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Una ragazza palestinese muore dopo essere stata colpita dalle forze israeliane

Redazione

21 giugno 2023-Middle East Eye

Sadeel Ghassan Naghniyeh Turkman, di 15 anni, è la settima persona a morire a seguito dell’incursione israeliana a Jenin in Cisgiordania

Una ragazza palestinese di 15 anni è morta mercoledì per le ferite riportate dopo essere stata colpita durante un raid israeliano, portando a sette il bilancio delle vittime dell’attacco alla città occupata di Jenin, in Cisgiordania, all’inizio della settimana.

Secondo il Ministero della Salute palestinese Sadeel Ghassan Naghniyeh Turkman è stata colpita alla testa dalle forze israeliane lunedì.

Oltre Turkman, il ministero ha confermato la morte di Ahmed Youssef Saqr, 15 anni, Khaled Azzam Darwish, 21, Qassam Faisal Abu Sariya, 29, Qais Majdi Jabareen, 21, Ahmed Daraghmeh, 19 e Amjad al-Jas, 48.

Una fonte della sicurezza israeliana, che ha parlato anonimamente alla radio dell’esercito, ha detto che le probabilità che le forze israeliane abbiano colpito la ragazza sono “basse”. I militari dovrebbero indagare sulla morte, anche se simili indagini in passato non hanno portato ad alcuna seria conseguenza.

All’inizio di questo mese l’esercito israeliano ha concluso, dopo un’indagine, di aver “involontariamente” ucciso Muhammad Tamimi, di due anni, dopo aver scambiato lui e suo padre, Haytham, per uomini armati che sparavano contro un insediamento israeliano illegale nella Cisgiordania occupata.

Tuttavia l’esercito israeliano ha affermato che avrebbe rimproverato il soldato per aver sparato in aria con la sua arma “in violazione degli ordini” e che l’esercito avrebbe “continuato a imparare e migliorare”.

Un’altra indagine israeliana sulla morte di un anziano palestinese-americano, Omar Assad, di 80 anni, si è conclusa la scorsa settimana e ha assolto i soldati da ogni illecito.

Assad era stato fermato a un posto di blocco in Cisgiordania nel gennaio dello scorso anno, trascinato fuori dalla sua auto con le mani legate poi bendato e lasciato a terra durante la notte. La causa della morte era stata un attacco cardiaco che la sua famiglia e il Ministero della Salute palestinese attribuirono al trattamento crudele che aveva subito.

L’inchiesta ha concluso che i soldati israeliani pensavano che Assad stesse dormendo mentre era accasciato sul pavimento e non hanno controllato se fosse vivo fino al mattino successivo.

Un rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha rilevato che meno dell’uno per cento dei soldati accusati di aver ferito o ucciso dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza sono mai stati indagati formalmente per comportamenti criminali.

Il rapporto afferma che i dati mostrano come Israele abbia un “completo disprezzo per la vita dei palestinesi e incoraggi l’uso costante della micidiale politica del grilletto facile che è costata la morte di così tanti palestinesi”.

Quest’anno le forze armate israeliane e i coloni hanno ucciso almeno 163 palestinesi, tra cui 27 minori.

Un totale di 129 vittime è stato registrato in Cisgiordania e Gerusalemme Est oltre a 34 nella Striscia di Gaza. Nello stesso periodo i palestinesi hanno ucciso almeno 24 israeliani.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I coloni festeggiano Purim con altri attacchi contro i palestinesi

Ali Abunimah 

7 marzo 2023 – Electronic Intifada

Lunedì quattro palestinesi, tra cui una ragazza, sono stati portati in ospedale dopo che coloni israeliani li hanno aggrediti a colpi di pietre nel villaggio di Huwwara, nella Cisgiordania occupata.

Si tratta dello stesso villaggio che il mese scorso i coloni, appoggiati da soldati israeliani, hanno assaltato bruciando automobili, case e attività commerciali.

Durante il pogrom è stata uccisa una persona, il trentasettenne Sameh Aqtash, appena tornato dalla Turchia dove era andato volontario per aiutare le vittime del terremoto.

Dopo questo attacco il ministro israeliano delle Finanze Bezalel Smotrich ha rilasciato un appello genocida secondo cui Huwwara deve essere “spazzato via”.

Giovedì mi sono unito a Rania Khalek e Eugene Purvear su BreakThrough News [notiziario di controinformazione con sede negli USA, ndt.] per parlare dell’aggressione contro Huwwara e del contesto più generale dell’estremismo e della violenza israeliani in aumento, soprattutto delle sempre più frequenti incursioni letali nelle città e nei campi profughi palestinesi.

Si può vedere l’intervista completa nel video all’inizio di questo articolo [nella versione originale in inglese, ndt.].

Nonostante la condanna internazionale del primo attacco contro Huwwara, Israele non sta facendo niente per frenare i coloni.

I pogrom a Huwwara continuano anche come parte dei festeggiamenti per Purim dei coloni, appoggiati dal governo e senza che le autorità facciano rispettare la legge,” afferma l’Ong israeliana per i diritti umani Yesh Din.

Lunedì si sono visti coloni ballare e cantare per le strade del villaggio come parte dei festeggiamenti per la festa ebraica di Purim, un’esibizione che un giornalista ha definito uno “spettacolo di suprematismo ebraico”.

Spesso Purim viene festeggiato in maschera, ma per l’avanguardia dei coloni dello Stato israeliano è diventato da tempo un’occasione per sfoggiare il loro razzismo e la loro violenza.

Itamar Ben-Gvir, ora ministro israeliano della Sicurezza Nazionale, è stato un partecipante entusiasta di questa orribile tradizione.

Nel 1995, da giovane adulto, Ben-Gvir si è travestito da Baruch Goldstein, il colono e medico ebreo americano che un anno prima aveva massacrato 29 palestinesi che stavano pregando nella moschea di Ibrahimi a Hebron per il Ramadan.

Il dottor Goldstein è il mio eroe”, dice Ben-Gvir a una televisione israeliana in un video.

Nonostante il suo odio violento contro i palestinesi sia rimasto immutato, ora Ben-Gvir recita la parte dello statista, celebrando Purim con una cerimonia religiosa solenne insieme al Primo Ministro Benjamin Netanyahu.

Ma nelle città palestinesi i coloni continuano a scatenarsi, con il totale appoggio dell’esercito israeliano.

Utilizzare Purim come scusa per la violenza è praticamente una tradizione” nella Cisgiordania occupata, osserva Breaking the Silence, un’associazione israeliana contro l’occupazione.

La scorsa notte a Huwwara coloni e soldati hanno ballato insieme con la musica di Purim mentre altri coloni aggredivano palestinesi,” aggiunge Breaking the Silence.

Sfortunatamente il resto dell’anno l’esercito israeliano e i coloni non si scomodano a inventare scuse per le continue violenze contro i palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele sa che la farà franca rispetto all’attacco al funerale di Shireen Abu Aqleh

Elizabeth Tsurkov

Lunedì 16 maggio 2022 – The Guardian

Le scene di violenza a Gerusalemme sono un sintomo di una cultura dell’impunità all’interno della leadership israeliana e delle forze di polizia da lei gestite

Molte persone sono rimaste scioccate dalle immagini dell’aggressione della polizia di frontiera israeliana al corteo funebre della celebre giornalista palestinese Shireen Abu Aqleh, non solo per la crudeltà della polizia, ma anche per il suo proposito di non curarsi del danno all’immagine recato dall’attacco. L’uccisione di Abu Aqleh, probabilmente da parte di un cecchino israeliano, la successiva incursione nella sua casa di famiglia e l’intimidazione della polizia nei confronti di suo fratello prima del funerale indicano il crescente senso di impunità che coinvolge i decisori politici e l’esercito israeliano.

La classe dirigente politica israeliana aveva promesso all’amministrazione Biden che il funerale di Abu Aqleh sarebbe stato “rispettoso”. Non sarà probabilmente soddisfatta dei video virali che mostrano poliziotti che tentano di strappare le bandiere palestinesi dalla bara di Abu Aqleh mentre picchiano con i randelli i portatori del feretro, facendolo quasi cadere a terra. Eppure per anni la leadership del Paese non ha subito ripercussioni internazionali per le sue azioni nei territori occupati. Nelle sue miti dichiarazioni sull’assalto al funerale, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha descritto le forze israeliane come “intrufolate nel corteo funebre”, come se fossero dei semplici ospiti non invitati.

Israele può contare sull’inerzia internazionale, mentre qualsiasi azione rivolta a punire i poliziotti o condannare il cecchino che ha sparato ad Abu Aqleh, la quale indossava un giubbotto che indicava chiaramente che era una giornalista, porterà attacchi al governo da parte della destra israeliana. Per oltre un decennio la quasi totale scomparsa della sinistra israeliana ha fatto sì che la competizione politica di un qualche rilievo fosse tutta interna al blocco di destra israeliano. Insieme alla crescente forza dell’estrema destra israeliana (sostenuta dall’ex primo ministro Benjamin Netanyahu) ciò ha portato i principali politici a spostarsi ulteriormente a destra per evitare di perdere il sostegno della loro base.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett e Netanyahu hanno cercato a tutti i costi di evitare di apparire teneri con le forze di sicurezza israeliane, indipendentemente dai loro crimini. Nel 2016, dopo che il soldato israeliano Elor Azaria venne ripreso dalla telecamera mentre uccideva ad Hebron un aggressore palestinese reso inoffensivo, Netanyahu condannò inizialmente il suo gesto. Successivamente, dopo aver visto i risultati di un sondaggio, ribaltò la sua posizione e chiese la grazia per Azaria. Azaria finì per scontare solo nove mesi in una prigione militare. Dopo il suo rilascio divenne una delle principali celebrità nei circoli di destra. Non sono stati processati dei poliziotti ripresi mentre picchiavano giornalisti a Gerusalemme, o dei soldati coinvolti nella detenzione di un anziano palestinese-americano, che è stato legato, imbavagliato e bendato e che è morto poco dopo sembra in seguito ad un attacco cardiaco.

Questi famosi casi di impunità non sono un’eccezione. I dati raccolti dalla ONG israeliana per i diritti umani Yesh Din mostrano che solo lo 0,7% delle denunce presentate dai palestinesi contro i soldati porta a procedimenti giudiziari, mentre l’80% dei casi viene chiuso senza un’indagine penale. I militari israeliani non hanno motivo di aspettarsi delle conseguenze personali per l’uccisione di una giornalista o per l’attacco al suo funerale, trasmesso in diretta in tutto il mondo.

