Israele guarda con nervosismo come Trump abbandoni i suoi alleati siriani

Lily Galili – Tel Aviv, Israele

 10 ottobre 2019 – Middle East Eye

Negli ultimi giorni la leadership israeliana ha imparato due cose: a non credere di sapere cosa farà il presidente USA e a non fidarsi di lui come alleato.

Durante il Capodanno ebraico è successa una cosa incredibile: per la prima volta il presidente Trump è stato paragonato, nei media israeliani, al suo predecessore, Barack Obama.

Non è cosa di poco conto. Per la maggioranza degli israeliani, che si colloca fra il centro e l’estrema destra, Trump è un idolo americano, il migliore amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca.

Barack Hussein Obama era, per quegli stessi israeliani, l’epitome di tutti i mali.

Secondo il Pew, un centro di ricerca con sede a Washington, uno studio recente ha rilevato che solo 2 Paesi su 37 preferiscono Trump a Obama: Russia e Israele.

E probabilmente è ancora così. Ma il senso di preoccupazione e di tradimento incombente, innescato dal ritiro improvviso delle truppe americane dal nord della Siria e dall’abbandono senza scrupoli dei curdi, alleati sia dell’America che di Israele, ora cancella l’iniziale adorazione.

Né i militari né i politici israeliani considerano la riduzione delle truppe Usa e l’offensiva militare turca che ne è seguita come un pericolo imminente per Israele.

Finora ‘i disordini’, come le fonti ufficiali tendono a descrivere la situazione, sono confinati a una regione lontana dal confine tra Israele e la Siria.

Ci sono comunque due elementi che preoccupano notevolmente Israele.

Uno è il fatto che questa mossa drammatica ha sorpreso persino i più alti livelli decisionali in Israele. Un altro è che Trump si è rivelato una delusione, in pratica un alleato inaffidabile.

Il giorno prima del drammatico annuncio di Trump, il governo israeliano aveva tenuto un lungo incontro di emergenza per discutere dell’Iran.

Fonti del governo ammettono che la decisione di Trump non era neanche stata menzionata, probabilmente perché neppure gli ufficiali più alti in grado ne erano a conoscenza.

È stata una totale sorpresa, cosa che l’ex direttore del dipartimento della sicurezza e diplomazia presso il Ministero della Difesa, il generale maggiore Amos Gilad, ha definito come “un errore nella valutazione e nella politica ai più alti livelli fra Israele e gli USA”.

Secondo Gilad, la politica estera di Trump ha impattato Israele in senso negativo più che positivo.

La sua politica di non reagire, quando l’Iran ha attaccato le installazioni petrolifere dell’Arabia Saudita o quando l’Iran ha abbattuto un drone americano, ha rivelato la sua debolezza. Questo è un male per Israele dato che il deterrente americano è anche un deterrente israeliano” ha detto il militare.

D’altro lato Trump è ancora un punto di forza quando abbiamo bisogno di lui nel Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite. Così la lezione per Israele ora è l’autosufficienza.”

Paura e tradimento

Sebbene “tradimento” non sia la parola ufficialmente pronunciata nel gergo politico, il sentimento è profondamente diffuso, insieme alla paura di quello che succederà.

Non c’è spazio per le sorprese”, ha detto a MEE il generale maggiore Amiram Levin, ex comandante militare del comando nord.

Per due anni ho denunciato che la politica di Israele è basata sulla falsa convinzione che Trump sia un grande amico. È ora che Israele capisca che, fino a quando Trump è al potere, Israele non ha nessuno su cui contare.”

Levin dice che gli israeliani devono abbandonare l’idea che Israele e gli USA siano un’unica cosa. Aggiunge inoltre che è stato “un grande errore” credere che Israele avrebbe diretto la lotta comune contro l’Iran.

È ora di limitarsi a obiettivi più realistici e limitati, e di focalizzarsi su situazioni che pongono un vero pericolo per Israele. L’Iran, così com’è ora, non lo è” ha detto Levin.

In sostanza il nocciolo della questione è non andare oltre il necessario solo perché possiamo, e certamente non vantarsene e non darsi delle arie.”

La reazione a livello popolare è non meno significativa di quella ufficiale e i commenti sui social hanno insinuato che, per Israele, Trump sia persino peggio di Obama.

Nel frattempo un articolo su “Mida”, un sito di destra molto vicino a Netanyahu ha insinuato che, dopo tutto, non c’è molta differenza fra i due presidenti USA.

Trump, come Obama, vuole far uscire l’America dal Medio Oriente, una regione che ha perso la sua importanza strategica. La differenza è che Trump lo fa con la sua inimitabile retorica” ha scritto Alex Greenberg sul sito.

Siamo ben lontani dai giorni, solo pochi mesi fa, quando Trump ha fatto un regalo a Netanyahu riconoscendo formalmente la sovranità israeliana sulle alture di Golan occupate.

L’atto fu suggellato da un bacio, un bacio vero, gesto non molto comune nella diplomazia occidentale.

Netanyahu ha ricambiato non solo con un bacio. Ha annunciato la fondazione di un nuovo insediamento nel Golan che prenderà il nome di Trump.

Questa potrebbe essere la parte divertente di una storia d’amore politica. Più seriamente, Netanyahu è stato il primo premier israeliano a giocare esclusivamente la carta repubblicana, a differenza dei decenni di politiche bipartisan adottate dal suo Paese in precedenza.

Si presumeva che quella love story sarebbe durata per sempre, sopravvivendo agli avvertimenti dell’opposizione israeliana e degli esperti, che ricordavano a Netanyahu che la sua relazione con Trump era basata su interessi che tendevano a cambiare.

Ma i loro consigli si sono rivelati preveggenti a settembre, quando Netanyahu non è riuscito a vincere nelle seconde elezioni parlamentari dell’anno.

Trump, l’uomo di “grande e incomparabile saggezza”, come lui stesso si è descritto in un tweet di pochi giorni fa, ama i vincitori. E Netanyahu improvvisamente non era più uno di loro.

A poche ore dagli exit poll, il presidente USA è diventato gelido con Netanyahu, nonostante il suo alleato fosse afflitto dalla crisi politica e dalle incombenti accuse di corruzione.

E tutto ciò proprio prima che Trump rendesse noto il suo piano di pace a lungo atteso fra Israele e la Palestina e siglasse un trattato di difesa che sarebbe stato una manna per Netanyahu.

Ora arriva il ritiro, l’abbandono dei curdi e la licenza di uccidere data ai turchi.

Confusi? È solo l’inizio, prima che le politiche internazionali siano tradotte in politiche interne da un primo ministro che sta ancora faticando a formare un governo.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Il ministero dell’Educazione ha lanciato una campagna contro i sostenitori della Palestina nelle università. Molti l’avevano previsto

Michael Arria

8 ottobre 2019 – Mondoweiss

Lo scorso giugno l’amministrazione Trump ha nominato Kenneth Marcus sottosegretario per i diritti civili e [la sua nomina] è stata approvata dal Senato, 50 a 46, pur non avendo ricevuto voti democratici. Alcune organizzazioni si sono opposte alla nomina di Marcus per varie ragioni: ha appoggiato la revoca delle disposizioni contro le aggressioni sessuali nei campus, si è opposto alle agevolazioni a favore delle minoranze riguardo all’educazione e non è possibile individuare un solo esempio in cui sia stato in disaccordo con Donald Trump riguardo ai diritti civili.

Alcune delle maggiori preoccupazioni riguardo a Marcus sono state espresse da attivisti e gruppi che sostengono i diritti dei palestinesi. Marcus è stato fondatore e presidente del filoisraeliano “Louis D. Brandeis Center for Human Rights” [Centro per i Diritti Civili Louis D. Brandeis, politico USA e fervente sionista, ndtr.], un’organizzazione che intende combattere “il rinascente problema dell’antisemitismo e dell’ostilità verso Israele nei campus universitari.” Marcus ha fatto pressioni a favore di una definizione di antisemitismo (a livello federale e statale) che includa le critiche contro Israele. Ha anche promosso il ritiro dei finanziamenti ai programmi di studi sul Medio Oriente nelle università ed ha chiesto al Congresso di approvare l’ Anti-Semitism Awareness Act [legge per la sensibilizzazione sull’antisemitismo], una norma che censurerebbe le posizioni a favore dei palestinesi nei campus.

Quando Marcus si servirà delle accuse di ‘antisemitismo’ per soffocare la libertà di parola su Israele-Palestina nelle università, dove saranno allora i senatori?”, si è chiesta Debra Shushan, la responsabile giuridica di “Americans for Peace Now” [associazione USA moderatamente critica con il governo israeliano, ndtr.] dopo l’approvazione della nomina di Marcus. Riguardo a questa nomina “Palestine Legal” [associazione di giuristi a favore del diritto dei cittadini USA di parlare a sostegno dei palestinesi, ndtr.] ha valutato i danni potenziali della designazione di Marcus:

Riguardo alle denunce sulla base del Titolo VI [che proibisce discriminazioni in progetti finanziati pubblicamente, ndtr.], che prendano di mira il sostegno ai diritti dei palestinesi, Marcus ha dedicato gli ultimi 13 anni a promuoverle, e non passerà dal ruolo di sostenitore a quello di arbitro.

Avrà l’autorità di indagare su università che autorizzano il sostegno ai diritti dei palestinesi protetto dal Primo Emendamento [della Costituzione USA, che protegge il diritto di parola e di riunione, ndtr.].

Troverà che le università in cui è consentito agli studenti criticare Israele violano il Titolo VI della legge sui diritti civili e obbligherà tali istituti scolastici a inserire “accordi di risoluzione” o “accordi di applicazione”. Tali accordi obbligheranno le università a limitare i discorsi a favore dei diritti dei palestinesi, in violazione del Primo Emendamento. Anche solo la minaccia di un’indagine da parte del governo federale probabilmente provocherà il fatto che le università interferiscano nel dibattito dei campus per evitare di essere messe sotto inchiesta.”

