Il New York Times e il Dipartimento di Stato collaborano sfacciatamente con l’insabbiamento dell’assassinio di Abu Akleh da parte di Israele

JAMES NORTH

5 luglio 2022 Mondoweiss

Ieri il Dipartimento di Stato USA ha seguito l’antica tradizione di divulgare notizie che il governo vuole insabbiare durante una vacanza, e il New York Times lo ha assecondato. Gli Stati Uniti hanno ammesso – quasi 2 mesi dopo che la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco – che l’esercito israeliano è stato “probabilmente responsabile”, ma poi hanno aggiunto che i funzionari americani “non hanno trovato motivo di credere che ciò sia stato intenzionale, ma piuttosto il risultato di tragiche circostanze durante un’operazione militare guidata dall’IDF.”

L’operazione di copertura [delle responsabilità israeliane, ndt.] da parte degli Stati Uniti è sfacciata. Non sorprende che il Dipartimento di Stato sperasse che gli americani fossero troppo distratti dai fuochi d’artificio del 4 luglio per prestare attenzione.

Non c’è nulla di nuovo nel “rapporto” del Dipartimento di Stato. Indagini precedenti, inclusa una tardiva dello stesso New York Times, avevano già confutato il tentativo israeliano di incolpare “miliziani palestinesi” per l’omicidio. A quel punto Israele, e i suoi complici statunitensi nell’inganno, hanno cercato di concentrarsi sul proiettile che ha ucciso la rispettata giornalista. L’inchiesta americana ha rilevato che la pallottola è troppo “danneggiata” per arrivare a una “chiara conclusione” su da dove essa sia partita.

I giornalisti del New York Times hanno agito come stenografi dell’insabbiamento USA/Israele fino al 20° paragrafo, quando hanno permesso alla famiglia di Abu Akleh di interromperlo brevemente dicendo: “L’attenzione sul proiettile è sempre stata fuori luogo ed è stato un tentativo da parte israeliana di volgere la narrazione a proprio favore, come se si trattasse di una specie di poliziesco che potrebbe essere risolto con un test forense di tipo CSI [Crime Scene Investigation, indagine della polizia scientifica, nonché nome di una fortunata serie televisiva statunitense, ndt.].”

Ma l’elemento più sorprendente nell’operazione di copertura degli Stati Uniti è l’assoluta convinzione che non sia stata uccisa intenzionalmente. Diamo un’occhiata ai fatti. Le truppe israeliane che hanno sparato erano a diverse centinaia di metri di distanza. Un primo proiettile ha colpito Shireen Abu Akleh alla testa. Un secondo ha colpito alla schiena un altro giornalista che le stava accanto, Ali al-Samoudi. Almeno altri due proiettili hanno colpito l’albero vicino a cui si trovava. Chi può credere che un tiratore scelto israeliano addestrato, sparando all’impazzata, avrebbe potuto colpire accidentalmente due persone da una tale distanza?

Il Times non ha fatto alcun tentativo di intervistare i testimoni oculari che erano con Abu Akleh quando è morta. Il resoconto del Washington Post ha citato la rispettata organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem la quale ha sostenuto che “le probabilità che i responsabili dell’uccisione di Shireen Abu Akleh saranno ritenuti responsabili sono quasi inesistenti”, ma il Times ha avuto molte difficoltà a trovare Il numero di telefono di B’Tselem.

Le uniche domande senza risposta sull’uccisione di Abu Akleh sono:

Il soldato israeliano che le ha sparato ha agito da solo? O stava seguendo degli ordini? E quanto in alto nella catena di comando arriva l’insabbiamento?

A meno che i funzionari statunitensi non abbiano effettivamente interrogato i soldati israeliani, non c’è modo di dire che l’omicidio non sia stato “intenzionale”.

Ancora una volta bisogna rivolgersi all’autorevole quotidiano israeliano Haaretz per un resoconto accurato. Il giornalista per le questioni riguardanti la sicurezza, Amos Harel, non ha paura di dire la verità: “per quanto riguarda Israele, è molto improbabile che venga aperta un’indagine penale da parte della polizia militare”.

Harel riassume così la situazione:

Il primo ministro Yair Lapid e il capo di stato maggiore dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane] Aviv Kochavi vivono tra la loro stessa gente. L’ultima cosa di cui hanno bisogno ora è un’indagine penale contro un soldato…

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Come la copertura mediatica americana travisa la violenza di Stato perpetrata da Israele contro i palestinesi

Laura Albast e Cat Knarr

28 aprile 2022 – Washington Post

Laura Albast, giornalista e traduttrice palestinese americana, è direttrice responsabile della strategia digitale e comunicazioni presso l’Institute for Palestine Studies-USA.

Cat Knarr, scrittrice di origini palestinesi e colombiane, direttrice della comunicazione presso l’U.S. Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi].

All’alba del 15 aprile la polizia israeliana ha attaccato i fedeli palestinesi nella sacra moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Hanno usato granate stordenti, lacrimogeni e proiettili di acciaio ricoperti di gomma e ferito oltre 150 persone. Da allora le forze israeliane hanno lanciato nuove incursioni, imprigionando oltre 300 palestinesi presso il complesso di Al-Aqsa e impedendo ai cristiani palestinesi di entrare nella chiesa del Sacro Sepolcro. Questa violenza attentamente calcolata giunge mentre i musulmani palestinesi vivono gli ultimi giorni del Ramadan.