Prima del funerale di Abu Aqleh la polizia israeliana ha ingiunto alla sua famiglia di impedire che l’evento si trasformasse in una protesta, un chiaro tentativo di dimostrare il dominio di Israele. Non è la prima volta che la classe dirigente e l’esercito israeliani tentano di fare prepotenze simili: all’inizio di quest’anno la leadership israeliana ha permesso ai fedeli ebrei di salire sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif [sito religioso situato nella città Vecchia di Gerusalemme importante per l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam, ndtr.] e di pregare lì, violando un precedente accordo con il Waqf islamico [ente deputato al controllo degli edifici religiosi islamici, ndtr.] di Gerusalemme e con la Giordania.

Nel 2017, in un’altra dimostrazione di forza, Israele ha installato metal detector agli ingressi della moschea di al-Aqsa. Le rivolte di massa hanno portato Israele a fare marcia indietro e rimuoverli dopo diverse settimane. Durante il mese del Ramadan i poliziotti israeliani hanno impedito ai palestinesi di sedersi vicino alla Porta di Damasco, un popolare spazio comune, e hanno effettuato arresti di massa di coloro che lo facevano. Di recente lo Shin Bet [agenzia di intelligence per gli affari interni dello Stato di Israele, ndtr.] dopo aver triangolato i loro telefoni ha inviato a dei palestinesi nella moschea di al-Aqsa messaggi con minacce di vendetta per loro presunte partecipazioni a rivolte.

I violenti tentativi della polizia israeliana di rimuovere le bandiere palestinesi issate durante il funerale di Abu Aqleh sono solo l’ultima manifestazione di una politica che mira a schiacciare i segni dell’identità palestinese a Gerusalemme. Nel 2018 il governo israeliano ha stanziato 2 miliardi di shekel (567.307.000 milioni di euro, ndtr.] per “incrementare la sovranità israeliana su Gerusalemme est”, con l’obiettivo di far sì che più scuole passino dall’insegnamento del programma giordano a quello israeliano. Le autorità israeliane hanno costretto le poche scuole della città che ancora insegnavano il programma palestinese a censurare i libri di testo che trattavano la storia palestinese. All’inizio di quest’anno i poliziotti israeliani hanno arrestato studenti palestinesi all’Università Ebraica di Gerusalemme per aver cantato quelle che la polizia sosteneva fossero canzoni nazionalistiche palestinesi.

L’uccisione di Abu Aqleh e la violenza esercitata sulle persone in lutto ha sicuramente causato danni alla reputazione di Israele. Ma a meno che la disapprovazione internazionale non si traduca in un cambiamento politico tangibile la leadership israeliana non ha motivo di smettere di esercitare altri abusi in futuro. I suoi leader sono impegnati a placare una base di destra che richiede a come minimo il pieno sostegno delle forze di sicurezza israeliane. Finché gli alleati di Israele continueranno a tollerare questi abusi, l’impunità rimarrà la regola, non l’eccezione.

Elizabeth Tsurkov è ricercatrice presso il Forum for Regional Thinking, un centro di ricerca israelo-palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Eravamo come fratelli’: il campo profughi inorridito dopo che l’esercito spara ad un palestinese che stava passeggiando

Yuval Abraham

10 marzo 2022 – +972 Magazine

Amar Shafiq Abu Afifa stava facendo una passeggiata quando i soldati israeliani lo hanno inseguito e gli hanno sparato alla testa, aggiungendolo al triste bilancio di vittime subìto dal campo profughi di al-Arroub.

Una settimana dopo che i soldati israeliani hanno colpito a morte il diciottenne Amar Shafiq Abu Afifa, il suo amico d’infanzia Mohammed, di 17 anni, è ritornato nel luogo dove è stato ucciso. Mentre saliva sulla collina verso la boscaglia dove è morto Abu Afifa, Mohammed cercava qualcosa tra l’erba alta. Erano stati esattamente in quella zona il giorno prima della sparatoria, dice, ed avevano scritto i loro nomi sull’erba con delle pietre. “Io ho scritto la lettera inglese M per Mohammed e Amar ha scritto il suo nome in arabo.”

Poi siamo saliti sulle rocce, sdraiandoci lì come lapide per un’amicizia spezzata. Hanno fatto un selfie durante quella passeggiata, che adesso è lo sfondo dello schermo del cellulare di Mohammed. I due ragazzi si abbracciano sorridendo alla telecamera. “Eravamo come fratelli”, dice a +972 Mohammed, che era insieme al suo amico quando gli hanno sparato in testa. “Sono ancora sotto shock.”

Le truppe israeliane hanno sparato a Abu Afifa il primo marzo, mentre camminava in cima ad una collina isolata fuori dal campo profughi di al-Arroub nella Cisgiordania occupata, dove sono cresciuti sia lui che Mohammed. Abu Afifa è stato ucciso mentre scappava, come lo stesso esercito ha ammesso in una dichiarazione. Il certificato di morte di Abu Afifa, emesso dal Ministero dell’Interno israeliano, registra una ferita da proiettile alla testa ed un’altra ad una gamba.

La dichiarazione del portavoce dell’esercito israeliano sosteneva che Abu Afifa e Mohammed si erano avvicinati ad un posto di avvistamento vicino alla colonia israeliana di Migdal Oz e che i soldati “li hanno inseguiti…e hanno avviato una procedura di fermo che include sparare al sospettato”.

Ma quando gli inviati di +972 hanno visitato la zona è stato chiaro che la sparatoria è avvenuta a circa 100 metri dal posto di avvistamento – che è semplicemente un gazebo costruito illegalmente a circa 400 metri dalla colonia. Sulla collina c’è anche una piccola torre di comunicazione che sembra essere il posto in cui i soldati hanno teso l’imboscata.

Un soldato è sbucato dagli alberi”, dice Mohammed. “Pensavamo che là non ci fosse nessuno, per cui ci siamo spaventati. Ci ha urlato di fermarci e ha immediatamente sparato in aria. Eravamo così spaventati che ci siamo messi a correre. Allora lui ha aperto il fuoco pesantemente. Non c’era alcun senso. Ho sentito colpi di mitraglia. Tutto è accaduto in pochi secondi. A quel punto non sapevo ancora che Amar fosse morto.”

L’esercito ha detto a +972 che la polizia militare ha avviato un’inchiesta, ma non ha fornito ulteriori dettagli. Secondo l’Ong (israeliana) per i diritti umani Yesh Din, le probabilità che un’inchiesta della polizia militare porti ad un’incriminazione sono inferiori al 4%. Dei 785 casi indagati dalla polizia militare tra il 2013 e il 2018 solo 31 hanno portato ad incriminazioni.

Non riuscivo a smettere di piangere’

Abu Afifa era uno di 7 fratelli. I suoi genitori, Shafiq e Samiha, nel loro salotto hanno una fotografia del figlio morto, che hanno posto su un drappo al suo funerale. Shafiq dice che l’esercito israeliano ha trattenuto il corpo di suo figlio per 10 ore, prima di telefonargli alle 3 del mattino per andare a prendere il corpo di Amar al cancello di una colonia. “Non riuscivo a smettere di piangere”, dice. Quando gli altri hanno incominciato a ricordare Abu Afifa, sua madre Samiha si è scusata ed è uscita dalla stanza.

Il campo profughi di al-Arroub, dove vive la famiglia di Abu Afifa, si trova tra Betlemme e Hebron nel sud della Cisgiordania. Ospita circa 11.000 palestinesi le cui famiglie furono espulse nel 1948 da villaggi come al Faluja e Iraq al-Manshieh, in quella che ora è la parte meridionale di Israele vicino a Kiryat Gat.

Il campo è come una gabbia”, dice Mohammed. “Non c’è dove andare, dove fuggire.” Durante la loro passeggiata il giorno prima della sparatoria, ricorda, avevano discusso del futuro. “Amar frequentava già l’università con molto successo ed io stavo pensando di abbandonare la scuola. Lui mi esortava a rimanere per ottenere il diploma di scuola superiore. Ecco di che cosa parlavamo. Lui veniva a casa mia tutte le settimane per aiutarmi con i compiti.”

Abu Afifa si è diplomato alla scuola superiore l’anno scorso e si è immediatamente iscritto all’università a Ramallah per studiare medicina. “Il suo sogno era diventare medico o infermiere”, dice suo padre. Abu Afifa qualche mese fa ha lasciato gli studi, ritenendo che l’impegno economico fosse troppo pesante per i suoi genitori. Si è iscritto ad un college più piccolo e più economico molto vicino al campo.

Come ragazzo di un campo non hai opportunità di un futuro diverso”, dice il fratello maggiore di Abu Afifa, Issa. “Anche se studi, comunque finisci a fare un lavoro manuale”.

Shafiq, che lavora presso l’UNRWA come operatore ecologico, aggiunge: “Per questo volevo costruire qualcosa di diverso per i miei figli. Ho faticato ogni giorno nel mio disgustoso lavoro per mandare Amar all’università. Dicevo, almeno lui potrebbe avere qualcosa…adesso non so che fare.” Aggiunge: “Mi ammazzo di lavoro. Non ho mai smesso di raccogliere immondizia. Neanche dopo che Amar è morto. Non ho scelta. Devo procurarmi da vivere.”

Una minaccia durante il funerale

Durante il funerale di Abu Afifa un funzionario dello Shin Bet (servizi interni israeliani di intelligence, ndtr.), che si faceva chiamare “Capitano Nidal”, ha telefonato a Shafiq. “Ha detto di essere un investigatore in servizio nell’area di Hebron”, ricorda Shafiq. “Gli ho detto che ero al funerale e gli ho chiesto: ‘Che cosa volete?’. Lui ha risposto: ‘Ora state molto attenti ai vostri figli’. Suonava come una minaccia. Gli ho detto: ‘Viviamo in gabbia, voi avete sparato a mio figlio e adesso mi minacciate?’ Ho avuto l’impressione di non essere niente per lui. Ed ho riattaccato. Da allora non ho più sentito lo Shin Bet.”

Mohammed afferma che non c’è alcun giovane la cui vita non sia stata toccata dallo Shin Bet in un modo o nell’altro. “Ogni villaggio in Cisgiordania ha un capitano che tiene sotto controllo i giovani, soprattutto quelli coinvolti in disordini”, spiega. “Al mio villaggio è in servizio il Capitano Kerem. Telefona ai ragazzi della mia classe. Segue i nostri gruppi di chat su Telegram.”

