Permessi di costruzione per palestinesi

I nuovi permessi di costruzione per i palestinesi aprono la strada all’annessione?

A fine luglio la decisione israeliana di approvare 715 alloggi in città palestinesi potrebbe essere un gesto simbolico o la premessa di una maggiore presa di controllo sulle terre della Cisgiordania occupata

Ben White

23 agosto 2019 – Middle East Eye

La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano, annunciata a fine luglio, di approvare i permessi di costruzione per abitazioni palestinesi in zona C [sotto totale controllo israeliano, ndtr.] della Cisgiordania occupata costituisce un’eccezione perché si tratta della “prima decisione di questo tipo dal 2016”.

Benché il numero comunicato di 715 alloggi nelle città palestinesi sembri positivo, finora non è stata diffusa alcun’altra informazione, per esempio se i progetti riguardino nuove costruzioni o la regolarizzazione retroattiva  di abitazioni costruite senza i permessi rilasciati da Israele.

Al di là della mancanza di chiarezza, queste abitazioni sono una goccia nell’oceano: secondo Peace Now, «si stima che ogni anno nella zona C vi sia almeno un migliaio di giovani coppie palestinesi che hanno bisogno di un alloggio.»

Dal 2009 al 2016 le autorità d’occupazione israeliane hanno approvato solo 66 permessi di costruzione per palestinesi nella zona C, cioè appena il 2% del totale delle domande. Nello stesso periodo è iniziata la costruzione di 12.763 alloggi nelle colonie israeliane della zona C.

Ciononostante, benché questi nuovi permessi di costruzione si avvicinino appena alle necessità derivanti da un sistema intenzionalmente discriminatorio, questa resta una decisione inusuale. Perché un governo di estrema destra –alla vigilia delle elezioni – dovrebbe prendere una simile misura?

Una iniziativa dovuta «alla pressione americana » ?

Il «piano di pace» della Casa Bianca costituisce un elemento essenziale del contesto : Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] cita «fonti politiche» anonime che ritengono che questa iniziativa «potrebbe essere dovuta a pressioni americane.»

Queste autorizzazioni sono avvenute proprio prima della visita di una delegazione americana guidata dal consigliere della Casa Bianca Jared Kushner, nel quadro di un tour regionale per promuovere il piano.

Questa possibilità ha destato preoccupazione in alcuni membri del movimento dei coloni: due importanti responsabili hanno definito i permessi di costruzione per i palestinesi «particolarmente inquietanti”, tenuto conto di ciò che descrivono come «il chiaro obbiettivo dell’Autorità Nazionale Palestinese di stabilire uno Stato terrorista nel cuore del Paese.»

Non devono preoccuparsi. Secondo Haaretz, che cita «fonti informate sui dettagli», alcune informazioni hanno rapidamente rivelato che la decisione del governo israeliano è dipesa in realtà da un «cambio di politica destinato ad estromettere l’Autorità Nazionale Palestinese dalla pianificazione territoriale e dalla costruzione nei territori (occupati) ».

Prevenire uno Stato palestinese

Inoltre il Ministro dei Trasporti e deputato dell’Unione dei partiti di destra, Bezalel Smotrich, ha pubblicato su Facebook una spiegazione dettagliata  per giustificare questi permessi.

Affermando che uno dei principali obbiettivi della sua carriera politica è «impedire l’instaurazione di uno Stato terrorista arabo nel cuore di Israele » (con riferimento alla Cisgiordania), Smotrich scrive : «Oggi, finalmente…Israele predispone un piano strategico per fermare la creazione di uno Stato palestinese.”

Secondo Smotrich la decisione del gabinetto segna «la prima volta » che Israele « controlla che nella zona C vi siano costruzioni solo per gli arabi che siano residenti originari della regione dal 1994 e non per gli arabi arrivati in seguito dalle zone A [sotto controllo palestinese, ndtr.] e B [sotto controllo amministrativo palestinese e militare israeliano, ndtr]. »

La costruzione per i palestinesi sarà quindi autorizzata solo «in luoghi che non nuocciano alla colonizzazione e alla sicurezza delle colonie e non creino una contiguità territoriale né uno Stato palestinese di fatto. »

E non è tutto. «Per la prima volta nella sua storia », prosegue il Ministro, « lo Stato di Israele applicherà la propria sovranità sull’insieme del territorio ed assumerà la responsabilità di ciò che accade al suo interno. »

Ecco, sta scritto nero su bianco. I permessi concessi ai palestinesi nella zona C sono una dimostrazione della «sovranità » israeliana – un’altra premessa all’annessione formale.

In quest’ottica il legame tra i permessi di costruzione ed il piano dell’amministrazione Trump assume una dimensione più preoccupante – anche se poco sorprendente -, che non suggerisce una «concessione» per facilitare i negoziati, ma un coordinamento tra Israele e gli Stati Uniti riguardo all’annessione della zona C.

Dare priorità alle comunità ebree

Fatto rivelatore, parallelamente alla concessione di permessi ai palestinesi, il governo israeliano ha approvato circa 6000 alloggi nelle colonie israeliane. Il giorno dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in occasione di una visita nella colonia di Efrat, dichiarava: «Nessuna colonia e nessun colono saranno sradicati…Ciò che fate qui è definitivo.»