Se si guardano le immagini di ciò che è successo, le dinamiche sono ovvie: militari con equipaggiamenti e armi contro fedeli inginocchiati in preghiera. Tuttavia i media occidentali abitualmente etichettano tali situazioni come “complicate,” ritraendo questa violenza di Stato come “scontri” e “tensioni” fra le due parti. Titoli in testate come Associated Press [agenzia di stampa USA, ndt.], New York Times, Guardian, Wall Street Journal, NBC News e altri usano un linguaggio che non descrive lo squilibrio di potere fra l’apparato militare israeliano e il nativo popolo palestinese.

Questo è uno schema che si ripete regolarmente nella copertura mediatica sulla Palestina. Noi palestinesi non veniamo ammazzati: semplicemente moriamo. Quando le forze israeliane irrompono nei nostri quartieri nel cuore della notte, tirano bombe contro i nostri bambini, demoliscono le nostre case, colonizzano le nostre terre e uccidono la nostra gente noi siamo, per certi versi e allo stesso modo, degli istigatori. Le descrizioni dei media regolarmente implicano che ci sia una falsa simmetria fra occupante e occupato, sostenendo narrazioni anti-palestinesi e islamofobiche che incolpano il popolo palestinese delle aggressioni israeliane.

Questo contrasta con la copertura della guerra in Ucraina, dove i media occidentali dicono chiaramente che la Russia è l’aggressore e che il popolo ucraino sta resistendo come farebbe chiunque se la propria patria fosse invasa. Dall’invocare sanzioni contro Mosca ad approvare l’uso di molotov contro i soldati russi a Kiev, le principali testate occidentali sostengono i tentativi di autodifesa degli ucraini.

Eppure quando si arriva all’occupazione israeliana della Palestina questi stessi organi di stampa spesso non nominano affatto l’aggressore. I civili ucraini che tirano bottiglie molotov contro i carri armati russi sono “coraggiosi,” ma il quattordicenne Qusai Hamamrah è stato rappresentato come uno che rappresentava una minaccia immediata dopo che i soldati israeliani hanno detto che aveva tirato una molotov contro di loro. Questa è una notevole differenza razzista nella copertura che ha ignorato i resoconti di testimoni oculari secondo cui il ragazzo stava correndo per nascondersi dalle pallottole israeliane dirette contro un altro palestinese.

Le redazioni non possono decidere quale violenza approvata dallo Stato sia legittima. Devono sforzarsi di raccontare le azioni dell’esercito israeliano e dei coloni israeliani nello stesso modo in cui quelle stesse violenze sono riportate dall’Ucraina e da altri Paesi. Il governo israeliano è infatti estremamente consapevole del potenziale dei media di denunciare tali violenze. Lo scorso maggio le forze israeliane hanno bombardato gli uffici dei servizi informativi nella Striscia di Gaza e ad Al-Aqsa hanno attaccato giornalisti come Nasreen Salem.

La scorsa estate oltre 500 giornalisti hanno firmato una lettera aperta denunciando le pratiche dannose e scorrette nella copertura mediatica americana sulla Palestina. La protesta non è stata ascoltata e le pratiche scorrette continuano a essere la norma.

Questo mese l’Arab and Middle Eastern Journalists Association ha ricordato ai giornalisti di stare attenti a linguaggio e contesto e ha nuovamente diffuso le linee guida sulla copertura mediatica rilasciate durante l’attacco mortale israeliano contro Gaza dell’anno scorso durante il quale furono uccisi 259 palestinesi, di cui 66 minori. Le raccomandazioni chiedono ai reporter di riconoscere che i palestinesi sono sottoposti a un sistema ingiusto e iniquo che è stato documentato come apartheid da parte di organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, Amnesty International e dall’israeliana B’Tselem [ong per i diritti umani, ndt.]. Ha anche chiesto che i giornalisti trattino con accuratezza il contesto religioso e “dicano ai lettori chi è stato ucciso o ferito, dove e da chi, usando espressioni linguistiche attive e non passive.”. In pratica ciò significa chiarire chi è l’aggressore, quali azioni ha compiuto e contro chi.

I giornalisti hanno la responsabilità di riportare i fatti senza parzialità. Il giornalismo tratta di persone: delle loro vicende, della loro storia, della loro realtà. Ciò include anche il popolo palestinese. Il racconto dei fatti deve comprendere la ricerca delle voci dei palestinesi, ponendo in discussione le dichiarazioni delle fonti ufficiali prima di riferirle come verità.

Trascurando di contestualizzare la violenza di Stato perpetrata da Israele, i media hanno dato il via libera al governo israeliano, permettendogli di continuare impunemente la pulizia etnica del popolo palestinese. È ora che le testate affrontino i danni fatti. Dovrebbero tentare di assumere giornalisti palestinesi concentrandosi sulle voci palestinesi invece di cancellarle sistematicamente dal loro racconto. Gli infiniti filmati di violenze documentate contro i palestinesi non dovrebbero restare confinate ai feed dei social media (che devono affrontare una forma diversa di censura).

Invece di trasmettere narrazioni incomplete che lasciano il campo libero all’aggressione israeliana, i media devono cominciare a raccontare il quadro completo della situazione.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Esplorare la nostra umanità: Ilan Pappé sulle quattro lezioni dall’Ucraina.

