Il razzismo dei coloni israeliani non è un’anomalia. È parte di un sistema di apartheid

Ben White

14 ottobre 2020 – Middle East Eye

Molti di coloro che hanno criticato la recente istigazione anti-araba nella colonia di Yitzhar continuano a sostenere la discriminazione istituzionale contro i palestinesi

La colonia israeliana di Yitzhar [in Cisgiordania, a sud della città di Nablus, ndtr.], a lungo sinonimo di estremismo nazionalista e violenza anti-palestinese, è tornata all’onore delle cronache lunedì, dopo che i suoi abitanti hanno collocato all’esterno della colonia un cartello che recita: “Questa strada conduce alla comunità di Yitzhar – L’ingresso per gli arabi è pericoloso.”

Come illustrato da Haaretz, il retroscena della trovata è un fatto avvenuto due settimane fa, quando “è stato rifiutato l’ingresso a Yitzhar ad un operatore sanitario arabo inviato per somministrare un test per il Covid-19”, in quanto, secondo quanto riportato, “era un arabo”.

In risposta il comandante in capo israeliano della regione “ha chiarito agli abitanti di Yitzhar che devono consentire l’ingresso degli arabi”, interpretando la posa del cartello stradale come un segnale di “protesta”.

Le foto del cartello sono state rapidamente condivise su Twitter, suscitando indignazione e contrarietà generali.

Secondo alcuni, il motivo per cui la scritta è diventata virale è che rappresenterebbe un momento rivelatore del fatto che un sistema di segregazione sia stato espresso in modo brutale ed esplicito. Questo potrebbe essere parzialmente vero, ma racconta solo una parte della storia, come possiamo vedere dalla ampia varietà di individui che hanno espresso irritazione per il cartello di Yitzhar.

Tra chi ha manifestato delle critiche sono compresi, ad esempio, apologeti e persino compartecipi del processo di colonizzazione israeliana nella Cisgiordania occupata, come l’ex leader delle colonie e diplomatico israeliano Dani Dayan, che ha definito il cartello “razzista”.

Un colono della Cisgiordania, insegnante Uri Pilichowski, ha dichiarato: “Sono un colono e ho trovato quella scritta spregevole”. Ha aggiunto in un post di Facebook: “Ogni gruppo ha le sue mele marce e la comunità dei coloni non è diversa”.

In modo significativo, Pilichowski ha concluso così il suo post: “Il mio unico sollievo è che Yitzhar si comporta continuamente in questo modo, il che evidenzia come tutte le altre comunità ebraiche in Giudea e Samaria [cioè le colonie in Cisgiordania] non fanno mai queste cose”.

Sulla base di questo modo di vedere, i comportamenti dei cittadini di Yitzhar, sebbene deplorevoli, diventano in realtà una prova della moralità del 99% dei coloni (si noti che l’immagine di Yitzhar come eccezione, o anomalia, è una risposta abituale di fronte al verificarsi di questo tipo di episodi).

Storia della violenza

In effetti, il razzismo dei coloni di Yitzhar può essere compreso solo in quanto parte, piuttosto che elemento estraneo o eccezionale, delle politiche attuate nel corso della storia e attualmente e sostenute dalla leadership politica, militare e giudiziaria di Israele e dalla maggioranza dell’opinione pubblica ebraica.

L’esclusione e l’allontanamento dei palestinesi dalla terra e dalle comunità attraverso la violenza, le leggi e la prassi sono parte integrante della storia di Israele, a cominciare dall’esodo causato dai coloni sionisti prima della fondazione dello Stato e dalla pulizia etnica della Nakba.

Oggi il controllo ebreo israeliano sulla terra e sulle risorse – a spese dei cittadini palestinesi – è assicurato attraverso varie leggi e meccanismi di pianificazione, incluso il rifiuto di consentire ai palestinesi esiliati di tornare nelle loro terre e il ruolo dei comitati di ammissione residenziale [in alcune zone di Israele queste commissioni possono negare il diritto di residenza a persone indesiderate ed escludono metodicamente i palestinesi cittadini di Israele, ndtr.].

Nella Cisgiordania occupata, nel frattempo, le autorità israeliane hanno a lungo escluso i palestinesi da aree estese della regione, un divieto di accesso che è inseparabile dalla colonizzazione del territorio [che avviene] principalmente attraverso la creazione di colonie ebraiche.