Tuttavia, che i permessi di costruzione per i palestinesi – se mai si concretizzeranno – siano solo un gesto simbolico oppure una premessa all’annessione, questi sviluppi mettono in evidenza i limiti di una critica meramente umanitaria alla politica israeliana di demolizione e di espulsione.

Negli ultimi anni il brutale approccio «discriminatorio ed iniquo» di Israele riguardo alle comunità e alle abitazioni nella zona C della Cisgiordania ha suscitato giustamente critiche internazionali sempre più numerose, e Amnesty International ha condannato il regime di pianificazione discriminatorio di Israele come “unico al mondo.”

Nonostante questo, man mano che Israele si avvicina all’ufficializzazione dell’annessione della zona C, alcuni diranno che tale sviluppo è vantaggioso per gli abitanti palestinesi perché concederà loro la cittadinanza, legalizzerà le loro comunità, rilascerà dei permessi, eccetera.

Beninteso, un simile argomento può essere contestato in base ai suoi stessi termini, anche citando gli argomenti chiaramente avanzati dai sostenitori di Smotrich, secondo i quali la politica di pianificazione continuerà a dare priorità alle comunità ebree (come è sempre stato entro i confini del 1967).

Progetto colonizzatore

Tuttavia, una posizione molto più forte consiste nel considerare le demolizioni e le espulsioni di Israele nella zona C, compresi i permessi che rilascia, nel contesto di un regime di apartheid molto più vasto, nel quale i palestinesi vengono espulsi, frammentati e discriminati per perseguire l’obbiettivo principale di mantenere lo Stato ebraico – ed il controllo della terra e della demografia necessario a tale obbiettivo.

Il regime di pianificazione territoriale discriminatorio di Israele costituisce una crisi umanitaria e dei diritti umani, ma non si tratta solo di questo – e se l’opposizione alle demolizioni si esprime in questi termini, le critiche diventano vulnerabili alle iniziative israeliane quale un aumento simbolico dei permessi, cioè l’annessione.

In fin dei conti, come altrove in Palestina, è più facile comprendere e attaccare le politiche israeliane collocandole nel quadro di un progetto di colonizzazione di molti decenni – un quadro che mantiene tutta la sua rilevanza, piuttosto che assistere tra breve ad un’annessione ufficiale della zona C o alla perpetuazione dello statu quo.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi media, tra cui Middle East Monitor, Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian ed altri ancora.

 

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Cosa c’è dietro il discorso di Kerry?

Ben White – 29 dicembre 2016, Middle East Monitor

Un elogio della soluzione dei due Stati? Forse, ma il discorso del segretario di Stato John Kerry di mercoledì è simile in modo sospetto ad un ennesimo disperato tentativo di tenere in piedi il cosiddetto “processo di pace”.

E’ possibile capire la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e il discorso di Kerry, come interpretarli – la loro debolezza e le opportunità che rappresentano -, solo iniziando con guardare in faccia la realtà del processo di pace durato due decenni e guidato dagli USA e dalla comunità internazionale.

Il processo di pace ha imposto una falsa simmetria tra occupante ed occupato, trasformando colonizzatori e colonizzati in “due parti” con obblighi e responsabilità reciproci.

Il processo di pace è anche servito ad rendere ulteriormente immune Israele dal dover rispondere dei sistematici e continui abusi dei diritti umani e delle violazioni delle leggi internazionali. Per esempio, i tentativi di garantire giustizia per le vittime dei crimini di guerra sono stati sacrificati allo per “proteggere” il processo dei negoziazione.

Ed infine l’obiettivo del processo di pace, diventato sempre più esplicito, è di preservare Israele come “Stato ebraico”. I diritti dei palestinesi sono subordinati al “carattere” (etnocratico) di Israele, e la sovranità palestinese ( e la sua autodifesa) è subordinata alle esigenze di sicurezza di Israele.

Ma il processo di pace è fallito, uno sviluppo guidato da una leadership politica israeliana votata alla colonizzazione della Cisgiordania e da una totale mancanza di volontà da parte degli USA e degli Stati europei di imporre un costo reale a un governo israeliano segnato dal dire sempre di no e favorevole alle colonie.

Mercoledì scorso non c’è stato niente di originale nell’affermazione di Kerry che se Israele occuperà la Cisgiordania per sempre sarà “o ebraico o democratico”, ma “non potrà essere entrambe le cose”: versioni di questo avvertimento sono state esposte ormai da anni da diplomatici occidentali e persino da qualche politico israeliano.

Lo stesso Kerry, durante il Saban Forum [incontro annuale organizzato dall’ istituto statunitense “Centro per la Politica in Medio Oriente. Ndtr.] del dicembre 2015, ha chiesto retoricamente: “Come Israele potrebbe continuare ad conservare il suo carattere di Stato ebraico e democratico se dal fiume al mare [dal Giordano al Mediterraneo. Ndtr] non ci fosse un maggioranza ebraica?”

Due importanti punti a proposito di questo “avvertimento”. In primo luogo, Israele ha governato su milioni di palestinesi non cittadini con un regime militare per almeno 50 anni. Per cui, solo su questa base, l’occupazione permanentemente temporanea ormai mette in dubbio le credenziali democratiche di Israele.