Ilan Pappe

4 marzo 2022 – Palestine Chronicle

USA Today [terzo quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] ha informato che una foto diventata virale di un grattacielo colpito da un bombardamento russo in Ucraina è risultata essere di un grattacielo demolito nella Striscia di Gaza dall’aviazione israeliana nel maggio 2021. Pochi giorni prima il ministero degli Esteri ucraino si è lamentato con l’ambasciatore israeliano a Kiev che “ci state trattando come Gaza”. Era furioso che Israele non avesse condannato l’invasione russa e fosse interessato esclusivamente a portare via i cittadini israeliani dallo Stato (Haaretz, 17 febbraio 2022). Si è trattato di un misto di riferimenti all’evacuazione da parte dell’Ucraina di mogli ucraine sposate con palestinesi dalla Striscia di Gaza nel maggio 2021 e un ricordo a Israele del pieno appoggio del presidente ucraino all’attacco israeliano contro la Striscia di Gaza di quel mese (tornerò a quell’appoggio verso la fine di questo articolo).

In effetti quando si valuta l’attuale crisi in Ucraina gli attacchi israeliani contro Gaza dovrebbero essere citati e presi in considerazione. Non è un caso che alcune foto vengano confuse: non ci sono molti grattacieli che siano stati abbattuti in Ucraina, ma ce ne sono parecchi che sono stati distrutti nella Striscia di Gaza. Tuttavia quando si prende in considerazione la crisi ucraina in un contesto più ampio non emerge solo l’ipocrisia riguardo alla Palestina. È il complessivo doppio standard dell’Occidente che dovrebbe essere analizzato, senza rimanere neppure per un istante indifferenti alle notizie e alle immagini che ci giungono dalla zona di guerra in Ucraina: bambini traumatizzati, flussi di rifugiati, bellezze architettoniche distrutte dai bombardamenti e il pericolo incombente che ciò sia solo l’inizio di una catastrofe umanitaria nel cuore dell’Europa.

Nel contempo quanti di noi hanno sperimentato, informato e raccontato le catastrofi umanitarie in Palestina non possono ignorare l’ipocrisia dell’Occidente, e possiamo evidenziarlo senza sminuire per un solo momento la nostra solidarietà umana ed empatia con le vittime di ogni guerra.

Lo dobbiamo fare in quanto la disonestà etica che è implicita negli scopi ingannevoli stabiliti dalle élite politiche e dai media occidentali li porterà ancora una volta a nascondere il loro razzismo e la loro impunità in quanto continuerà a garantire l’immunità a Israele e alla sua oppressione dei palestinesi. Ho individuato quattro affermazioni false che fino ad ora sono al centro dell’impegno delle élite occidentali con la crisi ucraina e le ho strutturate come quattro lezioni.

Prima lezione: i rifugiati bianchi sono benvenuti, gli altri molto meno

L’inedita decisione collettiva dell’UE di aprire le sue frontiere ai rifugiati ucraini, seguita da una politica più prudente della Gran Bretagna, non può passare inosservata rispetto alla chiusura della maggior parte degli ingressi in Europa ai rifugiati che arrivano dal mondo arabo e dall’Africa dal 2015. La priorità chiaramente razzista che distingue in base al colore, alla religione e all’etnia tra chi cerca di salvarsi la vita è aberrante, ma è improbabile che cambi molto rapidamente. Alcuni dirigenti europei non si vergognano neppure di esprimere pubblicamente il proprio razzismo, come ha fatto il primo ministro bulgaro Kiril Petkov:

Questi (i rifugiati ucraini) non sono i rifugiati a cui siamo abituati…questa gente è europea. Queste persone sono intelligenti, sono istruite… Non è l’ondata di rifugiati a cui siamo abituati, persone della cui identità non siamo sicuri, senza un passato chiaro, che potrebbero persino essere stati dei terroristi…

Non è solo. I mezzi di comunicazione occidentali parlano tutto il tempo del “nostro tipo di rifugiati”, e questo razzismo si esprime chiaramente ai valichi di confine tra l’Ucraina e i suoi vicini europei. Questo atteggiamento razzista, con sfumature chiaramente islamofobe, non cambierà, dato che i dirigenti europei stanno ancora negando il tessuto multietnico e multiculturale delle società in tutto il continente. Una realtà umana creata da anni di colonialismo e imperialismo europei che gli attuali governi europei negano e ignorano e, nel contempo, questi governi perseguono politiche migratorie basate sullo stesso razzismo che permeava il colonialismo e l’imperialismo del passato.

Seconda lezione: puoi invadere l’Iraq ma non l’Ucraina

La mancanza di volontà dei media occidentali di contestualizzare la decisione russa di invadere all’interno di una più ampia, e ovvia, analisi di come nel 2003 siano cambiate le regole del gioco internazionale è veramente sconcertante. È difficile trovare un’analisi che evidenzi il fatto che gli USA e la Gran Bretagna violarono le leggi internazionali contro la sovranità di uno Stato quando i loro eserciti, con una coalizione di Paesi occidentali, invasero l’Afghanistan e l’Iraq. Occupare un intero Paese per scopi politici non è stato inventato in questo secolo da Vladimir Putin, è stato inaugurato dall’Occidente come uno strumento giustificato di politica.

Terza lezione: a volte il neonazismo può essere accettabile

L’analisi riguardo all’Ucraina non evidenzia neppure alcuni dei validi argomenti di Putin, che non giustificano affatto l’invasione, ma che richiedono la nostra attenzione persino durante l’invasione. Fino all’attuale crisi i mezzi di comunicazione progressisti occidentali, come The Nation, the Guardian, the Washington Post, ecc., ci hanno messi in guardia dal crescente potere dei gruppi neonazisti in Ucraina che potrebbe incidere sul futuro dell’Europa, e non solo. Gli stessi mezzi di informazione oggi ignorano l’importanza del neonazismo in Ucraina.