Un anno dopo questo monito si è dimostrato preveggente.

Lo scorso mese il Dipartimento per l’Educazione (DOE) di Betsy DeVos [ministra dell’Educazione nominata da Trump nel 2017, ndtr.] ha minacciato di tagliare i finanziamenti al Consorzio per il Medio Oriente, una collaborazione tra l’università del North Carolina e la Duke University. In una lettera pubblica, il DOE chiarisce di ritenere che il programma sia troppo condiscendente verso l’islam. “Si pone una considerevole enfasi sull comprendere gli aspetti positivi dell’islam, mentre manca del tutto un’attenzione simile verso gli aspetti positivi del cristianesimo, dell’ebraismo e di qualunque altra religione o sistema di credenze in Medio Oriente,” recita. Per continuare a ricevere finanziamenti, in base al Titolo VI il programma deve rivedere i suoi criteri e fornire al DOE un’analisi dettagliata dei suoi progetti di spesa.

La lettera del DOE è nata da un’indagine sul programma iniziata in giugno. Lo scorso marzo il programma di studi sul Medio Oriente aveva tenuto una conferenza intitolata “Conflitto contro Gaza: persone, politiche e possibilità.” L’evento includeva un’esibizione del musicista palestinese Tamer Nafar, che ha suonato una canzone ironica su un arabo che si innamora di una soldatessa dell’esercito israeliano. In seguito un blogger filo-israeliano ha postato immagini decontestualizzate dell’esibizione e la faccenda è stata ripresa dal senatore repubblicano George Holding, che ha chiesto a DeVos di indagare su tutto il programma.

Elyse Crystall è docente associata di Inglese e Letteratura Comparata all’UNC [Università della North Carolina, ndtr.] ed era presente alla conferenza. Afferma che l’evento è stato sfruttato in modo cinico per censurare le voci a favore di palestinesi e musulmani nel campus. “Abbiamo studenti che sono palestinesi, musulmani, arabi, arabo-americani e sono stati pugnalati alle spalle,” racconta a Mondoweiss. “Nessuno si preoccupa di come ciò li abbia colpiti. Sono sconvolti e non sanno dove andare. [Non hanno] nessuno con cui parlarne.”

Alcuni docenti della Duke recentemente hanno pubblicato una lettera di condanna della decisione del DOE. “L’inchiesta federale è il punto più alto di una campagna pluridecennale da parte di organizzazioni anti-palestinesi contro programmi e corsi di studi accademici ritenuti non sufficientemente ‘filo-israeliani’,” si afferma. “Questa inchiesta prende di mira un centro studi sul Medio Oriente, ma dovrebbe preoccupare tutti noi. Oggi ogni docente e studioso è in pericolo se non si allinea alla politica nazionale e alle priorità della sicurezza nazionale.” Inoltre oltre 100 studiosi ebrei (compresi nomi quali Noam Chomsky e Judith Butler) hanno inviato una lettera a DeVOs chiedendole di porre fine a questa “aggressione infondata” ai programmi di studi sul Medio Oriente:

Sotto la sua direzione il ministero dell’Educazione ha condotto una crociata contro chiunque nei campus universitari osi criticare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele. Infatti il ‘capo per i diritti civili’ da lei designato, Kenneth Marcus, ha fatto carriera attaccando chi critica l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza che dura da 52 anni. Per anni Marcus ha cercato di delegittimare e privare di finanziamenti i programmi di studio sul Medio Oriente che consentono agli studenti e al corpo docente di criticare il governo di Israele e il modo in cui tratta il popolo palestinese. Il modo di agire di Marcus rende evidente come la sua preoccupazione non sia di promuovere la libertà di parola e la libera discussione accademica, ma soffocarla.”

Molti opinionisti e commentatori hanno ribadito che sotto Trump stiamo attraversando una crisi della libertà di parola nelle università, in quanto alcuni punti di vista vengono attaccati o messi a tacere. Tuttavia, com’era prevedibile, nel dibattito pubblico questa campagna potenzialmente vasta contro la libertà accademica è ignorata.

Michael Arria è inviato di Mondoweiss negli USA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Elezioni Israeliane:Benjamin Netanyahu: mandarlo via o no?

Sylvain Cypel

16 settembre 2019 – Orient XXI

Poche divergenze separano il Likud dai suoi avversari del partito Blu e Bianco sulla maggior parte delle questioni. Ma la vera – la sola? – posta in gioco delle elezioni israeliane è il futuro del primo ministro Benjamin Netanyahu

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è mai sembrato così vicino ad andarsene di quanto lo sia oggi, e mai una campagna elettorale è sembrata altrettanto vuota di contenuti di quella che dovrebbe portare, martedì 17 settembre, all’elezione del prossimo parlamento israeliano, la Knesset. Queste elezioni dovrebbero definire il futuro dell’uomo che ha governato Israele senza interruzione dal 2009 e la cui influenza su questo Paese è stata di gran lunga la più significativa dall’inizio di questo secolo. A tre giorni dal voto, i sondaggi, stabili dall’inizio della campagna, danno un vantaggio molto netto alla destra e all’estrema destra israeliana dei coloni (otterrebbero la metà dei voti, senza contare i loro alleati religiosi ortodossi). Ma, date le sue divisioni, la sua prevalenza non le garantisce necessariamente di riuscire a mettere insieme una maggioranza assoluta di 61 seggi su 120 per governare.

Le elezioni dell’aprile 2019, da cui la destra era uscita vincitrice, avevano così dato luogo a una paralisi politica, in quanto il partito di estrema destra nazionalista laica “Israele Casa Nostra”, guidata da Avigdor Lieberman, aveva rifiutato di allearsi con i partiti religiosi senza la garanzia dell’approvazione di una legge sulla partecipazione dei giovani “uomini in nero” (i “timorati di dio”, chiamati anche religiosi ultra-ortodossi) al servizio militare, o a un servizio civile obbligatorio. Questa situazione si potrebbe ripetere martedì.

Dieci anni, ora basta!

Potrebbe essere così soprattutto se Lieberman ottenesse, come gli attribuiscono i sondaggi, una decina di deputati, incrementando la sua possibilità di danneggiare il Likud, il principale partito della destra guidato da Netanyahu, e se il Likud non riuscisse a superare il suo principale rivale, un’alleanza ibrida di centro destra denominata “Blu e Bianco” (i colori della bandiera) che unisce diversi ex-capi di stato maggiore a una formazione laica di centro. Secondo i sondaggi, questa alleanza pareggerebbe con il Likud. Ha fatto campagna elettorale avendo come solo programma “mandarlo a casa”, sulla posizione “Netanyahu, dieci anni, ora basta”. Niente sul futuro dei palestinesi, niente sulle questioni economiche e sociali, vaghezza sulle sfide della società (in particolare sul posto della religione); l’elemento più significativo della sua campagna elettorale è stata l’assenza di un qualunque programma definito del leader di questa alleanza, il generale Benny Gantz.

La semplice ostilità nei confronti di Netanyahu non pare sufficiente a permettere ai blu e bianchi di superarlo. Ma, per la prima volta, l’uomo che ha unificato la destra e l’estrema destra sotto la sua bandiera, ormai invischiato in molti casi di conflitto d’interesse e di arricchimento personale, sembra dare segni evidenti di affanno, accompagnati dalla sensazione che la sua aura si sgretoli. Benny Begin, figlio dello storico dirigente della destra nazionalista israeliana Menachem Begin, ha annunciato che, per la prima volta nella sua vita, non voterà per il Likud, proprio a causa della “corruzione” dell’uomo che lo dirige. Ormai è la sua stessa persona che rischia di ostacolare la rielezione di Netanyahu.

I quattro scenari

Nell’attuale situazione si possono individuare quattro alternative principali, a seconda dei risultati del voto:

– Netanyahu vince di nuovo, e questa volta con una maggioranza che gli permette di prescindere dal sostegno dell’estrema destra laica per formare un governo. Sarebbe una vittoria imprevista. É possibile, ma improbabile;

– Netanyahu vince ma non a sufficienza per formare un governo senza il sostegno di Lieberman, che si nega. Ma i blu e bianchi sono ancor meno in condizione di governare. È la paralisi. Ciò fa immaginare che nel Likud emerga un’opposizione che tenti di uscirne liberandosi della tutela divenuta ingombrante di Netanyahu. La principale probabilità sarebbe un governo di unità nazionale, probabilmente senza Netanyahu. Si aprirebbe la via per processare l’ex-primo ministro per corruzione, concussione, frode e abuso di fiducia. Altra possibilità, poco probabile ma da non escludere, Netanyahu propone un governo di unità con i blu e bianchi. Questi hanno lasciato intendere che rifiuterebbero, ma potrebbero cambiare opinione;

– I blu e bianchi vincono di poco. Non potrebbero governare che formando un governo di unità nazionale con il Likud o costituendo una coalizione con i partiti religiosi ortodossi in cui questi non avrebbero nessuna obiezione ad inserire anche l’estrema destra laica. Certamente, rimangiarsi gli impegni ha una lunga tradizione nella politica israeliana, ma questa possibilità resta tuttavia molto aleatoria;

– Né il Likud né i blu e bianchi sono in condizioni di formare una coalizione e non si accordano per un governo di coalizione. Israele entra in un’epoca d’instabilità istituzionale. Poco probabile ma non da escludere.

“Un attacco terroristico contro la democrazia”

Nell’attesa, durante la campagna elettorale Netanyahu ha mostrato dei segni di debolezza e di agitazione non abituali. Non che abbia modificato il suo metodo usuale per convincere l’elettorato ad avere fiducia in lui. Come nel 2015, quando aveva fatto appello su Facebook ai suoi elettori il giorno stesso del voto perché si mobilitassero per opporsi alla “sinistra” che “portava delle orde di arabi a votare in massa” e di andare ai seggi per impedirne il successo, questa volta si è ripetuto facendo della sinistra (nella quale include illecitamente i suoi avversari blu e bianchi) e ancor più dei media  l’oggetto di attacchi incessanti, seguendo una linea in cui si riconosce la mano del maestro Trump (“Essi” non imporranno la loro volontà al popolo). Quando la catena televisiva Canale 12 ha proposto un programma sui “casi” di Netanyahu, questi ha invocato “un attacco terroristico contro la democrazia”.

