Quando la polizia uccide un colono, i coloni seminano il terrore tra i palestinesi

Orly Noy

24 gennaio 2021 – +972 magazine

Da quando il mese scorso un adolescente israeliano è stato ucciso dalla polizia nel corso di un inseguimento, in Cisgiordania i coloni hanno continuato ad esercitare la loro furia attaccando e costringendo alla fuga i palestinesi.

Il mese scorso, il 21 dicembre, la polizia israeliana ha condotto un inseguimento ad alta velocità vicino all’insediamento di Kochav Hashachar nella Cisgiordania occupata. L’auto inseguita trasportava diversi giovani coloni israeliani radicali sospettati di aver scagliato poco prima pietre contro veicoli palestinesi in transito. Secondo quanto riferito, durante l’inseguimento l’auto della polizia si è schiantata contro quella dei coloni, facendola capovolgere e uccidendo il sedicenne Ahuvia Sandak.

I principali uomini di governo di Israele si sono affrettate a esprimere la loro solidarietà alla famiglia Sandak. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha invitato i genitori di Sandak nel suo ufficio per esprimere le sue condoglianze; il ministro della giustizia Amir Ohana ha reso visita alla famiglia e ha promesso di “scoprire cosa sia realmente accaduto”; Il rabbino capo di Israele David Lau ha inviato una lettera accorata ai genitori.

La morte di Sandak ha scatenato una serie di proteste in Cisgiordania e Israele, seguite nei territori occupati da un’esplosione di violenza contro i palestinesi – che non avevano nulla a che fare con la morte di Sandak.

Secondo Yesh Din, una ONG israeliana che documenta le violazioni dei diritti umani in Cisgiordania, dopo la morte di Sandak i coloni israeliani hanno commesso 52 azioni violente contro i palestinesi. In 37 casi i coloni hanno bloccato gli incroci centrali lungo la Strada 60 – una delle autostrade nevralgiche della Cisgiordania – e hanno scagliato pietre contro le auto dei palestinesi. Yesh Din ha riferito che 14 palestinesi, di cui due minori, sono stati feriti nel corso degli attacchi con lancio di pietre. In 11 casi i coloni hanno invaso città palestinesi e hanno lanciato pietre contro i civili e [le loro] case. In occasione di tre episodi gruppi di coloni hanno attaccato dei contadini palestinesi che lavoravano la loro terra.

“I coloni le hanno lanciato una pietra in faccia”

Una dei minorenni palestinesi feriti nell’ultimo mese è una ragazzina di 11 anni di nome Hala Alqut, del villaggio di Madmeh, appena a sud di Nablus. Il 17 gennaio decine di coloni del vicino insediamento di Yitzhar, noto per per il suo violento fondamentalismo, hanno fatto irruzione nel villaggio e lanciato pietre contro le case. Il padre di Hala, Mashour, ha riferito che sua figlia era uscita per andare a casa di sua zia proprio un attimo prima dell’attacco. “L’hanno raggiunta fuori casa, e quando mia moglie è andata a salvarla dalle loro grinfie hanno aggredito anche lei”.

Hala è stata ferita al viso ed è stata portata all’ospedale Rafidia di Nablus per le cure.

Mashour, che lavora in Israele, ha ricevuto la notizia dell’attacco mentre era al lavoro. “Mia moglie mi ha telefonato piangendo e urlando: ‘Vieni a vedere cosa è successo alla ragazza – i coloni le hanno lanciato una pietra in faccia’. Mi sono spaventato moltissimo. Quando sono arrivato, ho visto i vetri rotti e le pietre dentro casa”.

La moglie di Mashour, insieme a Hala e ai loro altri tre figli – compreso un neonato – erano presenti quando ha avuto luogo l’attacco. “Hanno lanciato una pietra e hanno rotto la finestra che si trovava sopra la testa del bambino. Avrebbe potuto finire in una tragedia molto peggiore”, dice Mashour. Il trauma, aggiunge, ha fatto sì che Hala smettesse del tutto di parlare.

Il secondo minorenne ferito il mese scorso, un bambino di cinque anni, è stato colpito pochi giorni dopo da un sasso lanciato contro l’auto della sua famiglia mentre attraversava il bivio di Assaf, nei pressi di Ramallah.

Quando ho chiesto al portavoce della polizia israeliana se la polizia avesse programmato di effettuare degli arresti a seguito delle aggressioni, ho ricevuto la seguente risposta: “La polizia israeliana, insieme alle altre forze di sicurezza, è dispiegata nei vari assi viari principali e nelle zone di attrito in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) per prevenire episodi di violenza, far rispettare la legge e mantenere l’ordine e la sicurezza pubblici”.

Il portavoce ha proseguito: “Per quanto riguarda l’incidente in cui il ragazzo è rimasto ferito, la polizia ha avviato un’indagine in cui sono state intraprese azioni investigative e raccolte prove, l’indagine è in corso”.

Stanno seduti nella mia casa al posto mio’

Nonostante il fatto che l’esercito israeliano abbia il controllo totale sui territori occupati, il compito delle indagini sugli atti criminali degli ebrei israeliani – anche quando sono commessi in Cisgiordania – spetta alla polizia. Anche questo fa parte del regime di apartheid di Israele, che mantiene due differenti sistemi giudiziari per due popolazioni, sulla base della loro nazionalità.

Tuttavia nella pratica né l’esercito né la polizia fanno molto per impedire i violenti pogrom compiuti dai coloni contro i palestinesi in Cisgiordania. A volte di fatto addirittura collaborano.

Ho assistito a questa cooperazione tra le forze armate israeliane e i coloni sabato 23 gennaio, quando mi sono unito a un gruppo di attivisti per una protesta di solidarietà nelle colline di Hebron sud. Gli attivisti si sono recati nella zona per solidarizzare con una famiglia palestinese della comunità di Khirbet Tawamin, dopo che lo scorso giovedì i coloni avevano invaso l’area e li avevano cacciati con la forza dalla grotta in cui vivono. I coloni hanno preso possesso della loro casa per ore cantando intorno a un falò che avevano acceso appena fuori dalla grotta.

In un post sconvolgente su Facebook il giornalista e attivista Yuval Abraham, che trascorre gran parte del suo tempo con le comunità palestinesi nelle colline di Hebron sud, ha riportato la sua telefonata con Abu Mahmoud, uno degli abitanti di Tawamin, che ha descritto in tempo reale le modalità in cui i coloni hanno preso possesso della sua casa:

[…] Abu Mahmoud dice: ‘Perché non hai risposto? Ho cercato di contattare l’esercito e la polizia, non arrivano. La sua voce giunge soffocata e la linea si interrompe. Restiamo entrambi in silenzio, Nasser e io. Un silenzio di paura. Nasser dice che forse dovremmo andare, ma è chiaro che è terrorizzato. Sono terrorizzato anch’io. Proviamo a chiamare di nuovo Abu Mahmoud. Non c’è campo.

Un minuto dopo Abu Mahmoud chiama (di nuovo). ‘Mi hanno cacciato di casa. Sono entrati tutti, i coloni, e si sono seduti lì al posto mio. “Ci manda un video. L’intera famiglia è fuori. I coloni sono a casa sua. Dice: ‘Perché la polizia non è qui? Perché l’Amministrazione (Civile) non è qui? Vieni presto. E noi non sappiamo cosa fare. Ci avviciniamo. Nasser dice: Entriamo nella stradina che porta a casa sua. Rispondo che forse [è meglio] di no. Poi dico no. Solo per un tratto, insiste Nasser, e la imbocchiamo, con il mio piede che trema sull’acceleratore. Vediamo 15 auto con targa israeliana parcheggiate e un falò. ‘Torniamo indietro, torniamo indietro. È pericoloso , dice Nasser.

I coloni se ne sono andati dopo alcune ore e la famiglia è potuta tornare a casa.