Il 22 febbraio 2019 The Nation informava:

Oggi crescenti notizie sulla violenza di estrema destra, dell’ultranazionalismo e dell’erosione delle libertà fondamentali stanno smentendo l’iniziale euforia dell’Occidente. Ci sono pogrom neonazisti contro i rom, crescenti aggressioni contro femministe e gruppi LGBT, censura di libri e glorificazione sponsorizzata dallo Stato di collaboratori del nazismo.”

Due anni prima il Washington Post (15 giugno 2017) aveva avvertito, in modo molto perspicace, che uno scontro dell’Ucraina con la Russia non avrebbe dovuto portarci a dimenticare il potere del neonazismo in Ucraina:

Mentre la lotta dell’Ucraina contro i separatisti appoggiati dalla Russia continua, Kiev affronta un’altra minaccia a lungo termine alla sua sovranità: potenti gruppi ultranazionalisti di estrema destra. Queste organizzazioni non si vergognano di utilizzare la violenza per raggiungere i propri obiettivi, che sono sicuramente in contrasto con la tollerante democrazia di tipo occidentale che Kiev cerca apparentemente di diventare.”

Tuttavia oggi il Washington Post adotta un atteggiamento sprezzante e definisce una descrizione simile come un’“accusa falsa”:

In Ucraina agiscono una serie di gruppi nazionalisti paramilitari, come il movimento Azov e il Settore di Destra, che abbracciano un’ideologia neonazista. Benché di spicco, sembrano avere scarse adesioni. Solo un partito di estrema destra, Svoboda, è rappresentato nel parlamento ucraino, e ha solo un deputato.”

I precedenti avvertimenti di un mezzo di comunicazione come The Hill (9 novembre 2017), il principale sito indipendente di notizie degli USA, sono dimenticate:

In effetti ci sono formazioni neonaziste in Ucraina. Ciò è stato massicciamente confermato da quasi tutti i principali mezzi di informazione occidentali. Il fatto che alcuni analisti possano smentirlo come propaganda diffusa da Mosca è profondamente inquietante, soprattutto alla luce dell’attuale incremento di neonazisti e suprematisti bianchi in tutto il pianeta.”

Quarta lezione: colpire grattacieli è un crimine di guerra solo in Europa

Non solo la dirigenza ucraina ha rapporti con questi gruppi e milizie neonazisti, è anche filo-israeliano in modo preoccupante e imbarazzante. Uno dei primi atti del presidente Volodymyr Zelensky è stato il ritiro dell’Ucraina dalla Commissione delle Nazioni Unite sull’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese, l’unico tribunale internazionale a garantire che la Nakba non venga negata o dimenticata.

L’iniziativa è stata del presidente ucraino. Egli non ha dimostrato alcuna solidarietà nei confronti delle sofferenze dei rifugiati palestinesi, né li ha considerati vittime di crimini. Nella sua intervista dopo l’ultimo barbaro bombardamento israeliano della Striscia di Gaza nel maggio 2021 ha affermato che l’unica tragedia a Gaza è stata quella patita dagli israeliani. Se è così, allora sono solo i russi che soffrono in Ucraina.

Ma Zelensky non è solo. Quando si tratta della Palestina l’ipocrisia raggiunge livelli mai visti. Un grattacielo vuoto colpito in Ucraina ha dominato le notizie e provocato profonde analisi su brutalità umana, Putin e disumanità. Ovviamente questi bombardamenti devono essere condannati, ma risulta che quelli tra i leader del mondo che guidano la condanna rimasero in silenzio quando Israele rase al suolo la città di Jenin nel 2000, il quartiere di Al-Dahaya a Beirut nel 2006 e la città di Gaza negli ultimi 15 anni in un’ondata di brutalità dietro l’altra.

Non è stata discussa, per non dire imposta, alcuna sanzione di qualunque tipo contro Israele per i suoi crimini di guerra dal 1948 in poi. Di fatto nella stragrande maggioranza dei Paesi occidentali che oggi stanno guidando le sanzioni contro la Russia persino menzionare la possibilità di imporre sanzioni contro Israele è illegale e considerato antisemita.

Persino quando è giustamente espressa la sincera solidarietà umana dell’Occidente nei confronti dell’Ucraina non possiamo ignorare questo contesto razzista ed eurocentrico. La massiccia solidarietà dell’Occidente è riservata a chi voglia unirsi al suo blocco e alla sua sfera di influenza. Questa empatia ufficiale non appare affatto quando violenze simili, e peggiori, sono dirette contro non-europei in generale, e verso i palestinesi in particolare.

Ci possiamo orientare come persone di coscienza tra le nostre risposte alle calamità e la nostra responsabilità per evidenziare l’ipocrisia che in molti modi ha aperto la strada a queste catastrofi. Legittimare a livello internazionale l’invasione di Paesi sovrani e consentire la continua colonizzazione e oppressione di altri, come la Palestina e il suo popolo, porterà in futuro a ulteriori tragedie come quella dell’Ucraina, e ovunque sul nostro pianeta.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele inasprisce la sorveglianza sui palestinesi in Cisgiordania con un sistema di riconoscimento facciale

Israele inasprisce la sorveglianza sui palestinesi in Cisgiordania con un sistema di riconoscimento facciale

Elizabeth Dwoskin

Lunedì 8 novembre 2021 – Washington Post

 

Hebron, Cisgiordania – Secondo la descrizione del progetto data da soldati israeliani da poco congedati, l’esercito israeliano sta conducendo nella Cisgiordania occupata un vasto tentativo di sorveglianza per monitorare i palestinesi implementando il riconoscimento facciale con una sempre più diffusa rete di telecamere e telefonini.