Come ha evidenziato su Twitter l’esperto della colonizzazione Dror Etke, è il massimo dell’ipocrisia che qualcuno come Dayan condanni l’episodio del cartello di Yitzhar quando, come documentato in dettaglio nel rapporto di Kerem Navot [organizzazione di valutazione e ricerca sulle politiche israeliane del territorio in Cisgiordania, ndtr.] del 2015, i settori amministrativi delle colonie giocano un ruolo chiave nell’esclusione dei palestinesi da aree della Cisgiordania occupata.

Il rapporto ha rilevato che quasi un terzo della Cisgiordania e più della metà dell’Area C [il 60% della Cisgiordania dove, in base agli accordi di Oslo, Israele esercita il pieno controllo civile e della sicurezza, ndtr.] sono state “definite come aree militari chiuse” – l’obiettivo principale è “ridurre drasticamente le possibilità da parte della popolazione palestinese di utilizzare la terra e consegnarne il più possibile ai coloni israeliani.”

“Minaccia demografica”

I coloni che imbrattano i muri delle case e delle moschee palestinesi con graffiti razzisti sono condannati da vaste fasce della società israeliana, ma l’istigazione anti-araba e anti-palestinese è diffusa sui media e nella politica israeliana, a partire dai commenti dei lettori fino alle politiche strategiche nei confronti dei palestinesi.

Secondo l’indice annuale di 7 amleh [ONG palestinese ndtr.] su razzismo e istigazione nei media informatici israeliani, il 2019 ha visto un commento razzista ogni 64 secondi. Nel frattempo, le comunità palestinesi nella Cisgiordania occupata sono descritte nelle riunioni di commissione della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] come un “virus” e un “cancro”.

I più importanti leader israeliani abitualmente trattano con sufficienza, minacciano e disumanizzano i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949, ndtr.] con politici come Gideon Saar [membro del parlamento israeliano, ndtr.] del Likud o il defunto Shimon Peres [laburista, presidente di Israele dal 2007 al 2014, ndtr.] che si preoccupavano dei “tassi di fertilità” ebrei rispetto a quelli arabi o definivano i cittadini palestinesi una “minaccia demografica”.

Concentrarsi su attori come i coloni “estremisti” può essere indispensabile e vantaggioso, in particolare quando vengono alla ribalta gli attacchi violenti commessi contro i palestinesi e le loro proprietà, condotti nell’impunità e persino con la cooperazione attiva delle forze israeliane.

Tuttavia, è importante contestualizzare eventi come il cartello di Yitzhar in modo tale da non oscurare gli abusi pluridecennali e quotidiani subiti dai palestinesi per mano dello Stato israeliano di apartheid. Il parlamentare del Meretz [partito politico della sinistra sionista, ndtr] ed ex generale dell’esercito Yair Golan è stato tra coloro che hanno condannato la scritta dei coloni di Yitzhar, chiedendo retoricamente: “È questo quello che vogliamo essere, uno Stato razzista?”

Una simile risposta mostra che i momenti rivelatori possono anche essere utili come opportunità di autocompiacimento morale da parte di coloro che disdegnano e prendono le distanze in modo assertivo dal volgare razzismo dei coloni, pur sostenendo la discriminazione e la segregazione istituzionalizzata la cui portata e impatto fanno sì che gli attivisti di Yitzhar appaiano, al confronto, ben poca cosa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White

Ben White è uno scrittore, giornalista e analista specializzato sul tema Palestina / Israele. I suoi articoli sono apparsi ampiamente sui media internazionali, tra cui Al Jazeera, The Guardian, The Independent e altri. È autore di quattro libri, l’ultimo dei quali, ‘Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine / Israel’ [Crepe nel muro: dietro l’apartheid in Palestina, ndtr.] (Pluto Press), è stato pubblicato nel 2018.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Adolescente palestinese ucciso durante un tentativo del suo villaggio di difendere una montagna dai coloni israeliani

Yumna Patel 

11 marzo 2020 – Mondoweiss

Per i palestinesi della zona nord della Cisgiordania occupata mettere a rischio la vita per difendere la propria terra fa semplicemente parte dell’esistenza.

Innumerevoli palestinesi hanno pagato il prezzo più alto per aver tentato di respingere i coloni e i soldati dalle loro città, cittadine e villaggi. Mercoledì un altro palestinese si è aggiunto a questa lista.

Mercoledì il quindicenne Mohammed Abdel Karim Hamayel, ore dopo essere stato colpito dalle forze israeliane insieme a decine di altri giovani della sua cittadina di Beita, a sud di Nablus, è deceduto in seguito alle ferite.