Ma, in secondo luogo, il vero contesto è una concessione al razzismo colonialista d’insediamento, in cui la sola presenza dei palestinesi costituisce una minaccia. Ad esempio quali sono le implicazioni per i palestinesi cittadini di Israele di una ideologia dello Stato in cui “troppi” non ebrei sono una questione di pericolo esistenziale?

Ci sono tre fattori principali dietro alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU e al discorso di Kerry (in altre parole, “perché adesso?”). Il principale impulso viene da una nuova legge che sta proseguendo il suo iter alla Knesset, la quale “legalizzerebbe” retroattivamente dozzine di “avamposti” non autorizzati dei coloni in Cisgiordania.

Contemporaneamente a questo sviluppo c’è l’imminente arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, che porta con sé un gruppo di consiglieri sul Medio Oriente che include espliciti oppositori della costituzione di uno Stato palestinese e sostenitori entusiastici della colonizzazione israeliana.

E, oltretutto, questa è stata una manifestazione di frustrazione da parte di un’amministrazione Obama che avrebbe voluto avere due mandati di un primo ministro israeliano come Tzipi Livni o Isaac Herzog – strateghi più accorti quando si tratta di collaborare con il “processo di pace” – mentre gli sono toccati otto anni con Bibi [Netanyahu].

Come ha scritto su “The Nation” [rivista progressista statunitense. Ndtr.] Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi: “E’ stato un tentativo di salvarsi la faccia nei libri di storia con il gioco dello scaricabarile . Kerry ha chiarito che se gli israeliani voglio uccidere la pace con le colonie, è una loro scelta.”

Ma quali sono gli aspetti positivi? Sicuramente il discorso di Kerry è stato una boccata di aria fresca rispetto alle vere e proprie macchinazioni o agli argomenti prevedibili delle fonti ufficiali israeliane e dei loro amici e alleati. Ma ciò non alza di molto il livello.

Kerry si è vantato del record di Barack Obama nell’appoggiare Israele, affermando che “nessuna amministrazione americana ha fatto di più per la sicurezza di Israele.” Ha aggiunto: “Nel mezzo della nostra crisi finanziaria e del deficit di bilancio abbiamo ripetutamente aumentato i finanziamenti per sostenere Israele.”

I diplomatici USA hanno persino sottolineato con orgoglio il sostegno di Obama a Israele durante i brutali attacchi universalmente condannati contro la Striscia di Gaza (o, con le parole di Kerry, “azioni…che hanno suscitato grandi polemiche”).

I principi di Kerry per un accordo di pace sono, nelle parole del giornalista israeliano Barak Ravid, “magnificamente sionisti”: “scambio di territori” per tener conto dei principali insediamenti illegali, negazione del ritorno a casa dei rifugiati palestinesi per non minacciare la maggioranza ebraica (creata con la violenza) di Israele.

E’ vero che Kerry ha riconosciuto alcune verità imbarazzanti a proposito del regime discriminatorio di Israele nella Cisgiordania occupata: “Praticamente nessuna costruzione privata palestinese viene approvata nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo israeliano. Ndtr.]”, ha affermato, notando come “solo un permesso è stato rilasciato da Israele in tutto il 2014 e 2015.”

E sì, Kerry ha anche confutato qualche luogo comune riguardo alla costruzione di colonie, sottolineando come “quello che costituisce un blocco (di insediamenti) è stato fatto in modo unilaterale dal governo israeliano, senza consultare i palestinesi e senza il loro consenso.”

Ma è un monito del fatto che Kerry e i diplomatici come lui non sono ignari di quello che succede – hanno solo scelto di garantire l’impunità di Israele. Oltretutto, è chiaro che Kerry conosce fatti altrettanto imbarazzanti riguardanti situazioni che è orgoglioso di difendere – ad esempio, i bombardamenti israeliani contro Gaza.

Ciò detto, è importante non ignorare le scelte politiche – e l’impatto – dell’ammonimento degli USA, senza mezzi termini e pubblicamente, al governo di Netanyahu, soprattutto facendo immediatamente seguito alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che ha riaffermato le “flagranti” violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele.

Tali dinamiche renderanno sicuramente la vita più difficile ai gruppi che appoggiano Israele – soprattutto quelli che ancora sostengono con la voce roca la causa “progressista” dello Stato del colonialismo di insediamento. Le risibili reazioni di Netanyahu e dei suoi ministri hanno messo in evidenza il loro disprezzo, e la loro paura, delle leggi internazionali.

La risoluzione dell’ONU e il discorso di Kerry (e quello che ciò rappresenta) giocheranno un ruolo e agiranno come catalizzatori di processi preesistenti – come la trasformazione di Israele in un argomento conflittuale nella politica USA e la crescita della campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Dopo la risoluzione dell’ONU le singole campagne di boicottaggio e sanzioni saranno solo più facili da attuare alla luce di una sicura continuazione dell’incremento delle colonie israeliane e delle politiche di apartheid. Dovrebbe risultare ancora più evidente ai gruppi dei diritti umani ed ai governi internazionali che è necessaria una pressione effettiva.