Il giorno seguente Abraham è tornato alla grotta di Tawamin. Mentre si trovava seduto insieme alla famiglia, ha assistito a una chiamata tra un rappresentante dell’Amministrazione Civile – il braccio del governo militare israeliano che ha il controllo sui palestinesi nella Cisgiordania occupata – e uno dei membri della famiglia. Nel corso della telefonata, che è stata registrata integralmente e pubblicata su Local Call [sito di notizie in lingua ebraica co-fondato e co-redatto da Just Vision e 972 Advancement of Citizen Journalism, che pubblica anche +972 Magazine, ndtr.], il rappresentante ammonisce in arabo la famiglia di assicurarsi che né giornalisti né attivisti entrino nella grotta.

“Non createci problemi oggi. Inteso?” ha detto il funzionario. “Assicuratevi di non accogliere giornalisti o persone che oggi potrebbero venire a casa vostra per esprimere [la loro] solidarietà.”

Quando il componente della famiglia palestinese dice all’interlocutore di non volere problemi, ma che i soldati non si sono mai fatti vivi dopo essere stati chiamati ripetutamente, il rappresentante ha urlato di rimando: “Alla fine se ne sono andati, giusto? Quindi [ciò è] khalas (“sufficiente” in arabo). I coloni non verranno più lì. Quella è la tua terra e la grotta ti appartiene, giusto? Quindi resta nella grotta. Non portare giornalisti e un mucchio di persone e non creare problemi o espellerò te e loro, capito?”

Una battaglia infinita

Khirbet Tawamin si trova a pochi passi dal villaggio di al-Rakiz, dove i soldati israeliani sono arrivati ​​all’inizio di questo mese per confiscare un vecchio generatore che serviva gli abitanti, dopo che l’amministrazione civile vi aveva eseguito delle demolizioni. Mentre i soldati cercavano di portar via il generatore, Haroun Abu Aram, uno degli abitanti di Al-Rakiz, ha cercato di riprenderlo. Un soldato gli ha sparato al collo, lasciandolo paralizzato.

Gli attivisti che si recavano a Tawamin per la manifestazione di solidarietà del sabato sono stati fermati ad un posto di blocco improvvisato della polizia a 10 chilometri dal villaggio. Ci è stato mostrato un ordine delle IDF [esercito israeliano, ndtr.] che dichiarava l’area “zona militare chiusa” – un noto trucco che l’esercito usa per tenere i palestinesi e gli attivisti di sinistra lontani da zone della Cisgiordania. La polizia ci ha invitato a fare dietrofront e ad andarcene.

Abbiamo trovato un percorso per Khirbet Tawamin attraverso le splendide colline polverose, solo per incontrare – a 10 minuti dall’arrivo – un gruppo di soldati armati che ha mostrato un’ulteriore ordinanza di zona militare chiusa. Dopodiché i soldati ci hanno dispersi con granate assordanti fino a quando abbiamo raggiunto il fondovalle, dove si trova l’insediamento coloniale israeliano di Susya (adiacente all’omonimo villaggio palestinese).

Mentre eravamo intrappolati tra una zona militare chiusa dietro di noi e l’insediamento coloniale israeliano estremista davanti a noi, un gruppo di coloni con cani di grossa taglia si è avvicinato a noi. I soldati, che evitano a tutti i costi il ​​confronto con i coloni, ancora una volta hanno dichiarato chiusa l’area e ci hanno allontanati.

Siamo risaliti verso Tawamin. I soldati che ci seguivano hanno ribadito ancora una volta l’ordine e uno di loro, che parlava correntemente l’arabo, è andato a parlare con i membri della famiglia che avevano temporaneamente perso la loro casa e avevano paura di ciò che poteva ancora accadere. Si può solo supporre che il soldato abbia ripetuto ciò che il rappresentante dell’Amministrazione Civile aveva detto loro al telefono pochi giorni prima: manda via gli attivisti, altrimenti

Qualche minuto dopo la famiglia ci è venuta incontro, ci ha ringraziato per la nostra presenza e ci ha chiesto di andarcene “per evitare problemi”. Siamo andati via, ovviamente. Conosciamo bene questa esperienza: che siano i coloni ad essere arrabbiati con l’esercito, o l’esercito ad essere arrabbiato con gli attivisti di sinistra, sono sempre i palestinesi a pagarne il prezzo.

I palestinesi e gli attivisti israeliani sanno fin troppo bene che la battaglia contro la violenza dei coloni è continua e senza fine. Oggi, 24 gennaio, e nonostante le promesse dell’Amministrazione Civile, circa 30 coloni israeliani hanno invaso lo stesso identico punto in cui gli attivisti avevano cercato di protestare solo un giorno prima. L’esercito è arrivato e ha disperso i coloni.

Orly Noy

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa dal farsi. È membro del consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti affrontano i tratti che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi [ebrei provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, ndtr.], esponente femminile della sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro una perenne immigrata, e il dialogo costante tra loro.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Eravamo armati, le abbiamo distrutto la cucina e ce ne siamo andati”

Nadav Weiman 

10 dicembre 2020 – +972mag

Agli israeliani piace pensare che le incursioni militari nelle case avvengano solo per motivi di sicurezza. Gli ex soldati – e le famiglie palestinesi – sanno che non è vero.

Quando parli con gli israeliani dell’occupazione, loro pensano ai posti di blocco. All’estero la gente pensa al muro di separazione. Ma come ex soldato israeliano che compiva regolarmente irruzioni nelle case, penso a un bambino palestinese che sono andato ad arrestare nel cuore della notte. A suo padre, che aggredì il più grosso dei soldati della nostra squadra. E a come avrei fatto esattamente lo stesso se fossi stato al suo posto.

Successe nella città di Nablus nel 2007. Ci era stato detto che dovevamo arrestare uno che era connesso su Internet con il partito politico libanese e organizzazione militare Hezbollah. All’epoca parlavamo di “arresti di masterizzatori CD” – un nome spregiativo in codice per il fondo del barile quando si trattava di palestinesi ricercati. Abbiamo fatto irruzione nel cuore della notte, l’intero plotone di ricognizione, per arrestare un adolescente di 16 o 17 anni – la cui stanza, guarda caso, era piena di masterizzatori di CD.

Gli abbiamo legato le mani dietro la schiena con delle fascette e lo abbiamo portato alla base con noi, ma suo padre aveva già perso le staffe. Ha individuato il soldato più grande nella nostra squadra e gli si è scagliato contro. Mentre arrestavamo questo ragazzo con i suoi CD di giochi elettronici piratati sparsi per la stanza, uno dei soldati picchiava suo padre, con la madre al fianco che urlava.

Non ricordo di aver mai immaginato, prima di arruolarmi nell’esercito, come potesse essere in pratica la mia attività. Sapevo che avrei dovuto entrare nelle case palestinesi. Sapevo che avrei dovuto fare arresti. Non pensavo a come sarebbe stato arrestarne uno così giovane, o vedere un padre impotente infuriarsi alla vista del figlio ammanettato. Queste non sono cose a cui pensi e non c’è nessuno che te ne parli. Ci sono cose che devi scoprire da solo e, una volta che è successo non c’è pericolo che te le dimentichi.

In Israele non si parla delle irruzioni nelle case palestinesi dei territori occupati. È un’operazione di routine che quasi tutti i soldati israeliani conoscono, ma non troverai esperti che ne parlano nei notiziari e di certo non ne troverai notizia sui giornali. I media coprono le incursioni al più con allarmanti notizie dell’ultima ora del tipo: “Cinque ricercati palestinesi arrestati stasera”. E agli israeliani piace pensare a queste cose esattamente così: raid chirurgici localizzati allo scopo di effettuare arresti legittimi. Ma il quadro non è questo.