Il timore di Mohammed riguardo allo Shin Bet è il motivo per cui ha chiesto di usare solo il suo nome di battesimo in questa intervista. “Può farti quel che vuole”, dice a proposito del Capitano Kerem. Lo Shin Bet non ha risposto alla nostra richiesta di un commento.

Oltre alla sorveglianza dello Shin Bet, nel campo profughi di al-Arroub ogni settimana ci sono scontri con l’esercito israeliano. La Route 60, una strada costruita a fianco del campo, è uno dei luoghi preferiti dai ragazzi per tirare pietre alle auto israeliane di passaggio.

Negli ultimi due anni è in costruzione una nuova strada che oltrepasserà il campo più lontano. Nel frattempo i soldati hanno creato dei posti di blocco “mobili” all’entrata del campo ed anche molto all’interno. Chi scrive guida attraverso il campo almeno una volta a settimana e l’anno scorso c’era sempre un posto di blocco con auto palestinesi in coda per passarlo. Lungo la strada proveniente dal campo è stata messa una postazione militare. Le incursioni notturne sono la routine e spesso scoppiano anche scontri.

Normalmente gli scontri vedono lanci di pietre e a volte di bottiglie molotov da parte dei giovani e spari con proiettili veri da parte dei soldati. Mentre io e Issa camminavamo per le tortuose strade del campo, lui indicava una casa dopo l’altra. “Qui non c’è una singola famiglia che non abbia perso un figlio”, dice. Da parte sua Abu Afifa aveva cominciato ad evitare le proteste per concentrarsi sui suoi studi.

Un lungo e triste elenco

Negli ultimi nove anni ad al-Arroub sono stati colpiti undici palestinesi, di cui tre minorenni. Lubna al-Hanash, di 21 anni, è stata colpita nel 2013 mentre camminava nel terreno del college di al-Arroub; l’esercito ha aperto il fuoco dopo che qualcuno ha lanciato una bottiglia molotov contro un’auto israeliana di passaggio, e invece ha ucciso lei.

Iyad Fadailat, di 28 anni, è stato ucciso nel 2014. Si è imbattuto in un posto di blocco mobile appena fuori da casa sua e ha avuto una rissa con i soldati. Gli hanno sparato mentre scappava; l’esercito ha sostenuto che aveva tentato di sottrarre un fucile. Mohammed Jawabra, di 19 anni, è stato colpito nella sua casa nel 2014; i soldati stavano facendo un’imboscata su un tetto lì accanto ed hanno aperto il fuoco quando avrebbero visto una figura sospetta che puntava un’arma improvvisata, ma una successiva indagine di B’Tselem ha smentito l’accusa.

Omar Madi, di 15 anni, è stato colpito nel febbraio 2016 da un soldato di guardia alla torre di controllo lungo la strada; l’esercito ha affermato che stava tirando pietre contro la torre. Omar al-Badawi, di 22 anni, è stato colpito nel 2019 mentre cercava di spegnere un fuoco innescato da una bottiglia molotov che qualche ragazzino aveva lanciato contro dei soldati lì accanto; in seguito l’esercito ha ammesso che non vi era motivo di sparare.

Risibili, sproporzionate, o altro, l’esercito ha fornito giustificazioni per ognuna delle ultime 10 uccisioni di abitanti di al-Arroub – tutte ovviamente eseguite nel contesto di un’occupazione militare lunga 50 anni. Non in questo caso. Il lungo e triste elenco del campo registra ora un’altra voce: Amar Shafiq Abu Afifa, di 18 anni. Causa della morte: colpito alla testa mentre passeggiava nel bosco con il suo migliore amico.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Diritto Internazionale: Amnesty International analizza a fondo l’apartheid di Israele

Jean Stern

1 febbraio 2022 – Orient XXI

L’organizzazione per la difesa dei diritti umani Amnesty International attacca il crudele sistema di dominazione sulla popolazione palestinese che sia in Israele, nei territori occupati, a Gaza o rifugiata. Questo importante punto di svolta di Amnesty, che invoca il deferimento alla Corte Penale Internazionale, è un duro colpo per il governo israeliano. Orient XXI ha letto il rapporto in anteprima.

Il primo scossone è avvenuto nel 2020, quando l’organizzazione israeliana di giuristi Yesh Din ha utilizzato il termine “apartheid” per definire un sistema che si auto-proclama democratico e che, fino ad ora, è riuscito ad evitare un’analisi politica oggettiva. Dato che la vicinanza rende lucidi, un’altra ong israeliana, B’Tselem, nel 2021 è andata oltre, sostenendo che è tempo di dire “no all’apartheid dalle rive del Giordano al Mediterraneo”. Le due Ong sono state seguite dall’aprile 2021 da Human Rights Watch (HRW). Tuttavia l’organizzazione parla di apartheid solo per i territori occupati e Gaza, facendo un distinguo riguardo alle discriminazioni specifiche dei palestinesi israeliani. Il rapporto pubblicato da Amnesty International martedì 1 febbraio 2022, e di cui Orient XXI ha avuto l’anteprima, va molto oltre e utilizza il termine “apartheid” per tutti i palestinesi qualunque sia il loro luogo di residenza e il loro status.

Per la prima volta Amnesty International (AI), una delle più importanti organizzazioni mondiali in difesa dei diritti umani e anche una delle più caute nella scelta delle parole per definire le situazioni, in un rapporto pubblicato martedì primo febbraio 2022 e che dovrebbe provocare accese discussioni ritiene che “l’apartheid israeliano contro la popolazione palestinese è un sistema crudele di dominazione e un crimine contro l’umanità.” Il documento inoltre farà epoca, poiché tratta senza distinzione la situazione delle e dei palestinesi “che vivono in Israele e nei territori palestinesi occupati (TPO) così come rifugiate/i e profughe/i in altri Paesi.

Questo rifiuto di dividere i palestinesi in frammenti, di ritenere che i loro interessi avrebbero finito con il differenziarsi in base al loro luogo di residenza, è una rivoluzione notevole nel linguaggio della comunità umanitario-diplomatica internazionale. Si ispira agli argomenti di lunga data dei numerosi palestinesi (e di molti altri) sull’unità di un popolo frammentato dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948.

Riportare indietro l’orologio

Questo corposo materiale descrive l’oppressione israeliana e i meccanismi di dominazione dei palestinesi. Decine di interviste, centinaia di documenti analizzati soprattutto relativamente al periodo 2017-2021, mesi di elaborazione in totale segreto: il rapporto di Amnesty porta con sé un importante cambiamento politico. Offre anche una quantità considerevole di informazioni sulla situazione che vivono i palestinesi, che siano a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme, ad Haifa… e risale spesso alle origini dello Stato di Israele per comprendere meglio le radici di una politica la cui continuità era già stata messa in luce negli ultimi anni da molti storici di ogni origine. Anche lì Amnesty riporta indietro l’orologio. “Sta succedendo l’esatto contrario di quello che immaginavano,” mi disse in modo premonitore nella primavera del 2016 Yuli Novak, direttrice generale di Breaking The Silence, un’organizzazione israeliana di veterani dell’esercito israeliano che raccoglie le testimonianze sulle vessazioni commesse nei territori occupati dai soldati.

I rapporti di Breaking The Silence, così come quelli di altre Ong israeliane e palestinesi, hanno d‘altra parte alimentato il lavoro dei ricercatori di Amnesty International, ottenendo finalmente l’eco che meritavano.

Ciò che sta succedendo è semplicemente che il potere di persuasione di Israele (e dei suoi numerosi alleati di ogni latitudine e di ogni continente, da Los Angeles a Dubai) non è riuscito a soffocare le voci dissidenti, in primo luogo in Palestina, ma anche in Israele, tra gli ebrei come tra gli arabi. Al contrario, riprendono la parola. Con questo nuovo impegno molto convinto di AI l’uso del termine apartheid a proposito di Israele non sarà più soggetto a un fuoco di bombardamento, anche se forse è meglio non farsi illusioni, soprattutto in Francia. In ogni caso Amnesty propone un notevole salto in avanti sulla scena mondiale.

Un crimine contro l’umanità

Il suo rapporto di 211 pagine fitte analizza le detenzioni amministrative, l’esproprio di proprietà fondiarie e immobiliari, gli omicidi illegali, i trasferimenti forzati, le restrizioni agli spostamenti, gli ostacoli all’educazione. Si fonda su numerosi esempi documentati, in varie parti del Paese, nella Valle del Giordano, a Gaza. Raccoglie molte informazioni, il che ha permesso all’organizzazione di dedicarsi a un minuzioso inventario del sistema messo in atto da Israele. Si tratta di identificare altrettanti “fattori costitutivi” di un sistema di apartheid ai sensi del diritto internazionale. Per Amnesty “questo sistema viene perpetuato dalle violazioni che costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid come definito nello Statuto di Roma e nella Convenzione sull’apartheid.” Agnès Callamard, dal 2021 nuova segretaria generale dell’organizzazione di difesa dei diritti umani, chiarisce la questione:

“Il nostro rapporto svela la vera dimensione del regime di apartheid di Israele. Che sia nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme est, a Hebron o in Israele, la popolazione palestinese è trattata come un gruppo razziale inferiore ed è sistematicamente privata dei suoi diritti.”

Amnesty International “invita la Corte Penale Internazionale (CPI) a prendere in considerazione la definizione di crimine di apartheid nel quadro della sua attuale inchiesta nei TPO e chiede a tutti gli Stati di esercitare la competenza universale per portare davanti alla giustizia i responsabili dei crimini di apartheid.

Un sistema in vigore dal 1948

Il rapporto specifica ciò che Amnesty intende per “sistema di apartheid” e su questo punto specifico vale la pena citarlo per esteso:

“Il sistema di apartheid è nato con la creazione di Israele nel maggio 1948 ed è stato costruito e mantenuto per decenni dai governi israeliani che si sono succeduti su tutto il territorio da loro controllato, indipendentemente dal partito politico al potere all’epoca. Israele ha sottoposto diversi gruppi di palestinesi a differenti insiemi di leggi, di politiche e di pratiche discriminatorie e di esclusione in momenti diversi, in seguito alle conquiste territoriali realizzate prima nel 1948, poi nel 1967, quando annetté Gerusalemme est e occupato il resto della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Nel corso dei decenni le preoccupazioni demografiche e geopolitiche israeliane hanno plasmato le politiche nei confronti dei palestinesi in ognuno di questi contesti territoriali.