Il giornalista israeliano Chemi Shalev ha definito il discorso di Kerry “un rito di passaggio da un’era ad un’altra”. La domanda per i dirigenti palestinesi è se potranno agire di conseguenza e sfruttare i nuovi sviluppi a favore dell’autodeterminazione e dei diritti di tutto il popolo palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I crescenti attacchi israeliani contro civili a Gaza mettono a rischio il cessate il fuoco in vigore da due anni.

Ben White, 8 settembre 2016 Middle East Monitor

Esprimendo preoccupazione che tale violenza possa mettere a rischio l’attuazione del cessate il fuoco che ha posto fine all’operazione “Margine Protettivo” nel 2014, un’informativa delle Nazioni Unite ha rivelato che nel secondo trimestre del 2016 l’esercito israeliano ha significativamente incrementato gli attacchi contro civili palestinesi nella Striscia di Gaza.

Nel periodo da aprile a giugno vi sono state in media più di 90 sparatorie al mese da parte delle forze armate israeliane nelle cosiddette zone ad accesso limitato (ARA) – circa 60 a terra e 30 in mare. Si tratta di oltre il doppio della media corrispondente a gli ultimi 6 mesi del 2015.

Le forze israeliane hanno attaccato da molto tempo agricoltori, pescatori ed altri civili nelle ARA di Gaza. Come ha riportato l’ONU a luglio, le limitazioni all’accesso imposte unilateralmente da Israele sono “applicate facendo fuoco con proiettili letali direttamente o con spari di avvertimento, con la distruzione di proprietà, arresti e confisca di attrezzature.”

Presentando gli ultimi dati in un aggiornamento trimestrale pubblicato il mese scorso, l’Ufficio per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie dell’ONU (OCHA) nei territori palestinesi occupati (OPT) ha definito “l’uso della forza da parte di Israele” nelle ARA “una particolare fonte di preoccupazione”.

Secondo James Heenan, capo dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU nei territori palestinesi occupati, “ci sono quasi quotidianamente episodi in cui le forze israeliane sparano a Gaza, causando spesso feriti o anche morti e distruzioni di proprietà.”

Nella maggior parte dei casi, ha detto Heenan a Middle East Monitor, “non ci sono indicazioni che le forze israeliane fossero di fronte a una minaccia imminente tale da giustificare il livello di forza impiegato, incluso l’uso di armi da fuoco. Spesso le vittime sono contadini, pescatori, bambini e manifestanti.”

Il 3 aprile le autorità israeliane hanno annunciato un ampliamento della zona con permesso di pesca dalla costa sud di Gaza da 6 a 9 miglia (da notare che gli Accordi di Oslo prevedevano un limite di 20 miglia). Comunque il 26 giugno, meno di tre mesi dopo, è stato nuovamente imposto il limite di 6 miglia.

Secondo l’OCHA a luglio sono stati arrestati ed imprigionati più di 90 pescatori, “il numero più alto all’anno da quando, nel 2009, si è iniziato a tenere il conto.” In nove giorni di agosto, per esempio, le forze israeliane hanno attaccato pescatori palestinesi in sei diverse occasioni (il 21, 23, 25, 27, 28 e 29 agosto).

Intanto, a maggio, è stato comunicato che l’esercito israeliano avrebbe permesso ai contadini di accedere alle terre vicine alla barriera di confine, sotto il controllo del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC). Dal 2014 l’ICRC aiuta i contadini di Gaza a recuperare la terra e a garantirsi l’ accesso.

Mentre alcuni contadini hanno certamente beneficiato di questo, un portavoce dell’ICRC di Gerusalemme ha rifiutato di commentare i continui attacchi israeliani nelle ARA, dicendo che “tutte le questioni che suscitano preoccupazione sono affrontate come parte del nostro dialogo riservato e bilaterale con tutte le parti in conflitto.”

Come ha detto recentemente un agricoltore agli attivisti: “I miei terreni sono relativamente vicini alla barriera, perciò io non posso metterci piede dalle 6 del pomeriggio alle 6 di mattina senza che mi sparino addosso. Cosa ci posso fare se l’elettricità non c’è prima delle 6 del pomeriggio? Devo lasciare la mia terra senz’acqua, rischiando di perdere il raccolto.”

La violenza usata dalle forze israeliane contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza non è quasi per niente citata dai media occidentali di lingua inglese. La maggioranza degli attacchi a pescatori, contadini e manifestanti non viene nemmeno menzionata.

.Comunque questi attacchi non possono essere separati dal più vasto scenario della Striscia di Gaza, compresa la dimensione della “sicurezza”, che è tipicamente intesa da giornalisti, analisti e politici in termini di lancio di razzi [da parte dei palestinesi] e reazioni militari israeliane.

Secondo Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas a Gaza, Hamas considera l’impiego metodico della violenza contro i palestinesi da parte delle forze israeliane nelle ARA come una violazione del cessate il fuoco del 2014. “Hamas registra tutte le violazioni ed aggiorna regolarmente i garanti regionali del cessate il fuoco”, ha dichiarato.

Inoltre, ha aggiunto Barhoum, questi attacchi delle forze israeliane “mettono a rischio lo status quo.”

“Ogni volta Hamas discute ciò che accade con le altre fazioni palestinesi, che valutano insieme quale sia la risposta migliore alla violazione israeliana in questione; se il silenzio, la condanna, l’avvertimento, il lancio di razzi a breve gittata, piazzare cecchini ai confini, ecc.”