In effetti, i soldati invadono continuamente le case palestinesi. Lo fanno per occupare nuove posizioni strategiche, per eseguire perquisizioni a caso e spesso semplicemente per “far sentire la loro presenza”. In alcune unità dell’esercito far sentire la propria presenza è definito “creare la sensazione di essere braccati”. Ciò significa instillare la paura nell’intera popolazione palestinese, una missione che per definizione non fa distinzione tra sospetti e civili innocenti, o tra “persone coinvolte” e “persone non coinvolte”, come ci si esprime nel gergo dell’esercito israeliano.

A volte i soldati fanno irruzione nelle case in piena notte semplicemente per addestramento. Ho fatto irruzione in case a Jenin o Nablus semplicemente per ottenere una posizione d’osservazione migliore. Secondo la testimonianza resa da un ex soldato a Breaking the Silence [organizzazione non governativa israeliana fondata nel 2004 da militari contrari all’occupazione, ndtr.], si potevano invadere le case per sperimentare un nuovo dispositivo per sfondare le porte. Un altro testimone ha raccontato che erano entrati in una casa palestinese per farsi filmare mentre mangiavano sufganiyot (ciambelle di Hanukkah) e avere una buona notizia da trasmettere quella notte alla televisione israeliana.

Ci sono un mucchio di israeliani che conoscono l’interno della casa di un palestinese e non dovrebbero. Hanno visto decine di stanze per bambini, cucine che appartengono a estranei, armadi di altre persone. Se oggi, che sono padre di due figli, penso ai bambini che ho svegliato nel cuore della notte o ai loro genitori terrorizzati, qualcosa mi si spezza dentro.

Non si parla mai di questa routine e ancor meno di cosa c’è dietro. Mormoriamo solo che le irruzioni in casa sono una “necessità operativa” e andiamo avanti. Ma la maggior parte di queste intrusioni sono una necessità solo se si accetta l’assunto che la “presenza dimostrativa” giustifichi tutto, anche invadere la casa di qualcuno su cui non c’è il minimo indizio. Questo è ciò che anima la “necessità operativa”, e non sono certo che la società israeliana l’accetterebbe se sapesse cosa si sta facendo in campo militare a suo nome.

La scorsa settimana, Breaking the Silence ha pubblicato A Life Exposed [Una vita in pericolo], il tanto atteso rapporto dell’organizzazione sulle irruzioni in casa, scritto in collaborazione con i gruppi per i diritti umani Yesh Din [ong femminile israeliana per i diritti umani, ndtr.] e Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i Diritti Umani-Israele, ndtr.]. Il rapporto si basa su centinaia di testimonianze fornite da ex soldati che hanno preso parte a missioni di irruzioni in casa e dai palestinesi che le hanno subite. I resoconti palestinesi sono amari da leggere. Avendo preso parte ad irruzioni in casa, pensavo di sapere come vedono questa routine dall’altra parte. Mi sbagliavo. Ho visto con i miei occhi i palestinesi piangere nelle loro case, ma non ho mai pensato a coloro che trattenevano le lacrime finché ce ne fossimo andati. Non ho mai pensato a chi si è abituato a questa routine, a chi la considera parte della vita.

Prima di forzare la casa del masterizzatore di CD a Nablus siamo entrati per sbaglio in un’altra casa. C’erano due unità israeliane attive nella zona e noi abbiamo cercato di forzare la porta sbagliata. Abbiamo fracassato la porta di una donna nel cuore della notte finché non si è aperta. Siamo entrati, armati, pronti ad arrestare qualcuno, e abbiamo perquisito la casa.

Una delle porte era chiusa a chiave. Ho lanciato dall’alto una granata stordente nella stanza chiusa. Subito dopo si è sentito un vetro in frantumi; si è scoperto che la stanza chiusa era la cucina. Solo più tardi abbiamo scoperto di aver sbagliato casa. Abbiamo svegliato una donna nel cuore della notte, armati; le abbiamo distrutto la porta e la cucina e ce ne siamo andati. Non ci abbiamo nemmeno pensato. È ora che iniziamo a pensarci, tutti noi.

Nadav Weiman è un ex combattente del Nahal Reconnaissance Platoon [la Brigata Granito dell’esercito israeliano] e vicedirettore e responsabile del gruppo di pressione di Breaking the Silence.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Secondo le associazioni israeliane per i diritti umani le retate in casa di palestinesi sono disumanizzanti, cercano di piegare il loro spirito.

2 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Un rapporto pubblicato la settimana scorsa dalle associazioni israeliane per i diritti umani condanna le intrusioni illegali nelle abitazioni dei palestinesi da parte dell’esercito israeliano, suggerendo che questa pratica viola il diritto internazionale.

Questo studio, che si basa su due anni di ricerche da parte di Yesh Din [organizzazione di donne israeliane per la difesa dei diritti umani dei palestinesi, ndtr.], Physicians for Human Rights Israel [Medici per i Diritti Umani – Israele, associazione di medici israeliani, ndtr.] (PHRI) e Breaking the Silence [organizzazione di ex-soldati israeliani contrari all’occupazione, ndtr.], mette in luce una vasta documentazione e molte testimonianze di soldati e famiglie sfrattate.

Le notti passano senza poter chiudere occhio e non posso stare qui in casa. Per molto tempo non ho potuto dormire in casa, andavo dai miei genitori. Loro (i soldati) sono venuti ed hanno buttato giù la nostra porta. Fino ad oggi non sono ancora riuscita a metabolizzarlo,” dice una donna di Beit Ummar nel rapporto.

Attacchi, aggressioni e atti di vandalismo sono frequenti nelle città e nei villaggi palestinesi della Cisgiordania occupata da Israele, tanto da parte di coloni illegali che di soldati.

Secondo il rapporto intitolato “Una vita in bilico: irruzioni militari in case palestinesi in Cisgiordania”, ogni anno centinaia di adolescenti palestinesi vengono arrestati dall’esercito israeliano durante retate notturne, violando le stesse direttive militari riguardo all’emissione di mandati di comparizione per un interrogatorio prima dell’arresto.

Quello che mi viene da pensare,” ha detto la dottoressa Jumana Milhem, una psicologa che lavora con Medici per i Diritti Umani – Israele, “è che il processo implica la disumanizzazione di tutta la società. La questione è piegare l’animo umano.

Ci sono vari fattori di rischio per il TEPT (disturbo da stress post-traumatico) che notiamo in alte percentuali nella società palestinese in generale. Non stiamo parlando di un solo trauma, ma di uno degli aspetti del trauma continuo dell’occupazione. La sensazione di stare chiuso in carcere nel tuo stesso Paese. Questa sensazione di essere continuamente a rischio.”

Luay Abu ‘Aram, palestinese di Yatta, ha detto a Yesh Din: “È stato veramente terrificante il fatto che siano entrati in casa in piena notte con armi, i volti coperti, cani e tutti che si aggiravano in cortile. Nella tua testa passano tanti pensieri. Ha avuto un impatto terribile sulle ragazze, e perché? Perché fanno una perquisizione del genere di tutta la famiglia e dei vicini? Se ci sono informazioni dovrebbero cercare quelle.”

Per qualcuno, come Fadel Tamimi, imam di 59 anni di una moschea a Nebi Salih in Cisgiordania, le retate sono diventate frequentissime negli ultimi 20 anni. Dice di aver perso il conto del numero di volte in cui i soldati sono entrati in casa sua, il che fa pensare che possano essere più di 20, l’ultima nel 2019, appena prima della pandemia da coronavirus.

Il rapporto evidenzia come i civili palestinesi debbano essere protetti contro le frequenti e mortali offensive ed incursioni militari israeliane.

Vengono sottolineati anche gli effetti di queste incursioni sui soldati dell’occupazione, due dei quali hanno descritto la propria esperienza di irruzioni in case palestinesi come un punto di svolta per loro, soprattutto nel modo in cui vedevano se stessi come i “buoni” o “buoni” soldati e persone.

Ci è stata mostrata un’immagine aerea con ogni casa numerata. Ci è stato detto di scegliere quattro abitazioni a caso per entrarvi e “rovistare”, che vuol dire mettere tutto a soqquadro per un qualunque sospetto. Mi è sembrato strano che mi dessero questa possibilità di scelta,” ha spiegato Ariel Bernstein, 29 anni, che ha fatto il militare in un’unità d’élite della fanteria, la Sayeret Nahal.