E, naturalmente, ancora una volta ha lusingato le tendenze più razziste del suo elettorato, inventando letteralmente notizie false secondo le quali “gli arabi” avevano commesso brogli nelle urne durante le elezioni dell’aprile 2019, esigendo che il suo partito fosse autorizzato a installare delle telecamere nei seggi arabi. L’obiettivo era, evidentemente, di fare pressione sugli elettori arabi per farli votare il meno possibile. Netanyahu non è riuscito in questa operazione (l’inchiesta della polizia ha trovato ben pochi casi di sospetta frode elettorale nella “zona araba”, il caso più inoppugnabile è stato a favore…del Likud). Ma può sperare che questo fallimento gli sia in parte favorevole, perché compatta il suo elettorato su base razzista nella sensazione di essere ingiustamente vessato.

Lo spettro di un dialogo tra Teheran e Washington

Peraltro queste operazioni nascondono male il fatto che Netanyahu non riesce a convincere che la sua alleanza con Donald Trump resti altrettanto solida di quanto l’ha rivendicata fin dall’inizio della sua campagna. Il primo ministro israeliano ha fatto fin da subito di questa alleanza la base della sua rielezione. Perché potrebbe legittimamente rivendicare una vicinanza simbiotica con il presidente americano, e che Trump è stato letteralmente plebiscitato dall’opinione pubblica ebraica israeliana. Tuttavia questa volta il presidente americano non ha risposto, a dir poco, alle sue aspettative. Finora aveva periodicamente offerto a Netanyahu dei “regali” molto utili: nel dicembre 2017 il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, nel maggio 2018 l’uscita americana dall’accordo con l’Iran sul nucleare, infine il riconoscimento dell’annessione israeliana del Golan siriano nel marzo 2019, alla vigilia delle precedenti elezioni politiche in Israele. Ma questa volta non ha offerto nessun appiglio spettacolare a Netanyahu, e il vago riferimento a un trattato israelo-americano di mutua difesa fatto dal presidente americano tre giorni prima delle elezioni non cambia niente, dato che un trattato simile è stato da sempre considerato con molta reticenza dal sistema militare israeliano.  In compenso l’atteggiamento che Trump ha tenuto sulla questione iraniana – che si è concluso con la destituzione da parte del presidente americano, il 10 settembre, del suo consigliere alla sicurezza nazionale John Bolton, l’uomo politicamente più vicino alle idee di Netanyahu – ha posto il primo ministro israeliano in conflitto con il presidente americano,

Perché, in uno dei momenti che gli sono consueti, l’8 settembre 2019 Donald Trump ha dichiarato di non escludere di incontrare prossimamente il presidente iraniano Hassan Rohani, lasciando intravedere che spera di raggiungere un nuovo accordo con la repubblica islamica. Nel dibattito che oppone nella Casa Bianca i nazionalisti aggressivi (John Bolton, Mike Pompeo.. .) favorevoli a un’offensiva militare contro Teheran a quelli che le sono ostili e cercano un’uscita dalla crisi, Trump ha scelto. Siccome le sue minacce di guerra non hanno portato Teheran al pentimento e le sanzioni hanno avuto un impatto reale sul regime iraniano, ma insufficiente a piegarlo, il nuovo atteggiamento della Casa Bianca indica che Trump ha fatto la sua scelta. Non è favorevole alla linea israelo-saudita. E Bolton, che ne era il pilastro, era “troppo radicale”, secondo Trump. Ormai, a quanto dice il quotidiano [israeliano di centro sinistra, ndtr.] Haaretz, l’organizzazione di un futuro vertice Trump-Rohani “è una questione certa, secondo gli ambienti militari israeliani” e la prima conseguenza potrebbe essere che Israele venga obbligato a “moderarsi contro Hezbollah e l’Iran sulla frontiera nord”, cioè nei massicci attacchi aerei che conduce da molti mesi contro le forze iraniane in Siria e anche, di recente, in Iraq, a cui finora Teheran non ha reagito.

Quello che i dirigenti israeliani temono di più è che Trump si impegni in un’operazione diplomatica simile a quella che ha condotto riguardo alla Corea del Nord. In altri termini, che dopo aver alzato la voce e mostrato i denti, finisca per firmare un accordo lungi da tutto quello per cui si era impegnato, presentandolo come un successo eccezionale. In tal ipotetico caso, ritengono molti commentatori israeliani, dopo aver definito Trump come il presidente più filo-israeliano della storia, Israele avrebbe dei problemi ad opporsi.

Il Likud e l’opposizione centrista uniti contro l’Iran

Netanyahu ha immediatamente reagito con nuovi bombardamenti contro le truppe iraniane in Siria e spiegando che non era il momento di “allentare la pressione” su Teheran. Su questo terreno ha ricevuto l’appoggio di Moshe Yaalon, un ex-capo di stato maggiore che è stato anche ministro della Difesa e che oggi si trova al terzo posto della … lista dei blu e bianchi. “Il problema è il rifiuto degli americani ad affrontare la situazione. E quando non lo si fa, si dimostra la propria debolezza,” ha dichiarato il 9 settembre durante una conferenza all’Istituto internazionale di antiterrorismo.

Come si vede, sul tema di cui Israele ha fatto il proprio principale problema regionale, cioè il rapporto con il regime iraniano, Netanyahu e il suo oppositore si uniscono (d’altronde una parte dei dirigenti dei blu e bianchi sogna di vincere e di mettere in piedi un governo di unità con il Likud). Ma quando, in risposta all’atteggiamento di Trump, Netanyahu ha fatto uscire delle nuove “informazioni” ottenute dal Mossad [servizi segreti israeliani, ndtr.] per mostrare che Teheran viola i suoi impegni a non rilanciare il suo programma nucleare militare, questa operazione ha avuto una scarsa eco negli Stati Uniti. Bisogna dire che le sue “prove” risalivano a prima dell’accordo internazionale del 2015 con l’Iran e riguardavano un sito… poi distrutto da Teheran! Quanto ai dirigenti dei blu e bianchi, hanno accusato Netanyahu di utilizzare “delle informazioni sensibili relative alla sicurezza per fini elettorali.”

Appello all’odio contro gli arabi

Per la felicità di Netanyahu, Trump domani può di nuovo cambiare opinione sull’Iran, come in Afghanistan ha dichiarato “morto” un accordo con i talebani che sembrava già raggiunto. E l’attacco contro le installazioni petrolifere saudite del 14 settembre potrebbe servire come pretesto. Nell’attesa, per la prima volta, il primo ministro israeliano è apparso non allineato con quello che ha trasformato nel suo mentore esclusivo. Un fatto che non l’ha aiutato a convincere gli elettori che solo il suo ritorno al potere potrebbe garantire loro il sostengo senza incertezze del padrino americano, come lo definisce da tre anni.

A qualche giorno dalla scadenza, Netanyahu ha moltiplicato le promesse nei confronti della sua base, tra cui quella di annettere immediatamente la valle del Giordano se vincerà. Potrebbe sperare in un nuovo “regalo” di Trump dell’ultimo minuto. O tirare fuori dal suo cappello un’ultima provocazione per mobilitare un elettorato di destra più apatico del solito. Questi ultimi giorni, in un’atmosfera d’isteria frenetica, Netanyahu ha condotto “la campagna più razzista e disgustosa mai fatta” in Israele (a parte i kahanisti [sostenitori del partito razzista Kach, messo fuori legge ed ora riammesso alle elezioni, ndtr.]), descritta dal cronista politico di Haaretz. Il suo partito, il Likud, ha moltiplicato gli incitamenti all’odio in tutte le direzioni, focalizzati in prevalenza contro “gli arabi” – che “ci vogliono annichilire tutti, donne, bambini e uomini, e permetterebbero all’Iran di sterminarci”, diffuse sulla sua pagina Facebook prima di ritrattarle. Questi “incitamenti all’odio sono diventati così frequenti che l’opinione pubblica sembra apatica di fronte alle sue nuove manifestazioni,” ha notato un editoriale dello stesso quotidiano. Si noti che, se i palestinesi d’Israele sono stati i principali bersagli, non sono stati gli unici; gli intellettuali, i laici, i media liberi, i giudici e tutti i sostenitori di un pensiero liberale sono allo stesso modo stati vittime di campagne d’odio della destra.

I principali vantaggi di Netanayhu restano tuttavia il fatto di non aver contro di sé alcun avversario in condizioni di contestare il suo peso politico e di continuare ad incarnare indubbiamente nel modo più totale l’evoluzione politica della società israeliana da due decenni. Ma, a volte, il desiderio di cambiare è più forte di tutto.

Sylvain Cypel

Ha fatto parte della direzione redazionale di Le Monde e in precedenza è stato direttore della redazione del “Corriere internazionale”. É autore di “Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse” [I murati. La società israeliana bloccata, ndtr.], La Découverte, 2006.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




In Israele i coloni ebrei hanno il controllo totale, ma a quale prezzo?

Ramzy Baroud

19 agosto 2019 – Middle East Monitor

I coloni ebrei israeliani sono inarrestabili quando si scatenano in tutta la Cisgiordania palestinese occupata. Mentre la violenza dei coloni è parte della routine quotidiana in Palestina, la violenza delle scorse settimane è direttamente legata alle elezioni politiche israeliane, previste per il 17 settembre.

Le elezioni precedenti, solo quattro mesi fa, il 9 aprile, non sono riuscite a portare stabilità politica. Benché Benjamin Netanyahu sia ora il primo ministro più a lungo al potere in Israele nei 71 anni di storia del Paese, non è stato in grado di formare una coalizione di governo.