Hamayel è stato colpito quando decine di soldati israeliani armati hanno invaso Jabal al-Arma, o la montagna di Al-Arma, nei dintorni di Beita, ed hanno iniziato a scontrarsi violentemente contro una folla di palestinesi che stavano facendo un sit-in sulla montagna.

A quanto pare i militari avrebbero usato proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni per reprimere i manifestanti, che per settimane hanno inscenato dei sit in su al-Arma nel tentativo collettivo di scacciare i coloni che hanno cercato di prendere il controllo della montagna.

Informazioni ufficiali del ministero della Salute indicano che durante l’attacco oltre 100 palestinesi sono rimasti feriti, tra cui due in modo grave da proiettili veri.

Altre decine, compreso il ministro dell’ANP Walid Assaf, che si occupa della resistenza popolare contro il muro e le colonie in Cisgiordania, sono stati asfissiati e curati per aver inalato gas lacrimogeno.

Settimane di scontri

L’uccisione di Hamayel e la violenta repressione dei manifestanti di mercoledì mattina sono state il culmine di settimane di proteste sulla montagna e di scontri tra persone del luogo, soldati e coloni israeliani.

Circa due settimane fa coloni del notoriamente violento insediamento di Itamar hanno pubblicato un appello sulle reti sociali per occupare la montagna, che pensano sia un antico luogo religioso ebraico, e prenderne il controllo.

Dopo essere venuti a conoscenza dei progetti dei coloni, decine di uomini e giovani di Beita sono andati sulla montagna ed hanno eretto tende di protesta per rimarcare la loro presenza come deterrente contro i coloni.

Benché il gruppo di coloni non abbia ricevuto il permesso dell’esercito israeliano di andare sulla montagna, un piccolo numero di giovani coloni ha deciso di comunque proseguire.

C’erano circa 10 coloni e un reparto di soldati che sono venuti a proteggerli e a scortarli su per la montagna,” ha detto a Mondoweiss Minwer Abu al-Abed, un attivista del posto di 56 anni.

Secondo al-Abed, i soldati hanno inutilmente cercato di scortare i coloni sulla montagna, sparando lungo il percorso proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni.

I coloni hanno tentato una conquista violenta della nostra terra, ma ovviamente loro (i soldati) erano là solo per sparare ai palestinesi,” dice al-Abed.

Video degli scontri, diventati virali sulle reti sociali palestinesi, mostrano gruppi di giovani palestinesi lanciare pietre contro i coloni e i soldati finché questi ultimi sono stati obbligati a lasciare la zona.

Nonostante quel giorno si siano registrati più di 90 feriti, il villaggio l’ha festeggiata come una vittoria. “Abbiamo fatto sapere che ci siamo e abbiamo difeso la nostra terra contro i coloni,” afferma al-Abed, aggiungendo orgogliosamente che “neppure una colonia è stata costruita sulla terra di Beita, cosa che attribuisce alla fermezza degli abitanti.

Tuttavia i coloni hanno fatto altri due tentativi di impossessarsi della montagna, ogni volta con maggior potenza di fuoco e l’appoggio dell’esercito israeliano.

Il 2 marzo un altro fallito tentativo ha portato al ferimento di decine di palestinesi, di cui due feriti da proiettili veri.

Il terzo tentativo, mortale, è avvenuto mercoledì [11 marzo] mattina, poche ore dopo che Israele ha compiuto una massiccia retata nel villaggio, e, benché i coloni non siano riusciti ad impossessarsi della montagna, è finito con la morte di un ragazzino.

Non lasceremo mai questa terra”

Scontri tra coloni e palestinesi, come l’ultimo tentativo di impossessarsi della terra di questi ultimi, non sono rari in Cisgiordania, soprattutto a Nablus.

Colonie come Yitzhar, Itamar e Brakha sono diventati nomi familiari nei vicini villaggi palestinesi, che affrontano continui attacchi dei coloni contro la loro terra, le loro attività agricole, il loro bestiame, le loro case e le persone.

Quindi, quando i coloni hanno messo gli occhi su al-Arma, gli abitanti di Beita non sono rimasti sorpresi. “La lotta per difendere al-Arma non è nuova,” dice al-Abed a Mondoweiss, aggiungendo che i coloni hanno tentato per decenni di occupare la cima della collina, addirittura fin dagli anni ’80. “Pensano che ci sia un sito ebraico sulla montagna e che ciò dia loro diritti su di essa,” sostiene. “Ma lì ci sono rovine cananee, che dimostrano il nostro legame con questa terra.”

