Le proteste contro la violenza armata provocano un risveglio politico nei palestinesi residenti in Israele
Henriette Chacar
23 ottobre 2019 – +972
Secondo la nota attivista Fida Tabony, un’ondata di manifestazioni contro la violenza armata e la negligenza della polizia ha suscitato un rinnovato senso di solidarietà tra i cittadini palestinesi residenti in Israele. Dopo anni di divisioni, afferma, “ci stiamo comportando come un popolo”.
Fida Tabony ricorda che un giorno, circa due mesi fa, intorno alle 14, mentre lasciava il suo ufficio a Nazareth, una motocicletta le è sfrecciata davanti. Non ci sarebbe stato nulla di insolito in quel consueto viaggio verso casa se quello stesso motociclista non si fosse poi fermato soltanto due auto più avanti e non avesse aperto il fuoco.
Tabony ricorda al telefono che l’incidente è avvenuto in pieno giorno mentre i bambini stavano tornando a casa dalla scuola. “Ci sono i primi cinque secondi – dice – in cui ti chiedi come poter reagire, non sapendo cosa fare. Ricordo di essermi sentita spaventata e nervosa, ma anche arrabbiata.”
Tabony accenna ad un altro fatto, lo scorso maggio, quando Tufiq Zaher è stato ucciso a colpi di arma da fuoco semplicemente per essersi trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Cittadino rispettoso della legge, Zaher stava camminando a Nazaret con sua nipote quando è stato colpito da un proiettile vagante.
“All’epoca ero via e le mie figlie dovevano prendere l’autobus da casa a scuola. L’autobus attraversa quella stessa area in cui [Zaher] è stato ucciso. Sono entrata nel panico – dice Tabony – e ho pensato: “Questo potrebbe accadere a chiunque di noi”.
Almeno 74 cittadini palestinesi cittadini di Israele sono stati uccisi dall’inizio dell’anno a causa della violenza armata o di attività criminali all’interno della comunità palestinese. Nel 2018 il numero di vittime nel corso dell’anno è stato di 71. Queste cifre sono solo la punta dell’iceberg, poiché non tengono conto del ripetersi quotidiano di sparatorie o del crimine organizzato che sono arrivati a caratterizzare la realtà giornaliera di così tanti cittadini palestinesi.
Nel corso delle ultime settimane, decine di migliaia di palestinesi cittadini di Israele sono scesi in piazza per protestare contro la violenza armata e l’insufficiente controllo da parte della polizia nelle loro comunità. Sembra che le manifestazioni siano state scatenate dall’uccisione di due fratelli nella città di Majd al-Krum, nella Galilea settentrionale, con le autorità locali che dopo l’episodio hanno abbastanza rapidamente mobilitato la gente, in coordinamento con l’ Higher Arab Monitoring Committee (Comitato superiore arabo per il monitoraggio) – un’organizzazione ombrello che rappresenta 1.9 milioni di cittadini palestinesi cittadini del Paese.
Tabony, co-direttrice della fondazione Mahpach-Taghir e membro del Comitato per la Lotta contro la Violenza di Nazareth, è una nota attivista sociale e politica che è stata coinvolta nell’organizzazione della recente ondata di proteste. Le ho posto domande sulle dimostrazioni, su cosa rivelano dei rapporti della comunità palestinese con le autorità israeliane e su cosa gli organizzatori sperano di ottenere.
Questa intervista è stata riveduta e ridotta per [ragioni di] chiarezza.
Perché queste proteste avvengono ora? Cosa c’è di diverso in questo momento?
“Questo è il segno di quanto insopportabile sia diventato il dolore. È così, abbiamo esaurito la pazienza. Le persone non lo accetteranno più. A mio avviso, il fatto che noi, come comunità, decidiamo di nuovo di organizzarci è un segnale positivo. Ci stiamo comportando come un popolo, il che è positivo dopo un lungo periodo di divisioni “.
Che cosa vuoi dire con questo?
“Come comunità palestinese che vive all’interno di Israele – afferma Tabony – sappiamo che dal 1948 fino ad oggi lo Stato ha cercato in tanti modi di indebolirci, di distruggere la nostra identità di palestinesi e la nostra unità come popolo. Penso che non siano riusciti a farlo, ma negli ultimi 20 anni, specialmente dall’ottobre 2000 e, ancora di più, nell’ultimo decennio, sotto il governo di Netanyahu, è stato intrapreso un cammino verso leggi estremamente razziste. Stiamo subendo tanto razzismo “.
