1

Gaza: il carcere israeliano con un milione di minori è in emergenza riguardante la salute mentale

Omar Aziz

19 agosto 2022 – Palestine Chronicle

“Far del male durante un conflitto a qualsiasi bambino è fortemente inquietante”, ha affermato giovedì scorso Michelle Bachelet, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, esprimendo allarme per il numero di minori palestinesi uccisi questo mese da Israele.

“L’uccisione e la mutilazione di così tanti minori durante questo anno è inaccettabile“, ha continuato.

Quindi cosa dire del fatto che Israele effettua ogni anno attacchi aerei con una tecnologia militare industrializzata all’avanguardia su un’enclave assediata composta per lo più da minori?

Il diritto umanitario internazionale è chiaro. È proibito lanciare un attacco che potrebbe uccidere o ferire accidentalmente civili, o danneggiare strutture civili, in modo sproporzionato rispetto ai concreti ed espliciti obiettivi militari. Tali attacchi devono cessare,” ha detto Bachelet.

Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese il 47% dei 2,2 milioni di abitanti di Gaza sono minorenni, altri collocano la percentuale oltre il 50%.

E la popolazione di Gaza è notoriamente ammassata soprattutto all’interno degli otto campi profughi ufficialmente riconosciuti dall’UNRWA, che sono considerati alcuni dei luoghi più densamente popolati al mondo. Eppure ognuno è ancora considerato un obiettivo legittimo da parte degli aerei da guerra israeliani.

Con questa consapevolezza ciò che diventa inequivocabilmente evidente è che ogni bomba che Israele sgancia sull’enclave assediata, crimine di guerra dopo crimine di guerra, viene sganciata con la consapevolezza che i minori sono le probabili vittime.

Che si tratti di minorenni massacrati come “danni collaterali” dei cosiddetti “attacchi di precisione mirati” o colpiti semplicemente per essere palestinesi, proprio come i cinque palestinesi uccisi il 7 agosto da un attacco missilistico mentre si trovavano sulla tomba del nonno nel cimitero di Al-Falluja, a est di Jabalya. Un crimine che l’esercito israeliano ha inizialmente negato di aver commesso, una bugia che le pubblicazioni dei principali organi di informazione occidentali hanno volutamente ripetuto a pappagallo senza esitazione nonostante la comprovata reputazione di Israele di diffondere bugie e disinformazione.

 Minori che non hanno altra scelta che subire ogni ferita inferta dallo sconvolgente potere distruttivo di Israele mentre si trovano imprigionati in questa minuscola striscia di terra.

Le cifre non sono più scioccanti, ma da incubo, distopiche. Una situazione difficilmente credibile per coloro che non hanno assistito in prima persona alla realtà o prestato attenzione alle testimonianze palestinesi.

L’accademico palestinese-americano Yousef Munayyer afferma che è ora di smettere di chiamare Gaza una “prigione a cielo aperto”, ma quello che è veramente: una camera di tortura.

Immaginate un po’: un ambiente progettato con cura per incubare e infliggere traumi psicologici, sofferenza fisica e privazione economica ha prodotto proprio questo. Che sorpresa.

Secondo Save the Children, oggi l’80% dei minorenni di Gaza dichiara di vivere con depressione, dolore e paura.

Nel corso dell’attacco a Gaza del 2014 Israele ha ucciso 547 minorenni palestinesi in sette settimane. Nel maggio 2021 ne ha ucciso 67. E questo mese a Gaza sono stati uccisi almeno 17 minori.

Ma queste non sono le uniche vittime di quell’età a Gaza.

In questo momento a Gaza c’è un milione di minori brutalizzati e traumatizzati da almeno 29 aggressioni militari dal 2003, ognuno con una voce da ascoltare, con una storia da raccontare e una vita che merita molto di più.

Gli ultimi tre giorni dell’attacco sono stati davvero tragici per me. Ho avuto molti flashback delle aggressioni vissute in precedenza.

Mi hanno fatto pensare molto a dove in realtà vivo, alla prigione in cui mi trovo, sapendo che potrei morire letteralmente da un momento all’altro mentre parlo con qualcuno, mentre sono seduto, mentre guardo la TV, mentre penso a qualcosa, perché questo è quello che è successo agli altri ragazzi”.

Ma mentre i minori palestinesi cercavano di riadattarsi alla “normalità” dell’assedio e dell’impoverimento in corso dopo gli attacchi, gli esperti militari israeliani si congratulavano via etere con il primo ministro israeliano Yair Lapid per la sua operazione “pulita”.

Lunedì 9 agosto, parlando alla stazione radio FM del quotidiano Maariv [giornale popolare israeliano, ndt.], il generale Amos Yadlin, ex capo della direzione dell’intelligence militare israeliana ed esperto ricercatore di Harvard, si rallegrava:

È stato un attacco ben riuscito. È stato davvero pulito, abbiamo colpito duramente l’ala militare di Hamas (in seguito si è corretto dicendo che intendeva la Jihad islamica), abbiamo colpito marginalmente degli innocenti e non militanti, neanche un israeliano è stato colpito, ritengo che sia un risultato eccezionale” (in ebraico).

Nel frattempo il giornalista di Haaretz [quotidiano israeliano progressista, ndt.] Amos Harel e Neri Zilber dell’Israel Policy Forum [organizzazione ebraica americana che lavora per una soluzione negoziata a due Stati al conflitto israelo-palestinese, ndt.] in un podcast di un’ora di valutazione degli attacchi del 10 agosto non hanno menzionato le morti di civili palestinesi, elogiando invece i “millimetrici” attacchi di Israele.

Era già noto in quel momento che almeno 15 minori palestinesi erano stati uccisi, mettendo in luce ciò che i palestinesi affermano da decenni: la cancellazione della Palestina e la disumanizzazione dei minori palestinesi sono le fondamenta grottesche su cui fioriscono l’apartheid e la colonizzazione israeliane.

Offrendo il punto di vista di una madre sull’educazione dei figli a Gaza, la scrittrice palestinese e madre di tre figli Rana Shubair racconta a Palestine Deep Dive [Approfondimenti sulla Palestina, rivista on-line palestinese, ndt.]:

Ho cercato di proteggere (i miei figli) dal vedere le immagini in TV, ma l’ambiente in cui vivono i nostri figli non è censurato, il che significa che ovunque andranno vedranno le immagini dei martiri.

Nell’ultima aggressione (del maggio 2021) una delle amiche di mia figlia che si trovava nella sua scuola è stata uccisa. Non credo che le mie figlie l’abbiano mai davvero dimenticata perché una di loro mi dice che la vede sempre nei suoi sogni, ed è molto difficile per loro afferrare semplicemente il concetto o la nozione di morte e tutto il resto. Tutti i bambini qui a Gaza sono molto eroici, va detto, perché sono più maturi della loro età e sono stati costretti ad assorbire cose di cui i bambini di altre parti del mondo non sanno nulla. Chiedete a qualsiasi bambino qui, vi dirà che tipo di aereo ci sta sorvolando, che si tratti di un drone o di un F-16. Conoscono tutta questa terminologia di guerra, ma come genitori, cerchiamo di trovare, credo, i modi giusti per affrontare il trauma dei nostri figli.

Dopo ogni aggressione e dopo ogni mese del continuo rigido assedio di Israele e della conseguente deprivazione economica, la salute mentale dei minori di Gaza continua inevitabilmente a deteriorarsi.

Ad esempio, nel 2018 il 60% di essi riferiva di sentirsi meno al sicuro lontano dai propri genitori ma, secondo Save the Children, poco prima dei recenti attacchi questa cifra ha raggiunto il 90%.

Nel 2018 il 50% dei minorenni riferiva di avere paura e il 55% di provare sentimenti di dolore e pochi mesi prima di questo attacco il 78% affermava di sentirsi spaventato e l’84% di provare sentimenti di dolore.

Si può solo immaginare come si sentono oggi.

Nel corso di una trasmissione di Palestine Deep Dive, il Dr. Yasser Abu Jamei, Direttore del Programma di salute mentale della comunità di Gaza, ha sottolineato la natura persistente degli eventi traumatici che pone un limite all’applicabilità [a Gaza, ndt.] del [termine ndt.] disturbo nel modo in cui viene inteso dalla psichiatria occidentale, come “Disturbo da stress post-traumatico”, rendendo così difficile la vera e propria guarigione.

In primo luogo, la condizione pre-traumatica non consiste in una vita facile, tranquilla, ecc. No, si tratta di un assedio, di un’occupazione, con più di due terzi della popolazione di Gaza nella situazione di rifugiati. E parliamo di decenni. (L’inizio) di ciò non risale solo al 1967, arriva anche al 1948. Ma oltre a questo, vivi sotto assedio, e non solo, ma all’interno di questo assedio sei soggetto ad operazioni su larga scala … e come se ciò non bastasse avverti continuamente dei segnali, cose che ti ricordano gli eventi traumatici che accadono intorno a te. Ascolti il ​​telegiornale e vedi come sia critica la situazione. Guardi il cielo e senti di continuo i rumori intensi dei droni e tutto ciò ti fa tornare alla mente i brutti ricordi.

Poi, nel periodo successivo… non c’è un vero ritorno alla vita normale. C’è di nuovo la vita come al solito sotto l’occupazione, sotto i droni, sotto il blocco ecc. Direi che la tradizionale nozione occidentale di disturbo da stress post-traumatico non è applicabile ad un posto come Gaza, ma direi che la situazione a Gaza è più grave di così. Non possiamo davvero descriverlo semplicemente come un disturbo da stress post-traumatico nel significato comune del termine. No, è molto di più“.

Nel 1991 Israele ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, che afferma che tutti i minorenni hanno i diritti fondamentali alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla protezione dalla violenza e a un’istruzione che consenta loro di realizzare il proprio potenziale.

Eppure, sotto il suo [regime di] apartheid Israele viola impunemente questa convenzione in tutta la Palestina. Nello stesso Israele le scuole palestinesi o arabe ricevono spesso un finanziamento per ogni alunno quasi sei volte inferiore rispetto alle scuole per studenti ebrei poiché non possono essere ammesse al finanziamento da parte dell’istituzione sionista. Successivamente subiscono discriminazioni nel mercato del lavoro e sono anche soggetti alle 65 leggi razziste di Israele.

In Cisgiordania i minorenni palestinesi sono soggetti a leggi e pratiche discriminatorie. Viene loro regolarmente negato il diritto all’istruzione nel momento in cui vengono costretti ad aspettare ai posti di blocco e le loro lezioni possono essere interrotte in qualsiasi momento dall’esercito israeliano.

Secondo [l’Associazione] Defense for Children International, in Palestina ogni anno circa 500-700 minorenni palestinesi, alcuni dei quali di appena 12 anni, sono detenuti e perseguiti nei tribunali militari israeliani illegali. L’accusa più comune contro di loro è il lancio di pietre.

Il disprezzo di Israele per i diritti più fondamentali dei bambini palestinesi, incluso il diritto stesso alla vita, rivela il proposito di Israele di raggiungere una pace futura per ciò che è veramente, una palese bugia.

Ma non solo,: il travolgente silenzio della comunità internazionale mostra che la disumanizzazione dei bambini palestinesi si estende ben oltre l’apartheid di Stato di Israele.

All’indomani dell’ultimo attacco il presidente Biden ha elogiato Israele per aver “difeso il suo popolo” e i suoi sistemi militari per “aver salvato innumerevoli vite”.

Nel frattempo, questa settimana, i politici conservatori britannici in competizione per diventare il prossimo Primo Ministro, Rishi Sunak e Liz Truss, sembrano entrambi favorevoli al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme.

Da parte dell’Occidente continua ad essere all’ordine del giorno l’istigazione in luogo delle sanzioni, senza che nulla venga proposto per scoraggiare, ogniqualvolta si verifichino, ulteriori brutali bombardamenti da parte di Israele. Le armi continuano ad affluire e la protezione diplomatica continua a fare scudo contro la giustizia.

Eppure i minori palestinesi, che saranno gli artefici di un futuro veramente stabile, dimostrano continuamente di desiderare ardentemente una vita migliore, libertà, e di niente di meno che una totale liberazione.

Con tassi di alfabetizzazione tra i più elevati a livello mondiale, formazione di compagnie di danza, società di parkour e produzione di artisti di talento come l’astro nascente rapper tredicenne MC Abdel, i minori palestinesi a Gaza stanno offrendo insegnamenti di vita al resto del mondo mentre camminano tra le macerie:

Mi piace sempre sottolineare quel lato positivo di noi che viviamo in una prigione a cielo aperto. Stiamo facendo del nostro meglio qui. Come ho detto, non abbiamo molte opportunità, ma dall’altra parte stiamo cercando di tirar fuori quelle opportunità da tutte le macerie tra cui viviamo da più di 15 anni”, dice Hind a Palestine Deep Dive.

Anche il dottor Yasser Abu Jamei illustra in maniera limpida su Palestine Deep Dive questa verità, raccontando come ha visto i bambini di Gaza indossare con orgoglio gli abiti dell’Eid [Eid Al Fitr, letteralmente “festa della rottura del digiuno”, che segna la fine del Ramadan, ndt.] che non erano stati in grado di indossare nel maggio 2021 a causa degli attacchi di Israele:

Era un abbinamento paradossale. Guidi la tua macchina o cammini per strada, vedi da un lato le macerie, le rovine e le case distrutte, e dall’altro bambini molto ben vestiti che, in mezzo alle macerie, cercano di andare a scuola e ottenere la licenza media ”.

Naturalmente, l’emergenza riguardo alla salute mentale a Gaza e le continue ingiustizie del brutale apartheid e della colonizzazione di Israele non si limitano ai minorenni, ma colpiscono i palestinesi di tutte le età.

Tuttavia ultimamente ciò che è diventato del tutto chiaro è che ogni bomba sganciata da Israele e ogni giorno che l’assedio di Gaza da parte di Israele continua, costituisceono un’ingiustizia intollerabile contro coloro che sono universalmente considerati i più innocenti: i minorenni.

Sotto l’assedio di Israele Gaza continua ad essere una prigione di un milione di minorenni e attendiamo da troppo tempo che i governi di tutto l’Occidente riconoscano finalmente questa verità per porre fine all’impunità di Israele, e che le istituzioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, agiscano senza esitazione contro questa situazione.

Omar Aziz è Direttore Associato di Palestine Deep Dive. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Diritto al ritorno: la Nakba torna nell’agenda palestinese

Ramzy Baroud

23 maggio 2022 – Middle East Monitor

La Nakba è tornata all’ordine del giorno nei programmi palestinesi.

Per circa trent’anni ai palestinesi è stato detto che la Nakba – o Catastrofe – apparteneva al passato. La vera pace richiede compromessi e sacrifici: perciò il peccato originale che ha portato alla distruzione della loro patria storica doveva essere integralmente rimosso da qualunque discorso politico ‘pragmatico’. Erano esortati ad andare avanti.

Le conseguenze di questo cambiamento nella narrazione sono state molto gravi. Disconoscere la Nakba, l’evento più importante che ha plasmato la moderna storia della Palestina, ha comportato più della divisione politica tra i cosiddetti radicali e i presunti pragmatici amanti della pace, come Mahmoud Abbas e la sua Autorità Nazionale Palestinese. Ha anche portato alla divisione delle comunità palestinesi in Palestina e in tutto il mondo relativamente alle impostazioni politiche, ideologiche e di classe.

Dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 divenne chiaro che la lotta dei palestinesi per la libertà si stava totalmente ridefinendo e ridelineando. Non si trattava più di una lotta palestinese contro il sionismo e il colonialismo di insediamento israeliano risalente all’inizio del XX secolo, ma di un ‘conflitto’ tra due parti uguali, con uguali legittime rivendicazioni territoriali, che può essere risolta solo attraverso ‘dolorose concessioni’.

La prima di tali concessioni fu l’esclusione della questione centrale del Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi dai loro villaggi e città nel 1947-48. Quella Nakba palestinese spianò la strada all’ ‘indipendenza’ di Israele, che venne dichiarata sulle macerie e il fumo di circa 500 villaggi e città palestinesi distrutti e bruciati.

All’inizio del ‘processo di pace’ ad Israele fu chiesto di onorare il diritto al ritorno dei palestinesi, anche se simbolicamente. Israele rifiutò. I palestinesi furono quindi spinti a rimandare quella questione fondamentale a ‘negoziati sullo status finale’, che non si tennero mai. Ciò significò che milioni di rifugiati palestinesi – molti dei quali vivono tuttora in campi profughi di Libano, Siria e Giordania, come anche nei territori palestinesi occupati – furono totalmente esclusi dal dibattito politico.

Non fosse stato per le costanti attività sociali e culturali degli stessi rifugiati, che insistevano sui loro diritti e insegnavano ai loro figli a fare lo stesso, termini quali Nakba e Diritto al Ritorno sarebbero stati del tutto cancellati dal lessico politico palestinese.

Mentre alcuni palestinesi rifiutarono la marginalizzazione dei rifugiati, sostenendo che il problema fosse politico e non meramente umanitario, altri furono disponibili a procedere come se questo diritto fosse irrilevante. Diversi dirigenti palestinesi legati al ‘processo di pace’ ora defunto affermarono esplicitamente che il Diritto al Ritorno non era più una priorità palestinese. Ma nessuno neppure si avvicinò al modo in cui lo stesso presidente dell’ANP Abbas configurò la posizione palestinese in un’intervista del 2012 al Canale 2 israeliano.