Secondo al-Abed nel corso degli anni centinaia di abitanti di Beita sono stati arrestati, molti per le proteste a Jabal al-Arma. Altri due, dice, sono stati resi martiri mentre cercavano di difendere la cima della montagna.

Questa montagna non ha solo un significato storico per noi, ma è importante per la vita quotidiana della gente di Beita,” afferma al-Abed, aggiungendo che gli abitanti della cittadina non solo ne coltivano la cima, ma la usano anche per attività ricreative, picnic e grigliate in famiglia. “In quanto palestinesi non lasceremo mai questa montagna. La gente di Beita non cederà mai,” sostiene.

Sono da condannare Trump e Netanyahu

Mentre le cime che circondano Nablus sono costellate da decine di colonie e avamposti israeliani, buona parte della terra rubata ai palestinesi utilizzata per costruirli si trova nell’Area C – più del 60% della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano – rendendo più facile ai coloni occuparla. Tuttavia, in base agli accordi di Oslo, Jabal al-Arma è designata come Area B, il che pone sotto l’autorità dell’ANP questioni come edilizia e accesso alle terre da coltivare.

Per anni gli abitanti del villaggio hanno creduto che il fatto che la montagna si trovi nell’Area B l’avrebbe difesa dall’occupazione da parte dei coloni.

Ma quando il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha attizzato i tentativi di estendere il controllo israeliano sull’Area B, la sensazione di sicurezza provata dagli abitanti è svanita.

Questi recenti tentativi dei coloni di impossessarsi di Jabal al-Arma sono chiaramente legati alle politiche del governo di destra israeliano,” dice al-Abed.

E a peggiorare le cose, nota al-Abed, la pubblicazione del piano di pace USA in gennaio ha solo ulteriormente imbaldanzito il movimento dei coloni in Cisgiordania.

Chi pensi abbia dato ai coloni e a Netanyahu il permesso di andare avanti con l’annessione e con tutti i loro piani?” chiede. “Lo ha fatto Trump. Quando ha reso pubblico il piano di pace ha detto ad Israele ‘prendi quello che vuoi’. Ed ora i palestinesi ne stanno pagando il prezzo.”

Yumna Patel è corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come la cima di una collina è diventata l’incubatrice della violenza dei coloni israeliani

Natasha Roth-Rowland

2 gennaio 2020 – +972

Il governo israeliano ha fatto poco per bloccare i coloni religiosi di Yitzhar, la cui ideologia estremista sta promuovendo ondate di violenza contro i palestinesi in Cisgiordania

Il 16 ottobre 2019 coloni mascherati di Yitzhar e degli avamposti circostanti hanno aggredito attivisti israeliani ed ebrei americani, tra cui un rabbino ottantenne, che stavano aiutando i palestinesi nella raccolta delle olive. Tre giorni dopo nella stessa zona coloni hanno attaccato palestinesi che stavano coltivando la propria terra. Nei due giorni seguenti abitanti di Yitzhar hanno aggredito anche reparti della polizia di frontiera israeliana durante una serie di scontri dopo che l’esercito ha arrestato un colono sospettato di aver dato fuoco a un appezzamento di terreno di proprietà palestinese.

Questo scoppio di violenza – avvenuto durante la festa ebraica di Sukkot – è stato uno dei molti avvenuti nella Cisgiordania occupata negli ultimi mesi del 2019. Attacchi contro le forze di sicurezza palestinesi ed israeliane e atti di vandalismo contro proprietà palestinesi, compresi incendi, sono stati segnalati a Gush Etzion [colonia israeliana nella zona centrale della Cisgiordania, ndtr.], Hebron [Al-Khalil, città palestinese nella Cisgiordania meridionale, ndtr.], Bat Ayin [colonia nei pressi di Gush Etzion, ndtr.], Hizma [cittadina palestinese nei pressi di Gerusalemme, ndtr.] e altrove. Benché secondo il ministero della Difesa israeliano quest’anno ci sia stata una riduzione complessiva del numero di crimini di odio da parte di coloni rispetto al 2018, la loro ampiezza e il loro livello di violenza sta aumentando.