Nell’ottobre 2000, poco dopo l’inizio della Seconda Intifada, la polizia israeliana ha ucciso 13 palestinesi, di cui 12 civili, mentre protestavano in solidarietà con i manifestanti in Cisgiordania e Gaza. Alla fine il governo ha nominato una commissione d’inchiesta per indagare sulle uccisioni, ma non è stato incriminato un solo ufficiale. La violenza ha segnato una svolta per i cittadini palestinesi di Israele, erodendo ulteriormente la scarsa fiducia che avevano nelle istituzioni statali e nelle forze dell’ordine.
Questa grave violazione della fiducia, tuttavia, è stata accompagnata da politiche economiche che hanno integrato meglio i cittadini palestinesi nella forza lavoro israeliana, spiega Tabony, creando un singolare equilibrio: “Da un lato, il razzismo è costante”, dice, e dall’altro , “ci vengono presentate nuove opportunità di lavoro”, come la risoluzione 922, con la quale il governo nel dicembre 2015 ha promesso 3,3 – 3,8 miliardi di euro per la promozione dello sviluppo economico nella società araba nei successivi cinque anni. Ciò ha dato origine all’individualismo, spronato dalla frenetica competitività della vita moderna, “che spesso ci allontana dal nostro senso di identità e dalla nostra principale battaglia – rivolta a porre fine all’occupazione.
“A tal proposito – aggiunge Tabony – le donne hanno assunto un ruolo chiaramente centrale in questa lotta”.
In che modo?
“Quando abbiamo bloccato la strada n°6 [una delle autostrade a pagamento nel centro di Israele], era notevole il numero di donne che guidavano le auto da sole. C’era un gruppo impressionante di donne che protestavano anche in testa [al corteo], dirigendo gli slogan e assumendo un ruolo attivo. Il numero di donne e ragazze alla protesta di Majd al-Krum è stato sorprendente. In entrambe le proteste di Nazareth che ho contribuito a organizzare, le donne hanno fatto parte della pianificazione e hanno costituito una parte significativa dei partecipanti. Ciò dimostra una partnership più autentica nella nostra comunità – afferma Tabony. – Lo spazio per le donne si è ampliato.”
Secondo Tabony, un altro motivo per cui queste manifestazioni stanno prendendo piede ora è la sensazione tra i cittadini palestinesi di essere uniti sotto un’unica guida “di fronte a un governo e a un regime fortemente razzisti” – in particolare con il ritorno, alle elezioni nazionali di settembre, della Lista Unita, che riunisce candidati palestinesi ed ebrei non sionisti. “In occasione di ogni protesta partecipano sempre più persone e spero che i nostri numeri continueranno a crescere”, afferma.
Ma sono le stesse persone, la leadership non è cambiata. Cosa c’è di diverso ora?
“Sono tutti stufi. Da quando io ricordi ho sempre partecipato alle proteste. Ora vedo in queste dimostrazioni persone che non avrei mai immaginato di vedere. C’è una ventata di entusiasmo, unito a una maggiore consapevolezza sociale e politica – spiega Tabony. – C’è un più forte senso di responsabilità tra le persone”.
Tabony ritiene che la sparatoria di Majd al-Krum sia ciò che ha scatenato le proteste in parte a causa del classismo nella società palestinese. “Quando la violenza si manifestava nell’area del “Triangolo ” [una concentrazione di città e villaggi arabi israeliani adiacenti alla Linea Verde, situata nella pianura orientale di Sharon tra le colline del Samarian, n.d.tr.] o a Ramleh, Lyd e Yaffa, quante persone abbiamo mobilitato? Ci siamo davvero comportati come un solo popolo? No.”
Intendi a causa della disuguaglianza socio-economica?
“C’è sicuramente del classismo nella nostra comunità. – afferma Tabony – Il nord è diverso dal sud”.
La maggior parte dei cittadini palestinesi israeliani vive nelle regioni “periferiche”, lontano dal centro economico e culturale del paese. Circa il 57% degli arabi vive nel nord, tra cui Haifa e la Galilea. Il “Triangolo” si riferisce a un gruppo di città e cittadine palestinesi più vicine al centro geografico di Israele, dove, insieme alle “città miste” [tra ebrei e arabi, n.d.tr.] di Jaffa, Ramleh e Lyd, vive circa il 10,7% della popolazione palestinese israeliana.
I palestinesi [che vivono] nei piccoli comuni e nelle città esclusivamente arabe del nord sono orgogliosi del loro parziale senso di autonomia dallo Stato, irraggiungibile per i palestinesi delle “città miste”. Mentre il governo esercita ancora un controllo significativo sulle località esclusivamente arabe in termini di stanziamenti di bilancio e pianificazione, ad esempio, c’è un senso condiviso dell’agire politico che ispira l’azione collettiva.