La Palestina oggi per me è quella dei confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale. Così è ora e per sempre…Questa è per me la Palestina. Io sono un rifugiato, ma vivo a Ramallah”, disse.

Abbas aveva completamente torto, ovviamente. Che lui volesse esercitare il proprio diritto al ritorno o no, quel diritto, in base alla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è semplicemente “inalienabile”, il che significa che né Israele, né gli stessi palestinesi possono negarlo o rinunciarvi.

Tralasciando la mancanza di integrità intellettuale nel separare la tragica realtà del presente dalla principale causa che ne sta alla radice, Abbas mancò anche di intelligenza politica. Con il suo ‘processo di pace’ in difficoltà e in assenza di qualunque concreta soluzione politica, semplicemente decise di abbandonare milioni di rifugiati negando loro la speranza di vedersi restituire le proprie case, la propria terra o la propria dignità.

Da allora Israele, insieme agli Stati Uniti, ha combattuto i palestinesi su due diversi fronti: primo, negando loro ogni prospettiva politica e, secondo, tentando di annullare i loro diritti storicamente sanciti, soprattutto il Diritto al Ritorno. La guerra di Washington contro l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA, rientra nella seconda categoria in quanto lo scopo era, e resta, proprio la distruzione delle infrastrutture giuridiche e umanitarie che consentono ai rifugiati palestinesi di considerarsi un insieme di persone che anelano al rimpatrio, alla riparazione e alla giustizia.

Eppure tutti questi tentativi continuano a fallire. Molto più importante delle personali concessioni di Abbas ad Israele, del bilancio dell’UNRWA in costante calo o dell’insuccesso della comunità internazionale nel ripristinare i diritti dei palestinesi, è il fatto che il popolo palestinese ancora una volta si stia riunificando in occasione dell’anniversario della Nakba, ribadendo così il Diritto al Ritorno per i sette milioni di rifugiati in Palestina e nella diaspora (shattat).

Per ironia della sorte, è stato Israele a riunificare inconsapevolmente i palestinesi intorno alla Nakba. Rifiutando di concedere neanche un metro di Palestina, per non parlare di concedere ai palestinesi di rivendicare alcuna vittoria, un proprio Stato – demilitarizzato o no – o di permettere ad un singolo rifugiato di tornare a casa, ha costretto i palestinesi ad abbandonare Oslo e le sue tante illusioni. L’argomentazione un tempo usuale che il Diritto al Ritorno fosse semplicemente ‘inapplicabile’ non conta più, né per la gente comune di Palestina, né per i suoi intellettuali o le sue elite politiche.

Secondo la logica politica, se qualcosa è impossibile, deve esserci un’alternativa praticabile. Tuttavia, mentre la realtà palestinese va peggiorando sotto il sempre più pesante sistema di colonialismo di insediamento e di apartheid israeliano, ora i palestinesi comprendono di non avere una possibile alternativa se non la loro unità e resistenza e il ritorno ai principi fondamentali della loro lotta. L’Intifada dell’Unità dello scorso maggio è stata l’apice di questa nuova consapevolezza. Inoltre le manifestazioni di commemorazione dell’anniversario della Nakba e gli eventi in tutta la Palestina e nel mondo il 15 maggio hanno ulteriormente contribuito a definire la nuova narrazione secondo cui la Nakba non è più un fatto simbolico e il Diritto al Ritorno è la richiesta collettiva e fondamentale della maggioranza dei palestinesi.

Oggi Israele è uno Stato di apartheid nel vero senso del termine. L’apartheid israeliano, come ogni simile sistema di separazione razziale, mira a proteggere i frutti di quasi 74 anni di folle colonialismo, furto di terra e dominio militare. I palestinesi, ad Haifa, Gaza o Gerusalemme, ora lo comprendono appieno e stanno tornando a lottare sempre più come un’unica nazione.

E poiché la Nakba e la successiva pulizia etnica dei rifugiati palestinesi sono il denominatore comune di tutte le sofferenze dei palestinesi, il termine e le sue fondamenta tornano ad essere al centro di ogni significativa discussione sulla Palestina, come avrebbe sempre dovuto essere.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Nega di essere palestinese o muori

Salman Abu Sitta 

17 marzo 2022 – Middle East Monitor

Nega di essere palestinese o muori.” Questo è il messaggio proposto ai rifugiati palestinesi dall’UNRWA [United Nations Relief and Works Agency, ossia Agenzia dell’ONU per il Soccorso e il Lavoro per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. È un messaggio incredibilmente scioccante, contrario al diritto internazionale e al mandato stesso dell’UNRWA. L’UNRWA ha ceduto al ricatto americano per conto di Israele: tagliare i fondi a meno che la Palestina scompaia dai libri e dalla memoria.

Questa è la scoperta a cui siamo arrivati dopo il primo incontro con le scuole UNRWA e, tra tutti i posti, proprio in quelle a Gaza.

A settembre dell’anno scorso la Palestine Land Society [Società Palestinese della Terra] aveva lanciato un concorso fra studenti delle scuole superiori a Gaza con il titolo “Questo è il mio villaggio.” Gli studenti dovevano scrivere un tema sulle loro origini in Palestina, fare una ricerca sulle proprie radici chiedendo a genitori e nonni dei loro villaggi di origine e di come fossero diventati rifugiati durante la Nakba (Catastrofe), come fossero arrivati nei campi dell’UNRWA e di cosa sia il loro Diritto al Ritorno. Gli studenti dovevano ottenere testimonianze autentiche dalle proprie famiglie e dai vicini, condurre la propria ricerca su altre fonti e aggiungere, se possibile, foto, mappe o ricordi familiari.

Le scuole pubbliche di Gaza hanno accolto l’idea e informato gli studenti. Le scuole dell’UNRWA, per ordine del personale straniero, hanno proibito la distribuzione dei volantini di invito dell’UNRWA.

Sfidando la proibizione, abbiamo chiesto ai volontari di distribuire i volantini agli studenti ai cancelli delle scuole. La risposta è stata straordinaria. Hanno presentato domanda 1800 studenti. Prevedibilmente la maggioranza assoluta proveniva da scuole dell’UNRWA.

Quattro dei cinque finalisti erano rifugiati e provenivano da queste scuole. Alla cerimonia di premiazione i rappresentanti dell’UNRWA non si sono presentati. Assolutamente vergognoso!

In tutte le scuole abbiamo distribuito mappe della Palestina che mostrano i villaggi svuotati dei loro abitanti e quelli esistenti nel 1948. Di nuovo le scuole dell’UNRWA le hanno rifiutate per ordini superiori.

Com’è possibile che l’UNRWA volti le spalle al proprio mandato e violi il diritto internazionale?

La risposta, timida, ma poco convincente, è stata che i donatori americani, su istruzione di Israele, avevano seguito pedestremente la compiacente Unione Europea e proibito riferimenti alla storia e alla geografia palestinesi, a città e villaggi palestinesi, alla Nakba e alla pulizia etnica per evitare il taglio dei fondi ai servizi dell’UNRWA.

Un ricatto odioso: nega di essere palestinese e o morirai di fame o i tuoi figli senza le scuole vagheranno per le strade. Far tacere la Palestina, negare i crimini di guerra della Nakba, rinnegare la propria patria, la Palestina, questo è il prezzo che si deve pagare per un po’ di cibo e la privazione di un’identità, destinati a essere per sempre dei rifugiati. Neanche George Orwell avrebbe potuto immaginare un tale scenario, né Shakespeare nel suo Mercante di Venezia.

Ciò è avvenuto in nome della “Neutralità”, in un documento intitolato Framework for Cooperation between the US and UNRWA 2021-2022 (Cooperation Framework), [Quadro di Cooperazione fra gli USA e l’UNRWA 2021-2022] che equipara vittima e carnefice.

Si sa che questo documento nella sua interezza, inclusi gli allegati, definisce gli impegni fra UNRWA e gli Stati Uniti per il 2021 e il 2022 riguardo agli interventi.

Questo Quadro non costituisce un accordo internazionale e non stabilisce alcun obbligo fra le parti giuridicamente vincolante né in base al diritto internazionale né alle leggi nazionali. L’UNRWA non ha alcuna autorità per firmarlo.

Abbiamo scritto a Philippe Lazzarine, Commissario Generale dell’UNRWA, facendoglielo notare e sottolineando come, nelle scuole dell’UNRWA si impedisca agli studenti di sapere dove siano Majdal, Faluja [due villaggi palestinesi spopolati nel 1947-49 che ora si trovano in territorio israeliano, ndtr.], Isdud [l’attuale città israeliana di Ashdod, ndtr.], di cosa sia la Nakba, della cacciata del proprio popolo e della distruzione di 500 villaggi.

Questa è davvero una guerra senza precedenti contro i rifugiati e contro i palestinesi come popolo. Contrasta con il mandato dell’UNRWA, che dovrebbe essere perseguito, come stabilito dalla Risoluzione 302 dell’Assemblea Generale fermo restando il paragrafo 11 della Risoluzione 194.

Va parimenti contro l’Articolo 29(1) della Convenzione dei Diritti del Fanciullo. Cancellare la storia e geografia dei minori, negando o limitando le loro opportunità e diritti di conoscere i propri villaggi di origine, come siano diventati rifugiati, il loro diritto al ritorno e il motivo per cui è loro negato, viola tutti e cinque i commi dell’Articolo 29(1) della Convenzione.

Inoltre contravviene alle disposizioni contro le discriminazioni della Convenzione per l’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione Razziale – CERD (articoli 5(e)(v)) e, in base alla Convenzione per la Soppressione e la Punizione del Crimine di Apartheid (articolo 2(c)), è uno degli indicatori dell’apartheid. Fin dagli anni ’80 l’applicabilità ai palestinesi di entrambe le convenzioni è stata ampiamente analizzata dalla commissione ONU della Dichiarazione dei diritti umani (a cominciare dalla CERD) e più recentemente dal rapporto dell’ESCWA [Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale] e dai rapporti di ONG locali e internazionali come Amnesty International, Human Rights Watch e B’tselem.

Lo Statuto di Roma del 1998, la base giuridica della Corte Penale Internazionale, definisce come criminali di guerra anche i complici dei criminali di guerra. Mettere a tacere i crimini di guerra rientra fra queste violazioni. Perciò stendere un velo di silenzio sulla storia e sulla geografia palestinesi è un crimine di guerra.

Abbiamo anche scritto a Moritz Bilagher, direttore ad interim dell’’UNRWA – dipartimento Istruzione, e ad altri funzionari. Ci è stato suggerito di intitolare la mappa della Palestina da distribuire “Palestina storica.” Qui stiamo spaccando il capello in quattro. Etichettare la mappa con la dicitura “Palestina storica” annulla la distinzione fra Palestina come luogo geografico e Palestina come Stato.

La Palestina è la patria dei palestinesi da almeno 2.000 anni. Il suo popolo è conosciuto in tutto il mondo come “palestinesi”, anche nei documenti dell’UNRWA.

La Palestina come Stato è una questione politica, non sta all’UNRWA prendere una decisione in materia. Né la Palestina né Israele come Stati hanno dei confini generalmente riconosciuti, o sono riconosciuti universalmente dagli Stati membri dell’ONU.

I comitati popolari nei campi profughi hanno protestato contro questa azione con modalità che senza dubbio con il tempo si amplieranno. Un gruppo di avvocati di diritto internazionale sta mettendo a punto una memoria ufficiale sul tema che potrebbe portare a una petizione presso il Consiglio per i Diritti Umani.

Noi invitiamo tutti coloro che sono interessati a protestare contro il ricatto USA e l’asservimento dell’UNRWA.

Mandate le vostre proteste a:

UNRWA Commissioner General Philippe LazzarineLazzarini@unrwa.org

UNRWA Acting/ Head, Education Dpt, Moritz BilagherM.bilagher@unrwa.org

UNRWA Head of External Relations, Tamara AlrifaiT.alrifai@unrwa.org

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“La guerra non è finita”: le bombe inesplose nella Striscia di Gaza

Maha Hussaini, Frank Andrews

25 settembre 2021 – Middle East Eye

A causa dei residui bellici inesplosi delle bombe israeliane molti abitanti di Gaza “rivivono la battaglia ogni giorno”

Molte settimane dopo la fine dell’ultimo bombardamento israeliano sulla Striscia di Gaza, il 9 giugno, Ahmed al-Dahdouh di 16 anni è andato a cercare il suo fratellino Obaida a casa di suo zio a al-Zeitun, un quartiere orientale di Gaza.

Obaida, di 9 anni, si è rivolto a suo fratello mentre ritornavano attraverso il giardino ombroso della loro casa: “Ho trovato delle schegge di bomba”.

Ahmed ha visto che teneva qualcosa in mano.

Gli ho chiesto che cosa fosse e lui l’ha gettata per terra”, racconta Ahmed a Middle East Eye. È esplosa.

Obaida ha fatto qualche passo con aria smarrita, prima di cadere. “L’ho seguito”, prosegue Ahmed, “poi entrambi abbiamo perso conoscenza.”

E’ stato verso le 18 che il loro padre, Salahuddin, ha sentito l’esplosione.

Ha trovato Ahmed che tentava di tamponare con la mano una ferita che suo fratello aveva sul collo. Salahuddin l’ha toccata e ha sentito un sottile pezzo di metallo che gli è rimasto in mano.

La ferita era molto profonda. Quando ho cercato di tamponarla, ci sono entrate tre dita”, dice Salahuddin

Poco dopo un medico dell’ospedale al-Shifa ha operato Obaida per cercare di salvargli la vita.

Anche Ahmed è stato operato. L’esplosione aveva frantumato delle ossa e dei vasi sanguigni nel suo dito mignolo, che ha dovuto essere amputato. Porta sempre una benda e ha delle piastre di platino nella mano.

In terapia intensiva in un altro reparto dell’ospedale, mentre due dei suoi zii aspettavano nell’entrata, Obaida ha smesso di respirare alle 3.

Correvo da uno all’altro dei miei figli, ma sapevo che la situazione di Obaida era senza speranza – che era in stato di morte cerebrale”, racconta Salahuddin.

I medici gli hanno spiegato che il detonatore inesploso di una bomba aveva ucciso suo figlio. Hanno individuato le schegge nel suo collo e nella colonna vertebrale.

Salahuddin ha le lacrime agli occhi mentre ricorda il suo ultimo pranzo con Obaida prima dell’esplosione: avevano mangiato riso al latte per dessert.

Gli ho detto di darmene un po’”, racconta Salahuddin, con la voce rotta dall’emozione. Obaida ha risposto: “Ci sono un sacco di altri piatti. Quello è il mio.”

Poi “gli ho chiesto di restare con me, ma lui mi ha detto che voleva andare giù da suo fratello Ahmed”, ricorda Salahuddin.

Non lo dimenticheremo. Fin da quando era piccolo sorrideva sempre. Anche quando lo si rimproverava, lui sorrideva.”

Sepolte sotto le macerie

Non tutte le bombe esplodono completamente al momento dell’impatto. I raid aerei si lasciano dietro dei detriti esplosivi, a volte bombe intatte, nelle strade, sepolte sotto le macerie o gli edifici.

Munizioni inesplose, anche vecchie di molti decenni, possono esplodere all’improvviso se le si sposta.

Se incidenti come quello che ha ucciso Obaida al-Dahdouh sono relativamente rari, i residui esplosivi delle bombe sganciate da Israele costituiscono una grave minaccia per l’esistenza dei gazawi nell’enclave assediata.

Negli ultimi tre anni la Striscia di Gaza ha registrato circa un incidente al mese causato da residui esplosovi di guerra”, dice a Middle East Eye Suhair Zakkout, portavoce del Comitato Internazionale della Croce Rossa a Gaza.

Secondo l’ONU 41 persone sarebbero state uccise e 296 ferite da questi residui tra il 2009 e il 2020.

Le munizioni inesplose disseminate nella Striscia di Gaza dopo ogni bombardamento israeliano hanno altre gravi conseguenze. Alcuni abitanti devono abbandonare le proprie case e scuole, non possono più guadagnarsi da vivere e hanno persistenti problemi psicologici.

Secondo ‘Euro-Med Human Rights Monitor’, a maggio, nell’arco di 11 giorni, quando i razzi lanciati da gruppi di miliziani (tra cui Hamas) da Gaza verso Israele hanno ucciso 13 persone, Israele ha scatenato 2.750 attacchi aerei e 2.300 granate contro la Striscia di Gaza, uccidendo 248 palestinesi, di cui 66 bambini. Entrambe le parti sono suscettibili di aver commesso crimini di guerra.

La squadra di sminatori del Ministero dell’Interno di Gaza non ha tenuto il conto del numero di residui esplosivi rinvenuti dopo l’offensiva di maggio.

Tuttavia lo sminatore Mohamed Miqdad ha dichiarato a MEE che dall’inizio dell’ultimo bombardamento l’unità ha svolto 1.170 missioni allo scopo di eliminare gli ordigni inesplosi e controllare le case alla ricerca di resti esplosivi.