Segnata da una serie di casi di corruzione che coinvolgono lui, la sua famiglia e i suoi collaboratori, la leadership di Netanyahu si trova in una posizione poco invidiabile. Gli investigatori della polizia gli stanno alle costole, mentre alleati politici opportunisti, come Avigdor Leiberman [segretario di un partito di estrema destra, ndtr.], gli stanno forzando la mano nella speranza di estorcergli future concessioni politiche.

La crisi politica in Israele non è il risultato di un partito Laburista resuscitato o di partiti politici di centro più forti, ma dell’incapacità della destra (compresi i partiti di estrema destra e ultranazionalisti) di esprimere un programma politico unitario.

I coloni ebrei illegali comprendono bene che la futura identità di una qualunque coalizione di governo di destra avrà un impatto duraturo sulla loro impresa di colonizzazione. I coloni, tuttavia, non sono affatto preoccupati, dato che tutti i maggiori partiti politici, compreso quello “Blu e Bianco”, il presunto partito di centro di Benjamin Gantz, hanno fatto dell’appoggio alle colonie ebraiche una parte importante della propria campagna elettorale.

Il voto decisivo dei coloni ebrei della Cisgiordania e dei loro sostenitori all’interno di Israele è risultato evidente nelle ultime elezioni. Il loro potere ha obbligato Gantz ad adottare un approccio politico totalmente diverso.

L’uomo che due giorni prima delle votazioni di aprile ha criticato l’“irresponsabile” annuncio di Netanyahu riguardo all’intenzione di annettere la Cisgiordania, pare ora un grande sostenitore delle colonie. Secondo il sito di notizie israeliano “Arutz Sheva”, Gantz ha promesso di continuare ad espandere le colonie “da un punto di vista strategico e non come una strategia politica”.

Dato il cambio di prospettiva di Gantz riguardo alle colonie, a Netanyahu non è rimasta altra possibilità che alzare la posta in gioco. Ora sta spingendo per un’annessione totale e irreversibile della Cisgiordania.

Annettere il territorio palestinese occupato è, dal punto di vista di Netanyahu, una strategia politica corretta. Naturalmente il primo ministro israeliano si dimentica delle leggi internazionali che considerano illegale la presenza militare e delle colonie di Israele. Né Netanyahu né qualunque altro leader israeliano, tuttavia, si sono mai preoccupati delle leggi internazionali. Tutto ciò che conta realmente per Israele è avere il sostegno cieco e incondizionato di Washington.

Secondo “Times of Israel” [giornale indipendente israeliano, ndtr.] Netanyahu sta ora facendo ufficialmente pressione per una dichiarazione pubblica da parte del presidente USA Donald Trump di sostegno all’annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Benché la Casa Bianca si rifiuti di fare commenti a questo proposito, e un funzionario dell’ufficio di Netanyahu sostenga che ciò “non è esatto”, la destra israeliana è sulla buona strada per rendere possibile l’annessione.

Incoraggiati dalla dichiarazione dell’ambasciatore USA David Friedman, secondo cui “Israele ha il diritto di impossessarsi di una parte della Cisgiordania”, molti politici israeliani parlano con franchezza ed esplicitamente della loro intenzione di annettere il territorio occupato. Netanyahu ha effettivamente accennato a questa possibilità in agosto durante una visita alla colonia illegale di Beit El: “Siamo venuti a costruire. Le nostre mani si tenderanno e noi renderemo più profonde le nostre radici nella nostra patria, in ogni sua parte,” ha detto durante una cerimonia che festeggiava l’espansione delle colonie illegali con altre 650 unità abitative.

A differenza di Netanyahu, l’ex-ministra della Giustizia e dirigente di “Destra Unita”, [coalizione] da poco formata, Ayelet Shaked, non parla in codice. In un’intervista con il “Jerusalem Post” ha chiesto la totale annessione dell’Area C, che costituisce quasi il 60% della Cisgiordania. “Dobbiamo applicare la nostra sovranità su Giudea e Samaria,” ha insistito Shaked, utilizzando la terminologia biblica per descrivere la terra palestinese, come se ciò rafforzasse in qualche modo la sua posizione.

Peraltro il ministro della Sicurezza Pubblica, delle Questioni Strategiche e dell’Informazione Gilad Erdan vuole fare un passo in più. Secondo “Arutz Sheva” e il “Jerusalem Post”, Erdan ha chiesto l’annessione di tutte le colonie illegali in Cisgiordania, così come l’estromissione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.

Ormai al centro della politica israeliana, i coloni ebrei si godono lo spettacolo di essere corteggiati da tutti i principali partiti politici. La loro crescente violenza contro gli autoctoni palestinesi in Cisgiordania è una sorta di prova di forza politica, un’espressione di dominio e una brutale dimostrazione di priorità politiche.

“C’è una sola bandiera dal Giordano al mare [Mediterraneo, ndtr.], la bandiera di Israele,” è stato lo slogan di un corteo di oltre 1.200 coloni ebrei che hanno percorso le strade della città palestinese di Hebron il 14 agosto. I coloni, insieme ai soldati israeliani, hanno invaso via Al-Shuhada e hanno maltrattato gli abitanti palestinesi e gli attivisti internazionali nella città assediata.

Pochi giorni prima, circa 1.700 coloni ebrei, appoggiati dalla polizia israeliana, hanno fatto irruzione nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata. Secondo la Mezzaluna rossa palestinese, oltre 60 palestinesi sono rimasti feriti quando le forze israeliane e i coloni hanno attaccato i fedeli musulmani. La violenza si è ripetuta a Nablus, dove colone armate hanno invaso la città di Al-Masoudiya e hanno fatto un “addestramento militare” sotto la protezione dell’esercito di occupazione israeliano. Il messaggio dei coloni è chiaro: ora abbiamo il controllo totale, non solo in Cisgiordania, ma anche nella politica israeliana.

Ma a quale prezzo? Tutto ciò avviene come se si trattasse esclusivamente di una questione politica israeliana. L’ANP, che è appena stata del tutto esclusa dai calcoli politici USA, viene lasciata a emanare occasionali e irrilevanti comunicati stampa sulla sua intenzione di chiamare Israele a rispondere in base alle leggi internazionali.

Tuttavia anche i garanti delle leggi internazionali sono assenti in modo sospetto. Né le Nazioni Unite né i sostenitori della democrazia e delle leggi internazionali nell’Unione Europea sembrano essere interessanti ad opporsi all’intransigenza israeliana e alle palesi violazioni dei diritti umani.

Con i coloni ebrei che dettano l’agenda politica in Israele e provocano costantemente i palestinesi nei territori occupati, è probabile che nei prossimi mesi la violenza aumenti in modo esponenziale. Come avviene spesso in questi casi, ciò verrà utilizzato in modo strategico dal governo israeliano, questa volta per porre le basi di un’annessione finale e completa della terra palestinese. Questo sarà un risultato disastroso, indipendentemente da come lo si veda.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ilhan Omar: il divieto di ingresso in Israele è “un insulto ai valori democratici”

MEE e agenzie

15 agosto 2019 – Middle East Eye

Omar e la sua collega deputata al Congresso Rashida Tlaib avevano progettato per questo fine settimana un viaggio in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate

Ilhan Omar ha denunciato la decisione israeliana di vietare a lei e alla sua collega deputata al Congresso Rashida Tlaib l’ingresso nei territori palestinesi occupati, un’iniziativa che la rappresentante del Minnesota ha definito “un insulto ai valori democratici.”

Martedì pomeriggio in un comunicato Omar ha affermato che la decisione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di impedire l’ingresso alle due parlamentari è stata presa “sotto la pressione” del presidente USA Donald Trump.

È un insulto che il primo ministro israeliano Netanyahu, sottoposto alle pressioni del presidente Trump, abbia negato l’ingresso a rappresentanti del governo USA,” ha detto Omar.

L’ironia che l’‘unica democrazia’ del Medio Oriente abbia preso una simile decisione è che si tratta sia di un oltraggio ai valori democratici che un’agghiacciante risposta alla visita da parte di politici di una Nazione alleata.”

Anche Tlaib ha attaccato la decisione del governo israeliano in un post su twitter in cui ha condiviso una foto della sua nonna palestinese, che vive nella Cisgiordania occupata. “Merita di vivere in pace e con dignità umana. Sono quello che sono grazie a lei,” ha twittato Tlaib, che è nata negli USA da genitori palestinesi ed ha ancora parte della famiglia in Palestina.

La decisione israeliana di impedire l’ingresso a sua nipote, parlamentare USA, è un segnale di debolezza perché la verità di quanto sta avvenendo ai palestinesi è spaventosa.”

All’inizio della giornata il governo israeliano ha affermato di aver intenzione di impedire a Omar e Tlaib di entrare in questo fine settimana nei territori palestinesi occupati.

La conferma è arrivata ore dopo che la famosa giornalista israeliana Dana Weiss ha twittato che il governo aveva deciso di impedire l’ingresso delle due deputate a causa delle loro “presunte provocazioni e del sostegno” a favore del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi.

Prima della dichiarazione del governo israeliano, Trump ha twittato il proprio appoggio al divieto di ingresso per le due parlamentari USA.

La legge israeliana consente di impedire ai sostenitori del BDS di entrare nel Paese.

Sia Tlaib che Omar sono sostenitrici del movimento, che intende fare pressione su Israele perché interrompa le violazioni dei diritti umani contro i palestinesi, provocando una reazione dei gruppi filo-israeliani.

Martedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che il ministero degli Interni del Paese ha deciso di non consentire a Tlaib e a Omar di entrare – un’iniziativa che ha detto di appoggiare. “Nessun Paese al mondo rispetta l’America e il Congresso americano più dello Stato di Israele,” ha detto Netanyahu in un comunicato condiviso dal ministero degli Esteri israeliano.