“La povertà svolge un ruolo significativo nel perpetuare la violenza. Voglio dire, questi due ragazzi che mi sono passati davanti in moto, sono sicari; sono pagati per uccidere. Con la prospettiva di guadagnare grandi somme di denaro in breve tempo, quando non si riesce a trovare lavoro altrove – hanno intravisto questo lavoro “.
In base alle statistiche del 2014, il tasso di povertà tra i palestinesi cittadini di Israele è circa tre volte quello degli ebrei. Secondo i dati del 2011, una media del 47% dei diplomati presso le scuole superiori delle località arabe ha accesso all’iscrizione universitaria, rispetto al 61% delle aree ebraiche.
Ci sono molti altri mali da cui i cittadini palestinesi sono affetti in quanto comunità emarginata e con pochi servizi a disposizione, tra cui le disparità nello stanziamento di fondi pubblici, la segregazione e la confisca delle terre. Perché le proteste si concentrano sulla violenza armata?
“È collegato alla nostra gerarchia dei bisogni. Dopo la garanzia del cibo e di un riparo, viene la necessità del sentirsi al sicuro. La sicurezza personale è un’esigenza fondamentale “.
Secondo Tabony, si ha la sensazione che le autorità abbiano “perso il controllo”. La polizia israeliana e le istituzioni statali, afferma, sono arrivate alla conclusione che questa situazione non sia più sostenibile.
Il rapporto tra la comunità palestinese e le forze dell’ordine israeliane è stato storicamente difficile e complicato. Da un lato, al fine di sentirci più sicuri, chiediamo alla polizia di recarsi nelle città arabe e di svolgere correttamente il proprio lavoro. Dall’altro, non ci fidiamo di loro.
Tabony cita i risultati di un sondaggio del 2019 dell’Abraham Fund [organizzazione che intende promuovere la coesistenza in Palestina tra i tre popoli abramitici: ebrei, cristiani e musulmani, n.d.tr.], secondo il quale solo il 26,1% degli intervistati palestinesi dichiara di fidarsi della polizia israeliana e il 24% esprime soddisfazione per il funzionamento della polizia. Tuttavia, in base a quello stesso rapporto, il 58% di questi intervistati ha affermato che si rivolgerebbe alla polizia se essi stessi o qualcuno nella loro famiglia subisse una violenza.
“Questo dimostra che vogliamo che la polizia faccia il suo lavoro” – afferma Tabony. – “Ma quando non lo fa, ognuno perde fiducia in quell’istituzione.
La polizia stessa – l’intero sistema – è razzista nei nostri confronti e si comporta con noi alla stregua di una minaccia nazionale, non come cittadini con diritto agli stessi diritti e servizi che ottengono i cittadini ebrei. Il punto di partenza per la polizia è che noi siamo dei nemici dello Stato col proposito di uccidere. Solo dopo aver dimostrato che non rappresentiamo alcuna minaccia, iniziano ad aiutarci.”
Ma l’altro lato di tale equazione è che, poiché non ci fidiamo della polizia, non ci relazioniamo con loro in quanto organo legittimo.
“Quando un giovane sparò dei colpi di arma da fuoco nel mezzo di Tel Aviv, il Paese si fermò fino a quando non venne trovato e non furono confiscate le sue armi da fuoco. Quando i colpi vengono sparati in una città araba e la polizia non fa nulla, cosa significa? Che la polizia approva [il fatto] che gli arabi si uccidano a vicenda. Approva la diffusione delle armi. Quello che vogliamo è che la polizia faccia effettivamente il proprio lavoro, e non che si rechi nei nostri villaggi e città solo per comminare più sanzioni o mostrarci chi è che comanda durante le proteste politiche”.
L’occupazione salta fuori durante queste proteste? Ne discutete come organizzatori?
“Innanzitutto, facciamo sventolare la bandiera palestinese in quasi tutte le nostre manifestazioni, e questo è essenziale. Anche gli slogan; alcuni riguardano i nostri prigionieri, altri riguardano la fine dell’occupazione. Ci sono state persone che lo hanno criticato, che hanno detto: ‘Che cosa c’entra la bandiera palestinese con questo? La violenza armata è un problema interno’. Ma ovviamente sono [problemi] interconnessi.”
Come spiegheresti questo a qualcuno che non vede alcun legame tra il modo in cui le autorità israeliane trattano i cittadini palestinesi e il modo in cui controllano i palestinesi sotto occupazione?
“In primo luogo, [farei presente] che la maggior parte delle armi da fuoco proviene dalla polizia e che l’esercito è la prova più chiara del fatto che [le autorità] sono coinvolte in questo, che è loro interesse sostenere questa violenza. Perché sono interessati a perpetuare questa situazione? Dovremmo chiedercelo. La violenza ci rende più deboli. Perché? Perché ci allontana dalle questioni centrali mentre siamo impantanati a causa delle minacce quotidiane alla nostra esistenza, cercando di sopravvivere.