Yitzhar si trova nella parte settentrionale della Cisgiordania (in genere denominata “Samaria” in Israele), dove i coloni tendono a raggrupparsi in avamposti sulla cima delle colline sparsi attorno ai centri abitati palestinesi. Questa parte dei territori occupati è particolarmente soggetta alla violenza dei coloni, quindi non è un caso che Ytzhar sia stata al centro del più recente picco di aggressioni dei coloni.

Yitzhar è stata fondata nel 1983 come avamposto militare sulla cima di una collina nei pressi della città palestinese di Nablus e trasformata l’anno seguente in un insediamento civile in base a una direttiva del governo. La colonia originaria era stata fondata su terreni agricoli di proprietà di una serie di villaggi palestinesi, compresi Burin e Huwara, che nel corso degli anni hanno sofferto il peso della violenza dei coloni nella zona. A iniziare dalla fine degli anni ’90 sulla cima delle colline circostanti sono spuntati numerosi avamposti illegali [in base alla legge israeliana, ndtr.].

Dal 2000 Yitzhar è stata sede della yeshiva [scuola religiosa ebraica, ndtr.] “Od Yosef Chai” (Giuseppe vive ancora), nota a lungo per aver insegnato ai propri studenti la liceità – e persino la necessità – della violenza contro i non ebrei. Fondata nel 1982 sotto l’egida di un’organizzazione benefica che vi è stata inclusa nel 1983, per circa 20 anni la yeshiva si è stabilita sul luogo della Tomba di Giuseppe a Nablus, finché è stata trasferita a Yitzhar quando l’esercito israeliano ha smantellato il proprio avamposto militare presso la tomba durante la Seconda Intifada. Durante la sua esistenza la yeshiva e l’accampamento presso la Tomba di Giuseppe sono stati un frequente punto critico e la tomba continua ad essere un luogo di pellegrinaggio per coloni radicali, le cui spedizioni notturne mensili spesso provocano violenze.

Il capo spirituale della yeshiva e delle colonie è il preside della “Od Yosef Chai” Yitzchak Ginsburgh, un rabbino ultraortodosso nato nel Missouri che nel corso della sua carriera ha riunito un seguito numeroso e fedele. I suoi studenti ed accoliti sono stati all’avanguardia nel promuovere e mettere in atto violenze contro palestinesi nel corso degli ultimi dieci anni. E nonostante le condanne espresse dai vertici del governo quando un ulteriore attacco o una pubblicazione che incita all’odio riconduce alla yeshiva di Ginsburgh, essa continua ad essere attiva – tutto ciò mentre continua a ricevere una modesta somma annuale da parte del locale consiglio regionale.

È in buona misura grazie all’insegnamento di Ginsburgh e dei suoi rappresentanti e della violenza che hanno incoraggiato che Yitzhar è diventata famosa come una delle colonie radicali più estremiste. Ma mentre le informazioni sulle aggressioni fisiche da parte dei suoi abitanti spesso fanno notizia, l’ideologia sottesa – e la mancanza di volontà da parte dello Stato di occuparsene seriamente – riceve un’attenzione molto minore.

I non ebrei come “subumani”

Chiunque abbia conosciuto Baruch (Goldstein) ritiene che egli abbia agito in base alla sua personalità ebraica… Non si è trattato della reazione di un ebreo ignorante – che dovrebbe anch’esso essere benedetto – ma di un uomo colto ed esemplare.”

Questa è stata la reazione di Ginsburgh al massacro presso la moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi di Hebron nel febbraio 1994, in cui Baruch Goldstein, nato a Brooklyn, ha ucciso a fucilate 29 fedeli musulmani prima di essere picchiato a morte quando il suo fucile si è inceppato. Ginsburgh scrisse la sua dichiarazione in “Baruch HaGever” (Baruch l’uomo/l’uomo è benedetto”), una raccolta di saggi e di elogi funebri pubblicata l’anno dopo l’attacco.

Come molti dei collaboratori al libro, Ginsburgh presenta il terrorismo di Goldstein come una testimonianza del suo valore come essere umano, inseparabile dalla sua carriera come dottore e come esempio di violenza giusta con una profonda ragione e giustificazione teologica. Avvalendosi di una serie di scritture ebraiche, Ginsburgh ha inquadrato la strage al contempo come un atto di protezione degli ebrei, un attacco contro il “male” (in cui i palestinesi sono descritti come l’incarnazione attuale di Amalek, i nemici biblici degli israeliti) e un tentativo di salvaguardare la Terra di Israele per il popolo ebraico.