Tuttavia il programma di viaggio delle due congressiste rivela che l’unico scopo della loro visita è di danneggiare Israele e incentivare l’incitamento all’odio contro di esso.”

Però Netanyahu ha detto che, se lei facesse tale richiesta, Israele valuterebbe di lasciare che Tlaib visiti la sua famiglia per una questione umanitaria.

Il ministro degli Interni ha annunciato che, se la deputata Tlaib presentasse una richiesta di visitare i suoi parenti per ragioni umanitarie, prenderebbe in considerazione la sua richiesta a patto che si impegni a non agire per promuovere il boicottaggio contro Israele durante la sua visita,” ha detto il primo ministro israeliano.

Assolutamente prevedibile”

Tlaib e Omar hanno progettato di fare un giro in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate durante una visita prevista per il fine settimana.

Secondo fonti diplomatiche israeliane che hanno parlato a giornalisti locali, il giro doveva includere una visita al complesso di Al-Aqsa, un luogo sacro sia per i musulmani che per gli ebrei, che la scorsa settimana è stato teatro di violenti scontri.

Il mese scorso l’ambasciatore israeliano a Washington Ron Dermer ha affermato di credere che Israele non avrebbe negato l’ingresso ad alcun parlamentare USA” come segno di rispetto per il Congresso USA e per la grande alleanza tra Israele e l’America.”

Ma prima che il divieto venisse confermato, Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi, ha affermato che vietare l’ingresso nel Paese a Tlaib e Omar era offensivo “ma anche assolutamente prevedibile”.

Israele ha discriminato i cittadini USA – soprattutto i palestinesi americani – da molto tempo. Ora sta facendo ciò persino ai nostri PARLAMENTARI,” ha scritto Munayyer martedì su twitter

In verità la discriminazione razzista di Israele contro i palestinesi non è una novità e ai palestinesi vengono costantemente negati il ritorno e la libertà di movimento nella loro patria. Ma questo episodio sottolinea la portata della complicità del Congresso nel consentire che il razzismo colpisca ora i loro stessi colleghi,” ha aggiunto.

Martedì molti sostenitori dei palestinesi, così come alcuni membri democratici del Congresso, hanno espresso la propria preoccupazione riguardo alla decisione di Israele di impedire alle parlamentari in carica l’ingresso nel Paese.

Il MIFTAH, il gruppo USA a favore dei palestinesi che ha organizzato il viaggio a cui Tlaib e Omar pensavano di unirsi, ha condannato il divieto come “un affronto contro il popolo americano e i suoi rappresentanti.”

Come ogni violatore dei diritti umani, Israele vuole imporre il silenzio sulla situazione della Palestina occupata e impedisce alle parlamentari Tlaib (e) Omar di avere un contatto diretto con il popolo palestinese, che è soggetto al crudele regime israeliano di colonizzazione, oppressione e furto di terre,” ha affermato l’associazione in un comunicato.

Ma David Friedman, ambasciatore USA in Israele e fedele sostenitore del governo israeliano e del suo progetto di colonizzazione, ha detto che l’amministrazione Trump appoggia la decisione di vietare l’ingresso alle deputate.

Ha preso di mira l’appoggio delle parlamentari al BDS come l’elemento trainante che ha provocato il divieto. “Puramente e semplicemente, questo viaggio non è altro che un tentativo di alimentare la macchina del BDS che le deputate Tlaib e Omar appoggiano così vigorosamente,” ha affermato Friedman in una dichiarazione condivisa su Twitter. “Come gli Stati Uniti, Israele è una Nazione con delle leggi. Appoggiamo l’applicazione delle sue leggi da parte di Israele in questo caso.”

Mettere in atto il “bando contro i musulmani” di Trump

Tlaib, 43 anni, è nata negli USA, ma sua nonna e la sua famiglia estesa vivono nel villaggio palestinese di Beit Ur al-Fauqa, in Cisgiordania.

Omar, trentasettenne nata in Somalia, è stata una critica accanita della criminalizzazione del movimento BDS negli USA.

Lo scorso anno Tlaib e Omar sono entrate nella storia in quanto sono diventate le prime donne musulmane ad essere mai state elette al Congresso.

Nella sua dichiarazione Omar ha affermato che, vietando l’ingresso a lei e a Tlaib, Israele sta mettendo in pratica il cosiddetto “bando contro i musulmani” dell’amministrazione Trump.

L’ordine presidenziale impedisce ai cittadini di vari Paesi a maggioranza musulmana l’ingresso negli USA, e ciò ha attirato critiche generalizzate da parte di gruppi per i diritti umani e parlamentari che hanno accusato il presidente di islamofobia.

Quello che Israele sta mettendo in pratica è il bando di Trump contro i musulmani, questa volta contro due componenti del Congresso regolarmente elette,” ha detto Omar.

Ha aggiunto che il bando non è una sorpresa, “data la posizione pubblica del primo ministro Netanyahu, che si è sempre opposto ai tentativi di pace, ha limitato la libertà di movimento dei palestinesi, la consapevolezza da parte dell’opinione pubblica della brutale realtà dell’occupazione e si è schierato con islamofobi come Donald Trump.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’iniziativa del Canada di etichettare i vini delle colonie è un passo positivo. È necessario fare molto di più

Kamel Hawwash

2 Agosto 2019 – Middle East Eye

La comunità internazionale deve prendere provvedimenti per ricordare a Israele e ai suoi sostenitori statunitensi la fondamentale importanza delle leggi internazionali

In quello che è uno dei loro peggiori momenti, i palestinesi sono alla ricerca di qualunque iniziativa da parte della comunità internazionale a sostegno della loro richiesta di libertà, giustizia e uguaglianza.

Ogni volta che un membro dell’amministrazione Trump dice qualcosa, rimangono collettivamente a bocca aperta, in quanto concezioni di lunga data sono spazzate via, mentre le richieste israeliane vengono appoggiate e messe in pratica con una velocità sorprendente.

È per questo che i palestinesi vedono la recente decisione di un tribunale federale canadese di etichettare i vini della Cisgiordania come “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità.”

Sì, esagero, ma la sentenza del tribunale – che ha stabilito che etichettare un vino dalla Cisgiordania come un “prodotto di Israele” è fuorviante e ingannevole – è significativa perché rispetta le leggi internazionali sull’occupazione illegale della Palestina.

Negare l’occupazione

È proprio quello contro cui l’amministrazione USA dissente. Nel 2017 il presidente Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele; più di recente, ha riconosciuto l’annessione delle Alture del Golan siriane a Israele, ed è stato ricompensato con la promessa di dare il suo nome a una colonia illegale.

L’ambasciatore USA in Israele, David Friedman, ha negato l’occupazione e il Dipartimento di Stato ha dovuto eliminare il termine nel suo rapporto annuale sui diritti umani. Sia Friedman che Jason Greenblatt, l’inviato per il Medio Oriente di Trump, appoggiano l’impresa di colonizzazione e preferiscono riferirsi alla Cisgiordania con il suo nome biblico, Giudea e Samaria.

Recentemente Greenblatt ha manifestato la propria preferenza per definire le colonie “quartieri e cittadine”, descrivendo la parola “insediamenti” come “peggiorativa”. Ha anche rifiutato il termine “occupata” in riferimento alla Cisgiordania, affermando: “Ritengo che la terra sia contesa… Chiamarla territorio occupato non contribuisce a risolvere il conflitto.”

Recentemente Friedman ha detto che Israele ha il diritto di conservare “parte della Cisgiordania, ma probabilmente non tutta”. Parlando alla CNN, ha escluso uno Stato per i palestinesi, notando: “Crediamo nell’autonomia palestinese, crediamo nell’autogoverno civile, crediamo che l’autonomia debba essere estesa fino al punto in cui non interferisce con la sicurezza di Israele.”

La sua posizione è contraria alle leggi e al consenso internazionali, ma quello che importa a questa amministrazione USA è l’opinione degli USA, e poi di Israele.

Israele una vittima?

Greenblatt è andato oltre nello smentire l’importanza delle leggi internazionali per risolvere il conflitto israelo-palestinese. In un recente discorso al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che ha scatenato l’opposizine di altri membri, ha affermato che la pace non può essere raggiunta “attraverso l’imposizione delle leggi internazionali o queste risoluzioni (ONU) verbosissime e poco chiare.”

A quanto risulta Greenblatt avrebbe detto: “Israele è in realtà più la vittima che il responsabile” del conflitto mediorientale. Ai suoi occhi, mentre Israele non è “perfetto”, riguardo al governo israeliano egli non ha “trovato niente da criticare che vada oltre i limiti”.

È stato bello vedere alcuni membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU respingere il disprezzo di Greenblatt nei confronti delle leggi internazionali. “Per noi, le leggi internazionali non sono un menu da cui uno sceglie quello che vuole,” ha detto al Consiglio l’ambasciatore tedesco all’ONU Christoph Heusgen. “Ci sono altri esempi in cui i rappresentanti degli USA insistono qui sulle leggi internazionali, sulla messa in pratica delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, ad esempio riguardo alla Corea del Nord.”

Se questa posizione si fosse tradotta in un reale tentativo di imporre ad Israele la messa in pratica delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, il conflitto sarebbe già stato risolto. Invece altri Paesi stanno a guardare mentre Israele, protetto e ora incoraggiato dagli USA, continua a ignorare le risoluzioni [dell’ONU] e le leggi internazionali.

Se i membri del Consiglio di Sicurezza fossero seri, avrebbero interrotto ogni rapporto e imposto sanzioni a Israele fino a quando non le rispetterà. Invece giocano a nascondino. Vogliono apparire come rispettosi dei principi, ma si nascondono quando Israele costruisce più colonie o demolisce le case dei palestinesi, provocando inimmaginabili sofferenze a chi viene colpito.

Vietare i prodotti delle colonie

La recente decisione del Canada è un piccolo passo – un modo per fare pressione su Israele, che tutti i Paesi che credono nelle leggi internazionali dovrebbero seguire. Però riguarda solo l’etichettatura dei prodotti invece del necessario blocco dei beni delle colonie illegali, che molti Paesi non si sentono di adottare.