Quindi, oltre al costo per contadini e pescatori della politica israeliana di imporre una “zona interdetta” all’interno di Gaza, questi attacchi, che sono chiaramente in aumento, rischiano anche di minare ulteriormente un accordo di cessate il fuoco che ha portato “tranquillità” per Israele, ma nulla di simile per i palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Soluzione dei due Stati e razzismo israeliano

Il sostegno israeliano ad una soluzione dei due stati basata sul razzismo

Ben White

 

Middle East Eye – Lunedì 19 settembre 2016

 

Quello che unisce i sostenitori irriducibili del colonialismo di insediamento sionista è semplice: il razzismo contro i palestinesi.

La scorsa settimana “The Guardian” [giornale inglese di centro-sinistra. Ndtr.] ha pubblicato la recensione scritta da Nick Cohen di un nuovo libro intitolato “Il problema della sinistra con gli ebrei”. La recensione di Cohen era abbastanza prevedibile, e il libro in sé, scritto da Dave Rich del  “Community Security Trust” [gruppo di autodifesa ebraico sospettato di rapporti con i servizi di sicurezza israeliani. Ndtr.] non è il fulcro di questo editoriale.

Piuttosto, voglio richiamare l’attenzione su una breve citazione della recensione di Cohen, che è istruttiva per quello che evidenzia dell’attuale dibattito su antisemitismo e sinistra, così come su domande più generali su  sionismo, anti- sionismo e sulla continua lotta dei palestinesi per l’autodeterminazione.

In un articolo breve, Cohen dedica parecchio spazio a una definizione parodistica dell’anti-sionismo. Egli scrive:

A partire dagli anni ’70, gli oppositori di Israele hanno dovuto decidere se l’anti-sionismo significasse una realizzazione dei diritti nazionali dei palestinesi attraverso la soluzione dei due Stati, che riconosce che la Palestina era il fulcro dei nazionalismi ebreo ed arabo in conflitto, o se gli richiedesse un appoggio a una guerra mortale, che avrebbe portato ad uno Stato puro dal punto di vista etnico e (con il sorgere del fondamentalismo sunnita) religioso.

Qui Cohen elabora la sua fondamentale alternativa falsa tra una soluzione dei due Stati che preservi Israele come “Stato ebraico” o un unico Stato “puramente sunnita”.

Che dire allora di uno Stato unico, democratico e decolonizzato? Sembrerebbe che Nick Cohen non pensi che i palestinesi siano abbastanza “civilizzati” per questo.

Nessun diritto al ritorno

Naturalmente, come ha sempre scritto, Cohen è assolutamente contrario al ritorno dei profughi palestinesi a casa. Perché? Sulla base del fatto che “distruggerebbero (Israele) in quanto Stato ebraico.” Il che ci porta alla domanda: chi sta effettivamente difendendo qui l’idea di uno “Stato etnicamente…puro”?

Questo tipo di proiezione da parte dei sostenitori di Israele è particolarmente evidente quando il discorso verte sull’idea di una soluzione di uno Stato unico democratico.

“I palestinesi vorrebbero buttare fuori gli ebrei!” sostengono i sostenitori di uno Stato creato attraverso la pulizia etnica, e che continua a praticarla anche adesso.

“Gli ebrei sarebbero cittadini di serie B!” dicono i sostenitori di uno Stato in cui i cittadini palestinesi affrontano una disuguaglianza sistematica, e le cui forze armate tengono milioni di palestinesi senza Stato sotto un regime militare ancora più esplicitamente discriminatorio.

L’argomentazione di Cohen mi ha ricordato le obiezioni di Yiftah Curiel, portavoce dell’ambasciata israeliana, durante un dibattito dell’inizio di quest’anno all’università di Oxford: “L’obiettivo di uno Stato unico,” ha detto, “è già stato sperimentato, e si chiama Siria.”

Da dove cominciare a descrivere le differenze che rendono un simile paragone quanto meno superficiale e semplicistico? Al peggio, si tratta di semplice razzismo: l’assunto implicito – o non tanto implicito, nel caso di Cohen – è che gli arabi sono incompatibili con una democrazia.

Una compagnia preoccupante

La difesa da parte di Cohen dell’attuale pulizia etnica con l’evocazione di un’ipotetica, futura pulizia etnica non è l’unico esempio di proiezione. Forse il suo prediletto argomento centrale da demolire è quello che vede una causa comune tra “sinistra”, o “progressisti”, e “sostenitori della “Fratellanza Musulmana”.

Eppure è  Cohen, in quanto si autodefinisce “liberal”, che si ritrova in allarmante compagnia quando arriva a difendere l’etnocrazia di Israele.

Per esempio, la scorsa settimana il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, residente in una colonia e capo del partito ultra-nazionalista Yisrael Beiteinu, ha parlato agli studenti nell’università di Ariel (situata all’interno della Cisgiordania) ed ha ripetuto il suo ben noto sostegno ad uno scambio di popolazione e terra tra coloni e cittadini palestinesi di Israele.

Perché? Bene, come lo ha definito Lieberman, è inaccettabile per i coloni ebrei essere spostati dalla Cisgiordania con un accordo di pace, per poi lasciare Israele con tutti quei cittadini palestinesi che distruggono la demografia di uno “Stato ebraico”.