D’altra parte, gli sminatori hanno identificato 16 bombe inesplose tuttora profondamente sepolte sotto le case, i terreni e i negozi in tutta la Striscia di Gaza.

A giugno l’ONU ha stimato che il 30% delle macerie provocate dall’offensiva, pari a circa 110.000 tonnellate, era stato portato via. Le rovine che non sono ancora state ispezionate restano molto pericolose, soprattutto per i bambini che giocano e per gli adulti che cercano di recuperare i propri effetti personali.

Vestigia di guerra

Il 12 maggio verso le 8 gli agenti di intelligence israeliana hanno chiamato Saadallah Dahman, di 62 anni, e sua moglie nella loro casa del campo profughi di Jabaliya nel nord di Gaza, per informarli che il loro edificio stava per essere bombardato.

Ci hanno detto che avevamo dieci minuti di tempo e che gli aerei da guerra erano già sopra la casa”, racconta Dahman a MEE.

Una bomba Mark-84 di 925 chili ha demolito il lato sinistro dell’edificio. Una seconda si è abbattuta sui cinque piani del lato destro per poi sprofondare di parecchi metri nel suolo senza esplodere.

Dopo mesi si trova ancora nel terreno.

Le sei famiglie dell’immobile – 36 persone, di cui 22 bambini – sono tuttora sfollate. La maggior parte affitta delle case nelle vicinanze.

Nessuna organizzazione tiene il conto di quanti gazawi tra le migliaia ancora sfollate dall’offensiva di maggio non possono rientrare nelle loro case a causa di munizioni inesplose. Lo stesso accade per i dati relativi alle scuole tuttora chiuse a causa di questi ordigni.

Comunque gli sminatori hanno informato MEE che quattro scuole gestite dall’Ufficio di Soccorso e Lavoro delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi in Medio Oriente (UNRWA) sono state chiuse definitivamente a causa delle bombe sepolte in profondità nel loro terreno. Il portavoce dell’UNRWA non ha risposto alle nostre domande.

Queste bombe sono molto più difficili da eliminare.

Bombe interrate in profondità

Il Servizio di Azione Antimine delle Nazioni Unite (UNMAS) coadiuva le autorità di Gaza nello smaltimento delle bombe interrate in profondità. Queste si incuneano profondamente nel suolo (una volta Mohamed Miqdad ne ha vista una a 18 metri sotto terra) e a volte occorrono parecchie settimane per localizzarle, disinnescarle e poi estrarle da terra ed eliminarle. Le 16 bombe tuttora disseminate nell’enclave dopo il bombardamento sono tutte interrate in profondità.

Un buon numero di esse sono probabilmente delle Mark-84 (MK-84), un tipo di bomba molto utilizzata da Israele durante la più recente offensiva, nonostante comporti un rischio elevato di danni collaterali.

Un video dell’UNMAS girato a Gaza nel 2017 mostra il servizio antimine dell’ONU impegnato a creare una specie di galleria mineraria per accedere ad una MK-82 (più piccola). Gli sminatori, che devono infilarsi sotto terra per disinnescare una bomba prima di poterla estrarre, hanno a volte bisogno di ossigeno e i tunnel possono cedere.

Tuttavia lasciare le bombe nel suolo non è un’alternativa praticabile.

Anzitutto perché potrebbero esplodere. Se qualcuno costruisce su un terreno e tocca accidentalmente una bomba profondamente interrata, ciò potrebbe distruggere un intero quartiere.

Inoltre, se le voragini lasciate dove sono (i crateri possono essere larghi 15 metri) non vengono riempite, “le persone e i veicoli possono facilmente cadervi dentro”, spiega Miqdad, della squadra di sminamento.

Più difficile da quantificare, ma non meno urgente: l’impatto psicologico provocato dal fatto di sapere che sotto la superficie si nasconde una bomba.

Bilancio psicologico

A maggio, il giorno prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco, una Mark-84 sganciata dagli israeliani ha squarciato il tetto della casa di Ramzi Abu Hadayed a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza e si è schiantata in una stanza. Secondo la famiglia l’aviazione israeliana non aveva dato alcun preavviso. L’esercito israeliano non ha voluto rispondere alle domande relative a questo incidente.

Gli sminatori riferiscono che durante la caduta il detonatore della bomba si è rotto ed è esploso separatamente, lasciando intatto il resto del missile.

Grazie al cielo il razzo non è esploso”, ha detto la suocera di Abu Hadayed, visibilmente scossa, in un’intervista che è circolata su Facebook.

Quando la bomba è caduta i cinque bambini della famiglia si trovavano al piano terra.

Abbiamo sentito l’esplosione e la gente ha detto che il missile non era esploso. Siamo andati a vedere e abbiamo trovato il missile sul letto”, racconta. “Quando l’ha visto mia figlia è svenuta”

Secondo lo psichiatra Yasser Abu Jamei, che dirige il programma di salute mentale di Gaza (GCMHP) gli oltre due milioni di abitanti di Gaza sono stati probabilmente tutti traumatizzati dai bombardamenti israeliani nel corso degli anni.

Tutti hanno visto un bombardamento o ne hanno constatato gli effetti – gli edifici distrutti nei vari quartieri”, dice a MEE.

Per riprendersi dal trauma la persona colpita deve convincersi che il fatto traumatico è passato, che non succederà più e di essere assolutamente al sicuro”.

Ma a Gaza le persone non hanno questo livello di sicurezza perché rivivono in continuazione gli eventi traumatici.”

Per esempio, i droni israeliani li sorvolano costantemente.

Un altro esempio: le bombe inesplose. Se esplodono, si tratterà di un altro evento traumatico…E se non esplodono, resteranno dentro le case e gli abitanti sapranno che sono là e quindi non si sentiranno mai al sicuro.”

Secondo i dati pubblicati dall’UNMAS prima dell’ultima offensiva di maggio, l’anno scorso 1,9 milioni di gazawi presentavano un aumentato rischio di esposizione ai residui esplosivi di guerra.

Alcuni tuttavia diventano insensibili al pericolo. Dopo i recenti bombardamenti sono stati fotografati dei bambini seduti su bombe inesplose, spesso alla presenza di adulti, nonostante i gravi rischi.

Altri hanno l’impressione di non avere altra scelta che rischiare una possibile esplosione.

Mezzi di sussistenza perduti

Per esempio, parecchi raccoglitori di metallo di Gaza vivono in condizioni talmente difficili che non hanno altra scelta se non continuare.

Secondo l’UNMAS fanno parte delle categorie professionali ad alto rischio, come anche gli agricoltori, che possono capitare sopra residuati esplosivi appena sotto la superficie del loro terreno – cosa che può risultare anche tossica.

Altri non possono affatto lavorare a causa di questi ordigni sparsi sul terreno.

Il primo giorno dell’ultima offensiva israeliana, il 10 maggio, Taha Shurrab ha chiuso il suo negozio di abbigliamento femminile, situato sui due primi piani di un immobile residenziale in un affollato mercato di Khan Younis, al sud di Gaza.

Dieci giorni dopo un abitante del piano superiore del negozio gli ha telefonato: gli israeliani hanno dato loro 15 minuti per evacuare l’edificio.

Ho deciso di restare a casa”, confida il commerciante di 44 anni. “Non volevo vedere la mia merce e i miei soldi bruciare davanti a me. Gestivo questo negozio insieme ai miei fratelli dall’età di 15 anni.”

Quella sera, due ore dopo l’attacco, gli sminatori lo hanno chiamato chiedendogli di farli entrare [nel negozio]. Cercavano una bomba inesplosa.

Quando sono entrati e hanno visto i resti e i buchi nel soffitto e nel pavimento, hanno confermato che la bomba era ancora sette o otto metri nel sottosuolo”, racconta.

Shurrab non è autorizzato a riaprire il suo negozio fino a che il missile non sarà stato rimosso. Ha dato dei vestiti ad altri commercianti da vendere, ma non ha ancora abbastanza denaro per pagare l’affitto.

Dire questo mi rattrista. Sono un commerciante conosciuto, non un mendicante.”

Muhammed al-Hindi, uno dei proprietari dell’immobile, possiede sei negozi e dieci appartamenti, che ospitavano una cinquantina di persone, attualmente sfollate.

Quasi tutti i giorni i nostri vicini ci chiamano per sapere quando la bomba sarà rimossa. Hanno paura, soprattutto perché la zona è molto popolata”, precisa.

Nonostante il pericolo, le autorità non possono interdire l’intera zona: migliaia di persone frequentano il mercato ogni giorno.

I commercianti intorno a noi continuano a venire ad aprire le loro bancarelle tutti i giorni. Effettivamente, cos’altro possono fare?”, si chiede al-Hindi.

Decenni di residui bellici

Gli sminatori a volte si imbattono in bombe inesplose di attacchi israeliani che risalgono a molti anni prima, anche parecchi decenni.

La guerra del 2014 da sola ha lasciato 7.000 residui esplosivi.

Lo scorso aprile gli sminatori hanno trovato una bomba al fosforo bianco che risale all’offensiva del 2009. L’utilizzo di tali bombe in zone civili costituisce un crimine di guerra.

Il Ministero dell’Interno di Gaza conserva tuttora dai 50 ai 60 di tali ordigni in cisterne d’acqua (il fosforo bianco reagisce all’ossigeno) in un deposito in una zona disabitata di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove secondo le autorità non viene minacciata in alcun modo la sicurezza degli abitanti. Se esse non se ne sono ancora sbarazzate è a causa della mancanza di fondi e di competenze tecniche.

Secondo Mohamed Miqdad gli abitanti della Striscia di Gaza – soprattutto gli agricoltori delle zone adiacenti alla frontiera con Israele – trovano a volte dei missili inesplosi conficcati nel terreno.

Tre anni fa a Khan Younis abbiamo eliminato delle mine degli egiziani negli anni ‘70”, spiega a MEE riferendosi a quella che gli arabi chiamano la “guerra di ottobre” e gli israeliani “la guerra del Kippur”.

Queste bombe presentano un minor rischio di esplodere dopo dieci giorni dal loro sganciamento, dice, perché la loro batteria di riserva si esaurisce. Ma gli “ordigni esplosivi non hanno una precisa data di scadenza, possono durare 150 anni.”

Nel 2019 due persone sono morte quando una bomba della seconda guerra mondiale è esplosa in un garage in Polonia.

Mancanza di attrezzature

Quando vengono chiamati gli sminatori, questi portano gli ordigni in un sito di stoccaggio provvisorio e procedono ad una esplosione controllata.

Il loro lavoro quotidiano in genere non costa molto, ma implica tempo e può essere rischioso.

Quattro sminatori sono stati uccisi nell’agosto 2014 quando la bomba israeliana sulla quale stavano lavorando è esplosa. Anche due passanti sono rimasti uccisi, come pure due giornalisti: Simone Camilli (italiano) e Ali Abu Afash (palestinese).

Miqdad spiega che la sua squadra è carente di materiale, “in particolare bulldozer, attrezzature di protezione e veicoli per il trasporto di esplosivi”.

La squadra non ha attrezzature specifiche, indumenti di protezione, caschi di sicurezza e neanche robot per un controllo a distanza”, elenca. “Manca anche il materiale per scavare. L’occupazione israeliana vieta l’importazione di questi beni.”

Noi attualmente utilizziamo veicoli normali per trasportare le bombe inesplose e ciò costituisce un rischio enorme per la squadra e per gli abitanti.”

In un video girato a maggio si può vedere la bomba Mark-84 che ha colpito la casa di Abu Hadayed a Khan Younis senza esplodere mentre viene caricata con una gru sul pianale di un camion.

Ma dopotutto che cosa possiamo fare?”, si chiede Miqdad. “È un lavoro umanitario. Noi operiamo per evitare morti e feriti.”

Gli sminatori hanno confermato di avere eliminato anche dei residui esplosivi di razzi lanciati dai miliziani palestinesi che non avevano raggiunto il bersaglio.

Il posto sbagliato”

Secondo l’ONG britannica ‘Action on Armed Violence’ [Azione contro la Violenza Armata] (AOAV), le bombe moderne utilizzate nei conflitti mancano il bersaglio circa il 5% delle volte, a seconda di diversi fattori, in particolare il loro stoccaggio e la loro fabbricazione. Solo l’esercito israeliano sa qual è esattamente il tasso di bombe inesplose. Il suo portavoce non ha risposto ad una domanda a questo proposito.

Tuttavia la MK-84, la bomba più vista dagli sminatori durante l’offensiva di maggio, potrebbe avere un tasso di mancata esplosione molto più alto.

In un’intervista del 2016 Dani Peretz, vice presidente per la progettazione nelle Israeli Military Industries [Industrie Militari Israeliane, che ormai fanno parte della Elbit Systems, una delle principali industrie belliche israeliane, ndtr.], ha ammesso che le MK-84 modificate con Joint Direct Attack Munitions (o JDAM) teleguidati non erano esplose per circa il 40% delle volte durante la guerra del Libano del 2006. Questi JDAM sono congegni sviluppati dagli americani che consentono di guidare le bombe con GPS e sono utilizzati dalle forze israeliane.

L’attrezzatura “modifica il comportamento delle MK-84”, ha spiegato.

Questo significa che in certi casi “la bomba ha raggiunto il suo bersaglio, ma…ha colpito il posto sbagliato” e oltretutto “il detonatore si è staccato dalla bomba e questa non è esplosa.”

Di conseguenza la società ha sviluppato una nuova bomba, la MPR-500, che colpisce e distrugge il 95% dei suoi bersagli – molto più della MK-84, efficace solo al 60% – e che è molto meno a rischio di causare danni collaterali.

Gli sminatori ci hanno detto di non aver trovato prove di utilizzo di MPR-500 a maggio, diversamente dal 2012 e 2014, benché le forze israeliane avessero confermato che queste ultime facevano parte del loro arsenale.

Il fatto che Israele sembri aver deliberatamente sganciato bombe imprevedibili e difettose su Gaza solleva molte domande riguardo alla proporzionalità del suo ultimo bombardamento, considerando soprattutto che ha a disposizione armi descritte come più precise.

Se l’esercito israeliano ha deciso di utilizzare bombe meno precise e maggiormente a rischio di malfunzionamento, ciò dimostra un disprezzo della possibilità di evitare vittime civili”, dichiara a MEE Murray Jones, un ricercatore dell’AOAV.

Rivivere la battaglia”

La famiglia al-Rantissi, la cui casa ad ovest di Gaza è stata colpita da bombe israeliane verso le 4 del 18 maggio senza preavviso, continua ad essere sfollata a causa di un missile inesploso tuttora conficcato sotto l’edificio.

Dopo l’attacco due membri della famiglia, un’adolescente di 14 anni e un giovane di 27, presentano sintomi da stress post-traumatico.

Affittiamo una casa vicino alla nostra in attesa che il missile sia rimosso, ma non ci troviamo bene qui e abbiamo l’impressione di essere dei senzatetto. Preferiremmo vivere sopra il missile piuttosto che subire questo sfollamento”, confida a MEE Muhammed al-Rantissi.

Gli esperti stranieri di esplosivi che sono venuti a vedere la bomba ci hanno detto che avrebbero scavato a mano un buco per rimuoverla perché in casi come questo non possono utilizzare attrezzature pesanti.

Abbiamo fretta che venga rimosso. Ma è come le promesse di ricostruzione di Gaza, tutto viene sempre rimandato a più tardi e non succede niente”, aggiunge.

Finché il missile rimane nella nostra casa la guerra non è finita, riviviamo la battaglia ogni giorno.”

Rakan Abed El Rahman e Hossan Sarhan di Middle East Eye hanno contribuito a questo reportage.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Secondo la corte israeliana gli abitanti di Sheikh Jarrah devono “raggiungere un accordo” con i coloni che vogliono sfrattarli

Yumna Patel

3 maggio 2021Mondoweiss

Le famiglie di Sheikh Jarrah che lottano per rimanere nelle loro case hanno detto di “respingere con fermezza” l’accordo proposto dalla Corte Suprema di Israele, “perché queste sono le nostre abitazioni e i coloni non sono i nostri padroni di casa“.

Decine di palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est occupata, che domenica 2 maggio avrebbero dovuto essere cacciati con la forza dalle loro case, hanno avuto dalla Corte Suprema israeliana altri quattro giorni per “raggiungere un accordo” con i coloni israeliani che stanno tentando di impossessarsi delle loro case.

Nell‘udienza di domenica in merito a un ricorso presentato dalle famiglie di Sheikh Jarrah contro il loro sfratto, un giudice della corte suprema ha deciso di rinviare la sentenza sull’appello a giovedì 6 maggio.

Nel frattempo il tribunale ha ordinato alle sei famiglie, circa 27 persone, di “mettersi d’accordo” con gli stessi coloni che da decenni tentano di sfrattarli con la forza dalle loro case.

In una dichiarazione le famiglie di Sheikh Jarrah hanno affermato che il giudice “ha ordinato che ‘entrambe’ le parti raggiungano un ‘accordo’ in base al quale le famiglie di Sheikh Jarrah riconoscano la proprietà della terra rivendicata dal movimento dei coloni e paghino l’affitto a tali organizzazioni”.

