Mia sorella è stata il 166° medico ad essere assassinato a Gaza
Ramzy Baroud
15 ottobre 2024 – Middle East Monitor
“La vostra vita andrà avanti. Con nuovi avvenimenti e nuovi volti: i volti dei vostri figli, che riempiranno la casa di chiasso e risate.”
Queste sono state le ultime parole scritte da mia sorella in un messaggio a una delle sue figlie.
La dottoressa Soma Baroud è stata assassinata il 9 ottobre quando gli aerei da guerra israeliani hanno bombardato il taxi che la trasportava insieme ad altri sfiniti abitanti di Gaza nei pressi della rotonda di Bani Suhaila vicino a Khan Yunis, nella parte meridionale della Striscia di Gaza.
Ancora non so se stesse andando all’ospedale in cui lavorava o se lo stesse lasciando per tornare a casa. Ma che importanza ha?
La notizia del suo assassinio (che è stato un omicidio politico; Israele ha deliberatamente preso di mira e ucciso 986 operatori sanitari, tra cui 166 medici) è arrivata tramite una schermata copiata da una pagina Facebook: “Aggiornamento: questi sono i nomi dei martiri dell’ultimo bombardamento israeliano su due taxi nella zona di Khan Yunis…” Seguiva un elenco di nomi. “Soma Mohammed Mohammed Baroud” era il quinto della lista, il numero 42.010 nell’elenco sempre più lungo dei martiri di Gaza.
Mi rifiutavo di credere alla notizia, anche quando altri post hanno iniziato a spuntare ovunque sui social media, indicando il suo nome come il quinto, a volte sesto nella lista dei martiri dell’attacco aereo di Khan Yunis.
Ho continuato a chiamarla, più e più volte, sperando che la linea gracchiasse un po’ e dopo un breve silenzio la sua voce gentile e materna dicesse: “Marhaba Abu Sammy. Come stai, fratello?” Ma non ha mai risposto alla chiamata.
Le avevo ripetuto che non doveva preoccuparsi di inviare elaborati messaggi scritti o audio, data la precarietà della connessione Internet e dell’energia elettrica.
Ma passavano diversi giorni senza che scrivesse, spesso a causa della mancanza di una connessione Internet. Poi, arrivava un messaggio, anche se mai breve. Buttava giù un fiume di pensieri, passando dalla sua lotta quotidiana per sopravvivere alle paure per i figli, alla poesia, a un versetto del Corano, a uno dei suoi romanzi preferiti e così via.
“Sai, quello che hai detto l’ultima volta mi ricorda Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez”, mi ha detto in più di un’occasione, prima di portare la conversazione sui più complessi pensieri filosofici. Ascoltavo e ripetevo semplicemente: “Sì… assolutamente… sono d’accordo… al cento per cento”.
Per noi Soma era una figura straordinaria. Questo è esattamente il motivo per cui la sua improvvisa mancanza ci ha scioccati fino all’incredulità. I suoi figli, sebbene cresciuti, si sono sentiti orfani. Ma non diversamente dai suoi fratelli, me compreso.
Ho scritto di Soma come personaggio centrale nel mio libro My Father Was a Freedom Fighter [Mio padre è stato un combattente per la libertà, ndt], perché era davvero centrale nelle nostre vite e nella nostra stessa sopravvivenza in un campo profughi di Gaza.
Primogenita e unica figlia femmina, dovette sobbarcarsi una quota di lavoro e aspettative molto più grandi rispetto a noi. Era solo una bambina quando il mio fratello maggiore, Anwar, ancora neonato, morì in una clinica dell’UNRWA nel campo profughi di Nuseirat a causa della mancanza di medicine. Allora conobbe la sofferenza, il tipo di sofferenza che con il tempo si trasformò in uno stato di dolore permanente che non l’avrebbe mai abbandonata fino al suo omicidio a Khan Yunis per opera di una bomba israeliana fornita dagli Stati Uniti.
Due anni dopo la morte di Anwar nacque un altro bambino. Abbiamo chiamato anche lui Anwar, in modo che potesse portare avanti l’eredità del primo ragazzo. Soma amava il nuovo arrivato, e nei decenni a venire ha mantenuto con lui un’amicizia speciale.