“Abbas non vuole neanche un ebreo sul suo territorio mentre da noi ci si aspetta che diventiamo uno Stato bi-nazionale,” ha detto.

Questa avversione per il “bi-nazionalismo”, o anche per ogni soluzione in cui la “maggioranza ebraica” artificialmente e violentemente creata non sia protetta da un muro (gioco di parole) e garantita per sempre, è un punto di vista condiviso da tutti, da Lieberman fino a gente come la politica dell’opposizione israeliana Tzipi Livni.

Per Livni “pace e due Stati per due popoli” è “un imperativo”, in modo da  “evitare il problema statistico demografico che i palestinesi superino il numero degli israeliani,” e per “preservare l’ebraicità del modello di Israele come Stato ebraico e democratico.”

O, come Livni ha detto una volta agli studenti di una scuola di Tel Aviv, “una volta creato uno Stato palestinese”,  lei potrebbe guardarsi in giro e dire ai cittadini palestinesi di Israele: “La soluzione nazionale per voi è altrove.”

Nick Cohen annuirebbe in segno di approvazione. Perché quello che unisce i difensori incondizionali del colonialismo di insediamento sionista, che siano “liberal” o “falchi”, e indipendentemente dalle loro opinioni su qualunque altra questione, è semplice:  il razzismo anti-palestinese.

Ben White è l’autore di “Aparthied israeliano: una guida per principianti” e “Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia.” Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




il doppio standard di Israele riguardo all’uso di scudi umani

Ma’an News 8 agosto 2016 

di Ben White

Nonostante il fatto che le fonti ufficiali israeliane abbiano ripetutamente sostenuto che nell’estate 2014 [durante l’operazione militare “Margine protettivo” contro Gaza. Ndtr.] le fazioni palestinesi hanno metodicamente fatto ricorso a scudi umani, ci sono scarse prove, se non nessuna, che questo crimine, come definito dalle leggi internazionali, sia stato commesso da Hamas e da altri gruppi.

Anche se fosse stato così, ciò non assolverebbe Israele dalla sua responsabilità di rispettare le leggi.

Ci sono prove che non siano state prese sufficienti precauzioni riguardo al fatto di aver lanciato attacchi nelle vicinanze di non combattenti – benché lo stesso esercito israeliano abbia dichiarato che solo il 18% dei razzi sono stati sparati “da strutture civili”. Quindi, dato il ricorso della propaganda israeliana a questo cliché, la scarsità di prove che i palestinesi abbiano fatto ricorso a scudi umani è sorprendente.

Nel contempo, tuttavia, c’è un’attendibile ed abbondante documentazione del fatto che le truppe israeliane hanno utilizzato scudi umani per molti anni. Come elencato dall’ong israeliana B’Tselem, durante la seconda Intifada, iniziata nel settembre 2000, “l’esercito israeliano ha utilizzato civili palestinesi come scudi umani” come “applicazione di una decisione presa da alti gradi dell’esercito.” Secondo fonti ufficiali, fin quando nel 2005 la Corte Suprema israeliana non ha dichiarato questa prassi illegale, l’esercito israeliano ha seguito la procedura degli scudi umani in 1.200 occasioni nei 5 anni precedenti.

Eppure, nonostante la decisione della corte, ci sono stati numerosi esempi documentati della persistenza di questa pratica. Nel novembre 2006 i soldati israeliani hanno utilizzato un palestinese come scudo umano durante un’operazione militare a Betlemme. Nel 2007 B’Tselem ha documentato 14 casi di uso di scudi umani – compresi due bambini a Nablus. Nell’ottobre 2007, l’attuale vicecomandante dell’esercito israeliano, Yair Golan [che nel maggio 2016 durante una commemorazione dell’Olocausto Golan ha tracciato un parallelo tra il clima politico in Israele e la Germania degli anni ’30. Ndtr.], è stato oggetto di un semplice “biasimo” per aver ordinato ai soldati di utilizzare scudi umani. Quando due soldati sono stati arrestati per aver usato un bambino palestinese come scudo umano durante l’operazione “Scudo protettivo”, sono stati condannati a tre mesi con sospensione condizionale della pena e degradati.

Questo tipo di impunità è stato condannato nel giugno del 2013 dal Comitato ONU sui diritti del bambino, che ha citato 14 casi di “bambini palestinesi” utilizzati come “scudi umani ed informatori” dal gennaio 2010 alla fine del marzo 2013. Nonostante la condanna internazionale, gli esempi sono continuati: nell’aprile 2013 i soldati israeliani hanno usato ragazzini palestinesi ammanettati come scudi umani mentre sparavano contro manifestanti in Cisgiordania, mentre nel luglio 2014 i soldati “hanno obbligato i membri di una famiglia ad accompagnarli” durante un’irruzione in una casa a Hebron.

In realtà, tutte le accuse fatte dai portavoce israeliani contro le fazioni palestinesi- con scarse o nulle prove a sostenerle, tranne creative vignette o infografiche – hanno un parallelo nei crimini documentati dell’esercito israeliano. Utilizzare case per operazioni militari? L’esercito israeliano ha occupato e trasformato in avamposti case palestinesi, mentre i residenti sono stati confinati in alcune parti delle loro proprietà. Mascherarsi da non combattente per commettere attacchi violenti? Nel novembre 2015 le forze di occupazione israeliane si sono vestite con abiti civili – compreso un travestimento da donna incinta su una sedia a rotelle- durante un’irruzione in un ospedale di Hebron dove hanno ucciso a sangue freddo un uomo.