L’esercito israeliano nega queste accuse, secondo cui le perquisizioni di case verrebbero realizzate a caso, e afferma che sono una questione relativa alla sicurezza.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




‘Un regime illegittimo’: un’importante organizzazione per i diritti umani svela i miti israeliani e riconosce l’esistenza dell’apartheid

Amjad Iraqi

9 luglio 2020 – +972 Magazine

Nel corso di un’intervista approfondita, Michael Sfard, avvocato per i diritti umani, spiega cosa abbia portato Yesh Din ad accusare Israele del crimine di apartheid in Cisgiordania

Vent’anni fa, quando Michael Sfard era un promettente avvocato per i diritti umani, si era energicamente opposto alla parola “apartheid” per descrivere il dominio militare di Israele su Cisgiordania e Striscia di Gaza. Sebbene fosse un critico feroce dell’occupazione che ha dedicato la carriera a difendere i diritti dei palestinesi, aveva detto a se stesso che “le parole contano,” e che l’occupazione, seppure profondamente ingiusta, era una struttura solo temporanea che poteva essere ribaltata con il contributo del diritto

Anni dopo, Sfard — ora un famoso avvocato — ha radicalmente cambiato opinione.

In quello che potrebbe passare alla storia come un momento significativo del dibattito pubblico israeliano, giovedì Yesh Din [“C’è la legge”, associazione israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.], un’ONG per i diritti umani,   ha diffuso un dettagliato parere legale, stilato principalmente da Sfard, consulente legale dell’organizzazione, che afferma che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele, che dura da 53 anni, costituisce un “regime di apartheid.”

Esaminandone lo sviluppo, dal dominio della minoranza bianca in Sudafrica alla sua definizione contenuta nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, si asserisce che Israele sta commettendo il crimine internazionale di apartheid tramite “oppressione e dominazione sistematiche” di un gruppo su un altro nel territorio “con l’intenzione di mantenere quel regime.”

Yesh Din avrebbe detto fino ad ora che alcune politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma adesso stiamo dicendo che il regime è illegittimo,” ha detto Sfard in un’intervista esclusiva a +972. Egli sostiene che lo scopo del parere giuridico “è di cambiare il dibattito interno in Israele e di non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma come di un crimine illegale.”

Anche se l’analisi si concentra principalmente sulla Cisgiordania, Yesh Din sottolinea che con ciò non esclude affatto la tesi secondo cui “il crimine di apartheid sia commesso solo in Cisgiordania. Che il regime israeliano nel suo complesso sia un regime di apartheid. Che Israele sia uno Stato in cui vige l’apartheid.”

Questo cambiamento radicale è rappresentativo di un’opinione che sta crescendo fra gli ebrei-israeliani critici di quello che i palestinesi hanno da tempo diagnosticato a proposito della loro oppressione. Sebbene la recente spinta del governo israeliano verso un’annessione formale abbia consolidato la discussione internazionale circa l’apartheid israeliano, Sfard dice che il parere legale fa parte di un processo più lungo per riconoscere che “la bestia che stiamo affrontando deve essere descritta per quello che è,” a prescindere dall’annessione.

L’intervista è stata modificata e abbreviata per renderla più chiara.

Cominciamo con delle domande ovvie: Perché adesso? Qual è stato il processo mentale che ha portato al parere giuridico?

Le mie riflessioni personali sull’argomento sono cominciate alcuni anni fa quando sono andato a New York per scrivere il mio libro [The Wall and the Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights,  Metropolitan Books, 2018, ndtr.]. Una delle cose con cui mi trovavo alle prese era la sensazione che il paradigma di “occupazione” non potesse sostenere tutto il peso della realtà sul terreno. Anche se ovviamente esiste un’occupazione, e il concetto legale di occupazione belligerante spiega alcune delle cose che vediamo, c’è molto di più che non spiega.

Yesh Din opera in Cisgiordania da 15 anni e ha imparato a conoscere molto profondamente le caratteristiche del governo in quella zona in tutte le sue sfaccettature — il quadro giuridico, le politiche, le pratiche, le cose fatte ma non dette.

La nostra sensazione era che ci fosse bisogno di dare un nome alla ‘bestia’ che ci troviamo di fronte, che deve essere descritta per quello che è. L’apartheid come concetto giuridico è, per ragioni ovvie, la prima scelta, sebbene ci sia voluto un po’ prima che avessimo tempo e risorse per condurre l’analisi. Questa è una discussione che noi non abbiamo né iniziato né finito, ma è una voce in più che si spera dica cose che arricchiranno la discussione.

Personalmente, io ho sentito per la prima volta il concetto di “apartheid” in riferimento alla presenza israeliana in Cisgiordania, e al conflitto in generale, nei primi anni del 2000 durante la Seconda Intifada e la costruzione del muro di separazione. Devo dire che la mia reazione iniziale è stata di totale opposizione all’uso della parola — non ogni omicidio è un genocidio e non ogni discriminazione istituzionale è apartheid.

Ma nel mio intimo non ero così sicuro di me: l’attrazione verso l’uso del concetto mi tormentava. Così ho iniziato a studiare l’apartheid nei suoi diversi aspetti, incluso quello legale, e a visitare il Sudafrica. 

Yesh Din sembra avere un approccio diverso da quello dell’ONG B’Tselem: nel 2016, B’Tselem ha dichiarato che avrebbe smesso di sporgere denunce alle autorità militari israeliane perché facesse delle indagini, il che sembra dare loro una parziale maggiore libertà nell’essere più espliciti circa la natura dell’occupazione.

Anche se Yesh Din accetta molte delle critiche di B’Tselem, voi avete ancora dei procedimenti pendenti in tribunali israeliani e non interromperete le vostre azioni legali. Che influsso ha la posizione di Yesh Din riguardo all’apartheid sul vostro lavoro legale? Vi aspettate delle conseguenze da parte delle autorità, inclusi i tribunali?

Le autorità israeliane non hanno bisogno che noi diciamo cose radicali per dare il via a delle ritorsioni contro di noi — è qualcosa che viene fatto anche quando noi abbassiamo i toni. Anzi io ho la sensazione che sia vero il contrario: noi stiamo dicendo quella che pensiamo sia la verità in modo ragionato con una relazione esauriente. Si può essere d’accordo o no, ma presenta le argomentazioni e costruisce il caso basandosi sui dati, i precedenti e l’analisi giuridica.

Se alcune parti del sistema giudiziario si offenderanno ci sarà almeno un po’ di rispetto per il modo professionale in cui conduciamo la nostra lotta. Io non penso che un singolo caso legale (presentato da Yesh Din) sarà danneggiato dal fatto che noi stiamo dicendo cose che sono sgradevoli da sentire. Se ci sono funzionari e giudici le cui decisioni ne saranno influenzate, si tratterà di critiche secondarie. Quindi ciò non ci preoccupa affatto.

Non dimentichiamo che questo non è un rapporto sulla magistratura o sui giudici, ma sul sistema che si è creato durante gli anni. La “musica” del rapporto è che noi [israeliani] siamo tutti responsabili dell’apartheid, che io sono responsabile. Questa è una sfumatura importante. Non lo sto guardando dal di fuori, e tutte le mie controparti nell’ufficio del Procuratore Generale, nel Ministero della Giustizia o fra i giudici sanno che questa è la mia identità e coloro che sono onesti la rispetteranno.

Detto ciò, stiamo discutendo di qualcosa che ha enormi implicazioni. Fino ad ora, Yesh Din ha detto che politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma ora noi parliamo di un regime che è illegittimo.

E così la domanda che ci si ritorce contro è questa: cosa fare se è un regime di apartheid? Continuare a stare all’“opposizione” — qualcuno che si oppone alle politiche del regime — o diventare “dissidenti” — qualcuno che si oppone al regime stesso? E seguire il cammino della “giustizia” che il regime illegittimo ci offre?