Il progetto di sorveglianza, sviluppato negli ultimi due anni, sfrutta in parte una tecnologia per smartphone chiamata “Blue Wolf”, che raccoglie le foto dei volti di palestinesi e li abbina a una banca dati di immagini così estesa che un ex-soldato l’ha descritta come un segreto “Facebook dei palestinesi” dell’esercito. L’applicazione lampeggia con colori diversi per avvertire i soldati se una persona deve essere fermata, arrestata o lasciata andare.

Per costruire la banca dati utilizzata da “Blue Wolf”, lo scorso anno i soldati hanno fatto a gara nel fotografare palestinesi, compresi bambini e anziani, con premi per il maggior numero di foto raccolte da ogni unità. Non si sa quale sia il numero di persone fotografate ma, come minimo, sono nell’ordine delle migliaia.

Il programma di sorveglianza è stato descritto in interviste del Washington Post a due ex-soldati israeliani e in resoconti separati che loro e altri quattro soldati da poco congedati hanno fornito al gruppo israeliano di solidarietà Breaking the Silence e in seguito condiviso con The Post. Buona parte del programma non era stato reso noto in precedenza. L’esercito israeliano ha ammesso l’esistenza del progetto in un opuscolo in rete, ma le interviste con gli ex-soldati offrono la prima descrizione pubblica della portata e del funzionamento del programma.

Oltre a “Blue Wolf” l’esercito israeliano ha installato telecamere per la scansione dei volti nella città divisa di Hebron per aiutare i soldati ai checkpoint a identificare i palestinesi prima ancora che esibiscano le loro carte d’identità. Una vasta rete di telecamere a circuito chiuso, denominata “Hebron Smart City” [Hebron Città Intelligente], fornisce in tempo reale il monitoraggio della popolazione della città e, come ha affermato un ex-soldato, può a volte spiare all’interno delle case private.

Gli ex-soldati che sono stati intervistati per questo articolo e che hanno parlato con Breaking the Silence, un’associazione di solidarietà composta da veterani dell’esercito israeliano che si oppongono all’occupazione, hanno descritto il programma di sorveglianza a condizione di mantenere l’anonimato per timore di ripercussioni sociali e professionali. L’associazione afferma di avere in progetto di rendere pubblica la sua ricerca.

I testimoni affermano che l’esercito ha detto loro che l’attività è un notevole miglioramento delle possibilità di difendere Israele contro i terroristi. Ma il progetto dimostra anche come le tecnologie della sorveglianza, tanto dibattute nelle democrazie occidentali, sono già utilizzate dietro le quinte in luoghi in cui le persone hanno meno libertà.

“Mettiamola così: non mi sentirei tranquilla se lo usassero nel supermercato (della mia città natale),” ha affermato una soldatessa israeliana appena congedata che ha prestato servizio in un’unità dell’intelligence. “La gente si preoccupa delle impronte digitali, ma questo è molto più grave.” Ha detto a The Post di sentirsi motivata a parlare perché il sistema di sorveglianza di Hebron è una “totale violazione della privacy di un intero popolo”.

Secondo gli esperti dell’associazione per i diritti civili digitali AccessNow, l’uso della sorveglianza e del riconoscimento facciale da parte di Israele sembra essere una delle applicazioni più estese ed elaborate di tale tecnologia da parte di un Paese che intende controllare una popolazione sottomessa.

In risposta alle domande sul programma di sorveglianza, l’esercito israeliano (IDF) ha affermato che “abituali operazioni per la sicurezza” sono “parte della lotta contro il terrorismo e degli sforzi per migliorare la qualità della vita della popolazione palestinese in Giudea e Samaria” (Giudea e Samaria è nome ufficiale israeliano per la Cisgiordania).

“Naturalmente non possiamo fare dichiarazioni sulle capacità operative dell’esercito israeliano in questo contesto,” aggiunge il comunicato.

Secondo l’organizzazione di sostegno “Surveillance Technology Oversight Project” [Progetto per il Controllo della Tecnologia di Sorveglianza] l’uso ufficiale di tecnologie per il riconoscimento facciale è stato vietato da almeno una decina di città USA, tra cui Boston e San Francisco. E questo mese il parlamento europeo ha sollecitato il divieto dell’uso da parte della polizia del riconoscimento facciale in luoghi pubblici.

Ma quest’estate uno studio del Government Accountability Office [Ufficio per la Responsabilità del Governo] degli USA ha scoperto che 20 agenzie federali hanno affermato di utilizzare sistemi di riconoscimento facciale e che sei agenzie delle forze dell’ordine affermano che la tecnologia ha contribuito a identificare persone sospettate di aver violato la legge durante rivolte civili. E l’Information Technology and Innovation Foundation, un gruppo commerciale che rappresenta le imprese tecnologiche, ha manifestato disaccordo riguardo alla proposta europea di divieto, affermando che danneggerebbe i tentativi delle forze dell’ordine di “rispondere efficacemente alla delinquenza e al terrorismo.”

In Israele una proposta da parte di funzionari di polizia di introdurre telecamere di riconoscimento facciale in luoghi pubblici ha incontrato una ferma opposizione e l’agenzia governativa incaricata di proteggere la privacy si è espressa contro la proposta. Ma nei territori occupati Israele applica criteri diversi.

“Mentre i Paesi sviluppati in tutto il mondo impongono restrizioni alla fotografia, al riconoscimento facciale e alla sorveglianza, la situazione descritta [a Hebron] costituisce una gravissima violazione dei diritti fondamentali come il diritto alla privacy, in quanto i soldati sono incentivati a raccogliere quante più foto possibile di uomini, donne e bambini palestinesi in una sorta di competizione,” afferma Roni Pelli, avvocatessa dell’Associazione per i Diritti Civili di Israele dopo aver saputo del progetto di sorveglianza. “L’esercito deve immediatamente smettere,” dice.

