corte e alla comunità internazionale deve essere chiarissimo: i palestinesi non sono vittime di serie B e continueranno a far sentire la loro voce.

Sebbene apprezziamo gli sforzi della CPI per fare luce sulla situazione ucraina, dobbiamo ribadire che altri casi non dovrebbero essere dimenticati o archiviati.

La CPI è stata creata per porre fine all’impunità di cui godono gli autori dei crimini più gravi. Dopo vent’anni, dovremmo pretendere che lo Statuto sia pienamente attuato, indipendentemente dall’origine geografica delle vittime.

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’inchiesta della CPI renderà giustizia alla Palestina?

Romana Rubeo, Ramzy Baroud

9 luglio 2020 – Chronicle de Palestine

In passato ci sono stati numerosi tentativi di obbligare i criminali di guerra israeliani a rispondere del proprio operato.

Il caso dell’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon (noto, tra l’altro, con il soprannome di “macellaio di Sabra e Shatila”), è particolarmente significativo, in quanto nel 2002 le sue vittime tentarono di farlo comparire davanti a un tribunale belga.

Come ogni altra iniziativa, la possibilità di un processo in Belgio è stata abbandonata in seguito a pressioni americane. La storia sembra ripetersi.

Il 20 dicembre la procuratrice generale della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, ha deciso di aver raccolto elementi sufficientemente solidi per avviare un’inchiesta per presunti crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza. La decisione senza precedenti della CPI concludeva che non c’era “nessuna ragione sostanziale per credere che un’inchiesta non fosse al servizio degli interessi della giustizia.”

Da quando Bensouda, benché con molto ritardo, ha preso la decisione, l’amministrazione americana ha rapidamente preso misure per bloccare il tentativo della Corte di far sì che i responsabili israeliani rispondano del proprio operato. L’11 giugno il presidente americano Donald Trump ha firmato un decreto che impone sanzioni contro i membri dell’organo giudiziario internazionale, in riferimento alle inchieste della CPI sui crimini di guerra americani in Afghanistan e quelli israeliani in Palestina.

Gli Stati Uniti riusciranno ancora una volta a bloccare un’indagine internazionale?

Il 19 giugno abbiamo parlato con il dottor Triestino Mariniello, membro del gruppo di giuristi che rappresenta le vittime di Gaza davanti alla CPI. Mariniello è anche docente all’università John Moore di Liverpool, nel Regno Unito.

Ci sono molti dubbi sulla serietà, la volontà o la capacità della CPI di arrivare a questo processo. A un certo punto sono state poste questioni tecniche per sapere se la giurisdizione della CPI si estendesse alla Palestina occupata. Questi dubbi sono stati superati?

Lo scorso dicembre la procuratrice ha deciso di porre la seguente domanda alla Camera preliminare: “La CPI è competente, cioè, in base allo Statuto di Roma, la Palestina è uno Stato, non in generale in base al diritto internazionale, ma almeno secondo lo Statuto istitutivo della CPI? E, in caso affermativo, qual è la competenza territoriale della Corte?”

La procuratrice ha sostenuto che la Corte è competente per i crimini commessi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e a Gaza. Questa richiesta alla Camera preliminare non era necessaria per una ragione molto semplice: la domanda è stata presentata dallo Stato di Palestina. Così, quando uno Stato (che faccia parte della CPI) deferisce una situazione alla procura, questa non ha bisogno dell’autorizzazione della Camera preliminare. Ma analizziamo le cose in un contesto più ampio.

L’impegno ufficiale dello Stato di Palestina con la CPI è iniziato nel 2009, in seguito alla guerra di Gaza (l’operazione “Piombo fuso”). All’epoca la Palestina aveva già accettato la giurisdizione della CPI. Al precedente procuratore ci sono voluti più di due anni per decidere se la Palestina fosse o meno uno Stato. Dopo tre anni ha dichiarato: “Non sappiamo se la Palestina è uno Stato, quindi non sappiamo se possiamo riconoscere la giurisdizione della CPI.” In seguito questa questione è stata sollevata davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e all’assemblea degli Stati Membri. In altri termini, hanno delegato la risposta a degli organi politici e non alla Camera preliminare.

Questa indagine non c’è mai stata e non abbiamo mai ottenuto giustizia per le vittime di quella guerra.