Per rispondere devo ricorrere ai miei “antenati” in Sudafrica. Gli avvocati nel regime di apartheid in Sudafrica non smisero mai di andare in tribunale perché i neri chiedevano loro di andarci. La decisione di andare in tribunale o di boicottarlo non sta a me, ma ai palestinesi. Fino a quando i palestinesi vogliono che noi li rappresentiamo, noi non abbiamo il diritto di rifiutare basandoci sull’affermazione che “noi ne sappiamo di più.”

Va certamente bene ammettere che gli avvocati e le ONG non possono guidare la lotta. Detto ciò, c’è ancora un dilemma davanti a cui si trovano persino le organizzazioni palestinesi, cioè che talvolta possono sentirsi colpevoli per aver detto ai clienti palestinesi che hanno una possibilità, seppure piccola, di vincere.

Come trova il confine fra l’identificare l’occupazione come un regime di apartheid, e perciò senza aspettarsi di ottenere nulla di quello che spera, e tuttavia andare avanti?

Niente ha cambiato le prospettive di vittoria o successo (che sono due cose diverse) da quando ho scritto la relazione. Era lo stesso regime anche prima. Nei miei rapporti con i clienti, io cerco di essere chiaro suIla montagna che stiamo scalando e quello che ci si può, o non può, aspettare.

Allo stesso tempo, si deve riconoscere il fatto che i palestinesi non vanno via dal tribunale completamente a mani vuote. I tribunali sono un’istituzione in cui i palestinesi talvolta ottengono risarcimenti — di solito non con decisioni favolose, ma piuttosto nel processo che li trasforma da individui completamente trasparenti e senza importanza in soggetti di un contenzioso. Solo quando “si rivolgono a un avvocato” e vanno in tribunale diventano “qualcuno” (agli occhi delle autorità).

Ci sono anche delle vittorie, come nel recente caso sollevato a proposito della Legge per la Regolarizzazione (che cerca di legalizzare tantissimi insediamenti israeliani e “avamposti” e annullata lo scorso mese dalla Corte Suprema).

Avevamo un grosso dilemma quando alcuni anni fa abbiamo presentato la denuncia. C’erano delle persone che ci hanno detto: “Non presentate alcuna petizione… lasciate che il governo ne paghi le conseguenze.” Ma secondo me c’erano decine di migliaia di persone che stavano per perdere le loro terre e volevano che noi li rappresentassimo. Così, avendo una possibilità di vincere per loro, non ho detto di no per ottenere un vantaggio ipotetico. E per come va il mondo oggi, mi chiedo quale contromossa avrebbe tirato fuori il governo per mettere in pratica la Legge per la Regolarizzazione.

Dopo la nostra conclusione che questo è un regime di apartheid non sarà più “tutto come prima”. L’analisi sull’apartheid finirà nelle nostre memorie giudiziarie e cause. È nostra intenzione cambiare il dibattito interno israeliano e non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma piuttosto di un crimine di illegittimità.

Questo rispecchia il dibattito sull’uso della “legge dell’oppressore,” un dibattito che anche i sudafricani hanno avuto. Quali altre lezioni ha ricavato dagli avvocati sudafricani su come sfidare l’apartheid?

Noi (in Israele-Palestina) siamo in una posizione peggiore rispetto al movimento anti-apartheid in Sudafrica.

Primo, noi qui abbiamo due movimenti separati per porre fine all’apartheid in Israele: uno israeliano, l’altro palestinese. In Sudafrica c’era un movimento ed era guidato dagli oppressi. Questo è un grosso problema, perché gli israeliani hanno più potere, più privilegi, più diritti e sono molto meno vulnerabili rispetto ai palestinesi.

Secondo, c’è la posizione internazionale israeliana rispetto a quella del Sudafrica. Ma negli ultimi dieci anni abbiamo visto quasi una rivoluzione nella società civile internazionale a proposito del conflitto. Persino negli Stati Uniti, persino nella comunità ebraica americana si può vedere questo cambiamento. La nostra relazione e la nostra campagna di sensibilizzazione mirano ad accelerare questo cambiamento, per contribuire a far capire alla comunità internazionale che deve far pressione su Israele per fermare l’apartheid.

Per anni molti avvocati, ONG e attivisti palestinesi hanno offerto un’ampia analisi, professionale e legale, accusando Israele del crimine di apartheid, inclusa la recente denuncia alla Corte Penale Internazionale.

Tuttavia è probabile che l’opinione di Yesh Din riceverà molta più attenzione perché questa è un’organizzazione israeliana e forse verrà presa più seriamente nei circoli che contano all’estero. Ai palestinesi potrebbe sembrare provocatorio perché, anche se noi siamo spesso felici che escano tali rapporti, c’è anche una strana sensazione quando si vede che il nostro lavoro è valutato in modo così diverso.

Lei prima ha parlato di un suo rifiuto iniziale per il termine apartheid: pensa che sia lo stesso per altri avvocati e organizzazioni ebraico-israeliane? Perché pensa che ci sia voluto così tanto ad essere d’accordo con quello che molti palestinesi hanno detto?

Si tratta di negazionismo. Ma è anche importante notare che noi israeliani viviamo in condizioni di totale lavaggio del cervello a causa del dibattito, dei leader e dei media. E mentre noi (israeliani di sinistra) mettiamo in discussione molte cose e abbiamo una nostra identità in quanto critici, siamo pur sempre nati in questo contesto.

Io stesso sono nato a Gerusalemme Ovest nel 1972 e l’ebraico è la mia lingua madre. Sono cresciuto con il sistema scolastico israeliano e sono andato sotto le armi fino a quando non sono diventato un refusenik [chi rifiuta di prestare servizio nei territori occupati, ndtr.]. Ho assorbito il punto di vista israeliano per tutta la mia vita e cosi hanno fatto i miei amici e colleghi.

Noi siamo stati accecati dalla narrazione israeliana e c’è voluto del tempo per renderci conto che gli argomenti che ogni israeliano ripete — come “noi non vogliamo controllare i palestinesi,” o “noi vogliamo che siano padroni del proprio destino,” o “noi faremo un accordo quando avremo una controparte nei negoziati” — sono tutte menzogne. Il mito particolarmente potente durante gli anni di Oslo era che gli israeliani volevano porre fine al “dominio non voluto” sui palestinesi. Ci vuole del tempo per rendersi conto che non è vero — che questo fa tutto parte di un’impresa di dominazione, e per interiorizzare la nostra supremazia.

Anche la sinistra israeliana, per quanto piccola, è cambiata, in parte perché oggi include molti palestinesi. Alle superiori io ero un attivista di sinistra, ma non ho mai lavorato al fianco dei palestinesi, neppure con i palestinesi (cittadini) israeliani.

Oggi non è possibile lavorare su questo tema senza i palestinesi. La loro comprensione del conflitto ha arricchito noi attivisti ebrei, inclusi quelli di gruppi come Yesh Din e B’Tselem. Io non vedrò mai la realtà come la vedete voi, posso solo cercare di capire meglio cosa vedete voi, e viceversa.

La relazione non esclude la possibilità di identificare l’apartheid in altre parti della realtà dello Stato di Israele. Eppure, ciò afferma che i regimi in Cisgiordania e dentro Israele possono ancora essere visti come distinti, e forse in un “processo di unificazione.”

Comunque, le basi dell’occupazione non derivano solo dalle leggi principali di Israele, ma erano state presenti fin dall’inizio dentro lo Stato in quanto governo militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966. Quindi il regime del ’67 può essere considerato separato da quello del ’48 o ne è piuttosto un’estensione o una continuazione?

Quando ho cominciato a studiare il crimine di apartheid a livello internazionale, mi ha immediatamente colpito che sia un crimine di regime. Ma il diritto internazionale non definisce cosa sia un regime, per cui ci si deve rivolgere ad altre discipline per scoprirlo.