Ultime tracce di privacy

Yaser Abu Markhyah, un palestinese di 49 anni padre di quattro figli, afferma che la sua famiglia ha vissuto a Hebron per cinque generazioni e che ha imparato a fare i conti con i checkpoint, le restrizioni ai movimenti e i frequenti interrogatori dei soldati da quando Israele ha conquistato la città durante la guerra dei Sei giorni nel 1967. Ma sostiene che recentemente la sorveglianza ha tolto alla gente le ultime tracce di privacy. “Non ci sentiamo più a nostro agio a socializzare, perché le telecamere ci stanno sempre filmando,” afferma Abu Markhyah. Dice che non lascia più giocare i figli fuori, davanti a casa, e che parenti che vivono in quartieri meno controllati evitano di andarlo a trovare.

Hebron è stata a lungo un punto critico per la violenza, con un’enclave di coloni israeliani estremisti pesantemente protetti nei pressi della Città Vecchia circondati da centinaia di migliaia di palestinesi, e la gestione della sicurezza è divisa tra l’esercito israeliano e l’amministrazione palestinese.

Nel suo quartiere di Hebron, nei pressi della Tomba dei Patriarchi, luogo sacro per musulmani ed ebrei, sono state montate telecamere di sorveglianza ogni 100 metri, anche sui tetti delle case. Afferma che il monitoraggio in tempo reale sembra essere in aumento. Qualche mese fa, racconta, sua figlia di 6 anni ha fatto cadere un cucchiaino dal terrazzo sul tetto di casa e, benché la strada sembrasse vuota, poco dopo sono arrivati a casa sua dei soldati e hanno detto che sarebbe stato denunciato per aver lanciato pietre.

Issa Amro, abitante della città e attivista che guida il gruppo “Friends of Hebron” [Amici di Hebron], indica una serie di case vuote nel suo isolato. Afferma che le famiglie palestinesi se ne sono andate a causa delle restrizioni e della sorveglianza.

“Vogliono rendere la nostra vita così difficile che ce ne andremo per conto nostro, così potranno arrivare più coloni,” sostiene Amro.

“Le telecamere,” dice, “hanno solo un occhio, per vedere i palestinesi. Sei filmato dal momento in cui esci di casa al momento in cui rientri.”

Incentivi per le foto

Secondo i sei ex-militari che sono stati intervistati da The Post e da Breaking the Silence il progetto Blue Wolf combina un’applicazione per il cellulare con una banca dati di informazioni personali accessibile attraverso dispositivi mobili.

Uno di loro ha detto a The Post che questa banca dati è una versione ridotta di un’altra grande banca dati, chiamata “Wolf Pack” [Branco di Lupi], che contiene il profilo praticamente di ogni palestinese in Cisgiordania, comprese foto degli individui, le loro storie familiari, l’istruzione e il livello di pericolosità di ognuno. Questo soldato da poco congedato ha avuto esperienza diretta di “Wolf Pack”, che è accessibile solo su computer fissi in contesti più protetti (benché questo ex-soldato descriva la banca dati come “Facebook dei palestinesi”, non è collegata a Facebook).

Un altro ex-soldato dice a The Post che alla sua unità, che nel 2020 pattugliava le strade di Hebron, è stato chiesto di raccogliere quante più foto di palestinesi possibile durante una certa settimana utilizzando un vecchio cellulare fornito dall’esercito, facendo le foto durante missioni quotidiane che spesso duravano otto ore. I soldati caricavano le foto attraverso la app Blue Wolf installata sui telefonini.

Questo ex-soldato afferma che i bambini palestinesi tendevano a mettersi in posa per le foto, mentre le persone anziane, soprattutto le donne, spesso facevano resistenza. Descrive l’esperienza di obbligare le persone ad essere fotografate contro la loro volontà come traumatica per lui.

Le foto prese da ogni unità arrivavano alle centinaia per ogni settimana, e un ex-soldato afferma che era previsto che l’unità ne facesse almeno 1.500. Le unità dell’esercito in tutta la Cisgiordania competevano per i premi, ad esempio una serata libera concessa a chi faceva più foto, dice l’ex-soldato.

Spesso, quando un soldato scatta la foto di qualcuno, l’applicazione registra la corrispondenza con un profilo già esistente nel sistema Blue Wolf. Allora, secondo i cinque soldati e una schermata del sistema ottenuta da The Post, l’applicazione lampeggia in giallo, rosso o verde per indicare se la persona deve essere fermata, immediatamente arrestata o lasciata passare.

Il grande sforzo di costruire la banca dati Blue Wolf con le immagini è diminuito negli ultimi mesi, ma le truppe continuano ad usarla per identificare i palestinesi, afferma un ex-soldato.

Un altro ex-soldato ha detto a Breaking the Silence che una diversa applicazione per cellulare, chiamata “White Wolf”, è stata sviluppata per essere utilizzata da coloni ebrei in Cisgiordania. Benché ai coloni non sia consentito arrestare la gente, i volontari della sicurezza possono utilizzare White Wolf per scansionare il documento di riconoscimento di un palestinese prima che entri in una colonia, per esempio per lavorare nell’edilizia. Nel 2019 l’esercito ha ammesso l’esistenza di White Wolf in una pubblicazione israeliana di destra.