Le famiglie hanno dichiarato di “respingere con fermezza” i termini di tale accordo, “perché queste sono le nostre abitazioni e i coloni non sono i nostri padroni di casa”.

Nella dichiarazione si legge: “Il sistema intrinsecamente ingiusto dei tribunali coloniali israeliani non prende in considerazione la possibilità di mettere in discussione l’illegalità della proprietà da parte dei coloni e ha già deciso a favore dell’espropriazione delle famiglie”, e si aggiunge che la corte ha elaborato il procedimento giudiziario in modo da “stemperare la resistenza popolare e la protesta dell’opinione pubblica contro questi tentativi espansionistici e colonialistici”.

“Poiché la minaccia di espulsione dalle nostre case rimane come prima imminente, continueremo la nostra campagna internazionale rivolta a fermare questa pulizia etnica”, affermano le famiglie.

Il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] Ahmad Tibi, che ha partecipato all’audizione, ha riferito su Twitter che ciò che sta accadendo a Sheikh Jarrah” non è una questione di proprietà immobiliare ma politica al fine di ebraicizzare Sheikh Jarrah e Gerusalemme est”.

“In Israele esistono due sistemi giudiziari, uno per gli ebrei … e uno per i palestinesi”, afferma Tibi.

Da decine di anni le famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah sono sotto attacco in virtù di una disputa giudiziaria con i coloni israeliani, dopo che organizzazioni dei coloni hanno accampato dei diritti sulle loro case utilizzando una serie di leggi israeliane che consentono agli ebrei di rivendicare il possesso di proprietà palestinesi che un tempo, prima del 1948, erano abitate da ebrei.

Sebbene le famiglie, che sono state sistemate nel quartiere come profughi sulla base di un progetto residenziale istituito nel 1957 dall’UNRWA e dal governo giordano, contestino la validità delle rivendicazioni dei coloni sulle loro case, i tribunali israeliani si sono costantemente pronunciati a favore dei coloni.

Dagli anni ’90 l’associazione di destra dei coloni Nahalat Shimon International si è impegnata con forza per lo sgombero degli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah e la successiva sostituzione di questi con nuclei di coloni israeliani.

Finora nel quartiere il gruppo ha portato a termine con successo tutti i suoi tentativi e, con il sostegno del tribunale distrettuale israeliano e il pieno supporto da parte delle autorità israeliane, ha spostato più di 67 palestinesi da Sheikh Jarrah e continua a premere per un imminente spostamento di circa altri 87.

Oltre alle sei famiglie minacciate di espulsione immediata, un tribunale distrettuale israeliano ha anche stabilito all’inizio di quest’anno che altre sette famiglie del quartiere dovrebbero lasciare le loro case entro il 1° agosto.

In totale solo quest’anno 58 persone, inclusi 17 bambini, saranno sfollate con la forza da Sheikh Jarrah per far posto ai coloni ebrei.

Nel corso delle ultime settimane i palestinesi di Sheikh Jarrah hanno intensificato la loro lotta per salvare le loro famiglie dallo sfratto con una campagna sui social media per #SaveSheikhJarrah, sit-in e manifestazioni quotidiane nel quartiere.

Durante il fine settimana diverse manifestazioni in solidarietà con le famiglie si sono svolte a Gerusalemme e in tutta la Cisgiordania.

Sempre nel corso del fine settimana sono diventati virali i video della polizia israeliana che reprime manifestazioni pacifiche e confisca le bandiere palestinesi insieme al video di un colono israeliano che si introduce nella proprietà di una famiglia palestinese del quartiere.

Il video dello scambio verbale tra il colono e la palestinese proprietaria della casa, nel momento in cui il colono dice ai proprietari “se non la rubo io la ruberà qualcun altro”, ha suscitato indignazione sui social media.

Domenica sera gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah hanno organizzato un sit-in e un iftar [il pasto serale consumato dai musulmani che interrompe il digiuno quotidiano durante il mese del Ramadan, ndtr.] all’aperto per interrompere insieme il loro digiuno come testimonianza della loro presenza continua nel quartiere. La loro manifestazione, che era del tutto pacifica, è stata rapidamente repressa dall’esercito israeliano che ha disperso il raduno e sparato granate assordanti contro i gruppi di palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gaza: cronaca della pandemia, tra voci e verità

Asmaa Rafiq Kuheil

4 marzo 2021 – Chronique de Palestine

Il 25 agosto era previsto il mio colloquio per il lavoro dei miei sogni: insegnare inglese all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati [palestinesi].

Ho lavorato sodo in vista di questo colloquio. Per quasi un mese mi sono rifiutata di consultare le reti sociali, che spesso non sono altro che perdite di tempo! Ho aperto Facebook per non più di cinque minuti al giorno per vedere gli aggiornamenti di ‘We Are Not Numbers’ (Non Siamo Numeri, sito in cui palestinesi di Gaza raccontano le proprie esperienze, ndtr.) e verificare la posta importante su Messenger.

Il giorno prima del colloquio sono andata a dormire alle 22, per svegliarmi all’una del mattino per continuare la mia preparazione. L’elettricità era interrotta. Il mio ventilatore aveva la batteria quasi scarica in quella notte molto calda e tutta la mia famiglia nella nostra casa “al buio” dormiva. Mi sono fatta una tazza di caffè solubile, ho recitato due Rakaat [preghiere islamiche), poi ho acceso la torcia del mio cellulare ed ho cominciato a studiare nel nostro ampio soggiorno.

Come al solito ero sola, con il piccolo fascio di luce sul mio quaderno in mezzo all’oscurità. L’unico rumore era la voce dei grilli che arrivava dalla finestra.

Non so perché, alle 4,20 ho improvvisamente pensato che potevo dare uno sguardo a Facebook usando una scheda internet comprata da mio fratello. La connessione non era molto buona, ma volevo controllare qualche consiglio relativo al mio colloquio, dato che esiste un gruppo su Messenger a tale scopo.

Mi sono connessa e davvero vorrei non averlo fatto. Tutti si affrettavano a parlare delle ultime notizie: quattro persone a sud della Striscia di Gaza erano risultate positive al coronavirus, di cui abbiamo timore da tanto tempo. (Io pensavo davvero che noi lo avessimo scampato, “grazie” al rigido blocco cui siamo sottoposti.)

Sul momento non volevo credere a ciò che leggevo…finché non ho ricevuto un messaggio dell’UNRWA che diceva che tutti i colloqui, compreso il mio, erano stati annullati. Subito mi sono sentita molto male, ma poi mi è venuta voglia di saperne di più sul modo in cui il coronavirus era entrato a Gaza e ho rapidamente messo da parte i miei problemi personali.

Ho letto la storia di Heba Abu Nadi, una gazawi che aveva attraversato il valico di Erez per andare a Gerusalemme con la sua figlioletta ammalata, che doveva essere operata all’ospedale El-Makassed in quella città.

Inizialmente le autorità israeliane di occupazione le hanno rifiutato il permesso di transito da quel posto di controllo e lei ha finito per tornare a casa dopo aver trascorso quattro ore a tentare di accompagnare sua figlia.

Immaginate quanto abbia potuto sentirsi disperata…

Il giorno dopo ha tentato nuovamente di attraversare il blocco e questa volta ha avuto il permesso di uscire. In seguito ha fatto il test ed ha saputo di avere il coronavirus….

Questa sfortunata donna si è ritrovata ovunque sulle reti sociali. Alcuni la insultano per aver infettato i membri della sua famiglia mettendo in pericolo tutta Gaza. Altri pregano per lei. Altri ancora fanno sgradevoli battute!….

Quanto a me, mi metto al suo posto. Come sta ora sua figlia? Come si sente Heba, quando tutti la criticano come se lei fosse la causa della disastrosa situazione di Gaza? O come se si trattasse di un complotto israeliano per distruggere Gaza di cui quindi lei non sarebbe che una vittima?

Oh, gente di Gaza! Smettetela di prendervela con questa povera madre! Noi non sappiamo tutto ciò che è accaduto. Lei deve essere molto infelice, preoccupata per sua figlia e forse si rimprovera terribilmente per aver messo in pericolo quattro membri della sua famiglia.

Anche prima di quest’ultima catastrofe la vita era molto peggiorata a Gaza. Non abbiamo più di quattro ore di elettricità al giorno e adesso siamo tutti in quarantena, il che aggiunge al danno anche la beffa.

Un messaggio su Facebook è stato come il sale su una ferita aperta: una ragazza di fuori Gaza ci diceva che ormai il COVID-19 è una cosa normale e che non c’è motivo di preoccuparsi.

Ma Gaza non è simile a nessun altro luogo! Gaza, questo punto minuscolo sulla mappa con due milioni di persone, non ha che un solo grande ospedale, dove recentemente sono state identificate molte persone contagiate, costringendo ad evacuare un intero reparto.

Sapete che i nostri medici rischiano la vita per un salario mensile di 300 dollari? Sì, cari lettori, 300 dollari, non 3.000. E migliaia di altri in questo periodo non ricevono alcun salario.

Il giorno dopo mio padre ha detto al mio fratellino Hamza di andare a comprare dell’acqua in bottiglia, perché ne avevamo poca. (L’acqua del rubinetto non è potabile in sicurezza). Ma mio padre ha ordinato a Hamza di restare poi in casa, dicendogli che gli avrebbe vietato di uscire se glielo avesse di nuovo chiesto. Rendendoci conto che era la nostra ultima occasione per molto tempo, tutti noi avevamo scritto un lungo elenco di altri prodotti di cui avevamo bisogno e che si trovavano nell’unico supermercato aperto nella nostra zona.

Per strada Hamza ha visto solo poliziotti che controllavano per impedire spostamenti non urgenti.

Intanto mio padre ascoltava la sua radiolina portatile accesa, cercando le notizie sul COVID. Mia sorella Walaa’, che studia per il Tawjihi (diploma di scuola secondaria generale) e che continua a studiare per gli esami finali, ha paura del prossimo futuro. Non sa se deve studiare, sedersi insieme a noi o parlare con i suoi amici di come hanno trascorso la giornata.

I miei fratelli e sorelle più giovani sono contenti che la scuola sia chiusa. Sono ancora troppo giovani per capire che cosa sia il coprifuoco.

Quanto a mia madre, cucina del manakish (la nostra versione della pizza, condita con timo e olio d’oliva). Lo fa sempre durante le guerre ed altre situazioni di emergenza. (E scommetto che non è la sola…in ogni casa ci sono tonnellate di timo e il manakish non costa molto se se ne cucinano grandi quantità). Le due cose sono diventate sinonimi.

Mi viene in mente improvvisamente il tema – che aveva vinto il premio – che avevo scritto per il concorso di scrittura We are not Numbers COVID-19. In questo testo affermavo che Gaza si è rivelata essere il luogo più sicuro al mondo per quanto riguarda la pandemia. Quando l’ho scritto pensavo paradossalmente che l’orrendo blocco israeliano di Gaza, che impedisce la maggior parte degli spostamenti all’interno e all’estero, per una volta ci avrebbe tenuti “al sicuro”, mentre gli altri avrebbero dovuto subire l’epidemia.

Il mio articolo stava per essere pubblicato, ma adesso ne vale la pena? E in caso affermativo, verrà letto? Oppure io sarò presa in giro e ridicolizzata come la povera Heba?

In ogni caso io mi atterrò alla mia convinzione che questi miserabili giorni finiranno – non semplicemente per la speranza, ma piuttosto per la mia fede profonda nel nostro dio e che tutto ciò che lui “scrive” è per il nostro bene, per quanto miserevole possa apparire a prima vista!

Asmaa’ Rafiq Kuheil, palestinese di Gaza, da tre anni è professoressa di inglese. Lavora come assistente di progetto presso l’UNRWA, dove contribuisce a costruire la propria Nazione con tutti i mezzi a sua disposizione. La sua arma è la scrittura.

27 août 2021 – WeAreNotNumbers – Traduction : Chronique de Palestine

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Palestina. Macchinazioni contro un diplomatico svizzero dell’UNRWA

Baudouin Loos

11 gennaio 2021 – Orient XXI

Documentario

La carriera di Pierre Krähenbühl alla testa dell’agenzia dell’ONU per l’aiuto ai rifugiati palestinesi si è brutalmente interrotta nel 2019. In gioco c’erano accuse che si sono dimostrate ampiamente infondate, come ha appena dimostrato un documentario della televisione svizzera. Il contesto pone interrogativi, dal momento che l’UNRWA è presa di mira dall’amministrazione Trump e dal governo Netanyahu.

Questo articolo è stato integrato, per maggiori dettagli, l’11 gennaio 2021.

Può succedere che informazioni importanti per la reputazione di alcune persone rimangano confidenziali, provocando loro un grave danno. È quanto è avvenuto nel 2020 con le conclusioni di un’inchiesta commissionata dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres riguardo alle gravi accuse rivolte contro lo svizzero Pierre Krähenbühl, all’epoca commissario generale dell’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA secondo l’acronimo inglese. Quest’ultimo aveva finito per dare le dimissioni nel novembre dello stesso anno in seguito a pressioni da parte dei suoi capi. Un’inchiesta giornalistica della televisione svizzera RTS [radiotelevisione pubblica svizzera in lingua francese, ndtr.] ha recentemente svelato le conclusioni dell’inchiesta dell’ONU mai divulgate, che abbiamo potuto leggere e dalle quali risulta che l’alto funzionario svizzero è stato assolto dalla maggior parte delle accuse che pesavano su di lui, salvo qualche inadempienza di scarsa importanza. Un ritorno a una questione da cui emana un forte fetore geopolitico.

Nepotismo, discriminazioni, abuso d’autorità…”

Il primo rapporto data dicembre 2018. Interno all’UNRWA, doveva quindi rimanere confidenziale e finire solo nell’ufficio di António Guterres, che ha peraltro rapidamente deciso di avviare un’inchiesta per verificare le accuse imbarazzanti che conteneva. Queste accuse sono state comunque divulgate e la stampa se ne è appropriata, perché era una bomba: in effetti l’autore del testo, l’olandese Lex Takkenberg, capo dell’ufficio etico dell’UNRWA, vi denunciava tra le altre cose “comportamenti inopportuni di carattere sessuale, nepotismo, rappresaglie, discriminazioni e altri abusi d’autorità, commessi per fini personali, per reprimere legittime divergenze d’opinione.”

principale accusato: Pierre Krähenbühl, a cui inoltre è stato rimproverato di intrattenere una relazione sentimentale con una collaboratrice. In tutto il mondo la stampa lo ha dovuto constatare: “L’UNRWA è nella tormenta,” come hanno titolato numerosi giornali. Esortato dal segretario generale dell’ONU perché si mettesse in aspettativa in attesa delle conclusioni dell’inchiesta da lui promossa, Krähenbühl si è sentito sconfessato e il 6 novembre 2019 ha preferito dare le dimissioni. Fine della vicenda.

Durante l’estate 2020 il governo svizzero ha ricevuto il rapporto che ha chiuso l’inchiesta dell’ONU. Un lavoro serio di 129 pagine, nel quale ex-poliziotti analizzano in modo minuzioso le mail e gli SMS dei quadri dell’agenzia ONU coinvolti. Ma la gestione di Pierre Krähenbühl non è affatto rimessa in discussione. Niente corruzione, nessun rapporto sentimentale inopportuno. Tra tutte le accuse non restano da indagare che tre casi di reclutamento da parte dell’agenzia. Poca cosa, alla fine. Né il ministero degli Esteri svizzero né l’ufficio del segretario generale dell’ONU hanno reso pubblico questo rapporto d’inchiesta che ha liberato Pierre Krähenbühl dalla maggior parte delle colpe che gli erano state rimproverate. Certo, questo tipo di rapporti non è destinato ad essere reso pubblico, ma, poiché era in gioco l’onore di un uomo ed erano state rese note le accuse che avrebbero dovuto rimanere confidenziali e che doveva affrontare, sarebbe stato corretto fare altrettanto con le conclusioni dell’inchiesta ufficiale. È qui che intervengono Xavier Nicol e Anne-Frédérique Widmann, due giornalisti di RTS. Il loro reportage è stato trasmesso in Svizzera lo scorso 17 dicembre nel quadro del programma “Temps présent” [Tempo Presente]. Il documentario, intitolato Israël-Palestine : un Suisse dans la tourmente [Israele-Palestina: uno svizzero nella tormenta] dà ampiamente la parola, tra gli altri, a Pierre Krähenbühl.

Chi vuole togliere di mezzo l’UNRWA?

Il contesto geopolitico di questa vicenda potrebbe evocare un complotto. Contro Pierre Krähenbühl? Certamente, ma soprattutto, attraverso lui, contro l’UNRWA, che alcuni vogliono togliere di mezzo. Il governo israeliano di Benjamin Netanyahu da parecchio tempo non nasconde più che desidera la scomparsa dell’agenzia per i rifugiati palestinesi.

Per lui l’UNRWA incarna una causa: il diritto al ritorno di questi rifugiati, che egli rifiuta radicalmente. Ed essa rimane un richiamo perpetuo a un passato che si preferisce rimuovere: la partenza, il più delle volte obbligata, di oltre 700.000 abitanti palestinesi nel 1948 e la loro spoliazione durante avvenimenti che portarono alla creazione di Israele.