Con mio grande stupore, “regime” è una nozione dotata di flessibilità. È la totalità delle autorità pubbliche che hanno poteri, leggi e regolamenti normativi, politiche, prassi, e così via. Guardando ad una certa area geografica con lenti diverse e usando decisioni diverse, si possono trovare regimi diversi.

Per esempio, possiamo guardare a tutta la zona fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo con una bassa risoluzione e vedere che c’è un potere politico che crea e porta avanti le proprie decisioni. Ma si può anche guardarlo con un’alta risoluzione, e scoprire che, all’interno di quel territorio, ci sono nuclei distinti di autorità, politiche e pratiche pubbliche nelle diverse zone.

Quando si guarda con una lente di ingrandimento l’occupazione militare in Cisgiordania è un regime distinto. Non esclude un’analisi diversa da un punto di osservazione posto più in alto, ma ci sono complessità (dentro Israele) che non si trovano in Cisgiordania.

Per esempio, il regime può essere classificato come di apartheid quando il gruppo inferiore ha il diritto politico di votare e di candidarsi al governo (come i cittadini palestinesi in Israele)? Io penso che si possa se quei diritti sono completamente diluiti e resi privi di significato. Non so se in Israele sono tali, ma in merito ci sono molte opinioni legittime.

Noi di Yesh Din abbiamo fatto la scelta di concentrarci sulla Cisgiordania come nostra area di competenza e di cui ci occupiamo. Ma per noi è importante dire che ciò non esclude altre analisi che possono essere condotte in parallelo. Noi ci rendiamo conto che c’è un costo o rischio guardando solo a un segmento della politica israeliana, quindi il nostro modo di affrontare quel rischio è di riconoscerlo e dirlo con chiarezza.

C’è una sezione del documento che dice: “sebbene l’origine [dell’apartheid] sia storicamente connessa al regime razzista in Sudafrica, ora è un concetto legale indipendente con una sua propria vita che può esistere senza essere basato su un’ideologia razzista.”

Devo confessare che, leggendolo, il mio primo pensiero è stato che, almeno non intenzionalmente, si dissociasse l’obiettivo politico della supremazia ebraica — o per essere franchi, del sionismo — dalle strutture istituzionali israeliane. Può chiarire la riflessione che sta dietro quella affermazione?

Uno dei problemi che ho incontrato quando ho sottoposto le mie idee a degli israeliani è che l’apartheid, per quelli che sanno cos’è, è visto come parte di un’ideologia razzista come quella dei nazisti: che alcuni hanno tratti biologici o genetici che scientificamente li rendono inferiori agli altri.

Dato che la Convenzione contro l‘apartheid e lo Statuto di Roma definiscono l’apartheid usando le parole “gruppi razziali,” l’interpretazione è controintuitiva. Non si tratta dell’assunzione biologica di razza, ma piutttosto di gruppi sociali e politici in cui membri di una certa Nazione hanno privilegi come gruppo.

Non stavo cercando di dire che non c’è un’ideologia di supremazia che mette il principio di preferenza ebraica al di sopra di quello dei palestinesi; naturalmente c’è una cosa simile (e il rapporto lo menziona ). Quello che volevo dire era che non si tratta della stessa argomentazione scientifica che una razza è migliore di un’altra.

In conclusione, si può commettere il crimine di apartheid indipendentemente da quale sia la motivazione. L’apartheid, per esempio, potrebbe essere economico — l’intero progetto potrebbe riguardare il profitto e continuerebbe ad essere apartheid. Nel nostro caso, noi abbiamo un conflitto nazionale. In altri posti potrebbe trattarsi di etnia, casta o altro; non deve essere per forza basato su un’ideologia razzista.

Sembra che lei stia cercando di universalizzare ulteriormente il quadro dell’apartheid.

Certamente. Ai sensi del diritto internazionale il divieto di apartheid costituisce il valore fondamentale che il mondo ha adottato dopo la seconda guerra mondiale: noi condividiamo un’umanità e un regime che viola in maniera diretta e sistematica quel principio affermando che ci sono alcuni che hanno più diritti di altri — questa è la cosa che si sta cercando prevenire.

Il diritto e le convenzioni internazionali che identificano il crimine di apartheid e le sue caratteristiche in Israele-Palestina esistono da decenni. Ma a differenza del Sudafrica, il mondo sembra fare un’eccezione con Israele sull’apartheid. Perché dovrebbe fare eccezione e dove pensate che il dibattito debba andare per porvi fine?

Primo, sono passati solo 70 anni dal più grande crimine mai commesso contro l’umanità. Io sono il nipote di sopravvissuti all’Olocausto. C’è una riluttanza, comprensibile, ma inaccettabile, a confrontarsi con questo crimine da parte delle “vittime per eccellenza.” 

Si può vedere come le potenze europee camminino sulle uova quando si tratta di Israele, e Israele è riuscito a mobilitare nel mondo occidentale questo senso di colpa collettivo e giustificato a proprio favore. Se c’è una lezione da imparare dalla storia del genocidio e dell’antisemitismo, è che non si dovrebbe restare in silenzio davanti al male e alla persecuzione di comunità.

Secondo, Israele è visto, tavolta correttamente, in pericolo esistenziale dato che i suoi vicini cercano di distruggerlo. Anche se queste dichiarazioni hanno pochissimo significato o sono solo propaganda, e anche se Israele è la maggiore potenza in Medio Oriente alleata con una superpotenza, queste affermazioni danno a Israele molto spazio di manovra. C’è anche la questione della posizione di Israele quale avamposto dell’America in Medio Oriente. Ma penso che tutto ciò stia cambiando.

Per il dopo, come ho già detto, io ci vado molto attento con le parole. “Apartheid” è una parola che ha molto peso e non la userei con leggerezza. Se questa accusa sarà qualcosa da discutere più seriamente — non come una parolaccia ma come qualcosa di valido — nel caso in cui ci si confronti con un regime di apartheid, l’obbligo in ogni Paese è di porvi fine.

Ciò è molto diverso dall’occupazione. Per esempio, l’Europa ha raggiunto la conclusione che si deve attenere a una politica di differenziazione per garantire che non un centesimo dei suoi soldi vada alle colonie. Se si arriva alla conclusione che Israele è un regime di apartheid, ciò avrà un enorme impatto su quello che è obbligata a fare per legge, non solo rifiutando di assistere quel regime, ma di fare pressioni affinché esso finisca.

In conclusione la gente dovrebbe chiedersi qual è lo scopo finale delle politiche di Israele. Vent’anni fa la maggior parte della gente avrebbe detto che era di avere due Stati — ma oggi non sono sicuro della loro risposta. E se neanche uno Stato democratico binationale è la risposta, allora non c’è via alternativa all’apartheid.

In pratica affermando che non ci sia una soluzione si accetta automaticamente l’apartheid.

Giusto. Quando ho cominciato a scrivere il documento, a prova delle sue intentioni di perpetuare la dominazione avevo solo le azioni di Israele sul terreno. Per 50 anni il governo di Israele ha detto la “cosa giusta” — che l’occupazione è temporanea fino a che gli accordi di pace non sostituiranno gli accordi di cessate il fuoco.

Ma poi il divario fra le dichiarazioni di Israele e le sue azioni è scomparso. Con le loro stesse parole i governanti israeliani hanno distrutto il proprio alibi — un pessimo alibi che comunque non riusciva a nascondere le loro azioni. Oggi il mio lavoro è molto più facile.