“I diritti sono semplicemente irrilevanti”

Nell’unico caso noto, l’esercito israeliano ha fatto riferimento alla tecnologia Blue Wolf in giugno in un opuscolo in rete con cui invitava i soldati a partecipare a “una nuova squadra” che “vi trasformerà in un ‘Blue Wolf’”. L’opuscolo afferma che la “tecnologia avanzata” comprenderebbe “telecamere intelligenti con sofisticati sistemi di analisi” e “sensori che possono individuare e segnalare in tempo reale le attività sospette e gli spostamenti di persone ricercate.”

In un articolo del 2020 sul suo sito l’esercito citava anche “Hebron Smart City”.  L’articolo, che mostra un gruppo di soldatesse chiamate “sentinelle” davanti a schermi di computer con visori per la realtà virtuale, descrive il progetto come una “pietra miliare” e una tecnologia “rivoluzionaria” per la sicurezza in Cisgiordania. L’articolo afferma che “in tutta la città è stato installato un nuovo sistema di telecamere e radar” che può documentare “qualunque cosa avvenga nei dintorni” e che “riconosce qualunque movimento o rumore insolito.”

Nel 2019 Microsoft ha investito in una nuova impresa israeliana per il riconoscimento facciale chiamata AnyVision, che secondo NBC e la rivista economica israeliana The Market [Il Mercato] stava lavorando con l’esercito per costituire una rete di telecamere di sicurezza intelligenti che utilizzano la tecnologia della scansione facciale in tutta la Cisgiordania (Microsoft ha affermato di essere uscita dall’investimento in AnyVision durante gli scontri di maggio tra Israele e l’organizzazione di miliziani Hamas a Gaza).

Sempre nel 2019 l’esercito israeliano ha annunciato l’introduzione di un progetto pubblico di riconoscimento facciale, con tecnologia fornita da AnyVision, nei principali posti di controllo in cui i palestinesi entrano in Israele dalla Cisgiordania. Il progetto utilizza postazioni per scansionare documenti di identità e volti simili a quelle aeroportuali utilizzate per controllare i viaggiatori che entrano negli Stati Uniti. Secondo informazioni di stampa il sistema israeliano è utilizzato per verificare se un palestinese ha il permesso per entrare in Israele, ad esempio per lavorare o per andare a trovare parenti, e per tenere sotto controllo chi sta entrando nel Paese. Questo controllo è obbligatorio per i palestinesi, come lo è quello negli aeroporti americani per gli stranieri.

Secondo un ex-soldato che ha partecipato al progetto e quattro abitanti palestinesi, a differenza dei controlli al confine il monitoraggio a Hebron avviene in una città palestinese senza informare la popolazione locale. L’ex-soldato ha detto a The Post che le telecamere ai checkpoint possono riconoscere anche i veicoli, anche senza registrare le targhe, e li abbina ai rispettivi proprietari.

Oltre a preoccupazioni riguardanti la privacy, una delle principali ragioni per cui la sorveglianza con il riconoscimento facciale è stata limitata in altri Paesi è che molti di questi sistemi hanno dimostrato livelli di precisione molto variabili, e alcune persone sono state messe a repentaglio perché identificate in modo errato.

L’esercito israeliano non ha fatto commenti riguardo alle preoccupazioni sollevate sul’uso di tecnologie per il riconoscimento facciale.

La Information Technology and Innovation Foundation [gruppo di analisi sulle politiche pubbliche USA relative all’industria e alla tecnologia, ndtr.] ha affermato che gli studi che dimostrano che questa tecnologia è inadeguata sono stati sopravvalutati. Contestando la proposta europea di divieto, l’associazione afferma che sarebbe meglio dedicarsi a sviluppare garanzie di un uso corretto della tecnologia da parte delle forze dell’ordine e standard di qualità dei sistemi di riconoscimento facciale utilizzati dal governo.

Tuttavia in Cisgiordania questa tecnologia è solo “un altro strumento di oppressione e sottomissione del popolo palestinese,” afferma Avner Gvaryahu, direttore esecutivo di Breaking the Silence. “Mentre la sorveglianza e la privacy sono una priorità nella discussione pubblica a livello mondiale, qui vediamo un altro vergognoso assunto del governo e dell’esercito israeliani secondo cui quando si tratta di palestinesi i diritti umani fondamentali sono semplicemente irrilevanti.”

Elizabeth Dwoskin

Lisa è entrata al Washington Post come corrispondente dalla Silicon Valley nel 2016, inviata del giornale nella zona. Si è concentrata sulle reti sociali e il potere dell’industria tecnologica in una società democratica. In precedenza è stata la prima cronista a tempo pieno del Wall Street Journal [prestigioso quotidiano economico statunitense, ndtr.] ad essersi occupata di intelligenza artificiale e dell’impatto degli algoritmi sulla vita delle persone.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Opinione: il primo ministro israeliano non cerca un cambiamento. Vuole solo maggiore copertura per l’apartheid e la colonizzazione.

Noura Erakat

26 agosto 2021 – Washington Post

Questa settimana il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha fatto una serie di incontri a Washington, incontrandosi con funzionari dell’amministrazione Biden (un colloquio alla Casa Bianca è stato rinviato a causa degli attacchi all’aeroporto di Kabul). Entrambe le parti sperano di ristabilire i rapporti tra gli USA e Israele dopo quattro anni in cui l’ex-presidente Trump ha sfacciatamente promosso gli interessi espansionistici di Israele senza la parvenza progressista delle passate amministrazioni USA. La sinergia tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha evidenziato la natura farsesca del processo di pace e rafforzato una crescente divisione di parte tra i democratici e i repubblicani riguardo a Israele.