Anche se il sistema di apartheid di Israele si manifesta in modi diversi nelle differenti zone sotto il suo controllo effettivo, esso ha sempre lo stesso obiettivo di opprimere e dominare i palestinesi a favore degli ebrei israeliani, che sono privilegiati dal diritto civile israeliano qualunque sia il loro luogo di residenza. È concepito per conservare una schiacciante maggioranza ebraica che abbia accesso e abbia a disposizione il massimo di territorio e di terre acquisite o controllate, limitando nel contempo il diritto dei palestinesi a contestare la spoliazione delle proprie terre e dei propri beni. Questo sistema è stato applicato ovunque Israele abbia esercitato un controllo effettivo su territori e terre o sull’esercizio dei diritti dei palestinesi. Si concretizza nel diritto, in politica e nella prassi e si riflette nei discorsi dello Stato dalla sua creazione fino ad oggi.”

Discriminazione razziale e cittadinanza di serie B

Il rapporto insiste ovviamente sulle discriminazioni globali di un sistema la cui geometria variabile non è in fondo che un fattore di adeguamento.

Le guerre del 1947-49 e del 1967, l’attuale regime militare di Israele nei TPO e la creazione dei regimi giuridici e amministrativi differenti sul territorio hanno isolato le comunità palestinesi e le hanno separate dalla popolazione ebraica israeliana. Il popolo palestinese è stato frammentato geograficamente e politicamente e vive diversi livelli di discriminazione in base al suo status e al suo luogo di residenza.

Attualmente i cittadini palestinesi di Israele hanno più diritti e libertà dei loro omologhi dei TPO, e del resto la vita quotidiana dei palestinesi non si è dimostrata molto diversa che vivano nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania. Le ricerche di Amnesty International mostrano tuttavia che l’insieme della popolazione palestinese è soggetta a un solo e identico sistema. Il trattamento dei palestinesi da parte di Israele in tutti i territori risponde allo stesso obiettivo: privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle terre e delle risorse e ridurre al minimo la presenza della popolazione palestinese e il suo accesso alle terre.

Un solo e unico sistema, fondato secondo AI sulla discriminazione razziale e su status di cittadini di serie B. Questa svalutazione si accompagna ovviamente alla spoliazione, e il rapporto torna sulla “messa in atto di crudeli espropriazioni fondiarie su vasta scala contro la popolazione palestinese,” e sulla demolizione “dal 1948” di centinaia di case ed edifici palestinesi. Evoca anche le famiglie dei quartieri palestinesi di Gerusalemme est vessate dai coloni che si appropriano delle loro abitazioni “con il totale sostegno del governo israeliano.

Amnesty chiede a tutti i Paesi che intrattengono buoni rapporti con Israele “tra cui alcuni Paesi arabi e africani” di non sostenere più un sistema di apartheid. Per uscire da questo “sistema”, ormai documentato da Amnesty, “la reazione internazionale di fronte all’apartheid non deve più limitarsi a condanne generiche e a scappatoie. È necessario aggredire le radici del sistema, altrimenti le popolazioni palestinesi e israeliane resteranno imprigionate nel ciclo senza fine di violenze che ha annientato tante vite,” conclude Agnès Callamard.

La mia identificazione con questa storia è finita”

Con un’altra storia e attraverso altre vie Yuli Novak è arrivata alla stessa conclusione di Agnès Callamard. Oggi quarantenne, nel 2017 ha lasciato il suo incarico a Breaking The Silence per fare un viaggio con varie destinazioni, dall’Islanda al Sudafrica. Lì ha incontrato gente che aveva lottato contro l’apartheid, cercato di comprendere “le paure” degli uni e degli altri. Ma ha capito soprattutto l’apartheid nel suo stesso Paese. “La sua struttura politica era destinata fin dall’inizio a preservare una maggioranza ebraica, e in questo senso è stata antidemocratica. La mia identificazione con questa storia è finita,” continua Yuli Novak in un lungo ritratto pubblicato il 28 gennaio 2022 dal quotidiano progressista [israeliano] Haaretz.

In un libro che ha da poco pubblicato, Yuli Novak descrive parecchi anni infernali, di vessazioni quotidiane, la delusione di scoprire che un impiegato di Breaking The Silence era un agente dello Shin Bet, il servizio di spionaggio interno [israeliano, ndtr.]. Prima ha pensato che “quel tipo un po’ strano, un po’ solitario, commovente” sapeva tutto di lei, dei suoi piccoli “pettegolezzi”, prima di capire che la democrazia si dissolveva davanti ai suoi occhi. Allora ha compreso che il contratto con il suo Paese era per così dire “condizionato: finché obbedivo. Nel momento in cui qualcosa non gli andava bene, il sistema si rivoltava contro di me. Mi dicevano: ‘Se tu sei contro l’occupazione e pensi che si debba manifestare riguardo alla situazione a Gaza, allora non sei una di noi.

Prende atto del fatto che parlare di apartheid riguardo a Israele non è che un dato di fatto. E se ciò diventa psicologicamente e politicamente doloroso da sopportare per molti israeliani, lo è ancora di più e da molto più tempo per milioni di palestinesi. Per gli uni come per gli altri il sostegno internazionale, se fa il suo ritorno in forze senza insensatezze, sarà il benvenuto.

Jean Stern

Ex-giornalista di Libération, La Tribune e La Chronique d’Amnesty International. Nel 2012 ha pubblicato Les Patrons de la presse nationale, tous mauvais [I proprietari della stampa nazionale, tutti cattivi], La Fabrique; per le edizioni Libertalia nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 Canicule [Canicola].

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Soldati israeliani picchiano e arrestano un attivista palestinese durante la raccolta delle olive

Oren Ziv

12 ottobre 2021 +972 MAGAZINE

Mohammed Khatib è stato brutalmente arrestato assieme a due israeliani di sinistra mentre cercava di proteggere i contadini palestinesi dalla violenza dei coloni e dell’esercito.

Soldati israeliani hanno arrestato brutalmente un importante attivista palestinese e due israeliani di sinistra durante l’annuale raccolta delle olive nella Cisgiordania occupata. L’arresto è avvenuto nella regione di Salfit, vicino all’avamposto illegale di Havat Nof Avi, eretto dai coloni lo scorso anno su un terreno appartenente ai palestinesi abitanti nell’area.

Un soldato è stato fotografato mentre prendeva a pugni e poi calpestava, dopo il suo arresto, Mohammed Khatib, attivista del Comitato di coordinamento della lotta popolare che aiuta a organizzare la resistenza non violenta all’occupazione e all’insediamento di Israele.

“Siamo arrivati ​​intorno alle 10 e abbiamo trovato molti soldati nella zona”, ha detto Abdullah Abu Rahmeh, un altro importante attivista palestinese del Comitato. “Hanno transennato l’area e l’hanno dichiarata zona militare chiusa”.

Diversi agricoltori palestinesi hanno cercato di ragionare con gli ufficiali e i rappresentanti dell’amministrazione civile – il ramo dell’esercito israeliano che governa la vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione – per cercare di accedere alla loro terra, ha detto Abu Rahmeh. Mezz’ora dopo, quando né gli agenti né l’Amministrazione Civile si sono spostati, i contadini si sono incamminati lungo il tratto transennato per cercare di raggiungere i loro ulivi mediante un altro percorso.

“I soldati ci hanno seguito e ci hanno attaccato con i loro fucili”, ha ricordato Abu Rahmeh. “Portavamo gli attrezzi per il raccolto. Non stavamo protestando, ma ci offrivamo volontari per aiutare i contadini. Tuttavia, i soldati non ci hanno permesso di raccogliere”.

I volontari sono arrivati nel quadro dell’iniziativa Faz3a, che significa “sostegno” in arabo. Tale progetto è stato varato l’anno scorso. L’organizzazione assiste gli agricoltori palestinesi durante la raccolta delle olive per difenderli dalla violenza dei coloni e dei militari. “È una campagna annuale”, ha detto Abu Rahmeh. “In questa zona i contadini non hanno abbastanza tempo per completare il raccolto, quindi portiamo delle persone per aiutare. Cerchiamo di sostenerli e proteggerli dagli attacchi dei coloni”.

La stagione del raccolto in Palestina-Israele è iniziata la scorsa settimana e sono già stati segnalati diversi episodi di coloni che hanno vandalizzato gli ulivi. Secondo l’ONG israeliana Yesh Din,

venerdì un proprietario terriero palestinese del villaggio di Tarkumiya ha scoperto che i coloni avevano tagliato i suoi ulivi.

In una foto dell’arresto di Khatib, che viene dal villaggio di Bil’in ed è un membro di spicco del Faz3a, si vede un soldato israeliano colpire Khatib e afferrarlo per il collo. Più tardi, quando Khatib giace a terra a pancia in giù, si vede lo stesso soldato che lo calpesta.

“I soldati hanno preso a pugni Khatib, gli sono saliti sulla schiena, gli hanno coperto gli occhi e lo hanno portato verso l’avamposto [della colonia]”, ha detto Hillel Dahbash, un attivista israeliano che ha assistito agli arresti. “I soldati continuavano a lanciare granate stordenti. Ci siamo radunati per accedere all’area agricola e abbiamo cercato di raggiungere nuovamente il terreno, ma i soldati ci hanno buttato fuori a calci e ci hanno spinto verso le auto. Hanno poi sparato granate stordenti contro le auto, fino a quando l’ultimo veicolo ha lasciato l’area”.

La raccolta è avvenuta nell’area di Ar-Ras, a ovest di Salfit, dove nell’ultimo anno si sono svolte ogni venerdì, tutte le settimane, manifestazioni contro la costruzione del vicino avamposto. La scorsa settimana, Yesh Din ha documentato il furto di ulivi appartenenti ai palestinesi abitanti di Salfit da parte dei coloni.

L’avamposto è uno degli oltre 100 costruiti senza l’autorizzazione del governo israeliano e quindi illegale secondo la stessa legge israeliana. Secondo il diritto internazionale, tutti gli insediamenti in Cisgiordania sono da ritenere illegali.

“L’avamposto costruito l’anno scorso impedisce ai palestinesi di accedere alla terra di loro proprietà”, ha aggiunto Hillel, mentre i suoi confini sono proprio ai margini degli uliveti palestinesi.

Secondo gli attivisti sul posto, i soldati israeliani hanno detto ai contadini che, se avessero evitato le “provocazioni” arrivando da soli senza giornalisti israeliani, avrebbero avuto il permesso di accedere alla loro terra e raccogliere dai loro alberi. Ma, come in altre aree della Cisgiordania, molti palestinesi hanno paura di andare da soli, senza alcuna protezione dagli attacchi dei coloni, a occuparsi dei loro uliveti.