Amjad Iraqi è redattore e autore di +972 magazine. È anche analista politico di Al-Shabaka e in precedenza è stato un coordinatore della difesa di “Adalah” [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.]. È un cittadino palestinese di Israele, attualmente residente ad Haifa.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché Israele festeggia i suoi terroristi: Ben Uliel e l’assassinio della famiglia Dawabsheh

Ramzy Baroud

22 maggio 2020 – Middle East Monitor

I media israeliani e gli apologeti del sionismo in tutto il mondo sono impegnati a ripulire l’immagine di Israele gravemente danneggiata a livello mondiale utilizzando la rara condanna di un terrorista israeliano, Amiram Ben Uliel, che recentemente è stato ritenuto colpevole per l’uccisione della famiglia palestinese Dawabsheh, compreso un bambinetto di 18 mesi, nella cittadina di Duma, a sud di Nablus.

La condanna di Ben Uliel il 18 maggio da parte della corte israeliana composta da tre giudici è prevedibilmente acclamata da qualcuno come la prova che il sistema giudiziario israeliano è corretto e trasparente e che Israele non deve essere messo sotto inchiesta da soggetti esterni.

Il tempismo della decisione del tribunale israeliano nel condannare Ben Uliel per tre accuse di omicidio e due di tentato omicidio è stato particolarmente significativo, in quanto ha fatto seguito a una decisione della procuratrice generale della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, di proseguire l’indagine per crimini di guerra commessi nella Palestina occupata.

Visto come gli estremisti israeliani, soprattutto quelli che vivono illegalmente nella Cisgiordania occupata, sono governati attraverso un sistema separato, e molto più clemente del regime militare che governa i palestinesi, l’apparentemente netta condanna del terrorista israeliano merita un ulteriore esame.

Gli apologeti di Israele si sono affrettati a festeggiare il verdetto del tribunale fino al punto che lo stesso organo israeliano di intelligence interna, lo Shin Bet, noto per i suoi famigerati metodi di tortura dei prigionieri palestinesi, ha descritto la decisione come “un’importante pietra miliare nella lotta contro il terrorismo ebraico.” Altri hanno lavorato per scindere il macabro attacco di Ben Uliel dal resto della società israeliana, sottintendendo che l’uomo era un lupo solitario e non il risultato diretto del folle razzismo e dei discorsi violenti diretti contro palestinesi innocenti.

Nonostante la chiara condanna di Ben Uliel, il tribunale israeliano ha cercato di evidenziare che il terrorista israeliano ha agito da solo e non è membro di un’organizzazione terroristica. In base a questa logica il tribunale ha sostenuto che i giudici “non potrebbero scartare l’ipotesi che l’aggressione sia stata motivata dal desiderio di vendetta o razzismo senza che Ben-Uliel fosse effettivamente membro di un gruppo organizzato.”

Date le circostanze il verdetto è stato lo scenario più favorevole per l’immagine di Israele, in quanto assolve deliberatamente la massiccia rete terroristica che ha prodotto personaggi come Ben Uliel e l’esercito israeliano che protegge quotidianamente quegli stessi estremisti, mentre ripulisce la meritata pessima reputazione di Israele come una società violenta con un sistema giudiziario ingiusto.

Ma Ben Uliel non è affatto un lupo solitario.

Quando il terrorista israeliano, insieme ad altri aggressori mascherati, ha fatto irruzione nella casa di Sa’ad e Reham Dawabsheh alle 4 del mattino del 31 luglio 2015 era chiaramente impegnato a farsi un nome all’interno della società fervidamente razzista ed estremista che ha fatto dell’omicidio e della pulizia etnica dei palestinesi una missione divina.

Ben Uliel ha raggiunto in pieno i suoi obiettivi. Non solo ha ucciso Sa’ad e Reham, ma anche il loro figlio di 18 mesi, Ali. L’unico membro della famiglia sopravvissuto è stato Ahmed, di 4 anni, che è rimasto gravemente ustionato.

La morte della famiglia palestinese, in particolare del piccolo Ali, è diventata rapidamente fonte di gioia e di festeggiamenti tra gli estremisti ebrei. Nel dicembre 2015, sei mesi dopo l’uccisione della famiglia Dawabsheh, un video di 25 secondi diventato virale sulle reti sociali ha mostrato una folla di israeliani che festeggiava la morte di Ali.

Il video mostrava una “stanza piena di uomini con zuccotti bianchi che saltavano e danzavano, molti con i lunghi riccioli degli ebrei ortodossi. Alcuni di loro – ha riportato il New York Times – brandivano armi da fuoco e coltelli.”

“Due (degli israeliani che festeggiavano) appaiono mentre accoltellano pezzi di carta che hanno nelle mani, che la rete televisiva ha identificato come foto di un bambino di 18 mesi, Ali Dawabsheh.” Nonostante la polizia israeliana sostenga di avere in corso “indagini” sulla festa di odio, non c’è nessuna prova che qualcuno sia stato considerato responsabile della vera e propria celebrazione della violenza contro una famiglia innocente e un neonato. Di fatto i magistrati dello Stato di Israele hanno in seguito sostenuto di aver perso il video originale degli estremisti che ballavano.

La celebrazione del terrorismo israeliano è proseguita per anni senza tregua, fino al punto che il 19 giugno 2018 estremisti israeliani, minacciando il nonno di Ali mentre stava lasciando un tribunale israeliano, hanno apertamente gridato slogan osceni come “Dov’è Ali? Ali è morto,” “Ali è sulla griglia.”

L’efferata uccisione di Ali e della sua famiglia e il conseguente processo si sono aggiunti a una serie di altri avvenimenti che hanno chiaramente messo in discussione l’immagine creata con cura di Israele come una democrazia liberale. Il 24 marzo 2016 Elor Azaria ha ucciso a sangue freddo un palestinese, Fattah al-Sharif. Al-Sharif era stato lasciato a terra sanguinante privo di sensi dopo che, secondo quanto sostenuto dall’esercito israeliano, avrebbe cercato di accoltellare un soldato israeliano.

Azaria ha avuto una lieve condanna a 18 mesi, presto liberato tra festeggiamenti di massa come un eroe vittorioso. Importanti esponenti del governo israeliano, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno appoggiato l’assassino che ha agito a sangue freddo durante il processo. Non è affatto sorprendente che Azaria chieda di avere in futuro un ruolo importante nel governo israeliano.

I festeggiamenti per gli assassini e i terroristi come Ben Ulliel e Azaria non sono un fenomeno nuovo nella società israeliana. Baruch Goldstein, il terrorista israeliano che nel 1994 uccise molti fedeli palestinesi mentre erano inginocchiati in preghiera nella moschea Al-Ibrahimi di Al-Khalil (Hebron) ora è percepito come un moderno martire, un santo di proporzioni bibliche.

In questi casi, quando la natura del delitto è così terribilmente violenta, la cui gravità si impone ai mezzi di informazione internazionali, a Israele non rimane altra possibilità che utilizzare la condanna del “terrorismo ebraico” come un’opportunità per reinventare se stesso, il suo sistema “democratico”, i suoi procedimenti giudiziari “trasparenti”, e via di seguito. Nel contempo i media israeliani e i loro associati in tutto il mondo si danno da fare per descrivere lo “shock” e l’“indignazione” collettivi provati dagli israeliani “rispettosi della legge” e “amanti della pace”.

L’uccisione della famiglia Dawabshe, seppur uno dei numerosi atti di violenza perpetrati da estremisti ebrei e dall’esercito israeliano contro palestinesi innocenti, è un esempio perfettamente calzante.

In effetti un rapido sguardo ai dati e ai rapporti prodotti dalle Nazioni Unite indica che l’assassinio della famiglia palestinese da parte di coloni ebrei non è stato un’eccezione quanto la regola.

In un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per le Questioni Umanitarie (OCHA) del giugno 2018 i ricercatori dell’ONU hanno parlato di un aumento esponenziale della violenza dei coloni ebrei contro i palestinesi.

“Tra il gennaio e l’aprile 2018 l’OCHA ha documentato 84 incidenti attribuiti ai coloni israeliani che hanno provocato vittime palestinesi (27 casi) o danni a proprietà palestinesi (57),” afferma il rapporto. Questa tendenza prosegue, a volte con un aumento marcato, senza che nessuno ne debba rendere conto.