Nel 2015 la Palestina ha accettato la giurisdizione della Corte ed è anche diventata uno Stato Membro. Tuttavia la Camera preliminare ha deciso di coinvolgere un certo numero di Stati, organizzazioni della società civile, Ong, accademici ed esperti per porre loro la domanda: in base allo Statuto di Roma la Palestina è uno Stato? La risposta è stata la seguente: la Camera preliminare si pronuncerà su questa questione dopo aver ricevuto le opinioni delle vittime, degli Stati, delle organizzazioni della società civile… e si pronuncerà nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

Oltre all’amministrazione Trump, altri Paesi occidentali, come la Germania e l’Australia, fanno pressione sulla CPI perché abbandoni l’inchiesta. Ci riusciranno?

Ci sono almeno otto Paesi che sono apertamente contrari a un’indagine sulla situazione palestinese. La Germania è una di essi. Certi altri Paesi, ad essere onesti, ci hanno sorpresi perché almeno quattro di essi, l’Uganda, il Brasile, la Repubblica Ceca e l’Ungheria, avevano esplicitamente riconosciuto che la Palestina è uno Stato di diritto internazionale, e tuttavia ora presentano dichiarazioni davanti alla Camera preliminare della CPI in cui sostengono che non lo è più.

Naturalmente la questione è un po’ più complessa, ma in fondo questi Paesi sollevano davanti alla CPI argomenti politici che non hanno alcuna base giuridica. È sorprendente che questi Stati da una parte sostengano di essere favorevoli a una Corte Penale Internazionale indipendente, ma da un’altra cerchino di esercitare una pressione politica (su questo stesso organo giudiziario).

L’11 giugno Trump ha firmato un decreto in cui impone sanzioni alle persone legate alla CPI. Gli Stati Uniti e i loro alleati possono bloccare l’inchiesta della CPI?

La risposta è no. L’amministrazione Trump fa pressione sulla CPI. Per “pressione” intendo principalmente riguardo alla situazione in Afghanistan, ma anche a quella israelo-palestinese. Così ogni volta che c’è una dichiarazione di Trump o del segretario di Stato Mike Pompeo riguardo alla CPI, non dimenticano mai di citare la questione dell’Afghanistan.

In effetti la procuratrice sta facendo un’indagine anche su presunti crimini di guerra commessi da membri della CIA e soldati americani. Finora questa pressione non è stata particolarmente efficace. Nel caso dell’Afghanistan la Corte d’appello ha direttamente autorizzato la procuratrice ad aprire un’inchiesta, modificando una decisione presa dalla Camera preliminare.

Le successive amministrazioni americane non sono mai state molto favorevoli alla CPI e il principale problema a Roma durante la redazione dello Statuto nel 1998 riguardava proprio il ruolo del Procuratore. Fin dall’inizio gli Stati Uniti si sono opposti a un ruolo indipendente del Procuratore, o che egli potesse aprire un’inchiesta senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questa opposizione risale alle amministrazioni Clinton, Bush, Obama e Trump.

Tuttavia oggi assistiamo a una situazione totalmente nuova, in quanto l’amministrazione americana è pronta ad imporre sanzioni economiche e restrizioni al rilascio di visti al personale legato alla CPI e forse anche ad altre organizzazioni.

L’articolo 5 dello Statuto di Roma – il documento che ha fondato la CPI – presenta una definizione allargata di ciò che costituisce “crimini gravi”, cioè crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione. Si potrebbe quindi sostenere che Israele dovrebbe essere considerato responsabile di tutti questi “crimini gravi”. Tuttavia la CPI ha scelto quello che si chiama il “campo di applicazione ristretto”, per cui l’indagine riguarderà solo la componente dei crimini di guerra. Perché?

Se esaminiamo la richiesta della procuratrice alla Camera preliminare, in particolare il paragrafo 94, è sorprendente constatare che la portata dell’inchiesta è piuttosto ridotta, e le vittime lo sanno. Non include (nel quadro della sua inchiesta sui crimini di guerra) che alcuni avvenimenti legati alla guerra di Gaza del 2014, crimini commessi nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno” e le colonie ebraiche (illegali).