La polizia israeliana ha tenuto Khatib in detenzione da lunedì. Probabilmente sarà portato di fronte al tribunale militare alla fine di questa settimana. A differenza dei detenuti israeliani, che devono essere portati davanti a un giudice entro 24 ore dal loro arresto, la legge militare consente che palestinesi rimangano in detenzione fino a 96 ore senza un’udienza in tribunale.

Ai due attivisti israeliani che sono stati arrestati con Khatib, nel frattempo, è stato offerto il rilascio su cauzione con divieto di entrare nell’area vicino all’avamposto. Gli attivisti si sono rifiutati e hanno scelto di rimanere in detenzione in solidarietà con Khatib. Dopo essere stati portati martedì davanti alla Corte Petah Tikvah, agli israeliani è stato inflitto un divieto di recarsi nell’area di cinque giorni.

Martedì sera Khatib è stato portato davanti a un tribunale militare israeliano in Cisgiordania, dove un giudice israeliano ha stabilito che, sebbene avesse probabilmente commesso un reato, doveva comunque essere rilasciato, soprattutto alla luce del fatto che anche gli attivisti israeliani erano stati rilasciati quel giorno. Il giudice ha fissato la cauzione di Khatib a 1.000 NIS [267 euro, ndtr.] e lo ha bandito dalla zona per una settimana.

Una richiesta di commento sulla violenza dei soldati è stata inviata lunedì sera al portavoce dell’IDF [esercito israeliano, ndt.], ma non ha ancora risposto. La risposta sarà pubblicata se e quando la riceveremo.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Sono cresciuto guardando i coloni attaccare il mio villaggio palestinese. Adesso stanno diventando sempre più sfrontati. Ho paura.

Basil Al-Adraa

17 agosto 2021- Haaretz

Gli attacchi dei coloni contro le comunità palestinesi stanno diventando più gravi e coordinati e ora si usano anche le armi. Ecco come riescono a farla franca

Nel 2005, il giorno del mio decimo compleanno, ho visto per la prima volta i coloni attaccare la mia famiglia. Ricordo che papà stava arando la terra di famiglia nelle colline a sud di Hebron mentre poco lontano io e la mamma lo guardavamo. Ricordo di averle preso la mano quando un gruppo di uomini mascherati provenienti dal vicino avamposto di coloni israeliani correva verso di noi lanciando pietre contro mio padre. Lui cominciò a filmare gli aggressori mentre io cercavo di raggiungerlo, ma la mamma mi fermò.

“Non muoverti,” mi disse e notai che era terrorizzata. 

Adesso ho 25 anni. Sono cresciuto con questi attacchi la cui frequenza è aumentata e che sono diventati una parte centrale della mia vita, specialmente da quando la situazione è peggiorata in questi ultimi mesi. Vivo a Twani, un piccolo villaggio palestinese sulle colline meridionali della Cisgiordania e, come i miei genitori, sono un attivista che crede nella resistenza non violenta all’occupazione. Una macchina fotografica e un taccuino sono tutto quello che ho a mia disposizione.

Negli ultimi due mesi, dopo la più recente guerra contro Gaza, gli attacchi dei coloni sono diventati più gravi e coordinati ed essi hanno cominciato a usare le armi.

Recentemente ho collaborato a un’inchiesta giornalistica che ha rivelato che a maggio, in un solo giorno, mentre i caccia israeliani sganciavano bombe su Gaza, in quattro zone diverse della Cisgiordania sono stati ammazzati almeno quattro palestinesi dopo che coloni armati avevano assaltato contemporaneamente i loro villaggi, con i soldati israeliani che assistevano o partecipavano agli attacchi.

L’uso massiccio di armi durante attacchi premeditati dei coloni è un fenomeno nuovo e pericoloso. Il mio villaggio, Twani, è stato preso di mira. Ogni sabato durante gli ultimi due mesi, coloni dall’avamposto di Havat Ma’on hanno attaccato violentemente le nostre case. Sono riuscito a filmarne quattro.

In uno dei miei video si vede un gruppo di coloni mascherati invadere i terreni del nostro villaggio, impugnando bastoni di legno e fionde. Cominciano a bruciare i nostri campi e a lanciare pietre contro di noi mentre i soldati israeliani accanto a loro non fanno nulla.

Sono accorso con altri abitanti e abbiamo cercato di bloccarli, ma l’esercito israeliano ci ha respinti con granate stordenti. A questo punto uno dei coloni ha sparato parecchie volte con la pistola verso di noi. Il video in cui ho ripreso la sparatoria è mosso perché mi tremavano le mani dalla paura. Quando mi sono girato, ho scoperto che per fortuna nessuno dei miei amici era stato colpito. I soldati hanno assistito a tutto ciò senza far nulla.

Gli attacchi dei coloni israeliani non sono casuali né riflettono una qualche tendenza a esplosioni di violenza. Fanno quello che fanno per creare degli incidenti. Loro vogliono la nostra terra.

Durante gli ultimi due mesi i coloni hanno fondato tre nuove fattorie vicino a casa mia. Hanno ricevuto dall’esercito israeliano oltre 4.000 dunam (circa 400 ettari), una vasta area di terra che era stata espropriata ai palestinesi nel 1980 e dichiarata “terra statale”. Intere comunità palestinesi usano ogni giorno queste terre per scopi agricoli e per allevare pecore e la violenza inflitta contro di loro è uno strumento centrale per dissuaderli dal continuare a farlo. La terra era stata rubata ai palestinesi legalmente, dallo Stato: questa è violenza “legale”. La violenza illegale dei coloni non fa che completare questo processo.

Capire l’intreccio fra gli attacchi dei coloni, e le leggi razziste che le completano, è importante. Quattro meccanismi e pratiche legali del regime militare meritano un’attenzione speciale.

Secondo Peace Now [Ong israeliana contraria all’occupazione, ndtr.], per prima cosa lo Stato espropria terre palestinesi dichiarandole ‘terre statali’ usando una legge molto discriminatoria e poi assegnando il 99,76% di questi terreni solo ai coloni.

Secondo, le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] fingono di non vedere gli avamposti che vengono costruiti illegalmente su queste cosiddette “terre statali ” e permettono loro di collegarsi alla rete elettrica e idraulica.

Terzo, le IDF impediscono di collegarsi ad acqua ed elettricità alla maggior parte delle comunità palestinesi nella mia zona sotto diretto controllo militare in una zona definita dagli Accordi di Oslo “Area C” e respingono il 98% delle nostre richieste di permessi edilizi.

Quarto, in questo contesto di spossessamento, quando ci sono violenze da parte dei coloni la polizia non indaga attivamente e solo raramente arresta i colpevoli israeliani. Le ricerche di Yesh Din, un’associazione contraria all’occupazione, indicano che, fra il 2005 e il 2014, in Cisgiordania, il 91% delle denunce presentate dai palestinesi alla polizia israeliana sui reati politici commessi da israeliani si sono conclusi senza un rinvio a giudizio.

Nel 2019 mi sono personalmente trovato a fronteggiare le conseguenze di omissioni sistematiche della polizia. Era una giornata di sole e ho ricevuto una telefonata da un vicino che con voce tremante mi ha detto che un gruppo di coloni stava tirando pietre contro di lui e la sua famiglia.

Con la macchina fotografica in mano sono corso verso il campo da dove mi avevano telefonato e ho visto sei coloni e un cane. Quando ho cominciato a filmarli, uno di loro mi ha aizzato contro il cane che mi ha morso la mano. Ho sentito un dolore intenso e ho notato che stavo sanguinando.

Quando i soldati sono arrivati si sono rifiutati di chiamare un’ambulanza. Sono rimasto a terra sanguinante per circa 40 minuti. Finalmente è arrivata un’ambulanza palestinese e mi ha portato all’ospedale.

Due giorni dopo essere stato dimesso, sono andato direttamente a una stazione di polizia israeliana in una colonia nelle vicinanze. Non mi è facile entrare in una colonia, ma l’ingiustizia che avevo subito era così dolorosa che dovevo andarci. Come palestinese che vive sotto l’occupazione militare straniera questo è l’unico modo per chiedere giustizia.

Fortunatamente avevo ripreso tutta la scena. Nel mio video la faccia del colono si poteva vedere con chiarezza. Eppure il poliziotto che stava raccogliendo la mia deposizione ha rivoltato tutto contro di me. Mi ha chiesto: “Cosa stava facendo là? Perché non è scappato? Perché stava filmando? Perché porta altri attivisti a filmare e a causare problemi?”

Alla fine, dopo una giornata lunga e snervante, sono riuscito a presentare la mia denuncia. Non sorprende che nessuno sia mai stato arrestato. Recentemente lo stesso colono ha aizzato il cane contro altre due persone del mio villaggio.

L’impunità dei coloni che ho osservato personalmente e la ricerca di Yesh Din sono il contesto che ha permesso ai colpevoli di cominciare a usare le armi negli ultimi due mesi. Ho molta paura per la mia comunità che è completamente indifesa e deve lottare da sola contro forze e individui armati. I coloni possono fare quello che vogliono perché non c’è nessuno a fermarli e nessuno a ritenerli responsabili. Il risultato diretto è che i membri della mia comunità stanno soffrendo e perdono i propri mezzi di sussistenza. Alcuni sono stati uccisi e molte altre vite sono in pericolo fino a quando questa situazione non sarà presa sul serio. Quando si sveglierà il mondo?

Basil Al-Adraa è un attivista dei diritti umani e un giornalista.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Un palestinese ucciso durante un’escursione è l’ultima vittima di un’ondata di violenza dei coloni

Yumna Patel

15 febbraio 2021 – Mondoweiss

Bilal Bawatneh, Azzam Amer e Khaled Nofal sono le ultime vittime palestinesi di un’ondata di violenza dei coloni che nelle ultime settimane ha sconvolto la Cisgiordania occupata

Venerdì un palestinese è stato investito ed ucciso durante un attacco con un’auto mentre stava facendo un’escursione con alcuni amici nel nord della Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata.

Venerdì mattina il cinquantaduenne Bilal Bawatneh, insieme a un gruppo di palestinesi di varie parti della Cisgiordania, stava camminando lungo un sentiero tra i villaggi di Ein al-Beida e Bardala, nel nord della Valle del Giordano, a est della città di Tubas.

Nota per le sue vaste montagne, che in inverno fioriscono, durante questo periodo dell’anno la Valle del Giordano attira molti escursionisti e visitatori da tutta la Palestina.

Negli ultimi decenni la natura rurale della Valle del Giordano ha attirato anche migliaia di coloni israeliani che vivono in insediamenti e avamposti illegali.