Mio padre iniziò la sua esistenza come lavoratore minorile, poi combattente nell’Esercito di Liberazione della Palestina, agente di polizia durante l’amministrazione egiziana di Gaza, poi di nuovo lavoratore, perché si rifiutò di unirsi alla polizia di Gaza finanziata da Israele dopo la Naksa [lo sfollamento di circa 280.000-325.000 palestinesi dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, ndt.] del 1967 (la Guerra dei sei giorni).
Un uomo intelligente, di sani principi e intellettuale autodidatta, mio padre fece tutto il possibile per garantire un minimo di dignità alla sua piccola famiglia; e Soma, da bambina, spesso scalza, lo sostenne in ogni momento del suo cammino. Quando decise di diventare un commerciante, come quando comprava oggetti scartati e strani in Israele e li riconfezionava per venderli nel campo profughi, Soma fu la sua principale aiutante. Nonostante la guarigione della pelle i tagli sulle dita dovuti al confezionamento, uno ad uno, di migliaia di rasoi, rimasero come testimonianza della difficile esistenza vissuta.
“Il mignolo di Soma vale più di mille uomini”, ripeteva spesso mio padre, per ricordarci, per quanto fossimo cinque ragazzi, che nostra sorella sarebbe sempre stata l’eroina principale della storia della famiglia. Ora che è una martire, quel lascito è stato assicurato per l’eternità.
Anni dopo i miei genitori la mandarono ad Aleppo per conseguire una laurea in medicina. Tornò a Gaza, dove trascorse oltre tre decenni a curare le sofferenze degli altri, ma mai la sua.
Ha lavorato, tra l’altro, all’ospedale Al-Shifa e al Nasser Hospital. In seguito, ottenne un’altra specializzazione in medicina di base e aprì una clinica tutta sua. Non faceva pagare i poveri e faceva tutto il possibile per curare le vittime della guerra.
Come equipe hanno voluto mettere in primo piano i diritti delle donne all’assistenza medica e hanno ampliato la visione della medicina di base includendovi il trauma psicologico, con particolare enfasi sulla centralità e sulla vulnerabilità delle donne in una società dilaniata dalla guerra.
Quando mia figlia Zarefah è riuscita a farle visita a Gaza poco prima della guerra in corso mi ha poi raccontato che “quando zia Soma entrava in ospedale un seguito di donne, medici, infermiere e altro personale medico la circondava in totale adorazione”.
A un certo punto sembrava che tutte le sofferenze di Soma stessero finalmente dando i loro frutti: una bella casa a Khan Yunis, con un piccolo uliveto e qualche palma; un marito amorevole, docente di legge e infine preside della facoltà di giurisprudenza di una prestigiosa università di Gaza; tre figlie e due figli, con titoli di studio che spaziano dall’odontoiatria alla farmacia, dal diritto all’ingegneria.
Anche sotto assedio la vita, almeno per Soma e la sua famiglia, sembrava gestibile. È vero, non le è stato permesso di lasciare la Striscia per molti anni a causa del blocco, e quindi per anni e anni ci è stata negata la possibilità di vederla. È vero, era tormentata dalla solitudine e dall’isolamento: da qui la sua storia d’amore con García Márquez e la costante citazione del suo principale romanzo. Ma almeno suo marito non è stato ucciso o andato disperso. La sua bella casa e la clinica erano ancora in piedi. E lei viveva e respirava, comunicando i suoi preziosi spunti filosofici sulla vita, la morte, i ricordi e la speranza. E poi…
“Se solo potessi trovare i resti di Hamdi, così potremmo dargli una degna sepoltura”, mi ha scritto lo scorso gennaio, quando circolava la notizia che suo marito fosse stato giustiziato da un quadrirotore israeliano a Khan Yunis. Poiché il suo corpo era scomparso si aggrappava a una flebile speranza che fosse ancora vivo. I suoi ragazzi, d’altra parte, continuavano a scavare tra le macerie e i detriti della zona in cui Hamdi era stato colpito, sperando di trovarlo e dargli una degna sepoltura. Spesso durante i loro tentativi di dissotterrare il corpo del padre venivano attaccati dai droni israeliani. Scappavano e poi tornavano con le loro pale per continuare il loro triste compito.