“Anche la modernizzazione e il capitalismo, qual è il loro obiettivo, alla fine? Darci la sensazione di possedere il controllo sulla nostra vita, [del fatto] che possiamo uscire e prendere un caffè in un bel locale, che la vita è bella. Le persone possono incontrare difficoltà ai posti di blocco, ma succede lì, qui va tutto bene. [Credere] che tutto ciò per cui dobbiamo impegnarci è il nostro benessere personale ci fa sentire padroni del nostro destino.
“Sai quante persone sulla mia pagina Facebook dicono cose come ‘la soluzione per noi è partire?’ Non è strettamente connesso? Sai quanti [cittadini palestinesi] sono già emigrati a causa di questa realtà?”
Intendi dire che questo è un altro modo attraverso cui Israele sta buttando fuori i palestinesi?
“Indirettamente, sì. Spingendoci ad emigrare, interrompendo il nostro legame con questa terra, facendoci sentire come se dovessimo esistere solo come individui e prendere le distanze dagli altri. Questo ci rende più deboli. Riduce il nostro senso di solidarietà, la nostra identità di gruppo.
Questo è l’ideale per lo Stato, non solo perché siamo arabi, ma perché è così che impedisce a tutti i gruppi emarginati di formare alleanze. Se durante la protesta etiope [in Israele, nel luglio 2019, da parte degli ebrei etiopi, n.d.tr.], dopo l’uccisione del giovane, ci fossimo ritrovati tutti insieme, immagina le proteste che avremmo potuto organizzare. È la chiara strategia del ‘divide et impera’.
“Ma dico anche che abbiamo una responsabilità in quanto comunità. Supponiamo che il 70% della soluzione del problema spetti al governo: infondere un senso di sicurezza, sequestrare tutte le armi e elaborare un chiaro piano economico che offra opportunità alla comunità araba, compreso un coerente piano sociale per i nostri giovani. Dell’altro 30% del problema è responsabile la nostra comunità. Dobbiamo riconoscervi anche la nostra parte.”
Ultimamente, i cittadini palestinesi hanno anche organizzato importanti manifestazioni sulla violenza contro le donne e le molestie verso i LGBTQ. Queste questioni si sovrappongono nell’attuale ondata di proteste?
“Più del 50% delle donne uccise in Israele sono palestinesi e noi rappresentiamo solo il 20% della popolazione israeliana. Lo stesso vale per le uccisioni in generale: circa il 60% delle vittime di omicidio in Israele sono arabi. Questo in parte perché stiamo passando da una società tradizionale alla modernizzazione. Gli altri aspetti riguardano la consapevolezza riguardo il genere e i diritti delle donne.
“La violenza domestica è [un tema] importante da discutere, ma differisce dalla più estesa ondata di violenza nella nostra comunità. Dobbiamo parlare dei diritti delle donne e dei diritti LGBTQ sempre all’interno della nostra più ampia lotta nazionale.
“Le minacce che le persone affrontano a causa del loro genere sono un segno del dominio patriarcale e del controllo su di noi come donne. Il crimine dilagante nella nostra comunità, tuttavia, è una conseguenza di fattori economici e politici, oltre che patriarcali. Ciò significa che le donne vengono uccise a causa del desiderio della società di controllare le nostre decisioni e i nostri corpi, semplicemente per [il fatto di] essere donne. Quando si tratta di violenza ed episodi criminali, tuttavia, i soggetti che si scontrano tra di loro hanno lo stesso potere. Quindi, le dinamiche di potere sono diverse.”
Ci sono degli obiettivi specifici che state cercando di raggiungere con queste proteste?
“Chiediamo un piano globale per combattere la violenza e il crimine nella società araba. Sembra che i ministeri si stiano finalmente svegliando rispetto a questa realtà. Il ministero dell’Interno ha inviato una lettera ai vari comuni affermando di avere l’interesse a procedere con dei progetti su questo tema. È chiaro che questo non è un problema che possiamo risolvere da soli e le autorità devono fare la loro parte.
“Stiamo presentando questi piani al governo, tenendo presente che non esiste ancora un governo e che potremmo avvicinarci alle terze elezioni politiche [in meno di un anno, n.d.tr]. Ma le nostre richieste sono chiare: innanzitutto, porre fine alla violenza arrestando gli autori e sequestrando tutte le armi da fuoco. Questo è essenziale. Tuttavia, ciò non avrà successo senza un programma più esteso che affronti anche i fattori sociali ed economici in gioco”.
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)