L’agenzia di notizie ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Wafa ha citato gli escursionisti, che hanno affermato di “essere rimasti scioccati” nel vedere il veicolo deviare dal proprio percorso e lanciarsi a tutta velocità contro il gruppo. L’auto ha colpito gli escursionisti, ferendo Bawatneh e altri due.

Bawatneh, abitante della città di al-Bireh, nella zona di Ramallah, è stato portato via da medici della Mezzaluna Rossa Palestinese, che in un comunicato ha affermato che è morto poco dopo in seguito alle ferite riportate.

Medici israeliani avrebbero portato gli altri due palestinesi feriti in un ospedale nella città di Afula. Non si sa in che condizioni si trovino.

Venerdì delle foto di Bawatneh, che sarebbero state scattate durante la camminata poco prima che venisse ucciso, hanno inondato le reti sociali, mentre i palestinesi hanno pianto la sua morte come ultima vittima dell’occupazione israeliana.

Riguardo alla morte di Bawatneh, la dottoressa Hanan Ashrawi, membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, ha twittato che “tragicamente, in Cisgiordania l’omicidio stradale è una forma fin troppo nota di aggressione non sanzionata da parte di coloni israeliani contro palestinesi vulnerabili.”

L’uccisione di Bawatneh ha suscitato una scarsa attenzione da parte dei media israeliani, nonostante nell’ultima settimana sia il terzo assassinio di palestinesi in Cisgiordania ad opera di coloni.

Mercoledì Azzam Amer, un palestinese del villaggio di Kafr Qalil, nella zona di Nablus, è stato ucciso dopo che sarebbe stato investito da un colono israeliano che stava guidando nei pressi dell’incrocio di Kifl Hares, nel nord della Cisgiordania occupata.

I media palestinesi hanno descritto Amer come marito e padre. Pare fosse anche un lavoratore a giornata e stava tornando a casa dal lavoro quando è stato ucciso. Il Centro Internazionale dei media del Medio Oriente (IMEMC) ha informato che la polizia israeliana ha affermato di aver aperto un’inchiesta “per stabilire se l’episodio sia un incidente stradale o un attacco deliberato.”

Nei casi di israeliani uccisi o feriti da conducenti palestinesi, le autorità israeliane spesso si affrettano a definire questi incidenti come attacchi deliberati, o come “attacchi terroristici”, e in genere danno poco spazio quando si tratta di determinare se si sia trattato eventualmente solo di un incidente stradale. In questi casi i conducenti palestinesi sono uccisi sul posto e i loro corpi trattenuti (come ad esempio nel caso di Ahmed Erekat), oppure arrestati e imprigionati con l’accusa di terrorismo.

Il 5 febbraio il trentaquattrenne Khaled Nofal, un ragioniere palestinese padre di un bambino di 5 anni, è stato colpito e ucciso da un colono israeliano nei pressi del villaggio di Ras Karkar, a nordovest dalla città di Ramallah.

Il caso di Nofal è stato ampiamente trattato dai media israeliani, evidentemente in quanto Nofal è stato definito dal colono responsabile della sua morte e dall’esercito israeliano un “terrorista” che avrebbe cercato di “infiltrarsi” in un avamposto di coloni nei pressi del suo villaggio e commesso un’aggressione, benché nessuno, salvo Nofal, sia rimasto ferito nell’incidente.

Il Times of Israel [giornale israeliano in lingua inglese, ndtr.] e Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] hanno evidenziato che sul corpo di Nofal o sul posto non sono state trovate armi, facendo sorgere dubbi su ciò che Nofal stesse effettivamente facendo lì in quel momento e su come intendesse perpetrare un attacco senza alcuna arma.

Mentre la famiglia di Nofal ha detto ad Haaretz di non essere sicura di quello che egli stesse facendo così vicino all’avamposto in piena notte, il sindaco di Ras Karkar ha detto a Times of Israel che la famiglia di Nofal è proprietaria di terreni nei pressi della zona, una possibile ragione del perché sia andato là.

Tuttavia, a causa del fatto che l’incidente è stato classificato come un “tentativo di attentato terroristico”, secondo il Times of Israel da parte dell’esercito israeliano non è stata avviata nessuna indagine penale nei confronti del colono.

Come informano i media israeliani, Eitan Ze’ev, il colono che ha sparato a Nofal uccidendolo, ha dei precedenti riguardo a spari contro palestinesi disarmati e attualmente è sotto processo per violenza aggravata dopo che ha sparato a due palestinesi durante un diverbio l’estate scorsa nelle vicinanze di Biddya, un villaggio a ovest di Salfit, nel nord della Cisgiordania.

L’arma di Ze’ev sarebbe stata sequestrata dopo che ha sparato a due palestinesi in luglio – anche se alcuni poliziotti hanno affermato che gli dovrebbe essere restituita – provocando ulteriori congetture sul fatto che Ze’ev potesse essere armato prima di uccidere Nofal.

Dopo aver sparato a luglio, Ze’ev ha ricevuto un “attestato di merito” da parte di Yossi Dagan, capo del Consiglio Regionale della Samaria, che all’epoca ha affermato: “Ringraziamo le care persone che hanno protetto le vite di altri e di se stesse contro ribelli barbari e assassini che cercano di linciare ebrei in Samaria.”

Mentre Nofal è stato definito un “terrorista” e un “infiltrato” dai militari israeliani, che hanno preso in considerazione solo la testimonianza dei coloni che hanno sparato a Nofal come prova contro di lui, ufficiali dell’esercito hanno definito Ze’ev “un uomo tranquillo, etico e morale.”

Un’impennata della violenza

Bilal Bawatneh, Azzam Amer e Khaled Nofal sono gli ultimi palestinesi vittime di un’ondata di violenza dei coloni che nelle ultime settimane ha sconvolto la Cisgiordania occupata, con nuove notizie quasi quotidiane di attacchi di coloni contro civili palestinesi sui media palestinesi e israeliani.

Benché la violenza dei coloni contro i palestinesi sia una realtà quotidiana nella vita della Cisgiordania, le associazioni per i diritti umani hanno notato un significativo incremento della violenza dall’inizio dell’anno, che secondo loro va fatta risalire alla morte del colono sedicenne Ahuvia Sandak che è morto il 21 dicembre 2020  durante un inseguimento della polizia israeliana.

Da allora i coloni della Cisgiordania hanno promosso Sandak a martire della loro causa, inscenando proteste contro la polizia israeliana, seminando il caos nelle comunità palestinesi in tutta la Cisgiordania e provocando seri danni fisici e materiali ai palestinesi e alle loro proprietà.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha documentato 49 incidenti riguardanti la violenza dei coloni in Cisgiordania nelle cinque settimane tra il 21 dicembre e il 24 gennaio rispetto a un totale di 108 incidenti di violenza dei coloni contro i palestinesi negli ultimi sei mesi del 2020.

L’associazione ha documentato 28 casi di aggressioni fisiche, 19 casi di lancio di pietre contro veicoli palestinesi, tre sparatorie e sei atti di vandalismo contro proprietà di palestinesi, coltivazioni danneggiate e attacchi contro abitazioni.

Dei 49 casi registrati da B’Tselem, secondo l’associazione 15 palestinesi, tra cui 4 minorenni con meno di 15 anni uno dei quali di 5 anni, sono stati colpiti da pietre.

B’Tselem nota che in almeno 26 tra i casi documentati dalla morte di Sandak le forze di sicurezza israeliane erano presenti quando i coloni hanno condotto gli attacchi contro i palestinesi.  

Invece di arrestare gli aggressori, in cinque casi hanno attaccato i palestinesi, sparando proiettili ricoperti di gomma o lacrimogeni contro di loro e ne hanno feriti due. Negli altri 21 casi le forze non hanno fatto abbastanza per impedire gli attacchi,” afferma l’associazione.

Nelle settimane successive al 24 gennaio, data limite del rapporto di B’Tselem, sono state riportate decine di nuovi casi di violenza dei coloni in Cisgiordania, con almeno 18 attacchi di coloni contro i palestinesi, le loro proprietà e animali d’allevamento riferiti dall’agenzia di notizie Wafa tra il 25 gennaio e il 15 febbraio, esclusi gli assassinii di Batawneh, Amer e Nofal. 

La natura degli attacchi ha incluso tra le altre cose, aggressioni fisiche contro uomini e donne palestinesi, lo sradicamento di decine di ulivi, il danneggiamento di una chiesa, il lancio di pietre contro autobus e automobili private palestinesi.

Effetti “devastanti” a lungo termine

Mentre dalla morte di Ahuvia Sandak c’è stato un chiaro incremento della violenza, B’Tselem ha detto che attribuire alla morte dell’adolescente “la causa della rabbia dei coloni è fuori dalla realtà.”

Invece la violenza dei coloni è di routine, afferma l’associazione, aggiungendo che “per anni i coloni hanno commesso azioni violente contro i palestinesi con il totale sostegno dello Stato, che non fa nulla per impedire il ripetersi di questi attacchi.”

Questo è un regime suprematista ebraico,” ha sostenuto l’associazione.

L’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din afferma che le autorità israeliane omettono di indagare i crimini d’odio e gli attacchi dei coloni contro i palestinesi in Cisgiordania, e raramente portano di fronte alla giustizia i responsabili di questi delitti.

Secondo l’associazione, l’82% delle inchieste aperte per “crimini ideologici” contro palestinesi viene chiuso per l’inerzia della polizia e solo l’8% delle indagini su tali delitti porta effettivamente a un’incriminazione.

Inoltre, se imputati, i coloni israeliani che commettono reati contro i palestinesi e le loro proprietà sono giudicati nei tribunali civili israeliani. Nel contempo i palestinesi (compresi i minorenni) che sono accusati di commettere reati contro coloni israeliani e personale della sicurezza sono giudicati da tribunali militari israeliani, che vantano una percentuale di condanne contro i palestinesi superiore al 99%.

Hani Nassar, ricercatore sul campo di Defense for Children International – Palestine [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina] (DCIP), che documenta gli attacchi dei coloni che prendono di mira minori palestinesi, dice a Mondoweiss che tali sistemi sono “prove del sistema di apartheid in Cisgiordania” e dell’appoggio del governo israeliano e della sua complicità con il “terrorismo dei coloni”.

Il terrorismo dei coloni non riguarda solo l’aggressione nei confronti delle nostre terre, case e dei nostri alberi, ma esso prende deliberatamente di mira anche le persone e i loro figli,” afferma Nassar, aggiungendo che, mentre gli effetti a breve termine degli attacchi dei coloni possono essere devastanti sia dal punto di vista economico che fisico, gli effetti a lungo termine possono essere ancora più brutali.