Per sfruttare al meglio le possibilità di sopravvivenza la famiglia di mia sorella decise di dividersi tra campi profughi e altre abitazioni nel sud di Gaza. Ciò significava che Soma doveva spostarsi e viaggiare costantemente, spesso percorrendo lunghe distanze a piedi, tra città, villaggi e campi profughi, solo per controllare i suoi figli, dopo ogni incursione e ogni massacro.
Queste speranze semplici e ragionevoli sembravano un miraggio, soprattutto quando il mese scorso la sua casa nella zona di Qarara, a Khan Yunis, è stata demolita dall’esercito israeliano. “Il mio cuore soffre”, ha scritto. “Tutto è andato. Tre decenni di vita, di ricordi, di conquiste, tutto trasformato in macerie”.
Ha sottolineato che quella storia non parlava di pietre e cemento. “È molto più grande. È una storia che non può essere raccontata del tutto, per quanto a lungo scriva o parli. Sette anime hanno vissuto qui. Si mangiava, beveva, rideva, si litigava e, nonostante tutte le sfide della vita a Gaza, siamo riusciti a ritagliare per la nostra famiglia una vita felice”.
Pochi giorni prima di essere uccisa mi ha detto che aveva dormito in un edificio semidistrutto di proprietà dei suoi vicini a Qarara. Mi ha mandato una foto scattata da suo figlio, mentre era seduta su una sedia improvvisata sulla quale pure dormiva, in mezzo alle rovine. Appariva stanca, molto stanca.
Non c’era niente che potessi dire o fare per convincerla ad andarsene. Ha insistito dicendo che voleva tenere d’occhio le macerie di ciò che restava della sua casa. La sua logica non aveva senso per me. L’ho supplicata di andarsene. Mi ha ignorato e ha continuato a inviarmi foto di ciò che aveva recuperato dalle macerie, una vecchia foto, un piccolo ulivo, un certificato di nascita…
Il mio ultimo messaggio per lei, poche ore prima che venisse uccisa, è stato una promessa che quando la guerra fosse finita, avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per risarcirla per tutto questo. Che l’intera famiglia si sarebbe incontrata in Egitto, o in Turchia, e l’avremmo ricoperta di regali e di un amore familiare sconfinato. Ho concluso con: “Cominciamo a pianificare ora. Qualunque cosa tu voglia. Dillo e basta. In attesa delle tue istruzioni…” Non ha mai visto il messaggio.
Anche quando il suo nome, come l’ennesima vittima del genocidio israeliano a Gaza, è stato menzionato nelle notizie palestinesi locali, mi sono rifiutato di crederci. Ho continuato a chiamare. “Per favore, Soma, per favore, rispondi”, supplicavo.
Solo quando è comparso un video in cui dei sacchi bianchi per cadaveri arrivavano al Nasser Hospital sul retro di un’ambulanza ho pensato che forse mia sorella se n’era davvero andata.
Alcuni sacchi recavano i nomi delle altre persone menzionate nei post sui social media. Ogni sacco è stato portato fuori separatamente e appoggiato a terra. Un gruppo di persone piangenti in lutto, uomini, donne e bambini, si sono precipitate ad abbracciare il corpo, urlando le stesse grida di agonia e disperazione che hanno accompagnato dal primo giorno questo genocidio in atto.
I suoi colleghi hanno trasportato il suo corpo adagiandolo delicatamente a terra. Stavano per aprire il sacco per confermare la sua identità. Ho distolto lo sguardo.
Mi rifiuto di vederla sotto altri aspetti se non quello che desiderava: una persona forte, che esprimeva amore, gentilezza e saggezza; qualcuno il cui “mignolo vale più di mille uomini”.
Ma perché continuo a controllare i miei messaggi nella speranza che mi scriva per dirmi che tutta la faccenda è stata un grosso, crudele malinteso e che sta bene?
Mia sorella Soma è stata sepolta sotto un piccolo cumulo di terra, da qualche parte a Khan Yunis.
Niente più messaggi da lei.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.
Ramzy Baroud è un giornalista e direttore del Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e ribellione nelle prigioni israeliane, ndt.] (Clarity Press). Baroud è un Ricercatore Senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA) e anche presso l’Afro-Middle East Center (AMEC). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net
(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)