In giugno la Corte di Giustizia Europea ha emesso una dichiarazione che conferma la richiesta che in base alle leggi UE i prodotti dei territori occupati vengano chiaramente etichettati come tali. Nel contempo in Irlanda un divieto totale di importazione dei prodotti delle colonie sta per diventare legge.

Mentre i palestinesi accoglierebbero positivamente “un grande passo per l’umanità” in appoggio alle loro richieste di libertà, giustizia e uguaglianza, una serie di piccoli passi serve a ricordare a Israele e ai suoi sostenitori negli USA che i diritti e le leggi internazionali sono fondamentali.

L’amministrazione USA dovrebbe ricordare che la bibbia di oggi, che garantisce l’ordine mondiale, sono le leggi internazionali – non quella a cui Friedman, Greenblatt e compagnia fanno riferimento per realizzare il Grande Israele.

Riguardo al ruolo del Canada nell’insistere per l’etichettatura dei vini delle colonie, evviva!

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Kamel Hawwash è un professore anglo-palestinese di ingegneria all’università di Birmingham. Hawwash è da molto tempo un attivista per la giustizia, soprattutto per il popolo palestinese. È il presidente della Palestine Solidarity Campaign [Campagna per la Solidarietà con la Palestina] (PSC) e membro fondatore del British Palestinian Policy Council [Consiglio Britannico per la Politica Palestinese] (BPPC).

(traduzione di Amedeo Rossi)




Non punire i rifugiati palestinesi per il malfunzionamento dell’UNRWA

Yara Hawari

1 agosto 2019 – Al Jazeera

All’inizio della settimana un rapporto etico interno riguardo all’Agenzia ONU per il Sostegno e il Lavoro (UNRWA) per i rifugiati palestinesi è stato fatto filtrare sia ad Al Jazeera che all’agenzia di notizie AFP. In base a testimonianze di ex-dipendenti e dipendenti, come anche a una serie di altri documenti che le confermano, il rapporto dettaglia gravi abusi di autorità all’interno della dirigenza dell’agenzia.

Cosa più importante, esso accusa il commissario generale Pierre Krahenbuhl ed altri della sua cerchia ristretta di essere “coinvolti in scorrettezze, nepotismo (e) rappresaglie.” Il rapporto nota anche che la situazione è peggiorata nel 2018, in seguito alla decisione degli Stati Uniti, il principale donatore dell’UNRWA, di tagliare i finanziamenti all’agenzia. Ciò ha consentito ai dirigenti di giustificare “un’estrema concentrazione del potere di decisione nelle mani dei membri della ‘cricca’…un incremento dell’inosservanza delle regole dell’agenzia e delle procedure stabilite, con l’eccezione che è diventata la norma, e continui viaggi troppo frequenti del commissario generale.”

Molti palestinesi non sono rimasti particolarmente stupiti dal contenuto trapelato del rapporto. Nel corso degli anni abbiamo sentito molti aneddoti sulla cultura piuttosto problematica di abusi e irregolarità perpetrati dal ben pagato personale straniero dell’UNRWA e di altre agenzia dell’ONU.

Oltre a nepotismo e abuso di potere, ci sono gravissimi problemi nella distribuzione delle scarse risorse economiche destinate a questi enti. Per esempio, in tempi di austerità, i programmi di supporto vengono in genere tagliati prima dei salari del personale straniero e dei dirigenti.

Funzionari di alto livello sono anche ben noti per essersi impegnati in una serie di azioni ipocrite, compreso il fatto di aver affittato a Gerusalemme (soprattutto nel quartiere popolare di Musrara) case rubate ai rifugiati palestinesi nel 1948 e di aver consentito al negozio duty free dell’ONU di vendere prodotti delle colonie israeliane illegali, come il vino israeliano prodotto nelle Alture del Golan occupate.

Questo tipo di comportamenti scorretti, tuttavia, non è una peculiarità dell’UNRWA ed è stato denunciato in altre agenzie dell’ONU e in grandi organizzazioni umanitarie. Le rivelazioni del rapporto sono sicuramente condannabili e i responsabili non dovrebbero rimanere impuniti. Ma ciò non significa che l’UNRWA debba essere privata dei fondi o chiusa.

L’UNRWA, in quanto agenzia rivolta esclusivamente ai rifugiati palestinesi, ha uno status e una funzione particolari. Venne fondata nel 1949 per fornire assistenza ai palestinesi espulsi dalla loro patria in seguito alla creazione dello Stato di Israele. Ora opera in Cisgiordania, a Gaza, in Giordania, in Libano e in Siria, e fornisce educazione primaria e secondaria, servizi sanitari e vari progetti per infrastrutture nei campi a circa 5 milioni di palestinesi. Dà anche lavoro a 30.000 persone, per lo più palestinesi.

Il mandato all’UNRWA perché si occupi dei rifugiati viene periodicamente rinnovato in attesa dell’applicazione della risoluzione 194 dell’ONU, che afferma il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare nelle proprie case e a ricevere un giusto indennizzo.

Per molti l’agenzia non è solo un’importante ancora di salvezza, ma anche un ente ufficiale che protegge dalle potenze che vogliono abolire il diritto dei palestinesi al ritorno.

Infatti, da quando Donald Trump ha assunto la presidenza, i tentativi di obbligare i rifugiati palestinesi a rinunciare al proprio diritto al ritorno hanno subito un’accelerazione. Gli attacchi all’UNRWA sono stati incessanti e questo rapporto fatto filtrare ha soffiato sul fuoco.

L’ex-ambasciatrice USA all’ONU Nikki Haley ha rapidamente commentato il rapporto affermando che questa era “esattamente la ragione per cui noi (gli USA) abbiamo smesso di finanziarla”, mentre l’inviato di Trump per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha twittato l’articolo di Al Jazeera, affermando che “il modello dell’UNRWA è difettoso/insostenibile e basato sull’espansione infinita dei beneficiari.” 

Nessuna di queste affermazioni è vera: il finanziamento è stato tagliato per punire collettivamente i palestinesi e la loro dirigenza e il malfunzionamento dell’UNRWA non è peggiore di quello di qualunque altra agenzia dell’ONU.

Gli USA stanno traendo ispirazione da Israele, che, da quando è stato fondato, ha cercato di eliminare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. All’inizio di quest’anno, per esempio, il governo israeliano ha annunciato che avrebbe chiuso le scuole gestite dall’UNWRA nella Gerusalemme est occupata, che forniscono servizi a oltre 3.000 minori palestinesi, violando chiaramente la convenzione sui rifugiati del 1946. Nir Barkat, l’allora sindaco israeliano di Gerusalemme, ha sostenuto che avrebbe “messo fine alla menzogna del problema dei rifugiati palestinesi.”

Evidentemente nelle più alte sfere dell’UNRWA è all’opera una cultura sistematica di irregolarità che deve essere affrontata e contrastata. Tuttavia questo rapporto non può e non dovrebbe portare ad ulteriori tagli ai finanziamenti. Alla luce di questo rapporto sia Olanda che Svizzera hanno scorrettamente sospeso l’aiuto all’agenzia.

I milioni di rifugiati e di dipendenti palestinesi, molti dei quali stanno lottando per mantenere le proprie famiglie, non dovrebbero essere puniti collettivamente per le violazioni e l’egoismo dei massimi dirigenti dell’UNRWA, molti dei quali sono stranieri.

Chiamare a rispondere i responsabili per la cattiva gestione dell’agenzia è fondamentale, anche se molti temono che le persone potenti denunciate in questo rapporto verranno semplicemente riciclate all’interno del sistema dell’ONU, solo per continuare il proprio comportamento scorretto in un’altra agenzia.

Nel contempo l’attenzione dovrebbe essere rivolta ai sette milioni di palestinesi che vivono un perpetuo esilio dalla loro patria, molti dei quali devono affrontare un’ulteriore espulsione. Sono il loro benessere ed il loro diritto al ritorno che dovrebbero essere in cima alle considerazioni dei donatori.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica sulla Palestina di Al-SHabaka, la rete di politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché gli americani dovrebbero appoggiare il BDS

Omar Barghouti

29 luglio – The Nation

Ispirato ai movimenti per i diritti civili e contro l’apartheid, chiede la liberazione dei palestinesi nei termini di una piena uguaglianza con gli israeliani e si oppone in modo netto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo.

Martedì scorso la Camera dei Rappresentanti [USA, ndtr.] ha approvato una risoluzione, la “H.Res. 246”, che prende di mira il movimento internazionale di base per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi che ho contribuito a fondare nel 2005. Purtroppo la H.Res. 246, che fondamentalmente travisa i nostri obiettivi e le mie opinioni personali, è solo l’ultimo tentativo da parte dei sostenitori di Israele nel Congresso di demonizzare e reprimere la nostra lotta pacifica.

La H. Res. 246 è una radicale condanna degli americani che sostengono i diritti dei palestinesi utilizzando le tattiche del BDS. Rafforza altre misure incostituzionali contro il boicottaggio, comprese quelle approvate da circa 27 Stati, che, secondo l’“American Civil Liberties Union” [Unione per le Libertà Civili Americane, storica associazione USA a favore dei diritti e delle libertà costituzionali, ndtr.] ricordano le “tattiche dell’epoca di McCarthy”. Esaspera anche l’atmosfera oppressiva che i palestinesi e i loro sostenitori già devono affrontare, scoraggiando ulteriormente i discorsi che criticano Israele in un momento in cui il presidente Donald Trump sta pubblicamente calunniando membri del Congresso che si esprimono a favore della libertà dei palestinesi.