Ho visto e documentato gli effetti a lungo termine di questi attacchi sulle famiglie palestinesi, soprattutto sui minorenni,” afferma Nassar, aggiungendo che molti minori e i loro genitori “lottano per affrontare il trauma.”

Per esempio, secondo Nassar, quando ragazzini vengono aggrediti in macchina, spesso mostrano sintomi da stress post traumatico e non vogliono viaggiare in auto, soprattutto di notte (quando avviene la maggior parte degli attacchi). Nei casi di bambini aggrediti in casa, molti mostrano disturbi del sonno, bagnano il letto, hanno incubi, ecc.

La comunità internazionale può leggere le notizie, vedere questi attacchi e dire ‘oh, è triste’, ma vorrei dire a questa gente: venite qui, fate visita alle famiglie che sono state aggredite e vedete quello che i coloni e l’occupazione hanno fatto loro,” dice Nassar. “Forse poi le persone vorranno cambiare le cose.”

La situazione nella vita reale è molto più pericolosa di quanto si possa immaginare quando si leggono le notizie,” afferma. “Abbiamo bisogno che ogni governo, compreso quello palestinese, si attivi e faccia il possibile per difendere queste famiglie. Assumetevi le vostre responsabilità, andate alla Corte Internazionale e accusate i dirigenti israeliani che sponsorizzano questo terrorismo contro di noi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quando la polizia uccide un colono, i coloni seminano il terrore tra i palestinesi

Orly Noy

24 gennaio 2021 – +972 magazine

Da quando il mese scorso un adolescente israeliano è stato ucciso dalla polizia nel corso di un inseguimento, in Cisgiordania i coloni hanno continuato ad esercitare la loro furia attaccando e costringendo alla fuga i palestinesi.

Il mese scorso, il 21 dicembre, la polizia israeliana ha condotto un inseguimento ad alta velocità vicino all’insediamento di Kochav Hashachar nella Cisgiordania occupata. L’auto inseguita trasportava diversi giovani coloni israeliani radicali sospettati di aver scagliato poco prima pietre contro veicoli palestinesi in transito. Secondo quanto riferito, durante l’inseguimento l’auto della polizia si è schiantata contro quella dei coloni, facendola capovolgere e uccidendo il sedicenne Ahuvia Sandak.

I principali uomini di governo di Israele si sono affrettate a esprimere la loro solidarietà alla famiglia Sandak. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha invitato i genitori di Sandak nel suo ufficio per esprimere le sue condoglianze; il ministro della giustizia Amir Ohana ha reso visita alla famiglia e ha promesso di “scoprire cosa sia realmente accaduto”; Il rabbino capo di Israele David Lau ha inviato una lettera accorata ai genitori.

La morte di Sandak ha scatenato una serie di proteste in Cisgiordania e Israele, seguite nei territori occupati da un’esplosione di violenza contro i palestinesi – che non avevano nulla a che fare con la morte di Sandak.

Secondo Yesh Din, una ONG israeliana che documenta le violazioni dei diritti umani in Cisgiordania, dopo la morte di Sandak i coloni israeliani hanno commesso 52 azioni violente contro i palestinesi. In 37 casi i coloni hanno bloccato gli incroci centrali lungo la Strada 60 – una delle autostrade nevralgiche della Cisgiordania – e hanno scagliato pietre contro le auto dei palestinesi. Yesh Din ha riferito che 14 palestinesi, di cui due minori, sono stati feriti nel corso degli attacchi con lancio di pietre. In 11 casi i coloni hanno invaso città palestinesi e hanno lanciato pietre contro i civili e [le loro] case. In occasione di tre episodi gruppi di coloni hanno attaccato dei contadini palestinesi che lavoravano la loro terra.

“I coloni le hanno lanciato una pietra in faccia”

Una dei minorenni palestinesi feriti nell’ultimo mese è una ragazzina di 11 anni di nome Hala Alqut, del villaggio di Madmeh, appena a sud di Nablus. Il 17 gennaio decine di coloni del vicino insediamento di Yitzhar, noto per per il suo violento fondamentalismo, hanno fatto irruzione nel villaggio e lanciato pietre contro le case. Il padre di Hala, Mashour, ha riferito che sua figlia era uscita per andare a casa di sua zia proprio un attimo prima dell’attacco. “L’hanno raggiunta fuori casa, e quando mia moglie è andata a salvarla dalle loro grinfie hanno aggredito anche lei”.

Hala è stata ferita al viso ed è stata portata all’ospedale Rafidia di Nablus per le cure.

Mashour, che lavora in Israele, ha ricevuto la notizia dell’attacco mentre era al lavoro. “Mia moglie mi ha telefonato piangendo e urlando: ‘Vieni a vedere cosa è successo alla ragazza – i coloni le hanno lanciato una pietra in faccia’. Mi sono spaventato moltissimo. Quando sono arrivato, ho visto i vetri rotti e le pietre dentro casa”.

La moglie di Mashour, insieme a Hala e ai loro altri tre figli – compreso un neonato – erano presenti quando ha avuto luogo l’attacco. “Hanno lanciato una pietra e hanno rotto la finestra che si trovava sopra la testa del bambino. Avrebbe potuto finire in una tragedia molto peggiore”, dice Mashour. Il trauma, aggiunge, ha fatto sì che Hala smettesse del tutto di parlare.

Il secondo minorenne ferito il mese scorso, un bambino di cinque anni, è stato colpito pochi giorni dopo da un sasso lanciato contro l’auto della sua famiglia mentre attraversava il bivio di Assaf, nei pressi di Ramallah.

Quando ho chiesto al portavoce della polizia israeliana se la polizia avesse programmato di effettuare degli arresti a seguito delle aggressioni, ho ricevuto la seguente risposta: “La polizia israeliana, insieme alle altre forze di sicurezza, è dispiegata nei vari assi viari principali e nelle zone di attrito in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) per prevenire episodi di violenza, far rispettare la legge e mantenere l’ordine e la sicurezza pubblici”.

Il portavoce ha proseguito: “Per quanto riguarda l’incidente in cui il ragazzo è rimasto ferito, la polizia ha avviato un’indagine in cui sono state intraprese azioni investigative e raccolte prove, l’indagine è in corso”.

Stanno seduti nella mia casa al posto mio’

Nonostante il fatto che l’esercito israeliano abbia il controllo totale sui territori occupati, il compito delle indagini sugli atti criminali degli ebrei israeliani – anche quando sono commessi in Cisgiordania – spetta alla polizia. Anche questo fa parte del regime di apartheid di Israele, che mantiene due differenti sistemi giudiziari per due popolazioni, sulla base della loro nazionalità.

Tuttavia nella pratica né l’esercito né la polizia fanno molto per impedire i violenti pogrom compiuti dai coloni contro i palestinesi in Cisgiordania. A volte di fatto addirittura collaborano.

Ho assistito a questa cooperazione tra le forze armate israeliane e i coloni sabato 23 gennaio, quando mi sono unito a un gruppo di attivisti per una protesta di solidarietà nelle colline di Hebron sud. Gli attivisti si sono recati nella zona per solidarizzare con una famiglia palestinese della comunità di Khirbet Tawamin, dopo che lo scorso giovedì i coloni avevano invaso l’area e li avevano cacciati con la forza dalla grotta in cui vivono. I coloni hanno preso possesso della loro casa per ore cantando intorno a un falò che avevano acceso appena fuori dalla grotta.

In un post sconvolgente su Facebook il giornalista e attivista Yuval Abraham, che trascorre gran parte del suo tempo con le comunità palestinesi nelle colline di Hebron sud, ha riportato la sua telefonata con Abu Mahmoud, uno degli abitanti di Tawamin, che ha descritto in tempo reale le modalità in cui i coloni hanno preso possesso della sua casa:

[…] Abu Mahmoud dice: ‘Perché non hai risposto? Ho cercato di contattare l’esercito e la polizia, non arrivano. La sua voce giunge soffocata e la linea si interrompe. Restiamo entrambi in silenzio, Nasser e io. Un silenzio di paura. Nasser dice che forse dovremmo andare, ma è chiaro che è terrorizzato. Sono terrorizzato anch’io. Proviamo a chiamare di nuovo Abu Mahmoud. Non c’è campo.

Un minuto dopo Abu Mahmoud chiama (di nuovo). ‘Mi hanno cacciato di casa. Sono entrati tutti, i coloni, e si sono seduti lì al posto mio. “Ci manda un video. L’intera famiglia è fuori. I coloni sono a casa sua. Dice: ‘Perché la polizia non è qui? Perché l’Amministrazione (Civile) non è qui? Vieni presto. E noi non sappiamo cosa fare. Ci avviciniamo. Nasser dice: Entriamo nella stradina che porta a casa sua. Rispondo che forse [è meglio] di no. Poi dico no. Solo per un tratto, insiste Nasser, e la imbocchiamo, con il mio piede che trema sull’acceleratore. Vediamo 15 auto con targa israeliana parcheggiate e un falò. ‘Torniamo indietro, torniamo indietro. È pericoloso , dice Nasser.

I coloni se ne sono andati dopo alcune ore e la famiglia è potuta tornare a casa.

Il giorno seguente Abraham è tornato alla grotta di Tawamin. Mentre si trovava seduto insieme alla famiglia, ha assistito a una chiamata tra un rappresentante dell’Amministrazione Civile – il braccio del governo militare israeliano che ha il controllo sui palestinesi nella Cisgiordania occupata – e uno dei membri della famiglia. Nel corso della telefonata, che è stata registrata integralmente e pubblicata su Local Call [sito di notizie in lingua ebraica co-fondato e co-redatto da Just Vision e 972 Advancement of Citizen Journalism, che pubblica anche +972 Magazine, ndtr.], il rappresentante ammonisce in arabo la famiglia di assicurarsi che né giornalisti né attivisti entrino nella grotta.

“Non createci problemi oggi. Inteso?” ha detto il funzionario. “Assicuratevi di non accogliere giornalisti o persone che oggi potrebbero venire a casa vostra per esprimere [la loro] solidarietà.”

Quando il componente della famiglia palestinese dice all’interlocutore di non volere problemi, ma che i soldati non si sono mai fatti vivi dopo essere stati chiamati ripetutamente, il rappresentante ha urlato di rimando: “Alla fine se ne sono andati, giusto? Quindi [ciò è] khalas (“sufficiente” in arabo). I coloni non verranno più lì. Quella è la tua terra e la grotta ti appartiene, giusto? Quindi resta nella grotta. Non portare giornalisti e un mucchio di persone e non creare problemi o espellerò te e loro, capito?”