Tuttavia, nonostante il loro massimo impegno per nascondere la realtà – la colonizzazione israeliana di insediamento sulla terra palestinese e il regime di apartheid imposto per consolidare queste appropriazioni di territorio e rafforzare la supremazia ebraica – nessuna operazione di pubbliche relazioni o manipolazione della realtà può cambiare quanto avviene sul terreno o le tendenze che stanno allontanando gli americani da Israele a favore del sostegno alla libertà dei palestinesi.

In politica niente è cambiato. Nei suoi primi otto mesi in carica Biden ha approvato la maggior parte delle iniziative più discutibili di Trump, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’opposizione all’inchiesta della Corte Penale Internazionale sulle azioni di Israele e l’adozione dell’estremamente problematica definizione di antisemitismo che confonde le critiche contro Israele con il fanatismo antiebraico.

Biden si è categoricamente opposto a qualunque condizionamento dell’aiuto militare a Israele in base alle violazioni dei diritti umani e ha ordinato ai suoi funzionari di lottare contro il movimento di base per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi, che si ispira ai movimenti per i Diritti Civili [negli USA, ndtr.] e contro l’apartheid in Sudafrica. In maggio, durante il bombardamento israeliano di Gaza che ha ucciso più di 250 palestinesi, tra cui 12 famiglie cancellate dall’anagrafe, Biden ha resistito a ripetute richieste all’interno del suo stesso partito per sollecitare pubblicamente Israele a interrompere le violenze.

Da parte sua Bennett è ansioso di presentarsi al principale sponsor di Israele e al mondo. Vuole distinguersi da Netanyahu, sotto il quale e al cui fianco ha lavorato per molti anni, nel tentativo di compiacere i sionisti progressisti USA, che sono alla disperata ricerca di una foglia di fico per sostenere la loro negazione riguardo all’esistenza dell’apartheid israeliano.

Tuttavia Bennett è, se possibile, persino più estremista di Netanyahu. Bennett è stato a capo del Consiglio Yesha, la principale organizzazione che rappresenta i coloni, e si è opposto senza riserve a uno Stato palestinese. In base all’accordo che tiene insieme la sua coalizione, il nuovo governo “incentiverà in modo significativo la costruzione a Gerusalemme,” comprese le colonie a Gerusalemme est, e, secondo informazioni, ha promesso ai capi dei coloni che non ci sarà un blocco delle colonie neppure nel resto della Cisgiordania.

Cosa forse ancor più allarmante, Bennett ha iniziato a cambiare lo status quo nel venerato complesso della moschea del nobile santuario, noto agli ebrei come Monte del Tempio, per consentire agli ebrei di pregarvi. Dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967 Israele ha vietato agli ebrei di pregare sul Nobile Santuario perché molte autorità religiose ebraiche vi si sono opposte per ragioni teologiche e per evitare di provocare tensioni con i musulmani. Ora con Bennett ciò sta cambiando, con conseguenze potenzialmente disastrose non solo per la regione.

Come parte di questo piano per presentare una nuova immagine, Bennett sta cercando di “ridimensionare il conflitto” rendendo più tollerabili le condizioni dei palestinesi con la prosecuzione della dominazione israeliana, proprio come la visione di Trump per una “pace economica”. Questo approccio riguarderà anche l’esaltazione come modelli per la pace degli Accordi di Abramo, il riconoscimento reciproco tra Israele e regimi autoritari sostenuti dagli USA. Bennett probabilmente appoggerà un incremento degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese, che è parte dell’apparato di sicurezza israeliano: proprio di recente essa ha arrestato decine di difensori dei diritti umani palestinesi nel tentativo di reprimere il dissenso.

Biden è altrettanto ansioso di accogliere Bennett e una versione modificata delle politiche di contenimento di Trump. Egli rappresenta la vecchia guardia del Partito Democratico, che ha perso i contatti con gli elettori democratici e con l’opinione pubblica degli USA in generale. I sondaggi mostrano sistematicamente che gli americani di tutto lo spettro politico vogliono che gli USA siano più corretti e imparziali quando si tratta di Israele e dei palestinesi.

Questo spostamento dell’opinione pubblica statunitense è stato chiaramente evidente lo scorso maggio, quando gli americani hanno occupato le reti sociali e sono scesi in piazza in numero senza precedenti per chiedere la fine dell’attacco israeliano contro Gaza e un cambiamento della politica USA nella regione. Con un altro segno dei tempi, la popolare marca di gelati Ben & Jerry ha annunciato che smetterà di vendere gelati nelle colonie israeliane, una decisione che ha sostenuto benché le più alte cariche del governo israeliano abbiano vilmente accusato l’azienda di antisemitismo.

In ogni caso, quando Biden e Bennett si incontreranno alla Casa Bianca, i palestinesi figureranno al massimo come ombre. Ciò è particolarmente insultante alla luce del continuo movimento di protesta dell’Intifada Unita e una testimonianza del fatto che un cambiamento necessario non avverrà dall’alto verso il basso. Nel prossimo futuro probabilmente Israele sarà il suo stesso peggior nemico, in quanto insiste a sostenere che il suo regime di suprematismo razziale è una forma corretta di liberazione nazionale, e probabilmente gli Stati Uniti saranno l’ultima tessera a cadere come fu nel caso della lotta contro l’apartheid in Sud Africa.

Noura Erekat è avvocatessa per i diritti umani e docente associata dell’università Rutgers [prestigiosa università statunitense, ndtr.]. È autrice di “Justice for Some: Law and the Question of Palestine” [Giustizia per qualcuno: la legge e la questione della Palestina].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)