In risposta alla H.Res. 246 e a misure legislative simili, la deputata Ilhan Omar, affiancata da Rashida Tlaib, dall’icona dei diritti civili John Lewis [deputato afro-americano della Georgia, ndtr.] e da altri 12 co-firmatari, ha presentato la H.Res. 496, che difende “il diritto di partecipare a boicottaggi a favore di diritti civili e umani in patria e all’estero, in quanto protetto dal Primo emendamento della Costituzione.”

Ispirato al movimento USA per i diritti civili e a quello sudafricano contro l’apartheid, il BDS chiede la fine dell’occupazione militare israeliana del 1967, la piena uguaglianza per i cittadini palestinesi di Israele e il diritto stabilito dall’ONU al ritorno dei rifugiati palestinesi alla patria da cui vennero cacciati.

Il BDS si oppone nel modo più assoluto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Contrariamente alle false affermazioni della H.Res. 246, il BDS non prende di mira i singoli individui, ma piuttosto le istituzioni e le compagnie che sono coinvolte nella sistematica violazione dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.

La H.Res. 246 include anche una specifica calunnia contro di me, sostenuta dai gruppi della lobby israeliana come l’AIPAC, estrapolando un’unica frase fuori di contesto da un discorso che ho fatto nel 2013. La stessa affermazione falsa viene ripetuta in una risoluzione simile del Senato, la S.Res. 120.

In quel discorso ho sostenuto un unico Stato democratico che riconosca e accetti gli ebrei israeliani come cittadini uguali e partner a pieno diritto nella costruzione e nello sviluppo di una nuova società condivisa, libera da ogni sottomissione colonialista e discriminazione razziale e in cui Stato e chiesa siano separati. Chiunque, compresi i rifugiati palestinesi rimpatriati, saranno titolari degli stessi diritti indipendentemente dall’identità etnica, religiosa, di genere, sessuale o altre. Ho affermato che qualunque “Stato musulmano”, “Stato cristiano” o “Stato ebraico” escludente e suprematista negherebbe per definizione uguali diritti ai cittadini con identità differenti e precluderebbe la possibilità di una vera democrazia, che è la condizione per una pace giusta e duratura. Le risoluzioni della Camera e del Senato, così come il video propagandistico dell’AIPAC, cancellano tutto quel contesto, distorcendo intenzionalmente le mie opinioni.

Ad ogni modo questa è la mia opinione personale, non la posizione del movimento BDS. In quanto movimento per i diritti umani ampio ed inclusivo, il BDS non prende posizione su una soluzione politica definitiva per palestinesi ed israeliani. Include sostenitori sia dei due Stati che di uno Stato democratico unico con uguali diritti per tutti.

In quanto difensore dei diritti umani, non sono solo oggetto di una costante denigrazione da parte di Israele e dei suoi sostenitori anti-palestinesi. Sono anche stato sottoposto, con le parole di Amnesty International, a un “arbitrario divieto de facto di viaggiare da parte di Israele”, anche nel 2018, quando mi è stato impedito di andare in Giordania per accompagnare la mia defunta madre per un’operazione per un tumore. Nel 2016 il ministero dell’Intelligence di Israele mi ha minacciato di “eliminazione civile mirata”, attirando la condanna da parte di Amnesty. E per la prima volta in assoluto lo scorso aprile mi è stato vietato di entrare negli Stati Uniti, impedendomi di partecipare al matrimonio di mia figlia e a un incontro al Congresso.

Israele non ha semplicemente intensificato il suo pluridecennale sistema di occupazione, apartheid e pulizia etnica contro i palestinesi, sta sempre più esternalizzando le sue tattiche repressive all’amministrazione USA.

Trump sta sfacciatamente appoggiando e proteggendo dall’essere chiamato a rispondere delle proprie azioni il governo israeliano di estrema destra, mentre esso annienta le vite e i mezzi di sostentamento di milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione e sotto l’assedio a Gaza, di fronte alla spoliazione e l’espulsione nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est e a pari diritti negati nell’Israele attuale. Solo due settimane fa egli [Trump, ndtr.] ha accentuato il suo incitamento contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi, attaccando quattro nuovi membri progressisti del Congresso, tutte donne di colore, dicendo loro di “chiedere scusa” a Israele e di “tornare” ai loro Paesi d’origine, benché tre di esse siano nate negli Stati Uniti.

Nonostante tutto ciò, la disperata guerra di Israele contro il BDS, combattuta con la falsificazione, la demonizzazione e l’intimidazione, come esemplificato da parte di questa risoluzione della Camera da poco approvata, sta fallendo. La nostra speranza rimane viva in quanto assistiamo a un promettente cambiamento nell’opinione pubblica a favore dei diritti umani dei palestinesi, anche negli Stati Uniti. L’orribile situazione del regime di apartheid israeliano e delle sue alleanza con forze xenofobe e palesemente antisemite stanno diventando incompatibili ovunque con valori liberali e democratici.

Guidati da comunità di colore, gruppi progressisti ebraici, importanti chiese, sindacati, associazioni accademiche, gruppi LGBTQI, movimenti per la giustizia per gli indigeni e studenti universitari, molti americani stanno abbandonando la posizione eticamente insostenibile dell’“eccezione progressista sulla Palestina”. Al contrario stanno adottando il principio moralmente conseguente di essere progressisti anche sulla Palestina.

Oggi essere progressisti comporta essere moralmente coerenti, stare dalla parte giusta della storia appoggiando noi che lottiamo per la nostra libertà, giustizia ed uguaglianza a lungo negate.

Omar Barghouti è un palestinese difensore dei diritti umani e co-fondatore del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi. È stato uno dei vincitori del premio Gandhi per la Pace del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele, gli Stati Uniti e il rompicapo della successione nell’ANP

Adnan Abu Amer

28 luglio 2019 – Al Jazeera

Gli USA e Israele vogliono estromettere dal potere il presidente Mahmoud Abbas, ma questo potrebbe non essere per loro la soluzione migliore.

Da quando a gennaio 2017 si è insediata l’amministrazione Trump, la pressione sul presidente palestinese Mahmoud Abbas perché si dimetta è salita. E’ ormai chiaro che Washington non vuole più trattare con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sotto la sua direzione.

Il principale consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner, di recente ha definito la decisione di Abbas di boicottare il convegno in Bahrain, in cui è stato presentato l’aspetto economico del piano di pace, “isterica e incoerente.”

Nel frattempo anche diversi dirigenti israeliani hanno fatto capire che sperano che Abbas lasci l’incarico. Alcuni, come l’ex Ministro degli Esteri Dore Gold, sono arrivati a sostenere che entro i prossimi sei mesi gli stessi palestinesi chiederanno un cambio di leadership.

L’attuale governo israeliano ha tentato attivamente di destabilizzare l’ANP attraverso diverse misure ostili, compreso il blocco del versamento di 140 milioni di dollari di entrate fiscali destinate al pagamento mensile dei salari. Questo, insieme ai tagli degli aiuti USA, ha posto Ramallah sotto una crescente pressione finanziaria.

Mentre è evidente che i governi americano e israeliano stanno cercando di spingere Abbas sull’orlo del precipizio, il loro piano per dopo la sua caduta è come minimo piuttosto vago. Anzi, diversi soggetti all’interno dell’apparato di sicurezza israeliano hanno avvertito che una simile mossa potrebbe avere conseguenze pericolose.

La lotta per la successione

Il dibattito sulla successione per la leadership nell’Autorità Nazionale Palestinese prosegue da dieci anni. Il termine della presidenza Abbas è ufficialmente scaduto nel 2009 ed è stato provvisoriamente prorogato in quell’anno dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina [che riunisce le principali fazioni della resistenza palestinese tranne Hamas, ndtr.]. Da allora la Palestina non è stata in grado di svolgere elezioni presidenziali e parlamentari a causa dei continui dissidi tra Fatah e Hamas.

L’ottantatreenne presidente palestinese ha finora fatto resistenza non solo a dare le dimissioni, ma anche a nominare un suo vice e delineare un chiaro percorso per la sua sostituzione. Ma dato che la sua salute sta peggiorando, prima o poi la questione della successione dovrà essere risolta. Le forti pressioni da parte delle manovre americane e israeliane probabilmente accelereranno il processo, mentre all’interno della Cisgiordania sta crescendo il malumore, che negli ultimi due anni ha provocato molte grandi proteste di piazza.

Ci sono parecchie figure importanti all’interno di Fatah che negli ultimi anni sono emerse come contendenti per la carica di Abbas.

Mahmoud al-Aloul, vice capo del partito [al-Fatah, ndtr.] e governatore di Nablus, è uno dei favoriti. È assai popolare tra i sostenitori di Fatah per la sua posizione anti israeliana e finora ha anche evitato di essere coinvolto in scandali per corruzione.

Un altro candidato è Jibril Rajoub, uno dei principali leader di Fatah, presidente della Federazione Calcio palestinese ed ex capo delle forze di sicurezza preventive in Cisgiordania. È noto che ha molta influenza nell’ambito dei servizi di intelligence palestinese e gode della fiducia delle agenzie di sicurezza sia USA che israeliane.

Majed Faraj, capo del Servizio Generale di Intelligence, è un altro candidato forte alla successione di Abbas. E’ stato fidato collaboratore del presidente palestinese e ha guidato la delegazione palestinese che ha incontrato dirigenti americani, nonostante l’attuale boicottaggio dei colloqui con l’amministrazione Trump da parte dell’ANP.

Anche Saeb Erekat, segretario generale dell’OLP, è stato dato come possibile candidato. Tuttavia nel 2011 indiscrezioni note come ‘Palestinian Papers’, che hanno rivelato la volontà di Erekat di fare maggiori concessioni a Israele durante i negoziati, hanno lasciato una macchia indelebile sulla sua reputazione ed è improbabile che raccolga molto consenso popolare. Allo stesso modo Mohammed Dahlan, a lungo arcinemico di Abbas, è stato anch’egli un aspirante alla sua carica, almeno in passato. Ma le sue chances si sono recentemente ridotte a causa dei suoi stretti legami con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che attualmente sono impopolari in Palestina perché premono per la normalizzazione con Israele.