Le forze israeliane hanno utilizzato scudi umani anche durante le invasioni di Gaza. Nel luglio 2006, per esempio, a Beit Hanoun alcuni soldati hanno tenuto sei civili, compresi due bambini, “all’ingresso di stanze in cui i soldati si sono piazzati, per circa 12 ore,” durante “un’intensa sparatoria tra i soldati e palestinesi armati.” Il rapporto Goldstone ha documentato incidenti anche durante l’operazione “Piombo fuso”, in cui civili “sono stati bendati e ammanettati e sono stati obbligati ad entrare in alcune case davanti ai soldati israeliani.” La commissione d’inchiesta ONU che ha stilato il rapporto ha concluso che “questa pratica rappresenta un uso dei civili palestinesi come scudi umani,” e che “non sarebbe difficile concludere che si è trattato di una prassi ripetutamente adottata…durante l’operazione militare a Gaza.”

L’operazione “Margine protettivo” non è stata un’eccezione nelle attività dell’esercito israeliano che provano l’uso di civili palestinesi come scudi umani. In base a un resoconto registrato da “Difesa Internazionale dei Bambini- Palestina”, alcuni soldati israeliani “hanno usato ripetutamente” un 17enne palestinese “come scudo umano per cinque giorni,” obbligandolo sotto la minaccia delle armi a “cercare tunnel”, e sottoponendolo a maltrattamenti fisici. Il direttore esecutivo dell’ Ong, Rifat Kassis, ha sottolineato come “fonti ufficiali israeliane abbiano mosso accuse generiche (che i combattenti di Hamas utilizzassero scudi umani), mentre i soldati israeliani hanno adottato una condotta che rappresenta un crimine di guerra.”

La Commissione d’inchiesta ONU sul conflitto a Gaza del 2014 ha segnalato “informazioni sull’uso di scudi umani (da parte di soldati israeliani) nel contesto di operazioni di perlustrazione” sul terreno a Gaza. La commissione ha citato un caso in cui le forze israeliane “hanno sparato da dietro.. uomini nudi, utilizzandoli come scudi umani” per ore. Agli uomini “era stato detto dai soldati che erano stati piazzati davanti a una finestra per impedire ai combattenti di Hamas di rispondere al fuoco.” La commissione ha concluso che “il modo in cui i soldati israeliani hanno obbligato civili palestinesi a stare in piedi davanti alle finestre, a entrare in abitazioni/ in zone sottoterra e/o a svolgere funzioni pericolose di natura militare, costituisce una violazione del divieto dell’uso di scudi umani contenuta nell’articolo 28 della IV convenzione di Ginevra e può rappresentare un crimine di guerra.”

Ben White è uno scrittore, giornalista, ricercatore e attivista inglese specializzato in Palestina e Israele. Quello che segue è un estratto tratto dall’ultimo e-book di White, “La guerra del Gaza del 2014: 21 domande e risposte.” Ulteriori informazioni si possono trovare qui

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I media devono verificare i fatti

L’uccisione di palestinesi da parte israeliana: i media devono verificare i fatti

Ben White

Middle East Eye – 11 settembre 2016

 

 

Che cosa ci vuole perché i media occidentali smettano di prendere per buona la versione dei fatti delle autorità israeliane?

Persino per gli standard che siamo abituati d aspettarci dalle forze armate di Israele, le circostanze e quanto è seguito all’uccisione di Mustafa Nimr da parte della polizia di frontiera israeliana nel campo profughi di Shuafat lo scorso lunedì [5 settembre. Ndtr] suscitano aspre critiche per la loro assoluta crudeltà e sfrontatezza.

Alla fine di un’incursione notturna a Shuafat lunedì mattina presto, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un veicolo in quello che le autorità hanno immediatamente descritto come un tentativo sventato di investimento con un’auto. Il passeggero, Mustafà Nimr, è rimasto ucciso, mentre il conducente, suo cugino Alì, è stato ferito ed arrestato.

Per essere chiari: la versione consegnata ai media dalla portavoce della polizia israeliana sostiene che la macchina  è piombata contro i poliziotti di frontiera ed ha tentato di investirli. Gli agenti hanno aperto il fuoco, ha detto, solo dopo aver intimato al veicolo di fermarsi.

Tuttavia la famiglia di Mustafà, distrutta dal dolore, ha insistito che non c’era stato nessun tentativo di investimento, una versione sostenuta da testimoni oculari. Fotografie hanno  mostrato pane e vestiti per bambini sul sedile posteriore dell’auto, coperti di vetri rotti e di sangue.

“Ucciso per sbaglio”?

Il giorno dopo, fonti ufficiali israeliane hanno informato la famiglia che Mustafà era stato “ucciso per sbaglio”. Martedì notte, la TV israeliana ha mandato in onda brani di un video amatoriale della scena in cui si possono sentire spari dopo che la macchina si era già  fermata e Alì era steso al suolo.