L’associazione israeliana per i diritti Yesh Din ha seguito la piccola percentuale di indagini sulle violenze dei coloni aperte dall’esercito e dalla polizia israeliani. L’associazione conclude che “su 185 inchieste aperte dagli investigatori tra il 2014 e il 2017 che sono arrivate a conclusione, solo 21, cioè l’11,4%, ha portato al procedimento penale contro i responsabili, mentre altre 164 denunce sono state chiuse senza un’imputazione.”

La ragione di ciò è semplice: le centinaia di migliaia di estremisti ebrei che sono stati trasferiti perché si insediassero stabilmente nei territori occupati, un atto che viola chiaramente il diritto internazionale, non operano al di fuori del paradigma colonialista disegnato dal governo israeliano. In qualche modo anche loro sono “soldati”, non solo perché sono armati e concordano i propri spostamenti con l’esercito israeliano, ma perché le loro colonie in continua espansione si trovano al centro dell’occupazione israeliana e del suo continuo processo di pulizia etnica.

Pertanto la violenza dei coloni ebrei come quella commessa da Ben Uliel non dovrebbe essere analizzata separatamente dalla violenza inflitta dall’esercito israeliano, ma vista all’interno del più vasto contesto della violenta ideologia sionista che governa la società israeliana nel suo complesso. Ne consegue che la violenza dei coloni può finire solo con la fine dell’occupazione militare in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza e con la fine dell’ideologia sionista razzista che diffonde odio, accoglie il razzismo e rende razionale l’assassinio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’isolamento della Cisgiordania non è iniziato con la pandemia del coronavirus

Lior Amihai 

11 marzo 2020 – +972 magazine

I principi che hanno guidato i governi israeliani durante 52 anni di occupazione sembrano caratterizzare la risposta al coronavirus nei territori occupati.

Lo scorso giovedì, con in pieno svolgimento sia il coronavirus che la crisi politica israeliana, il ministro della Difesa ad interim Naftali Bennett ha annunciato una chiusura militare totale di Betlemme, dopo che è stato confermato che un certo numero di abitanti della città ha contratto il COVID-19. Tre giorni dopo il ministero della Sanità ha annunciato che a chiunque sia stato a Betlemme, Beit Jala e Beit Sahour viene richiesto di mettersi in quarantena volontaria per due settimane.

Gli abitanti di quelle comunità non possono più entrare in Israele, benché molti di loro vi lavorino. Tra quanti ora si trovano in quarantena dopo essere stati nella zona di Betlemme ci sono alcuni dei miei colleghi dell’organizzazione per i diritti umani Yesh Din [“C’è la legge”, ong israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.].

Domenica Bennett ha annunciato che, come parte della lotta contro il coronavirus, stava prendendo in considerazione la totale chiusura militare di tutte le città palestinesi in Cisgiordania. Tuttavia lunedì, in seguito a un incontro con vari ministri, generali ed altri rappresentanti del governo, Bennett ha fatto retromarcia rispetto alla sua dichiarazione ed ha deciso di non bloccare i territori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ordini simili di blocco e quarantena non sono stati imposti ai quartieri ebraici della zona di Betlemme come Gilo, che si trova nei pressi di Beit Jala, o Har Homa, vicino a Betlemme. Oltretutto gli abitanti di Ashkelon, Gerusalemme, Ariel e Petah Tikvah, tutte città con casi confermati di COVID-19, non sono stati sottoposti ad estesa chiusura militare né a quarantena (salvo che per quanti sono attualmente malati).

Nella colonia di Einav, nella Cisgiordania settentrionale, quattro persone sono risultate positive al coronavirus e altri 100 abitanti sono in quarantena. Si tratta di circa il 12% dei coloni, eppure, nel momento in cui scrivo, l’insediamento non è ancora stato chiuso.

Ciò che difficile da fare per gli israeliani sembra essere facile per milioni di palestinesi che vivono sotto il flagello dell’occupazione israeliana.

Nel contempo a quanto pare il ministero della Salute non ha tenuto conto del fatto che la Tomba di Rachele, un luogo di pellegrinaggio ebraico molto frequentato, si trova al centro di Betlemme. I visitatori del luogo per ora non sono sottoposti all’obbligo di auto-quarantena di due settimane per chiunque sia stato nella zona di Betlemme. La tomba, che, nonostante la sua posizione, è sul lato israeliano del muro di separazione, è protetta da un’entrata molto sorvegliata ed è vietata ai palestinesi. Lunedì notte in quel luogo si è tenuta una preghiera di massa per bloccare il coronavirus.

E martedì a coloni israeliani nella Hebron occupata è stato consentito di realizzare i loro festeggiamenti annuali di Purim in coordinamento con l’esercito israeliano. La decisione di consentire che questo evento avvenisse nel centro di Hebron è un’ulteriore dimostrazione dell’enorme differenza dei rapporti del governo israeliano con le due popolazioni che vivono nello stesso territorio.

I passi che il governo israeliano ha intrapreso per prevenire la diffusione del coronavirus non sono esagerati. Al contrario sembra che le misure prese finora siano riuscite ad impedire un’esplosione di casi nelle ultime settimane.

Ma bisognerebbe ricordare che lo Stato di Israele, l’esercito che controlla i territori [palestinesi] occupati e noi come società abbiamo la responsabilità, imposta dalle leggi internazionali e dagli obblighi etici, di proteggere l’incolumità, la sicurezza e la salute di tutte le persone sotto il controllo israeliano – comprese quelle che vivono sotto occupazione israeliana.

L’emergenza totale provocata dal coronavirus ha proposto un test allo Stato di Israele. I palestinesi non dovrebbero essere percepiti come una popolazione che può essere isolata dagli israeliani con chiusure, assedi, leggi differenziate e strade per evitarli. I rischi per la loro salute e qualità di vita ricadono principalmente su di noi, in quanto potere che ne è responsabile.

Le decisioni di imporre una chiusura militare totale sui territori [palestinesi] occupati (escludendo le colonie), o su alcune zone dei territori, non possono essere prese quando le principali considerazioni riguardino le implicazioni per la popolazione e l’economia israeliane, per esempio la mancanza di lavoratori edili e di risorse umane. Al contrario, queste decisioni devono prima rispondere “sì” alla domanda: verrebbero prese le stesse decisioni se la popolazione coinvolta fosse ebraica?

Inoltre i palestinesi che vivono in Cisgiordania sono già sottoposti durante tutto l’anno a una chiusura militare e alla grande maggioranza di loro è vietato entrare in Israele. Di solito ci sono alcune “eccezioni”, palestinesi che hanno permessi temporanei che consentono loro di entrare in Israele per lavorare. Tuttavia negli ultimi giorni anche a quelli con permessi di ingresso è stato vietato di entrare in Israele, a causa della festa di Purim – che, come per ogni importante festa ebraica, ha portato Israele a chiudere totalmente la Cisgiordania. E quei coloni israeliani che hanno celebrato Purim a Hebron hanno usufruito delle stesse strade che sono state chiuse ai palestinesi per un quarto di secolo.

Sembra che gli stessi principi che hanno guidato i governi israeliani per 52 anni di occupazione – con il suo allontanamento, occultamento e disumanizzazione dei palestinesi – continuino a guidare il governo di Benjamin Netanyahu durante una pandemia che cambia le carte in tavola. Eppure, in contrasto con queste linee guida, è diventato ancora più chiaro che lo spazio in cui viviamo sia una ragnatela umana che non può essere separata artificialmente. Questa pandemia può essere la nostra opportunità per dimostrare che non abbiamo dimenticato come si comportano gli esseri umani.

E forse, all’ombra del coronavirus, gli abitanti di Betlemme e di altre città sottoposte a chiusura militare saranno liberati da incursioni notturne, improvvisi posti di blocco, arresti arbitrari, spedizioni militari e scontri quotidiani con il potere occupante.

Lior Amihai è direttore esecutivo di Yesh Din.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)