Benché tutti questi candidati (eccetto Dahlan) appoggino il boicottaggio dell’attuale amministrazione USA da parte di Abbas, la loro posizione potrebbe cambiare se uno di loro assumesse la presidenza dell’ANP. Con questa prospettiva Washington ha spinto attivamente per un cambio di leadership a Ramallah.

Il futuro dell’ANP

Se l’amministrazione Trump non è riuscita a impegnarsi direttamente con nessuno dei principali contendenti alla presidenza dell’ANP, ha invece coinvolto altre importanti figure palestinesi al di fuori della cerchia di Abbas. Negli ultimi due anni vi sono stati parecchi incontri tra dirigenti USA e vari rappresentanti dell’ élite politica e imprenditoriale palestinese.

Al tempo stesso personaggi politici che pare abbiano stretti legami con Washington, compresi l’ex Primo Ministro Salam Fayyad e l’imprenditore palestinese Adnan Majali, sono riapparsi sulla scena politica. L’anno scorso il secondo si è spinto fino a tentare di mediare un accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Prima dell’incontro in Bahrain l’amministrazione USA è riuscita a trovare un uomo d’affari palestinese disposto a saltare il fosso e a partecipare: Ashraf al-Jabari di Hebron. All’inizio di quest’anno al-Jabari, che è stato definito un “amico” dall’ambasciatore USA in Israele David Friedman, ha annunciato che stava creando un partito in Cisgiordania chiamato ‘Riforma e Sviluppo’, che si contrapporrà al programma di Fatah per costituire uno Stato.

Washington probabilmente si rende conto che nessuno di questi personaggi ha una reale possibilità di succedere ad Abbas, perché è improbabile che vincano le elezioni, ma sono comunque utili per fare pressione sull’ANP. In fin dei conti, l’amministrazione Trump vuole che la leadership palestinese accetti le sue proposte di “pace” con Israele ed è scarsamente interessata a chi prenderà il potere dopo Abbas.

D’altro lato, in Israele diversi interlocutori non solo auspicano un cambio di leadership a Ramallah, ma sperano anche in un completo crollo dell’ANP. Parecchi dirigenti israeliani, attuali e del passato, hanno ripetutamente dichiarato “morti” gli accordi di Oslo ed hanno suggerito che è ora che i palestinesi accettino la sconfitta e smettano di pretendere uno Stato. Una soluzione che è stata proposta è che parti della Cisgiordania abitate da palestinesi siano connesse alla Giordania e godano di qualche forma di autonomia amministrativa.

Altri si sono spinti oltre, suggerendo che Israele cerchi di sciogliere l’ANP e stabilisca un governo palestinese a livello comunale sulla base di clan e famiglie. Questo presuppone una forma di autogoverno in cui Israele aiuti i leader locali in varie città della Cisgiordania a gestire le questioni quotidiane, come avveniva prima della creazione dell’ANP.

Mentre è sempre più chiaro che l’establishment israeliano spinge per la fine non solo dell’ANP, ma anche di ogni apparenza di Stato nei territori palestinesi occupati, alcuni, soprattutto nel settore della sicurezza, avvertono che questo potrebbe non essere la miglior soluzione per lo Stato israeliano. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz c’è il timore che, se l’ANP iniziasse a perdere il controllo sulla Cisgiordania, il coordinamento sulla sicurezza tra Israele e Ramallah potrebbe essere compromesso e altri elementi di opposizione potrebbero cercare di assumere il controllo.

Per questo motivo le agenzie di intelligence israeliane sono state solerti nel proteggere l’ANP e la presidenza di Abbas dai tentativi di indebolirli e a volte hanno paradossalmente agito contro le politiche ufficiali sia di Washington che di Tel Aviv.

Sebbene la leadership politica israeliana e i suoi alleati USA siano felici di dichiarare morto Oslo e pensino alla dissoluzione dell’ANP, ignorano però il fatto che per decenni Tel Aviv ha tratto i maggiori benefici dalle disposizioni stabilite da questi accordi. Esse hanno di fatto indebolito la lotta palestinese, imbrigliato l’attivismo politico e reso l’ANP il principale garante della passività politica palestinese.

Se Israele e Stati Uniti riusciranno ad infrangere questo status quo con le loro politiche aggressive, ciò che avverrà dopo potrebbe non essere di loro gradimento.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Adnan Abu Amer è capo del Dipartimento di Scienze Politiche dell’università Ummah a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rassegna della stampa israeliana: ministro definisce i matrimoni con non-ebrei un “secondo Olocausto”

Da un corrispondente di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

Nel contempo ai richiedenti asilo è vietato iscrivere i bambini a scuola e il governo approva iniziative USA contro Hezbollah

Cittadina chiude scuole ai richiedenti asilo

Il giornale israeliano Haaretz ha informato che la cittadina israeliana di Petah Tikva sta impedendo ai richiedenti asilo, la maggioranza dei quali provenienti da Paesi africani, di iscrivere i figli nelle scuole della cittadina.

Secondo Haaretz i genitori di 129 bambini eritrei non hanno potuto iscrivere i propri figli negli asili e nelle scuole, aggiungendo che le famiglie hanno avviato un ricorso legale contro il Comune.

Benché la legge israeliana preveda che i genitori devono mandare i propri figli a scuola dai tre ai diciotto anni e stabilisca che l’educazione di base debba essere gratuita, a Petah Tikva i richiedenti asilo hanno scoperto di non poter iscrivere i propri figli, anche se hanno frequentato la scuola della città durante l’anno scorso.

La città utilizza due meccanismi per impedirne l’iscrizione: rifiuta di riconoscere i documenti che dimostrano che i richiedenti asilo sono residenti a Petah Tikva o sostiene che i bambini non possono completare l’anno scolastico perché i loro genitori sono in possesso di un visto che scade prima della fine dell’anno scolastico.

Il ministero dell’Interno israeliano emette permessi di permanenza a tempo determinate per periodi da tre a sei mesi.

In febbraio il Canale 13 israeliano ha informato che il sindaco di Petah Tikva Rami Greenberg ha chiesto agli abitanti della cittadina di dare notizia di richiedenti asilo nei loro quartieri per organizzare la loro deportazione.

Un ministro sostiene che i matrimoni misti sono un secondo Olocausto

Secondo notizie che hanno avuto ampio risalto, durante una recente riunione del governo il neoministro dell’Educazione, Rafi Peretz, ha affermato che i matrimoni tra ebrei e non ebrei – noti anche come matrimoni misti – sono un “secondo Olocausto”, che mette a rischio di distruzione il popolo ebraico.

Per anni l’organizzazione di destra contro i matrimoni misti “Lehava”, guidata dal Benzi Gupstein, è stata coinvolta in incitamenti all’odio e anche in attacchi fisici contro coppie miste in Israele. Tuttavia l’ufficio del procuratore generale israeliano, persino dopo che è stato presentata una denuncia ufficiale, rifiuta di incriminare Gupstein.

Prima delle elezioni Peretz ha tentato di prendere le distanze da Gupstein per mantenere un’immagine presentabile dell’Unione dei Partiti di Destra di cui è segretario, ma da quando è ministro ha apertamente manifestato le stesse opinioni sull’importanza della purezza razziale degli ebrei.

Netanyahu ammonisce l’Iran

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha usato lo sfondo di un gruppo tattico di caccia Stealth F-35 (importato dagli USA) per registrare un video in cui rivolge un monito all’Iran, affermando che “l’Iran deve ricordare che i nostri aerei da guerra lo possono raggiungere.”

Ben Kaspit, del giornale Maariv, sostiene che Netanyahu sta cercando di convincere il presidente USA Donald Trump ad affermare esplicitamente che esiste un’“alleanza militare” tra gli USA e Israele per aumentare le possibilità di Netanyahu nelle prossime elezioni.

In cambio Netanyahu farebbe una dichiarazione in appoggio al piano di Washington denominato “accordo del secolo” per risolvere la crisi israelo-palestinese.

Anche la decisione della Casa Bianca di imporre sanzioni a due deputati libanesi e ad un ufficiale della sicurezza del partito Hezbollah è stata ampiamente riportata ed in Israele è vista come una tacita accettazione dell’opinione del governo israeliano riguardo a Hezbollah come nient’altro che un rappresentante dell’Iran.

Silverstein rivela il nome del presunto uccisore di un ebreo etiope

Gli ebrei israeliani di origine etiope continuano a protestare in Israele e chiedono che il poliziotto che il 30 giugno avrebbe sparato e ucciso il diciottenne Salomon Teka ad Haifa venga chiamato a risponderne.

Su richiesta delle autorità israeliane l’identità del poliziotto sospettato è stata tenuta segreta, ma il blogger residente negli USA ed editorialista di Middle East Eye Richard Silverstein ha rivelato che il suo nome è Baruch Ben Azari.

Tuttavia Silverstein ha informato che, in conformità con le norme israeliane sulla censura, il motore di ricerca Google ha impedito alla gente in Israele di leggere il suo post.

L’identità di Ben Azari non è un segreto ben custodito, in quanto il suo nome è filtrato anche sulle reti sociali ed egli è stato identificato in un hotel. Si è anche lamentato di aver ricevuto minacce di morte.

A titolo di confronto, anche Mahmoud Qatusa, un palestinese falsamente accusato dello stupro di una bambina di sette anni in una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania occupata, ha ricevuto minacce di morte, mentre delinquenti hanno fatto scritte nella sua città chiedendo la sua esecuzione e danneggiando veicoli nella zona.

A differenza di Ben Azari, l’identità di Qatusa non è stata protetta quando la polizia israeliana lo ha sospettato di un crimine che non aveva commesso e il suo nome e la sua foto sono stati pubblicati dai mezzi di comunicazione israeliani.

* La rassegna della stampa israeliana è un compendio di notizie la cui accuratezza non è stata verificata in modo indipendente da Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)