Ufficialmente Israele rimprovera invece alla rinfusa all’agenzia di perpetuare “l’illusione” di un ritorno dei rifugiati in quello che è diventato Israele, di avere al proprio interno numerosi militanti di Hamas, di fornire un’istruzione che sparge odio contro Israele, che promuove la lotta armata e persino il terrorismo, ecc.

Con l’arrivo di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel gennaio 2017 il governo israeliano si è trovato a godere di un sostegno politico americano di una portata senza precedenti su tutte le questioni, compresa quella dei rifugiati palestinesi. Il miliardario americano ha chiesto rapidamente a suo genero Jared Kushner, noto per la sua vicinanza con l’estrema destra israeliana, di concepire un “piano di pace” per risolvere finalmente il conflitto israelo-palestinese. Cosa aveva previsto per i rifugiati? Una mail dell’11 gennaio 2018 inviata a vari funzionari dell’amministrazione Trump, tra cui Jason Grenblatt, l’inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente, presenta il pregio della chiarezza, come ha rivelato il 3 agosto 2020 il sito americano ForeignPolicy.com [autorevole bimestrale statunitense di politica internazionale, ndtr.]: “È importante fare un tentativo sincero ed onesto per ostacolare l’UNRWA”, scrive Kushner. “Questa agenzia perpetua lo status quo, è corrotta e non contribuisce alla pace. Il nostro obiettivo non può essere lasciare le cose stabili e come sono adesso. Forse bisogna rischiare di rompere le righe strategicamente per avanzare.”

È stato dato il via. Il governo americano è anzi passato ai fatti, riducendo nel 2018 in modo drastico il suo aiuto all’UNRWA, passando da un contributo di 364 milioni di dollari (296 milioni di euro) a 65 milioni (53 milioni), che l’anno successivo sono stati persino azzerati. Con un bilancio globale che superava gli 850 milioni di dollari (691 milioni di euro), la drastica riduzione del contributo americano si è dunque rivelata drammatica per il funzionamento dell’agenzia umanitaria, che dà lavoro a circa 30.000 palestinesi al servizio di 5.5 milioni di rifugiati distribuiti in tutto il Medio Oriente, dalla Siria a Gaza passando per il Libano, la Giordania, Gerusalemme est e la Cisgiordania. Ormai si sa anche quello che il “piano di pace” di Jared Kushner, reso pubblico in pompa magna il 28 gennaio 2020 a Washington, prevedeva per l’UNRWA, cioè la sua pura e semplice soppressione. Come volevasi dimostrare.

Un uomo da distruggere

Pierre Krähenbühl rappresentava un ostacolo incombente lungo il cammino degli americani e degli israeliani mobilitati per programmare la morte dell’agenzia specializzata dell’ONU? Il documentario non arriva fino a questo punto. Mostra il diplomatico ginevrino, solo in prima linea, schierato contro le mire ostili della potente coppia americano-israeliana. Una cosa sembra in ogni caso evidente: nel 2018 lo svizzero aveva moltiplicato i viaggi, le iniziative e le riunioni per rimpinguare le casse dell’UNRWA. E il suo successo si è rivelato altrettanto efficace quanto imprevisto, dato che quell’anno 43 Paesi o istituzioni avevano accettato di aumentare i propri finanziamenti per coprire il deficit. Per giunta Pierre Krähenbühl non ha esitato a difendere con le unghie e con i denti la sua agenzia, anche davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove, in diretta da Gaza, aveva contraddetto gli oratori americano e israeliano. Il diplomatico svizzero non si era quindi fatto solo degli amici dal suo arrivo alla testa dell’UNRWA il 1 aprile 2014, proveniente dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR).

D’altronde a partire dal 2018 aveva constatato che nel suo stesso Paese una personalità in vista, il ministro degli Affari Esteri Ignazio Cassis, si era schierato tra gli avversari dell’agenzia che dirigeva. Quest’ultimo era iscritto tra i membri del gruppo di amicizia con Israele nel parlamento svizzero. Aveva assunto il suo incarico il 1 novembre 2017. Nella primavera del 2018, di ritorno da un viaggio in Medio Oriente in cui aveva incontrato Pierre Krähenbühl a Amman, sull’aereo che li riportava a casa Ignazio Cassis ha confidato le sue impressioni ad alcuni giornalisti. “Per me si pone la domanda: l’UNRWA fa parte della soluzione del problema?” si era chiesto. Ed ha precisato la sua opinione: “Finché i palestinesi vivranno in campi di rifugiati, vorranno tornare nella loro patria. Appoggiando l’UNRWA, teniamo in vita il conflitto. È una logica perversa, perché in realtà tutti vogliono porre fine al conflitto.”

Affermazioni che avevano indignato l’ex-diplomatico svizzero Yves Besson, un ex-direttore dell’agenzia in questione: “Oggi l’UNRWA è ciò che rimane dell’interesse della comunità internazionale a favore dei palestinesi e dei loro rifugiati,” ha dichiarato al sito swissinfo.ch. “Inoltre dire una cosa simile non ha niente di oggettivo, perché questo argomento è stato un ritornello di Israele e degli Stati Uniti.”

Accuse fondate su … “timori”

Di fatto gli aspetti del linguaggio adottato dal ministro svizzero sembravano usciti direttamente dalle cancellerie israeliana e americana. Quindi molto logicamente quando nel 2019 il rapporto interno dell’UNRWA ha messo il capo dell’agenzia sul banco degli imputati, Ignazio Cassis non ha alzato un dito per aiutarlo: al contrario, ha ordinato la sospensione dell’aiuto svizzero all’UNRWA. D’altronde questo rapporto non presentava prove contro il diplomatico svizzero, ma diffondeva solo un certo numero di accuse raccolte all’interno dell’agenzia. Del resto Lex Takkenberg, che aveva firmato questo testo, che come si è visto non ha resistito al vaglio dell’indagine approfondita chiesta in seguito a New York da António Guterres, nel documentario di Xavier Nicol et Anne-Frédérique Widmann riconosce che le accuse che aveva ripreso si basavano soprattutto su conversazioni con una ventina di membri dell’UNRWA che facevano riferimento a “timori” (“concerns”).

Oggi Pierre Krähenbühl ha voltato pagina, non senza amarezza. “Sarebbe il minimo che gli Stati Uniti e la Svizzera prendessero posizione riguardo alla mancanza di fondamento del rapporto (che mi ha accusato) e riconoscessero quello che abbiamo passato,” dice alla fine del documentario sulla vicenda. Il pesante silenzio delle autorità svizzere e dell’ONU, che hanno rifiutato di parlare ai giornalisti svizzeri e che non volevano rendere pubbliche le conclusioni dell’inchiesta dell’ONU favorevole a Pierre Krähenbühl, non testimoniano in ogni caso a loro favore.

Quanto all’UNRWA, ora diretta da un altro svizzero, Philippe Lazzarini, continua più che mai a dibattersi in inestricabili problemi di bilancio, come dimostrano la sua impossibilità di pagare i salari del mese di novembre 2020 ai suoi dipendenti e i suoi dubbi riguardo a dicembre. L’arrivo di Joe Biden al governo a Washington il 20 gennaio 2021 porterà a una revisione della posizione americana riguardo all’agenzia umanitaria? La risposta, importante per la sua sopravvivenza, arriverà forse molto presto.

Baudouin Loos

Giornalista, Bruxelles.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




La malnutrizione affligge Gaza

Isra Saleh el-Namey 

27 agosto 2020 – Electronic Intifada 

Muhammad Abu Amra ha il diabete e non può permettersi le cure: avrebbe bisogno di due iniezioni di insulina al giorno, ognuna a circa 6 euro. Il suo debito con due farmacie cresce in continuazione.

Muhammad vive con la famiglia a Deir al-Balah, cittadina situata nel centro della Striscia di Gaza. La casa è in pessime condizioni, con buchi nei muri e sul soffitto.

Durante l’estate il caldo è stato insopportabile, i suoi cinque bambini hanno subito molte punture di zanzare. Mi sento impotente e senza speranza,” dice Muhammad, 33 anni. “Ho sempre più responsabilità, ma a causa della mia salute, non riesco a occuparmene. E la situazione economica della mia famiglia è molto grave.”

Muhammad, disoccupato, e la moglie Mansoura hanno pochi soldi per comprare da mangiare.

Alle volte devo prendere cose essenziali, pannolini, fazzolettini, sale e zucchero e lo devo fare a credito,” dice Mansoura a cui è stato proibito l’ingresso in un supermercato fino a quando non salderà il suo debito di circa 170 euro.

La maggior parte dei pasti che preparo per i bambini si basa sulle verdure più economiche che riesco a trovare, patate e melanzane,” aggiunge Mansoura.

Mangiamo carne rossa o pollo solo ogni sei mesi. I nostri bambini non bevono latte, sono veramente preoccupata che, a lungo andare, ciò danneggerà la loro salute.”

Ogni tre o quattro mesi la famiglia Abu Amra riceve un pacco con farina, riso e olio per cucinare dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che fornisce aiuto ai rifugiati palestinesi.

Secondo Mansoura il contenuto del pacco dura a malapena un mese

La varietà scarseggia

A Gaza la malnutrizione è un problema serio denunciato da uno studio recente dell’agenzia del Programma alimentare mondiale che ha rilevato che l’86% dei bambini con meno di 5 anni che vive vicino al confine fra Gaza e Israele non ha una dieta minimamente accettabile.

A Gaza, secondo il Programma alimentare mondiale, il 28% delle donne durante l’allattamento ha dei livelli troppo bassi di ferro nel sangue.

In una loro precedente relazione e anche secondo altri gruppi che forniscono aiuti si è rilevato che gli abitanti hanno reagito alla difficile situazione economica riducendo la varietà del cibo.

Secondo le Nazioni Unite più del 68% dei due milioni di abitanti soffre di insicurezza alimentare, definita come la condizione di non avere accesso o non avere i soldi per comprare il cibo necessario per condurre una vita sana ed attiva.

La malnutrizione è stata una delle conseguenze del rigido blocco imposto da Israele. Attivisti per i diritti umani hanno documentato che nel 2008 Israele ha elaborato un piano con lo scopo di ridurre la quantità di cibo disponibile a Gaza.

Aziza al-Kahlout, la portavoce del ministero per gli affari sociali a Gaza, ha detto che negli ultimi mesi i problemi sono peggiorati. Le restrizioni imposte a causa della pandemia hanno portato a un aumento della disoccupazione.

Molti hanno perso la loro fonte di reddito, gli autisti che non hanno più passeggeri, gli operai delle fabbriche e di altre attività che sono state chiuse” dice al-Kahlout. “Tutti questi e le loro famiglie hanno urgentemente bisogno di aiuti in questi momenti difficili.”

Poiché le autorità di Gaza hanno problemi finanziari, è necessario un maggiore supporto da parte di donatori internazionali “per impedire alla situazione umanitaria di peggiorare,” conclude al-Kahlout.

Secondo la Federazione Generale Sindacale palestinese almeno 50 fabbriche hanno chiuso e si sono persi circa 4000 posti di lavoro.

I poveri diventano sempre più poveri

Mahmoud al-Lili ha una bancarella di snack nel campo profughi di Maghazi e prima della pandemia guadagnava un po’ più di 4 € al giorno.

Adesso il ventiseienne talvolta non guadagna nemmeno un euro: le attività sono crollate dall’inizio dell’anno, quando le autorità hanno imposto le restrizioni.

Vivo in una piccola casa con genitori, sorelle e fratello sposato,” dice al-Lili. “Faccio del mio meglio per guadagnare qualche soldo così qualche volta c’è qualcosa per la cena. Siamo una famiglia povera, ma la crisi ci ha resi ancora più poveri.”

Samir al-Sayid, 56 anni, ha vari problemi di salute, inclusa la pressione alta. La sua famiglia di 9 persone vive in una casa di due stanze nel campo profughi di Bureij.

Non lavoro e non posso occuparmi della mia famiglia,” dice Samir. “Per vivere facciamo affidamento principalmente sugli aiuti umanitari.”

I pacchi dell’UNRWA sono essenziali per la sua famiglia.

Quando ne riceviamo uno, pianifico attentamente su come sfruttarlo al meglio e farlo durare il più possibile,” dice Siham, la moglie di Samir. “Non posso comprare gli ingredienti per preparare la maggior parte dei piatti che i nostri bambini vorrebbero. Cucinare per la mia famiglia è un constante incubo.”

Isra Saleh el-Namey è una giornalista di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il piano di annessione di Israele è la riproposizione della Nakba

David Hearst

15 maggio 2020 – Middle East Eye

Nella sua visione attuale Israele conosce un solo percorso: intensificare il suo dominio su un popolo a cui ha rubato e continua a rubare la terra

Gli anniversari commemorano eventi passati. E sarebbe lecito pensare che un evento accaduto 72 anni fa faccia parte davvero nel passato.

Questo è vero per la maggior parte degli anniversari, tranne che nel caso della Nakba, il “disastro, catastrofe o cataclisma” che segna la ripartizione del Protettorato della Palestina del 1948 e la creazione di Israele.

La Nakba non è un evento passato. Da allora, la spoliazione di terre, case e la creazione di rifugiati è proseguita quasi senza sosta. Non è qualcosa che è successo ai nostri nonni.

Succede o potrebbe succedere a noi in qualsiasi momento della nostra vita.

Un disastro ricorrente

Per i palestinesi la Nakba è un disastro ricorrente. Nel 1948 almeno 750.000 palestinesi furono sfollati dalle loro case. Un numero ulteriore, da 280.000 a 325.000, abbandonarono nel 1967 le loro abitazioni situate nei territori conquistati da Israele.

Da allora, Israele ha escogitato mezzi più sottili per spingere i palestinesi fuori dalle loro case. Uno di questi strumenti è la revoca della residenza. Tra l’inizio dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967 e la fine del 2016, Israele ha revocato, nella Gerusalemme est occupata, lo status di almeno 14.595 palestinesi.

Altri 140.000 abitanti di Gerusalemme est sono stati “tacitamente trasferiti” dalla città nel 2002, con la costruzione del muro di separazione, attraverso il blocco dell’accesso al resto della città. Quasi 300.000 palestinesi di Gerusalemme est possiedono una residenza permanente rilasciata dal ministero degli interni israeliano.

Due aree sono state tagliate fuori dalla città, sebbene si trovino all’interno dei suoi confini municipali: Kafr ‘Aqab a nord e Shu’fat Refugee Camp a nord-est.

I residenti dei quartieri in queste aree pagano le tasse municipali e di altro genere, ma né le istituzioni comunali di Gerusalemme né quelle governative si occupano di questo territorio o lo considerano sottoposto alla loro responsabilità.

Di conseguenza, queste parti di Gerusalemme est sono diventate terra di nessuno: la città non fornisce servizi comunali di base come la rimozione dei rifiuti, la manutenzione delle strade e l’istruzione, e mancano le aule e le strutture per gli asilo nido.

Gli impianti idrici e fognari non soddisfano i bisogni della popolazione, tuttavia le autorità non fanno nulla per ripararli. Per raggiungere il resto della città, i residenti devono quotidianamente passare sotto le forche caudine dei posti di blocco.

Un altro strumento di esproprio è l’applicazione della Legge sulla Proprietà degli Assenti, che, quando venne approvata, nel 1950, fu concepita come fondamento per poter trasferire le proprietà dei palestinesi allo Stato di Israele.

Il ricorso ad essa a Gerusalemme est venne generalmente evitato fino alla costruzione del muro. Sei anni dopo, fu usata per espropriare il “territorio abbandonato” dai residenti palestinesi di Beit Sahour per la costruzione di 1.000 unità abitative ad Har Homa, a Gerusalemme sud. Ma generalmente il suo scopo è quello di fornire uno stratagemma per un”espropriazione strisciante”.

Una Nakba in tempo reale

Il fulcro della campagna elettorale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il fine giuridico essenziale dell’attuale coalizione di governo israeliana costituirebbero un altro capitolo, nel 2020, dell’ espropriazione nei confronti dei palestinesi. Tali sono i piani per annettere un terzo – o peggio due terzi – della Cisgiordania.

Tre scenari sono attualmente in discussione: il piano radicale dell’annessione della Valle del Giordano e di tutto ciò che gli Accordi di Oslo definiscono Area C. Questa costituisce circa il 61 % del territorio della Cisgiordania che è amministrato direttamente da Israele e ospita 300.000 palestinesi.

Il secondo scenario è rappresentato dall’annessione della sola Valle del Giordano. Secondo i sondaggi israeliani e palestinesi condotti nel 2017 e nel 2018, c’erano 8.100 coloni e 53.000 palestinesi che vivevano in questa terra. Israele ha diviso questo territorio in due entità: la valle del Giordano e il Consiglio Regionale di Megillot-Mar Morto.