È sorprendente che non ci sia nessun riferimento alle presunte azioni di “crimini contro l’umanità” che, come dicono le vittime, sono ampiamente documentate. Non c’è alcun riferimento agli attacchi sistematici condotti dalle autorità israeliane contro la popolazione civile in Cisgiordania, a Gerusalemme est o a Gaza. L’ “ambito di applicazione ridotto”, che esclude i crimini contro l’umanità, è un elemento sul quale la procuratrice dovrebbe riflettere. La situazione generale a Gaza è ampiamente ignorata; non c’è alcun riferimento all’assedio che dura da 14 anni; non c’è alcun riferimento all’insieme delle vittime della guerra contro Gaza nel 2014.

Ciò detto, il campo d’indagine non è vincolante per il futuro. La procuratrice può decidere, in qualunque momento, di includere altri crimini. Speriamo che ciò avvenga, perché in caso contrario molte vittime non otterranno mai giustizia.

Ma perché la Striscia di Gaza viene esclusa? È a causa del modo in cui i palestinesi hanno presentato la loro causa o di come la CPI ha interpretato il caso palestinese?

Non penso che si debba dare la colpa ai palestinesi, perché le organizzazioni palestinesi hanno presentato (una grande quantità di) prove. Penso che si tratti di una strategia di perseguimento giudiziario a questo stadio e speriamo che ciò cambi in futuro, in particolare riguardo alla situazione a Gaza, dove è stato ignorato persino il numero totale di vittime. Più di 1.600 civili, tra cui donne e minori, sono stati uccisi.

A mio parere ci sono parecchi riferimenti al concetto stesso di conflitto. La parola “conflitto” si basa sul presupposto che ci siano due parti che si affrontano allo stesso livello e che l’occupazione israeliana in sé non sia oggetto di un’attenzione sufficiente.

Inoltre sono stati esclusi tutti i crimini commessi contro i prigionieri palestinesi, come la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Non è stato incluso neppure l’apartheid in quanto crimine contro l’umanità. Ancora una volta, ci sono prove schiaccianti che questi crimini vengono commessi contro i palestinesi. Speriamo che in futuro ci sarà un approccio diverso.

Quali sono secondo lei i diversi scenari e tempi che potrebbero risultare dall’inchiesta della CPI? Cosa dobbiamo aspettarci?

Penso che se esaminiamo i possibili scenari dal punto di vista dello Statuto di Roma, della legge vincolante, non credo che i giudici abbiano altra possibilità che confermare alla procura che in base allo Statuto di Roma la Palestina sia uno Stato e che la giurisdizione territoriale comprenda la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza.

Mi sembrerebbe estremamente sorprendente se i giudici arrivassero ad una conclusione diversa. Lo Stato palestinese è stato ratificato nel 2015, e quindi non si può tornare dai palestinesi e dire loro: “No, voi non siete più membri.” Nel frattempo la Palestina ha partecipato all’assemblea degli Stati Membri, fa parte della commissione di sorveglianza della CPI ed ha preso parte a decisioni importanti.

È probabile che la procuratrice ottenga in via libera dalla Camera preliminare. Se ciò non avviene la procuratrice può (ancora) portare avanti l’inchiesta.

Gli altri possibili scenari non possono essere che negativi, perché impedirebbero alle vittime di ottenere giustizia. Se la questione viene portata davanti alla CPI è perché le vittime non hanno mai ottenuto giustizia davanti ai tribunali nazionali: lo Stato di Palestina non può giudicare i cittadini israeliani, mentre le autorità israeliane non vogliono giudicare le persone che hanno commesso dei crimini internazionali.

Se i giudici della CPI decidessero di non accettare la giurisdizione sui crimini di guerra commessi in Palestina, ciò priverebbe le vittime dell’unica possibilità di ottenere giustizia.

Uno scenario particolarmente pericoloso sarebbe la decisione dei giudici di confermare la competenza della CPI su certe parti del territorio palestinese escludendone altre, cosa che non ha alcun fondamento giuridico in base al diritto internazionale. Ciò sarebbe pericoloso, perché darebbe una legittimità internazionale a tutte le misure illegali che le autorità israeliane, ed ora anche l’amministrazione Trump, mettono in atto, compreso il piano di annessione, totalmente illegale (in base al diritto internazionale).

* Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e direttore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è “The Last Earth: A Palestinian Story” [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press). Baroud ha un dottorato di studi sulla Palestina dell’università di Exeter ed è ricercatore associato al Centro Orfalea di studi mondiali e internazionali, università della California.

* Romana Rubeo è traduttrice freelance e vive in Italia. È titolare di un master in lingua e letteratura straniera ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica. Lettrice accanita, si interessa di musica, politica e geopolitica.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)