Una battaglia infinita

Khirbet Tawamin si trova a pochi passi dal villaggio di al-Rakiz, dove i soldati israeliani sono arrivati ​​all’inizio di questo mese per confiscare un vecchio generatore che serviva gli abitanti, dopo che l’amministrazione civile vi aveva eseguito delle demolizioni. Mentre i soldati cercavano di portar via il generatore, Haroun Abu Aram, uno degli abitanti di Al-Rakiz, ha cercato di riprenderlo. Un soldato gli ha sparato al collo, lasciandolo paralizzato.

Gli attivisti che si recavano a Tawamin per la manifestazione di solidarietà del sabato sono stati fermati ad un posto di blocco improvvisato della polizia a 10 chilometri dal villaggio. Ci è stato mostrato un ordine delle IDF [esercito israeliano, ndtr.] che dichiarava l’area “zona militare chiusa” – un noto trucco che l’esercito usa per tenere i palestinesi e gli attivisti di sinistra lontani da zone della Cisgiordania. La polizia ci ha invitato a fare dietrofront e ad andarcene.

Abbiamo trovato un percorso per Khirbet Tawamin attraverso le splendide colline polverose, solo per incontrare – a 10 minuti dall’arrivo – un gruppo di soldati armati che ha mostrato un’ulteriore ordinanza di zona militare chiusa. Dopodiché i soldati ci hanno dispersi con granate assordanti fino a quando abbiamo raggiunto il fondovalle, dove si trova l’insediamento coloniale israeliano di Susya (adiacente all’omonimo villaggio palestinese).

Mentre eravamo intrappolati tra una zona militare chiusa dietro di noi e l’insediamento coloniale israeliano estremista davanti a noi, un gruppo di coloni con cani di grossa taglia si è avvicinato a noi. I soldati, che evitano a tutti i costi il ​​confronto con i coloni, ancora una volta hanno dichiarato chiusa l’area e ci hanno allontanati.

Siamo risaliti verso Tawamin. I soldati che ci seguivano hanno ribadito ancora una volta l’ordine e uno di loro, che parlava correntemente l’arabo, è andato a parlare con i membri della famiglia che avevano temporaneamente perso la loro casa e avevano paura di ciò che poteva ancora accadere. Si può solo supporre che il soldato abbia ripetuto ciò che il rappresentante dell’Amministrazione Civile aveva detto loro al telefono pochi giorni prima: manda via gli attivisti, altrimenti

Qualche minuto dopo la famiglia ci è venuta incontro, ci ha ringraziato per la nostra presenza e ci ha chiesto di andarcene “per evitare problemi”. Siamo andati via, ovviamente. Conosciamo bene questa esperienza: che siano i coloni ad essere arrabbiati con l’esercito, o l’esercito ad essere arrabbiato con gli attivisti di sinistra, sono sempre i palestinesi a pagarne il prezzo.

I palestinesi e gli attivisti israeliani sanno fin troppo bene che la battaglia contro la violenza dei coloni è continua e senza fine. Oggi, 24 gennaio, e nonostante le promesse dell’Amministrazione Civile, circa 30 coloni israeliani hanno invaso lo stesso identico punto in cui gli attivisti avevano cercato di protestare solo un giorno prima. L’esercito è arrivato e ha disperso i coloni.

Orly Noy

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa dal farsi. È membro del consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti affrontano i tratti che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi [ebrei provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, ndtr.], esponente femminile della sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro una perenne immigrata, e il dialogo costante tra loro.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Eravamo armati, le abbiamo distrutto la cucina e ce ne siamo andati”

Nadav Weiman 

10 dicembre 2020 – +972mag

Agli israeliani piace pensare che le incursioni militari nelle case avvengano solo per motivi di sicurezza. Gli ex soldati – e le famiglie palestinesi – sanno che non è vero.

Quando parli con gli israeliani dell’occupazione, loro pensano ai posti di blocco. All’estero la gente pensa al muro di separazione. Ma come ex soldato israeliano che compiva regolarmente irruzioni nelle case, penso a un bambino palestinese che sono andato ad arrestare nel cuore della notte. A suo padre, che aggredì il più grosso dei soldati della nostra squadra. E a come avrei fatto esattamente lo stesso se fossi stato al suo posto.

Successe nella città di Nablus nel 2007. Ci era stato detto che dovevamo arrestare uno che era connesso su Internet con il partito politico libanese e organizzazione militare Hezbollah. All’epoca parlavamo di “arresti di masterizzatori CD” – un nome spregiativo in codice per il fondo del barile quando si trattava di palestinesi ricercati. Abbiamo fatto irruzione nel cuore della notte, l’intero plotone di ricognizione, per arrestare un adolescente di 16 o 17 anni – la cui stanza, guarda caso, era piena di masterizzatori di CD.

Gli abbiamo legato le mani dietro la schiena con delle fascette e lo abbiamo portato alla base con noi, ma suo padre aveva già perso le staffe. Ha individuato il soldato più grande nella nostra squadra e gli si è scagliato contro. Mentre arrestavamo questo ragazzo con i suoi CD di giochi elettronici piratati sparsi per la stanza, uno dei soldati picchiava suo padre, con la madre al fianco che urlava.

Non ricordo di aver mai immaginato, prima di arruolarmi nell’esercito, come potesse essere in pratica la mia attività. Sapevo che avrei dovuto entrare nelle case palestinesi. Sapevo che avrei dovuto fare arresti. Non pensavo a come sarebbe stato arrestarne uno così giovane, o vedere un padre impotente infuriarsi alla vista del figlio ammanettato. Queste non sono cose a cui pensi e non c’è nessuno che te ne parli. Ci sono cose che devi scoprire da solo e, una volta che è successo non c’è pericolo che te le dimentichi.

In Israele non si parla delle irruzioni nelle case palestinesi dei territori occupati. È un’operazione di routine che quasi tutti i soldati israeliani conoscono, ma non troverai esperti che ne parlano nei notiziari e di certo non ne troverai notizia sui giornali. I media coprono le incursioni al più con allarmanti notizie dell’ultima ora del tipo: “Cinque ricercati palestinesi arrestati stasera”. E agli israeliani piace pensare a queste cose esattamente così: raid chirurgici localizzati allo scopo di effettuare arresti legittimi. Ma il quadro non è questo.

In effetti, i soldati invadono continuamente le case palestinesi. Lo fanno per occupare nuove posizioni strategiche, per eseguire perquisizioni a caso e spesso semplicemente per “far sentire la loro presenza”. In alcune unità dell’esercito far sentire la propria presenza è definito “creare la sensazione di essere braccati”. Ciò significa instillare la paura nell’intera popolazione palestinese, una missione che per definizione non fa distinzione tra sospetti e civili innocenti, o tra “persone coinvolte” e “persone non coinvolte”, come ci si esprime nel gergo dell’esercito israeliano.

A volte i soldati fanno irruzione nelle case in piena notte semplicemente per addestramento. Ho fatto irruzione in case a Jenin o Nablus semplicemente per ottenere una posizione d’osservazione migliore. Secondo la testimonianza resa da un ex soldato a Breaking the Silence [organizzazione non governativa israeliana fondata nel 2004 da militari contrari all’occupazione, ndtr.], si potevano invadere le case per sperimentare un nuovo dispositivo per sfondare le porte. Un altro testimone ha raccontato che erano entrati in una casa palestinese per farsi filmare mentre mangiavano sufganiyot (ciambelle di Hanukkah) e avere una buona notizia da trasmettere quella notte alla televisione israeliana.

Ci sono un mucchio di israeliani che conoscono l’interno della casa di un palestinese e non dovrebbero. Hanno visto decine di stanze per bambini, cucine che appartengono a estranei, armadi di altre persone. Se oggi, che sono padre di due figli, penso ai bambini che ho svegliato nel cuore della notte o ai loro genitori terrorizzati, qualcosa mi si spezza dentro.

Non si parla mai di questa routine e ancor meno di cosa c’è dietro. Mormoriamo solo che le irruzioni in casa sono una “necessità operativa” e andiamo avanti. Ma la maggior parte di queste intrusioni sono una necessità solo se si accetta l’assunto che la “presenza dimostrativa” giustifichi tutto, anche invadere la casa di qualcuno su cui non c’è il minimo indizio. Questo è ciò che anima la “necessità operativa”, e non sono certo che la società israeliana l’accetterebbe se sapesse cosa si sta facendo in campo militare a suo nome.

La scorsa settimana, Breaking the Silence ha pubblicato A Life Exposed [Una vita in pericolo], il tanto atteso rapporto dell’organizzazione sulle irruzioni in casa, scritto in collaborazione con i gruppi per i diritti umani Yesh Din [ong femminile israeliana per i diritti umani, ndtr.] e Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i Diritti Umani-Israele, ndtr.]. Il rapporto si basa su centinaia di testimonianze fornite da ex soldati che hanno preso parte a missioni di irruzioni in casa e dai palestinesi che le hanno subite. I resoconti palestinesi sono amari da leggere. Avendo preso parte ad irruzioni in casa, pensavo di sapere come vedono questa routine dall’altra parte. Mi sbagliavo. Ho visto con i miei occhi i palestinesi piangere nelle loro case, ma non ho mai pensato a coloro che trattenevano le lacrime finché ce ne fossimo andati. Non ho mai pensato a chi si è abituato a questa routine, a chi la considera parte della vita.

Prima di forzare la casa del masterizzatore di CD a Nablus siamo entrati per sbaglio in un’altra casa. C’erano due unità israeliane attive nella zona e noi abbiamo cercato di forzare la porta sbagliata. Abbiamo fracassato la porta di una donna nel cuore della notte finché non si è aperta. Siamo entrati, armati, pronti ad arrestare qualcuno, e abbiamo perquisito la casa.

Una delle porte era chiusa a chiave. Ho lanciato dall’alto una granata stordente nella stanza chiusa. Subito dopo si è sentito un vetro in frantumi; si è scoperto che la stanza chiusa era la cucina. Solo più tardi abbiamo scoperto di aver sbagliato casa. Abbiamo svegliato una donna nel cuore della notte, armati; le abbiamo distrutto la porta e la cucina e ce ne siamo andati. Non ci abbiamo nemmeno pensato. È ora che iniziamo a pensarci, tutti noi.

Nadav Weiman è un ex combattente del Nahal Reconnaissance Platoon [la Brigata Granito dell’esercito israeliano] e vicedirettore e responsabile del gruppo di pressione di Breaking the Silence.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)