Il terzo scenario consiste nell’annessione delle colonie intorno a Gerusalemme, la cosiddetta area E1, che comprende Gush Etsion e Maale Adumin [insediamenti coloniali israeliani situati rispettivamente a Sud e a Est di Gerusalemme, ndtr.]. In entrambi i casi i palestinesi che vivono nei villaggi vicini a questi insediamenti sono minacciati di espulsione o trasferimento. Ci sono 2.600 palestinesi che vivono nel villaggio di Walaja e in parti di Beit Jala che sarebbero coinvolti nell’annessione di Gush Etsion, nonché 2.000-3.000 beduini che vivono in 11 comunità intorno a Maale Adumin, come Khan al-Ahmar.

Cosa succederebbe ai palestinesi che vivono nei territori annessi da Israele?

In teoria potrebbe venire loro offerta la residenza, come nel caso dell’annessione di Gerusalemme est. In pratica, la residenza sarebbe offerta solo a pochi eletti. Israele non vorrà risolvere un problema creandone un altro.

La maggior parte della popolazione palestinese delle aree annesse sarebbe trasferita nella grande città più vicina, come è accaduto per i beduini del Negev e gli abitanti di Gerusalemme est, che si ritrovano in aree isolate dal resto della città.

Il monito dei generali

Questi piani hanno generato reazioni di allarme nei responsabili della sicurezza di Israele, che sono abituati ad essere ascoltati, ma che ora esercitano una minore influenza rispetto al passato sui processi decisionali.

Ciò non è dovuto al fatto che gli ex generali abbiano alcuna obiezione morale riguardo l’espropriazione delle terre palestinesi o perché ritengano che i palestinesi abbiano un diritto legale ad esse. No, le loro obiezioni si basano sull’eventualità che l’annessione possa mettere in pericolo la sicurezza di Israele.

Un interessante riassunto del loro pensiero è fornito da un documento accessibile pubblicato anonimamente dall’Institute for Policy and Strategy (IPS) di Herzliya [Centro di studi internazionale e interdisciplinare privato situato nel distretto di Tel Aviv, ndtr.]. Essi affermano che l’annessione destabilizzerebbe il confine orientale di Israele, che è “caratterizzato da grande stabilità e da un grado molto basso di attività terroristiche” e che provocherebbe una “scossa profonda” alle relazioni di Israele con la Giordania.

“Per il regime hascemita, l’annessione è sinonimo dell’idea di una patria alternativa per i palestinesi, vale a dire la distruzione del regno hascemita a favore di uno stato palestinese.

“Per la Giordania – afferma il documento dell’ IPS – una tale mossa costituirebbe una violazione materiale dell’accordo di pace tra i due paesi. In queste circostanze, la Giordania potrebbe violare l’accordo di pace. Accanto a ciò, potrebbe esserci una minaccia strategica alla sua stabilità interna, a causa di possibili inquietudini tra i palestinesi, in combinazione con le gravi difficoltà economiche che la Giordania sta affrontando “

Ciò costituirebbe per la Giordania solo il primo dei problemi legati all’annessione. Anche un’opzione minimalista di annettere la E1 – l’area adiacente a Gerusalemme – separerebbe Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania, mettendo a rischio la custodia da parte della Giordania dei siti sacri islamici e cristiani di Gerusalemme.

L’annessione, sostiene l’IPS, porterebbe anche alla “graduale disintegrazione” dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ancora una volta, non c’è nessuno spirito di bontà qui. Ciò che preoccupa gli analisti israeliani è l’onere che graverebbe sull’esercito. “L’efficacia della cooperazione con Israele in materia di sicurezza si deteriorerà e si indebolirà, e chi la sostituirà? l’IDF [forze di difesa israeliane, ndtr]! Costringendo ingenti forze ad occuparsi del contrasto delle rivolte e delle violazioni dell’ordine e del mantenimento del sistema organizzativo sui palestinesi”.

I responsabili della sicurezza continuano affermando che l’annessione potrebbe innescare un’altra intifada e rafforzare l’idea di una soluzione di un solo Stato “che sta già acquisendo una presa crescente nella comunità palestinese”.

Il fattore saudita

Nell’ambito più esteso del mondo arabo, il documento rileva che Israele perderebbe molte delle alleanze che ritiene di aver realizzato in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e in Oman e, sul piano internazionale, determinerebbe uno sviluppo della campagna sul Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.

Il ruolo dell’Arabia Saudita nel domare le fiamme della reazione araba al piano di annessione di Netanyahu è stato recentemente menzionato specificamente negli ambienti della sicurezza israeliani. Il sostegno saudita a qualsiasi forma di annessione è stato ritenuto cruciale.

Come al solito, il regime del principe ereditario Mohammed bin Salman ha cercato di attenuare l’ostilità saudita nei confronti di Israele attraverso i media e in particolare le serie televisive. Una serie dal titolo Exit 7 prodotta dalla MBC TV dell’Arabia Saudita recentemente conteneva una scena con due attori che discutevano del processo di normalizzazione con Israele.

“L’Arabia Saudita – afferma uno dei personaggi – non ha ottenuto nulla quando sosteneva i palestinesi e ora deve stabilire relazioni con Israele … Il vero nemico è colui che ti maledice, rinnega i tuoi sacrifici e il tuo sostegno e ti maledice giorno e notte più degli israeliani”.

La scena ha provocato una reazione sui social media e infine una piena dichiarazione di sostegno alla causa palestinese da parte del ministro degli Esteri degli Emirati.

Il tentativo ha dimostrato i limiti del controllo sulle menti da parte dello Stato saudita, che sarà ulteriormente indebolito dal calo del prezzo del petrolio e dall’avvento dell’austerità nel mondo arabo.

Il futuro re saudita non sarà più in grado di risolvere i suoi problemi.

Il Comitato

Vale la pena ripetere ancora una volta che il motivo alla base dell’elenco degli effetti destabilizzanti dell’annessione non è una qualche inquietudine inerente alla perdita della proprietà o dei diritti. La preoccupazione centrale dei responsabili della sicurezza deriva dalla possibilità che le frontiere esistenti di Israele possano essere messe in pericolo a causa della voglia di strafare.

Per ragioni analoghe, un certo numero di giornalisti israeliani ha previsto che l’annessione non avverrà mai.

Potrebbero avere ragione. Il pragmatismo potrebbe avere la meglio. Oppure potrebbero sottovalutare la parte che svolgono nei calcoli di Netanyahu il fondamentalismo religioso nazionalista, David Friedman, ambasciatore degli Stati Uniti e il miliardario statunitense Sheldon Adelson, i tre architetti dell’attuale politica.

Mentre il ruolo degli Stati Uniti come “l’onesto mediatore” nel conflitto è stato a lungo messo in scena come una finzione, questa è la prima volta che io ricordi che un ambasciatore USA e un importante finanziatore americano fanno sì che i coloni siano più zelanti dello stesso primo ministro del Likud.

Friedman è presidente del comitato congiunto USA-Israele sull’annessione delle colonie, che dovrebbe determinare i confini di Israele dopo l’annessione. Questo comitato è insignificante sul piano internazionale, poiché non rappresenta nessun’altra parte in conflitto, senza poi parlare dei palestinesi, i cui leader hanno boicottato il processo.

Due fonti separate del comitato congiunto hanno dichiarato a Middle East Eye che esso si sta orientando verso l’espansione, una volta per tutte, di Israele in Cisgiordania, e non in modo graduale. Una fonte ha detto che riguarderà l’intera area C – in altre parole l’opzione radicale.

Ancora una volta potrebbero sbagliarsi. Entrambi sostengono che l’annessione perseguita seguirà i tratti dell’ “Accordo del Secolo” di Donald Trump, che riduce l’attuale 22 % della Palestina storica a un gruppo di bantustan sparsi per il Grande Israele.

Il culmine

La Nakba, che oggi compie 72 anni, continua a vivere e a respirare veleno. La Nakba non riguarda solo i rifugiati originari ma i loro discendenti – oggi circa cinque milioni di loro sono idonei a ricevere i servizi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi (UNWRA).

La decisione di Trump di interrompere il finanziamento dell’UNWRA e l’insistenza di Israele sul fatto che solo i sopravvissuti originari del 1948 dovrebbero essere riconosciuti [rifugiati palestinesi, ndtr.], hanno scatenato una campagna internazionale con cui i palestinesi sottoscrivono una dichiarazione in cui rifiutano di rinunciare al loro diritto al ritorno.

La dichiarazione afferma: “Il mio diritto al ritorno in patria è un diritto inalienabile, individuale e collettivo, garantito dalle leggi internazionali. I rifugiati palestinesi non cederanno mai ai progetti su “una patria alternativa”. Qualsiasi iniziativa che colpisca le basi intrinseche del diritto al ritorno e lo annulli è illegittima e inefficace e non mi rappresenta in alcun modo”.

Significativamente è stata diffusa dalla Giordania, un altro segno che gli animi si stanno lì accendendo.

La valutazione da parte della sicurezza israeliana, secondo cui la soluzione dei due stati è morta nelle menti della maggioranza dei palestinesi, è sicuramente corretta. La maggior parte dei palestinesi vede l’annessione come il culmine del progetto sionista per stabilire uno stato a maggioranza ebraica e la conferma della loro convinzione che l’unico modo in cui questo conflitto finirà è nella sua dissoluzione.

Ma per lo stesso motivo, i piani di annessione in discussione dovrebbero costituire una prova per la comunità internazionale, se ne fosse necessaria una, che Israele, tanto lontano dall’essere un Paese che viva nella paura e sotto attacco permanente da parte di oppositori irrazionali e violenti, sia uno Stato che non può condividere il territorio con i palestinesi, e tanto meno tollerare l’autodeterminazione dei palestinesi in uno Stato indipendente.

Nella sua attuale visione, Israele conosce un solo percorso: approfondire il suo dominio su un popolo del quale ha rubato e continua a rubare la terra.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Ha lasciato The Guardian come capo redattore esteri. Nel corso di 29 anni di carriera ha scritto sulla bomba di Brighton [attentato dell’IRA contro la Thatcher il 12 ottobre 1984 con l’uccisione di 5 membri del Partito Conservatore, ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sul contraccolpo lealista sulla scia dell’accordo anglo-irlandese nell’Irlanda del Nord, sui primi conflitti, dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, in Slovenia e Croazia, sul crollo dell’Unione Sovietica, sulla Cecenia, e sui conseguenti molteplici conflitti. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dall’Europa per la sezione europea del Guardian, poi è entrato a far parte dell’ufficio di Mosca nel 1992, prima di diventare direttore di redazione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per entrare nell’ufficio esteri, è diventato direttore per l’Europa e quindi direttore associato per gli esteri. E’ passato a The Guardian da The Scotsman, dove ha lavorato come corrispondente per il settore istruzione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un suicidio a Gaza

Sarah Helm

26 aprile 2020Chronique de Palestine

La morte di un giovane e talentuoso scrittore palestinese ha messo in luce un forte aumento del numero di suicidi.

**

Nota redazionale : questo articolo è stato scritto nel maggio 2018, quindi quasi due anni fa. Riteniamo comunque interessante proporlo ai lettori in quanto rappresenta una intensa descrizione della situazione drammatica vissuta a Gaza, in particolare dai giovani, e dei problemi anche di carattere psichiatrico derivante dall’assedio israeliano, a cui negli ultimi tempi si è aggiunto il problema della pandemia da coronavirus, di cui naturalmente questo articolo non parla.

Una notte d’agosto 2017 Mohammed Younis, uno studente di 22 anni, quando è tornato a casa in un quartiere relativamente benestante di Gaza era agitato. Era depresso, ricorda sua madre, Asma. Ma non si è troppo preoccupata quando lui si è chiuso nella sua stanza.

Scrittore talentuoso i cui racconti, per molto tempo pubblicati sulla sua pagina Facebook, avevano conquistato un ampio pubblico, Mohammed stava per conseguire la laurea in farmacia e si era garantito un voto eccellente. Nei suoi scritti esprimeva il dolore e la disperazione della sua generazione. Solo i libri gli permettevano di evadere. Spesso si isolava per leggere e scrivere o per fare esercizio con il sacco da boxe.

La mattina seguente Mohammed non si è svegliato. Quando Asma, con l’aiuto di suo fratello Assad, ha forzato la porta della stanza, lo ha trovato morto. Si era soffocato.

La popolarità di Mohammed sulle reti sociali era tale che l’annuncio della sua morte ha suscitato un’ondata di choc, tristezza e ammirazione, a Gaza e al di fuori. “Era un combattente che aveva come armi solo le sue storie tristi”, si poteva leggere tra i numerosi commenti postati su Facebook. Ma questo cordoglio pubblico seguito alla morte di un giovane scrittore di talento segnalava che il suicidio di Mohammed non era che una tragedia in più in un territorio in cui migliaia di giovani abbreviano la propria esistenza. Era ormai impossibile negare una realtà sulla bocca di molti: la sofferenza provocata dall’assedio e la disperazione riguardo al futuro, soprattutto tra i giovani talenti gazawi, comportano una preoccupante recrudescenza dei suicidi.

I terribili eventi che si sono verificati la scorsa settimana nella zona cuscinetto di Gaza hanno attirato l’attenzione di tutto il mondo sulle sofferenze e la disperazione dei palestinesi di Gaza, quando decine di migliaia di persone hanno rischiato la vita per protestare contro il loro imprigionamento dietro le barriere e i muri di Gaza. Dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno, una serie di manifestazioni che sono cominciate a fine marzo 2018, sono state uccise più di 100 persone, soprattutto per mano dei cecchini israeliani schierati dietro la barriera di recinzione.

Spesso si sarebbe detto che questi manifestanti si lanciassero letteralmente contro i proiettili israeliani. All’inizio delle proteste ho discusso della zona cuscinetto con dei ragazzi che hanno confidato che non gli importava di morire. “Noi moriamo a Gaza comunque. Possiamo ugualmente essere uccisi dai proiettili”, ha affermato un adolescente accanto alla frontiera vicino alla città di Khan Younis. Era con degli amici che la pensavano allo stesso modo; uno di loro era già stato colpito ad una gamba ed era in sedia a rotelle.

Se le cineprese di tutto il mondo si avventurassero un po’ più dentro a Gaza, nelle strade e dietro le porte delle case, vedrebbero la disperazione in quasi tutte le famiglie. Dopo dieci anni di assedio, i due milioni di abitanti di Gaza che vivono ammassati in una minuscola striscia di terra si ritrovano senza lavoro, con un’economia distrutta, privati del minimo indispensabile per vivere decentemente – elettricità o acqua corrente – e senza alcuna speranza di libertà né alcun indizio che la loro situazione possa cambiare. L’assedio spezza gli animi, spingendo i più vulnerabili al suicidio, in proporzioni mai viste prima.

Fino a poco tempo fa i suicidi erano rari, in parte a causa della resilienza dei palestinesi, acquisita nel corso di 70 anni di conflitto, e anche per via di sistemi di clan solidi, ma soprattutto perché darsi la morte è proibito nelle società musulmane tradizionali. È solo quando il suicidio diventa un atto di jihad [guerra santa, anche in senso spirituale, ndtr.] che i morti vengono considerati martiri destinati al paradiso, mentre gli altri vanno all’inferno.

In quasi 30 anni di reportage da Gaza, prima del 2016 non ho quasi mai sentito parlare di suicidi. All’inizio di quell’anno, nove anni dopo l’inizio dell’assedio, una chirurga ortopedica inglese che lavorava come volontaria all’ospedale al-Shifa di Gaza mi ha informato che lei e i suoi colleghi stavano constatando un certo numero di ferite inspiegabili, provocate secondo loro da cadute o da salti da edifici alti.

Alla fine del 2016 i suicidi erano diventati così frequenti che il fenomeno ha cominciato ad essere di dominio pubblico. I dati forniti dai giornalisti locali lasciano intendere che il numero dei suicidi nel 2016 è stato almeno tre volte superiore a quello del 2015. Ma secondo gli esperti sanitari di Gaza, se i numeri riportati dai media indicano senz’altro un sostanziale aumento, essi sottostimano ampiamente il tasso reale. I suicidi sono “mascherati” da cadute o altri incidenti e le false dichiarazioni e la censura sono moneta corrente, a causa della stigmatizzazione del suicidio.

Comunque dal 2016 Gaza ha anche conosciuto un’ondata di atti di immolazione durante i quali degli uomini si sono dati fuoco in pubblico.

Non assistevamo a questo genere di eventi catastrofici da dieci anni”, afferma il dottor Youssef Awadallah, psichiatra a Rafah, città situata al confine tra Gaza e l’Egitto. I professionisti della salute mentale e i parenti dei defunti accusano gli effetti dell’assedio che, secondo loro, è molto più dannoso per il benessere – mentale e fisico – della popolazione delle continue guerre. I medici di Gaza avvertono che il prolungato assedio del territorio ha provocato un’“epidemia” di problemi mentali di cui il crescente numero di suicidi non è che un aspetto – in particolare si riferiscono all’aumento dei casi di schizofrenia, di sindrome da stress post-traumatico, di tossicodipendenza e di depressione. Per la prima volta l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha cominciato a verificare eventuali tendenze suicidarie in tutti i pazienti sottoposti a cure sanitarie primarie, in seguito a ciò che viene descritto come “un aumento senza precedenti” di decessi.