Ma la storia non è finita. Allora è emerso che la polizia israeliana stava pensando di incolpare Alì, il ferito sopravvissuto agli spari, per aver provocato la morte di suo cugino. La ragione era che con il suo modo di guidare “spericolato” egli aveva causato il fatto che gli agenti aprissero il fuoco.

Queste accuse di “omicidio colposo” a quanto pare sono state rigettate da un tribunale israeliano. Tuttavia ci sono precedenti di ciò: nel 2012 le forze di sicurezza israeliane hanno sparato ed ucciso un lavoratore a un checkpoint, per cui è stato accusato solo il conducente della camionetta palestinese per “comportamento negligente”.

Al momento della stesura di questo articolo, gli ispettori del ministero della Giustizia stanno ancora valutando se “citare in giudizio gli agenti di polizia coinvolti nell’incidente per essere interrogati come possibili sospettati di un reato penale”.

 

In attesa che rendano conto delle loro responsabilità

I precedenti suggeriscono che nessuno dovrebbe trattenere il respiro aspettando che rendano conto delle loro responsabilità.

Non è la prima volta, anche durante lo scorso anno, che la causa delle autorità israeliane per l’uccisione di un palestinese viene insabbiata. Il 21 giugno l’esercito israeliano ha affermato che ha “preso di mira terroristi” quando, in effetti, ha ucciso il 15enne Mahmoud Badran mentre viaggiava con i suoi amici.

Il 13 luglio le forze israeliane hanno sparato ed ucciso Anwar al-Salaymeh durante un’operazione notturna a al-Ram, sostenendo di nuovo che si era trattato di un tentativo di investirli con l’auto. I sopravvissuti hanno detto che stavano semplicemente andando verso una panetteria.

La questione è: quanto ci vorrà perché i media occidentali smettano di prendere per buona la versione dei fatti delle autorità israeliane? E perché è addirittura un problema cominciare a farlo?

Dall’ottobre 2015 i media occidentali di lingua inglese, nel loro complesso, non hanno mai trattato le affermazioni delle autorità israeliane con lo scetticismo che evidentemente meriterebbero.

C’è un pregiudizio dietro la fiducia accordata a un’affermazione della polizia o dell’esercito? E’ La mancanza di tempo – o un preconcetto – ad impedire che la spiegazione fornita da un portavoce militare sia messa a confronto con, o citata insieme a, resoconti dei media palestinesi, di testimoni oculari o amici e parenti dei morti? Non è difficile da fare.

E sì, come ho scritto sopra, dall’ottobre 2015 i media occidentali di lingua inglese, nel loro complesso, non hanno mai trattato le affermazioni delle autorità israeliane con lo scetticismo- o persino con la semplice verifica dei fatti – che evidentemente meriterebbero.

Gli articoli di contesto spesso assomigliano a questo recente esempio dell’Associated Press [agenzia di stampa degli USA. Ndtr.]: “Dal settembre 2015, i palestinesi hanno ucciso durante attacchi 34 israeliani e due turisti americani. In questo periodo circa 209 palestinesi sono stati uccisi, la maggior parte dei quali identificati da Israele come aggressori.”

Tuttavia in quest’occasione l’AP ha aggiunto quanto segue nel suo reportage sulla sparatoria di Shuafat: “I palestinesi hanno spesso accusato gli israeliani dell’ uso eccessivo della forza contro aggressori e affermato in molti casi che i supposti assalitori non lo fossero affatto.”

Questa è un’aggiunta auspicabile, e si può solo sperare che altre agenzie di stampa e mezzi di comunicazione ne tengano conto. Però non basta ancora: non ci sono tracce, per esempio, del fatto che il bilancio dei morti palestinesi include civili disarmati uccisi durante proteste e scontri con le forze israeliane.

Formulazione standard

E’ evidente perché simili dettagli importano da un punto di vista israeliano. Il gruppo di pressione filo-israeliano “Camera” [gruppo statunitense che controlla e critica l’informazione sul conflitto israelo-palestinese. Ndtr.] si è lamentato del reportage di AFP sull’incidente di Shuafat, nonostante l’articolo riproduca, indubitabilmente, la versione dei fatti delle autorità israeliane – ora chiaramente smentita.

Qual è stata la contestazione di “Camera”? Che l’AFP “ha deviato dalla sua formula standard riguardo alle vittime palestinesi” omettendo “la questione fondamentale che la maggioranza di questi palestinesi uccisi stavano commettendo attacchi contro israeliani.”

Commentando la sparatoria mortale a Shuafat, l’avvocato di Ali Nimr ha detto: “Questo è un ulteriore esempio del caso di un poliziotto con il grilletto facile. Dopo aver visto i risultati (della sua azione), la cosa più facile è stata di dire che si trattava di un tentativo di aggressione con la macchina.”

Davvero facile – e non da ultimo perché sanno quanti giornalisti, sia israeliani che internazionali, continuano a volergli credere sulla parola.

– Ben White is the author of  Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide and Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy. He is a writer for Middle East Monitor, and his articles have been published by Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free, and more. 

Ben White è l’autore di “Apartheid israeliano: una guida per principianti” e “Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia.” Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free ed altri.

The views expressed in this article belong to the author and do not necessarily reflect the editorial policy of Middle East Eye.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)