Uomini e donne di tutte le età e di tutti gli strati sociali sono vulnerabili alle pulsioni suicide, affermano alcuni medici di Gaza. In uno stesso giorno di marzo, una ragazzina di15 anni e un ragazzo di 16 si sono impiccati. Tra le vittime ci sono uomini disperati perché non possono sopperire alle necessità della famiglia, donne e bambini vittime di maltrattamenti, spesso in situazioni di povertà estrema e di sovraffollamento ed anche donne incinte che affermano di non voler mettere al mondo figli a Gaza. In aprile una donna incinta di sette mesi si è tagliata le vene.

Tra i maggiormente vulnerabili si trovano gli studenti più brillanti di Gaza, alcuni dei quali si sono suicidati appena prima o poco dopo aver conseguito il diploma. In marzo, mentre intervistavo a casa sua un uomo d’affari fallito, ho visto la fotografia di un uomo dall’aspetto intelligente, con gli occhiali, messa ben in evidenza – al punto che ho creduto che si trattasse di un “martire” ucciso durante un conflitto. Ma il suo ritratto non presentava nessuna delle iconografie simili ai poster dei martiri che si possono vedere dovunque a Gaza. Avevo un interprete con me e lui ha riconosciuto la foto: il figlio dell’uomo d’affari era uno dei suoi amici più brillanti all’università. “Si è impiccato, ha confidato l’uomo d’affari. Non vedeva futuro a Gaza.”

Qualche mese prima delle impressionanti scene di massacri che hanno accompagnato la Grande Marcia del Ritorno, la storia di Mohmmed Younis aveva particolarmente catturato l’attenzione. Non solo perché la sua scrittura, con le sue rappresentazioni creative della vita a metà dei gazawi, suscitava ammirazione, ma anche perché dopo la sua morte alcuni hanno iniziato a descriverlo come un martire. “È più che un martire”, ha affermato sua madre.

Secondo alcuni suoi amici ha combattuto il nemico con la penna ed è morto in quanto vittima dell’assedio. Alla sua morte, Mohammed è stato anche affettuosamente onorato per il suo coraggio ed i suoi scritti da parte di molti suoi fan sulle reti sociali e anche dal Ministro della Cultura palestinese Ehab Bseiso in un elogio funebre. Membro dell’Autorità Nazionale Palestinese laica al potere in Cisgiordania, Bseiso è parso lasciar intendere di considerare Mohammed come un martire, affermando che non aveva “bisogno di scusarsi per la sua precoce dipartita”. Le sue storie non saranno mai dimenticate, ha aggiunto: “Tu resterai uno dei giganti del nostro tempo, Mohammed.”

Ma questa discussione sul “martirio” di Mohammed ha diffuso la paura a Gaza, soprattutto tra i genitori che temono che i loro figli facciano lo stesso, se pensano di poter evitare l’inferno. “Vediamo i nostri figli a scuola e all’università impegnarsi duramente ed essere impazienti di entrare nel mondo, trovare un lavoro ed essere normali – poi più niente”, mi ha confidato il padre di due laureati. “Se il suicidio deve essere considerato una morte “nobile”, altri potrebbero intraprendere questa strada. È molto pericoloso.”

Forse lo stesso Mohammed si è chiesto se potesse essere considerato un martire. In “Il martire sconosciuto”, un racconto pubblicato postumo in una raccolta intitolata “Foglie d’Autunno”, parla di un corpo non identificato portato all’ospedale al-Shifa, dove delle famiglie cercano di identificarlo. “Mi riconosceranno?” si chiede il narratore.

Uno dei luoghi di lettura preferiti da Mohammed era il caffè del giardino dell’hotel Mama House, in un angolo tranquillo del quartiere alberato di Remal a Gaza. Mama House è da tempo uno degli hotel preferiti dai visitatori stranieri che spesso regalano dei libri alla sua biblioteca – un’altra attrattiva per Mohammed che, con l’assedio di Gaza, faticava a trovare libri per soddisfare la sua sete di lettura.

Quando studiava all’università al-Azhar che si trova nei pressi, si poteva scorgere Mohammed con il suo fisico alto e magro tra la folla di studenti che si riversavano nelle strade di Gaza dopo i corsi. Evitando le automobili, i cavalli e i carri, si allontanava dalla folla – a volte per andare nella farmacia dove lavorava a tempo parziale, o in un bar, spesso quello del Mama House. Ordinando un caffè, si sedeva in un angolo tranquillo, si accendeva una sigaretta, ricaricava il suo cellulare e cominciava a scrivere delle storie.

Con due ore di elettricità al giorno, collegare un apparecchio [alla rete elettrica] è un lusso a Gaza. Però Mama House dispone di un generatore, come la maggior parte dei luoghi che hanno una clientela di professionisti. Medici, giornalisti e insegnanti ci vanno per socializzare, fare un tiro di narghilè o guardare il Barcellona sul grande schermo.

Pochi studenti avevano i mezzi per poter andare al Mama House; figlio unico, Mohammed era “viziato” da sua madre, gli dicevano gli amici per prenderlo in giro. Ma i suoi amici, i suoi professori e i clienti della farmacia avevano tutti di lui l’immagine di “un bravo ragazzo, un ragazzo gentile” e di “un ragazzo triste”.

Alcuni hanno anche visto le cicatrici sui suoi polsi, segni di precedenti tentativi di suicidio. Le sue storie indicavano che era come tutti gli altri ragazzi di Gaza, in quanto descriveva i loro sentimenti con tanta eloquenza. In una di queste ha scritto: “Quando si vive in una casa che si ama e che non si lascia, non ci sono problemi, ma se si è rinchiusi in casa contro la propria volontà, ci si sente paralizzati e disperati.”

Ha scritto della propria tristezza. I suoi genitori hanno divorziato quando era un bambino e Mohammed si è sentito rifiutato dal padre. I suoi lettori potevano ben comprendere questo dolore, perché tutte le famiglie di Gaza sono spezzate: per la maggior parte hanno avuto dei membri uccisi nel conflitto e molte sono state separate da anni di esilio o smembrate dal carcere. Migliaia di palestinesi sono oggi rinchiusi nelle prigioni israeliane.

Gran parte dei lettori era femminile: le donne erano attratte dalla sua malinconia particolare. “Poteva scrivere dell’assurdità della vita di tutti noi – l’umiliazione come la tragedia. Sapeva che questo posto era sbagliato”, ha detto una ragazza che conosco, che è fuggita in Egitto attraverso i tunnel per ottenere una borsa di studio americana. “È normale”, ha detto ridendo.

È così”, lamenta Mustafa alAssar, un gazawi di 17 anni che vuole studiare diritto internazionale, cosa impossibile perché non ci sono corsi di questo tipo a Gaza e lui non può andarsene. “Ci si rende improvvisamente conto che non si può essere la persona che si vorrebbe, a Gaza. E non si può far vedere chi si è a nessuno fuori, perché non si può uscire. Dunque non si può essere la persona che si vuole essere.”

Mohammed non era arrabbiato: piuttosto, era caduto nel comune stato di disperazione. Non avrebbe mai lanciato pietre, non più della maggior parte dei suoi coetanei. “Perché farlo? Per farsi sparare addosso? A chi importerebbe?”, si chiederebbero.

L’eroe di Mohammed era Bassel al-Araj, un leader del movimento della gioventù in Cisgiordania, che promuoveva la protesta pacifica, portava in visita i suoi compagni in luoghi simbolici della resistenza palestinese e parlava loro della storia della resistenza. Come Mohammed, al-Araj era scrittore e farmacista. “Andava pazzo per al-Araj”, mi ha detto un amico di Mohammed.

Prima di tornare a casa, Mohammed andava a vedere i nuovi doni fatti alla biblioteca di Mama House, sfogliando ‘Una lunga strada verso la libertà’ di Nelson Mandela, o un volume usurato di Agatha Christie.

In mezzo ai titoli di romanzi polizieschi c’erano alcune opere meno letterarie: copie polverose di rapporti dell’ONU su Gaza. Se Mohammed ne avesse preso uno, avrebbe trovato un’analisi del 2002 su un’ondata di attentati suicidi con le bombe avvenuti nei mesi più sanguinosi della seconda Intifada. Secondo Eyd Sarraj, un carismatico psichiatra di Gaza che nel 1990 ha fondato il programma comunitario di salute mentale di Gaza, gli attentati suicidi proliferavano per via della sensazione che la disperazione non smetteva di peggiorare, il che produceva “una situazione di sofferenza in cui la vita non è diversa dalla morte.”

Da bambino adorava ascoltare delle storie”, racconta Asma, la madre di Mohammed, seduta nel salotto della casa di famiglia. Tra le case in fondo alla strada si poteva scorgere appena un lembo di mare a forma di triangolo. I suoi nonni gli raccontavano le storie più belle su Jura, un vecchio e prospero villaggio di pescatori dove la famiglia aveva vissuto per secoli.

Durante la guerra arabo-israeliana del 1948 che ha portato alla creazione dello Stato di Israele, la famiglia di Mohammed, come più di 750.000 altri palestinesi, è stata cacciata dalla sua casa e non è mai stata autorizzata a tornare. Il villaggio di Jura, da tempo distrutto da Israele, si trova oggi sotto l’enorme porto di Ashkelon, che si può vedere dalla spiaggia sottostante la casa di Mohammed.

Io gli parlavo dei nostri aranceti, della nostra festa, di quando io correvo e nuotavo tra le onde”, racconta Modalala, la nonna di 88 anni, che indossa un foulard giallo vivo. Asma è seduta accanto a lei, vestita di nero. Il nonno di Mohammed gli parlava del proprio padre, che è cresciuto quando la Palestina faceva ancora parte dell’impero ottomano – gli ha raccontato che era molto colto, lavorava alla corte del sultano e viaggiava all’estero. “Ha detto a Mohammed che voleva tornare al suo villaggio prima di morire, ma è morto a Gaza e questo ha molto rattristato Mohammed.” In seguito Mohammed ha scritto di Jura e di “un ragazzo dai capelli d’oro che faceva dei salti per arrivare alla finestra e vedere il mare.”

Penso che il fatto di ascoltare delle storie e più tardi scriverle fosse il suo modo di sopportare la tristezza”, afferma sua madre. Suo zio Assad, che ha contribuito alla sua educazione, aggiunge che era altrettanto bravo in matematica: “Gli piaceva risolvere i problemi. Ha sempre voluto fare le cose da sé, sperimentare.”

Nei primi anni della vita di Mohammed la Palestina viveva una grande esperienza. È nato nel 1994, quando si sono visti i primi frutti degli accordi di pace di Oslo. Questi, firmati in pompa magna nel 1993, intendevano porre fine progressivamente all’occupazione da parte di Israele delle terre conquistate nel 1967 – Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est –, sulle quali i palestinesi avrebbero dovuto costruire una specie di Stato.

Ma Oslo non pose rimedio alle ingiustizie del 1948. È uno dei motivi per cui l’accordo non ricevette un’accoglienza unanimemente positiva, soprattutto a Gaza, dove si trova la maggior concentrazione di rifugiati del 1948. Quasi tutti erano agricoltori le cui terre e case furono confiscate da Israele durante la guerra o appena dopo, mentre i loro raccolti e altre proprietà furono depredati. I villaggi arabi furono ripopolati da immigrati ebrei o distrutti. Su due milioni di palestinesi che vivono oggi a Gaza, 1,3 milioni sono rifugiati o discendenti di coloro che fuggirono qui nel 1948, il cui diritto al ritorno è sancito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite.

Nonostante le sue lacune, Oslo offriva qualche speranza di pace. In gran parte per il bene della generazione successiva, l’accordo venne recepito anche a Gaza, dove sui muri apparvero delle colombe al posto dei ritratti dei martiri. Nel 1998 a Rafah, nel sud, dove viveva allora la famiglia di Mohammed, venne aperto un aeroporto con la cupola dorata, una meraviglia agli occhi di un bambino. Ma nel giro di tre anni le cupole vennero sepolte sotto le macerie, distrutte dalle bombe israeliane. Quando Mohammed aveva 5 anni l’esperienza di Oslo si stava sgretolando, perché si era concretizzata una parte minima dei cambiamenti promessi. Questo tradimento alimentò il sostegno all’organizzazione militante islamica di Hamas, rivale del movimento laico di Fatah, che aveva appoggiato Oslo.

Recandosi a piedi a scuola, Mohammed passava davanti ai manifesti di una nuova generazione di “martiri”. Si trattava di kamikaze, molti dei quali erano stati reclutati a Rafah, su ordine del fondatore e ideologo di Hamas Ahmed Yassin, nato a Jura come i nonni di Mohammed. Yassin sosteneva che i kamikaze sarebbero andati in paradiso. Ma quando Israele si vendicò, una gran parte di Rafah venne rasa al suolo.

Quando chiedo alla madre di Mohammed come spiega Gaza ad un bambino, lei risponde che non c’è niente da spiegare: “I bambini lo vedono da soli. I posti di controllo, i bombardamenti, le incursioni nelle case – imparano che è così per tutti noi.”

Nel 2004, quando aveva 10 anni, molti membri della generazione post-Oslo tiravano nuovamente le pietre, come avevano fatto i loro padri. Ma Mohammed preferiva i suoi studi alla strada. Nel 2005, con l’intensificarsi dell’attività militante di Hamas, Israele ritirò il suo esercito e i suoi coloni da Gaza e ridispiegò le sue forze ai confini, dove era in costruzione un muro di separazione perché il nemico fosse più difficile da vedere. C’erano droni in cielo e cannoniere al largo del mare.

Nel 2006, quando le speranze di pace continuavano a indebolirsi, Hamas vinse le elezioni legislative per un autogoverno limitato in Cisgiordania e a Gaza. I suoi avversari di Fatah rifiutarono di riconoscere la vittoria di Hamas, dando luogo ad una guerra civile tra Hamas e Fatah durante la quale vennero uccisi centinaia di palestinesi. Quando Hamas infine prese il potere nel 2007 – mentre Fatah restava al governo in Cisgiordania – Israele definì Gaza “un’ entità terrorista”. Nei mesi seguenti impose un assedio che devastò la già debole economia di Gaza. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea appoggiarono Israele con un boicottaggio politico di Hamas.

Gaza è ormai isolata dal mondo esterno mentre Israele blocca la circolazione delle persone, del carburante e dei viveri – tutto, tranne un minimo aiuto umanitario – attraverso le frontiere. Anche il valico a sud verso l’Egitto a Rafah venne chiuso quando il presidente egiziano Hosni Mubarak, anch’egli desideroso di arginare i radicali islamici, si alleò con Israele. E’ dentro questo soffocamento che Mohammed Younis, ancora adolescente, ha trovato la voce per raccontare al mondo che cosa sia la vita dietro muri di prigione sempre più alti.

Mohammed aveva 13 anni quando iniziò l’assedio. La sua famiglia lasciò Rafah, alla frontiera sud di Gaza, per sistemarsi a Gaza City, che sua madre riteneva più sicura e con maggiori alternative in termini di scelta della scuola per Mohammed, che leggeva e scriveva sempre di più. Il suo talento venne scoperto per la prima volta al Centro Qattan, un’organizzazione benefica per i ragazzi di Gaza, dove vinse il primo premio in un concorso di scrittura.

Molti dei suoi primi racconti evocano un luogo strano e sinistro, che lui nomina raramente, ma che riconosciamo come Gaza. In un racconto intitolato “Geografia” il narratore si descrive come un animale in gabbia, che “perlustra ogni centimetro delle frontiere di Gaza.” A volte compaiono dei fantasmi e lui si chiede se la morte li abbia liberati o se “anche la morte li abbia incatenati.”

Le voci narranti di Mohammed sono consapevoli di essere imprigionate non soltanto dai muri, ma anche dalla sorveglianza. In un racconto, delle spie israeliane con nomi di copertura come ‘Abu Saleh’ convincono adolescenti a tradire persone che verranno poi uccise. “Volete che io denunci mio fratello?”, chiede un ragazzo ad un agente israeliano che lo ha chiamato al telefonino. “Il telefono suona di nuovo, lo schermo non smette di lampeggiare. Viene voglia di gettarlo a terra perché si rompa in mille pezzi, ma non ci si può impedire di raccoglierlo.”

Un’altra voce narrante arriva ad un posto di controllo dove “cadono dal cielo ghigliottine”, un’immagine che evoca le bombe israeliane lanciate durante l’attacco militare del 2008-2009, che uccise 1.400 palestinesi. Fu probabilmente dopo questo attacco che i dirigenti di Hamas nella locale moschea chiesero a Mohammed di partecipare ad un seminario. Hamas ha sempre ottenuto un appoggio popolare grazie alla sua azione di assistenza, venendo in aiuto alle necessità e attraverso programmi sociali, come anche istituendo scuole e seminari.  

Da adolescente Mohammed non era particolarmente religioso, spiega sua madre. Ma credeva in dio e voleva saperne sempre di più su che cosa ciò significhi, sulla vita dopo la morte.” Un ragazzo con uno spirito così vivace e curioso doveva rappresentare una recluta ideale e la sua famiglia era nota ai dirigenti di Hamas. Oltre al suo fondatore, lo sceicco Yassin, anche la famiglia del dirigente politico di Hamas Ismail Haniyeh è originaria di Jura. Secondo un amico, il motivo principale per cui questi militanti volevano che Mohammed si unisse a loro era che lui era “intelligente e curioso”. “Volevano che diventasse uno di loro – uno dei loro eroi, costruttore di armi come Yahia Ayache.” Soprannominato ‘l’ingegnere’, Ayache fabbricava bombe per Hamas e venne assassinato da Israele nel 1996.

Mohammed un giorno tornava con la barba e diceva : ‘Sono di Hamas’, racconta suo zio Assad. Ma un altro giorno diceva: ‘Sono della Jihad islamica’. Stava solo sperimentando. Si faceva le sue idee per conto suo, poi le abbandonava.”

Parecchi abitanti di Gaza che avevano votato Hamas nel 2006 cominciarono presto ad avere dei dubbi. I lanci di razzi degli islamisti contro Israele erano sempre ampiamente approvati a Gaza, come anche la rete di tunnel che avevano costruito sotto il confine sud con l’Egitto e che ha consentito al commercio clandestino di attenuare i peggiori effetti del blocco.

Ciononostante, qualche anno dopo, per molti risultò evidente che gli odiosi attentati suicidi perpetrati durante la seconda Intifada, tra il 2000 e il 2005, avevano pregiudicato la causa palestinese. E sotto Hamas la vita a Gaza tornò rapidamente all’ oscurantismo culturale. Vennero imposti rigidi codici islamici, in particolare la chiusura di teatri e cinema, la privazione delle libertà per le donne conquistate a caro prezzo – l’uso del velo venne reso quasi obbligatorio – ed altre restrizioni sociali repressive. Per alcuni il governo di Hamas iniziò ad apparire come un assedio all’interno di un assedio.

Quando Mohammed si preparava all’università trovò la sua libertà nella lettura e nella scrittura. Imparò l’inglese da solo nella speranza di studiare letteratura inglese, e benché sua madre lo avesse convinto a studiare invece farmacia – essendo migliori le prospettive di lavoro – la letteratura rimase il suo primo amore.

Trovare dei libri era difficile; spesso il modo migliore era farli entrare clandestinamente attraverso i tunnel. “Era molto riservato riguardo ai suoi libri e li conservava nella sua stanza”, racconta Asma, che ci propone di farci vedere la stanza dove Mohammed passava il tempo e che lo ha visto morire.

Non è cambiato nulla dopo la sua morte”, dice Asma aprendo la porta di una cameretta con un letto e una scrivania sulla quale troneggiano trofei di scrittura che aveva vinto. Ci sono dei peluche su una sedia, un guantone da boxe. Asma prende dall’armadio una toga: ha presenziato alla cerimonia di consegna della laurea a Mohammed in vece sua, due mesi dopo la sua morte.

Quando apriamo un armadio a muro ne esce una cascata di libri. Ci sono dei romanzi – Dostoevskij, Dickens – e libri di filosofia – un’introduzione a Wittgenstein, Hegel, ‘La magia della realtà’ di Richard Dawkins. Tra i drammaturghi troviamo Euripide, Eugène Ionesco, Terence Rattigan e Arthur Miller. Si scorge la ‘Storia del sionismo’, posata sopra libri di Che Guevara e Charles Darwin. Per la maggior parte sono delle traduzioni in arabo, altre in inglese. Può darsi che Mohammed abbia letto ogni pagina di questa ampia raccolta, o forse gli piaceva semplicemente possederla, difficile saperlo. Resta comunque il fatto che, seduto tra queste quattro mura in compagnia di George Bernard Shaw, Sofocle e Mahmoud Darwish [il più importante poeta della letteratura palestinese, ndtr.], riusciva ad uscire dai muri di Gaza e a mettersi in contatto con un mondo più vasto.

Quando entra nella stanza sua nonna Modalala cominciamo a guardare i libri sull’altro scaffale, in particolare ‘Umiliati e offesi’ di Dostojevsky. Modalala prende una foto di suo nipote.

Torniamo nel salone illuminato dal sole, di fronte al mare, quando Asma inizia a pregare. Chiedo a Modalala perché secondo lei Mohammed si sia suicidato. “Non ci sono spiegazioni,  risponde. “Gli avevo detto: ‘Presto morirò’. E lui mi aveva risposto: ‘No, non farlo.’ Mi aveva confidato che voleva sposare una ragazza e io sapevo che era innamorato di lei. Quel giorno era gentile e bello. Gli avevo fatto da mangiare io, perché sua mamma stava digiunando. Gli avevo fatto un caffè, uno per me e uno per lui, avevo messo del miele nel suo e glielo avevo portato in camera. Lì si sentiva al sicuro.”

Vista da qui, anche la spiaggia di Gaza sembra un luogo sicuro per fare un picnic o organizzare una festa di matrimonio in un capanno dipinto e adornato con colori vivaci. Ma le cannoniere israeliane incrociano al largo delle coste e la sabbia di Gaza è imbevuta del sangue della famiglia Younis.

Mia nonna è stata uccisa proprio là, in groppa ad un asino”, racconta Modalala mostrando col dito la spiaggia dove da bambina lei e la sua famiglia vennero bersagliate dalle bombe israeliane mentre nel 1948 fuggivano da Jura verso il sud. Durante la guerra del 2014 quattro bambini di Gaza furono uccisi mentre giocavano sulla sabbia, non lontano di là.

La guerra del 2014 è stata la più devastante delle tre offensive israeliane che Mohammed ha conosciuto. Vennero uccisi più di 2.200 palestinesi ,di cui almeno 500 minori. Ormai lui scriveva sempre più di morti, riconoscendo a volte una certa sicurezza nella morte, e scriveva a proposito di “senso di perdita e di sicurezza, della fuga e della ricerca di un rifugio e della sopravvivenza nell’ annegamento, di semplici idee di suicidio”. Ma come molti altri, nello choc seguito al bombardamento, vide dei motivi di speranza.

La vastità delle distruzioni nel 2014 fu tale che il mondo iniziò a prestarvi attenzione. Gli avvocati palestinesi dei diritti umani speravano di poter perseguire Israele per crimini di guerra. Il Segretario Generale dell’ONU dell’epoca, Ban Ki-moon, dichiarò che l’assedio doveva cessare e che il mondo doveva pagare per la ricostruzione delle case, dei serbatoi e delle fabbriche di Gaza. Il popolo aveva già cominciato: vidi dei ragazzi arrampicarsi su muri di calcestruzzo pericolanti e riempire di pietre un carretto trainato da un asino. Dissodavano i loro frutteti per ripiantare alberi di clementine e ricostruivano la loro fabbrica di succhi bombardata.

Alla luce di questa attenzione mediatica mondiale, migliaia di apprendisti giornalisti di Gaza colsero l’occasione per diffondere al mondo esterno il loro racconto in diretta dalle macerie. Studenti che avevano ottenuto borse di studio in università straniere stavano agli angoli delle strade nella speranza di sapere se erano stati aperti i valichi per potersi affrettare a scappare e prendere il posto che spettava loro. Mohammed si iscrisse al centro culturale francese sperando di poter studiare letteratura a Parigi.

Ma un anno dopo le clementine erano morte e il proprietario della fabbrica di succhi sedeva accanto ad una scatola di cibo dell’ONU. Più dell’80% della popolazione dipende ormai dagli aiuti alimentari.

Dietro le porte chiuse, soprattutto laddove i bombardamenti del 2014 erano stati pesanti, vidi vite distrutte. Una giovane madre aprì un armadio di giochi colpito da una granata. Mi guardava mentre si rovesciavano dei pezzi rotti. Un giovane uomo stava seduto davanti ad uno schermo spento durante le lunghe ore senza elettricità. Ed il mondo aveva nuovamente voltato le spalle a Gaza.

Per la prima volta, dopo tutti questi anni di reportage da Gaza, incontrai ragazzini che chiedevano l’elemosina, sentii parlare di prostituzione e vidi tracce di tossicodipendenza e di violenze domestiche generalizzate, spesso in case dove in una stessa stanza vivevano fino a dieci persone. Dai bombardamenti del 2014 non sono state risistemate in altri alloggi. In mezzo a questa devastazione, ci sono prove che lo Stato islamico ottenga sempre maggior sostegno. Un gruppo di militanti islamici ha lanciò un ordigno esplosivo sul centro culturale francese dove studiava Mohammed.

I media internazionali si sono disinteressati della questione, a parte occasionali previsioni di una nuova Intifada. Quando ho chiesto a dei ragazzi del campo profughi di Jabaliya – dove è iniziata la prima Intifada – se questo fosse possibile, hanno fatto una gran risata, dicendo che il muro era più alto ed era stato prolungato fin sottoterra per bloccare i tunnel. Nessuno poteva più resistere. Ho chiesto se potesse apparire in Palestina un nuovo Mandela. “Se ci fosse, gli israeliani lo ucciderebbero”, ha risposto uno di loro.

Nel marzo 2017 l’eroe di Mohammed, Bassel al-Araj, scrittore e vecchio difensore della resistenza nonviolenta, è stato ucciso dalle truppe israeliane. È stato riconosciuto come “martire istruito”.

Sono tanti quelli che sono stati disgustati dall’incapacità dei dirigenti di Hamas e di Fatah di promuovere la causa palestinese, o almeno migliorare la vita dei comuni palestinesi – erano troppo occupati a litigare tra loro mentre l’assedio di Gaza si inaspriva. A proposito degli israeliani Mohammed ha scritto: “Almeno loro rispettano il proprio popolo, mentre noi, noi facciamo a pezzi il nostro. Ma loro ci hanno cacciati dalle nostre terre!” In uno dei suoi racconti, un ragazzo “lancia orgogliosamente una pietra contro un posto di controllo”, ma lascia perdere e torna a casa “per proseguire qui la sua eterna maledizione.”

Come i giovani tedeschi che sono morti scavalcando il muro di Berlino, i giovani palestinesi che sono morti cercando di fuggire in barca “tentavano di raggiungere delle città in cui la libertà è una scelta, non un regalo.”

Nella primavera ed estate del 2017 alcuni medici mi hanno riferito di altri suicidi camuffati da incidenti. I medici vedevano non soltanto persone che si buttavano giù dagli edifici, ma anche vittime di quelli che sembravano incidenti automobilistici deliberati e annegamenti che forse non erano accidentali. Pazienti che presentavano ferite da coltello dicevano di essere stati feriti nel corso di una “rissa”. Ho sentito testimoni parlare di individui disperati che erano entrati nella zona cuscinetto nella speranza di essere uccisi. Una ragazza che conosco mi spiega che si è fatta un’overdose perché non voleva sposarsi o crescere dei figli a Gaza.

Gli spiriti più resistenti vanno in pezzi. “Gli abitanti di Gaza vogliono vivere, ma non possono”, afferma il dottor Ghada al-Jadba, direttore dei servizi sanitari dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi.

Youssef Awadallah, direttore del centro di salute mentale di Rafah, getta la testa all’indietro, fingendo di affogare. “Si soffoca. In realtà siamo in trappola, non in stato d’assedio”, butta lì, prima di battere le mani. “Come in Tom e Jerry”.

Ritiene che l’aumento del numero di suicidi si inserisca nel quadro di una crisi molto più vasta della salute mentale a Gaza. Secondo l’UNICEF circa 400.000 minori sono traumatizzati e necessitano di un sostegno psicosociale. La dipendenza dai farmaci, soprattutto da analgesici potenti, è diffusa. “Gli israeliani lo sanno”, dice Awadallah. “La guerra attuale mira a spezzare così la nostra resilienza, non la nostra resistenza.”

I servizi di salute mentale di Gaza, ancora precari, sono stati paralizzati dall’assedio. “L’altro giorno un uomo ha ucciso sua madre perché pensava che lo spiasse,” racconta Awadallah. “Un altro ha detto che gli israeliani gli avevano messo un dispositivo di sorveglianza nella testa. Ma noi che cosa possiamo fare? Non abbiamo né farmaci, né letti, né psichiatri.” Ricorda un altro caso in cui un uomo ha pugnalato i suoi figli prima di darsi fuoco: “Quando un uomo non può sopperire alle necessità della sua famiglia, soffre. Se arriva al punto di darsi fuoco, soffre talmente tanto che per lui non ha più importanza andare all’inferno.”

Allargando le mani, Awadallah spiega perché i giovani e i più intelligenti fanno parte degli individui più propensi a suicidarsi. “La distanza tra le loro aspirazioni e le reali possibilità è maggiore che per la maggior parte delle persone comuni e le aspettative nel futuro per cui si sono preparati ma che non potranno raggiungere diventano impossibili da sopportare.”

Durante l’estate del 2017 tutti a Gaza sembravano in attesa di qualcosa. I pazienti malati di cancro aspettavano di sapere se potessero partire per sottoporsi ad un intervento chirurgico d’urgenza “all’estero”. I luoghi per i matrimoni in riva al mare, dipinti con colori vivaci, aspettavano che le coppie avessero il denaro per sposarsi. Tutti aspettavano la corrente elettrica.

Raji Sourani, direttore del Centro palestinese per i diritti umani, aspettava di sapere se le accuse di crimini di guerra sarebbero state ascoltate, ma perdeva la speranza. “Nessuno parla dell’occupazione. Nessuno parla delle vittime che vivono sotto occupazione – è Israele che viene considerato la vittima e che bisogna proteggere contro di noi. È una situazione kafkiana”, ha affermato all’epoca.

Nella sua stanza, Mohammed aspettava dei nuovi libri. Nell’elenco c’erano ‘Il processo’ di Kafka e Amleto.

Mohammed parlava di suicidio. Tuttavia era chiaro che aveva ancora speranze, perché parlava anche di fidanzarsi. I fidanzamenti e i suicidi sembravano a volte andare in parallelo: il produttore tessile in fallimento il cui figlio si era impiccato mi ha confidato che quest’ultimo doveva sposarsi la settimana successiva. E Mohammed era sicuramente innamorato, afferma sua madre: “Si vedeva bene che lo era”. Ha scritto riguardo ad un matrimonio a Jura, una prosa impregnata di un senso di perdita sia per il suo vecchio villaggio che per il suo futuro matrimonio, forse perché non poteva più sopportare il dolore della “moltitudine di contraddizioni che esplodono nella testa.”

Nei suoi ultimi scritti Mohammed è attratto dal dolore degli altri, riscontrandolo laddove è più acuto o più nascosto. Parla di un padre la cui figlia sta morendo in un luogo lontano e il quale confida: “Il senso di impotenza adesso mi uccide ogni giorno”.

Si sofferma anche sull’umiliazione dei posti di controllo, dove un viaggiatore viene portato in “un posto segreto simile ad una cella di prigione, senza alcuna forma di vita (…) dove essi sono rinchiusi semplicemente perché sono palestinesi. Perché le capitali e gli aeroporti sono preclusi ai palestinesi?”

Uno degli ultimi scritti di Mohammed era una pièce teatrale intitolata ‘Fuga’. Poco prima della sua morte aveva fatto un ultimo tentativo di scappare. Sua madre spiega che era stato accettato per studiare letteratura alla prestigiosa università ebraica di Gerusalemme, ma aveva scoperto che a causa della politica israeliana poteva aspettarsi di vedersi rifiutare il permesso di uscire da Gaza.

Perciò Mohammed lottava contro la disperazione e “cercava la bellezza”, anche se aveva comunicato ai suoi lettori che ascoltava ‘Komm, suber Tod, komm selge Ruh’ (‘Vieni dolce morte, vieni felice riposo’) di Bach. Anche quando è entrato nella sua stanza l’ultima sera ed ha chiuso la porta a chiave, forse Mohammed non era sicuro di compiere quel gesto. La posizione del suo corpo ha indotto suo zio Assad a credere che Mohammed avesse cambiato idea all’ultimo istante, ma era troppo tardi.

Nelle settimane e nei mesi precedenti la morte di Mohammed la sua disperazione è stata probabilmente aggravata dalla presa di coscienza che i suoi scritti non avrebbero mai potuto cambiare niente: ai suoi occhi il discorso palestinese era gestito da stranieri. Il suo suicidio è avvenuto poco tempo prima che Donald Trump riconoscesse Gerusalemme come capitale di Israele e rimettesse in discussione il diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno alle loro case.

Uno degli ultimi racconti di Mohammed si intitolava ‘La balena che ha bloccato la mia porta con la coda’. La voce narrante fa un sogno ricorrente nel quale delle balenottere lo vanno a trovare e tentano di suicidarsi. Si sveglia e si chiede perché le balene decidano di morire. Si risponde: “Sembra che le balene si suicidino quando perdono il senso dell’orientamento, quando non sanno più dove andare.”

Quando chiedo a Awadallah se considera Mohammed un martire, lui riflette un momento e sorride, spiegando che la disperazione di Mohammed gli ha provocato una grave malattia mentale e che è a causa di questa malattia che si è suicidato. A questo proposito, Awadallah spera che Allah si mostri benevolo verso Mohammed e gli permetta di andare in paradiso e non all’inferno.

Gli chiedo che cosa si sarebbe potuto fare per evitare il suicidio di Mohammed.

Niente,” risponde. “A parte nascere in un luogo diverso da Gaza.”

Questo articolo è stato modificato l’11 giugno 2018 per chiarire il riferimento all’impossibilità per Mohammed Younis di uscire da Gaza per studiare.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)