Al centro dell’ideologia di Ginsburgh ci sono l’accettabilità e la moralità della violenza ebraica contro i non ebrei. Come ha scritto il docente di religione israeliano Motti Inbari, sottesa a ciò c’è la sua concezione dei non ebrei come di fatto “subumani” – implicando che il comandamento “non uccidere”, che riguarda gli esseri umani, si applichi solo agli ebrei.

Questa interpretazione dei Dieci Comandamenti caratterizza un’altra nota pubblicazione uscita da Yitzhar, questa volta ad opera dei seguaci di Ginsburgh, Yosef Elitzur e Yitzhak Shapira – quest’ultimo dirige la yeshiva “Od Yosef Chai”. Il loro libro del 2009, “Torat Hamelech” (“La Torah del Re), allo stesso modo sostiene che il peccato di omicidio riguardi la violenza tra ebrei e ammette esplicitamente l’uccisione di minori e bambini non ebrei se, scrivono, “è chiaro che quando saranno cresciuti ci faranno del male.” Questo libro, come “Baruch HaGever,” ha comportato per i suoi autori accuse di incitamento al razzismo e alla violenza, ma non ne è derivata nessuna azione penale.

Parecchi anni dopo, in un altro incidente Elitzur, dopo aver pubblicato un articolo sul sito di notizie di estrema destra “HaKol HaYehudi” [La Voce Ebraica, ndtr.] gestito da Yitzahr, si è guadagnato un’ulteriore accusa per incitamento alla violenza. L’articolo definiva linee guida che si sarebbero sviluppate in quelli che sono noti come attacchi “prezzo da pagare”, un termine dato a crimini d’odio e violenza commessi da estremisti israeliani contro chiunque osi mettere a repentaglio il progetto di colonizzazione, compresi attivisti palestinesi e della sinistra israeliana. Anche i redattori di “HaKol HaYehudi” sono stati messi sotto accusa con imputazioni simili.

Forse il più noto dei pupilli di Ginsburgh dell’ultima generazione è Meir Ettinger, un dirigente della gioventù della cima delle colline [gruppo di giovani coloni particolarmente violenti, ndtr.] sospettato di coinvolgimento in numerosi reati violenti contro i palestinesi. Ettinger, un ex-studente di Ginsburgh, è un blogger fisso di “HaKol HaYehudi”. Recentemente ha definito Ginsgurgh “il più autentico ebreo al mondo,” e ha affermato: “Quando immagino un leader ebreo, quando immagino il re David, egli assomiglia a Ginsburgh.”

Focolaio di violenza dei coloni

La fede nella violenza moralmente sostenibile e al contempo necessaria non è affatto rara nell’estrema destra israeliana. Il rabbino Meir Kahane, nato a Brooklyn e che ha avuto una storica carriera di violenza spettacolare sia nel suo Paese natale che in quello di adozione [Israele, ndtr.] una volta disse all’intervistatore di una televisione americana che, quando viene condotta per proteggere ebrei, “la violenza è una mitzvah (comandamento spirituale ebraico)”. Il manifesto elettorale del partito Otzma Yehudit (Potere Ebraico), formato dai discepoli del defunto Kahane, mette esplicitamente in rapporto le leggi religiose ebraiche e la “guerra totale” contro i “nemici di Israele”.

Baruch Goldstein, seguace di Kahane e che era stato anche consigliere di un consiglio comunale a Kiryat Arba [colonia di estremisti religiosi nei pressi di Hebron, ndtr.] per il partito Kach [fondato da Kahane, ndtr.], può aver portato all’estremo quell’ideologia, ma essa caratterizza ancora larghi strati della destra religiosa – compresi quanti hanno difeso, e continuano a difendere, la strage di Goldstein a Hebron. Il rabbino Dov Lior, ex-rabbino capo di Hebron e di Kiryat Arba, ha esplicitamente appoggiato il libro “Torat Hamelech.”

Inoltre Ginsburgh non è affatto l’unico rabbino influente ad indottrinare generazioni di studenti delle scuole religiose con motivazioni a favore della violenza interetnica e interreligiosa derivate dalle Sacre Scritture. In effetti in tutta Israele il sistema delle accademie religiose di preparazione al servizio militare – la prima delle quali è nata nella colonia di Eli nel 1988 – probabilmente segue una logica simile, anche se meno esplicita nei programmi di yeshiva come la “Od Yosef Chai”.

Per esempio il rabbino Eli Sadan, capo dell’accademia di Eli, ha paragonato la guerra contro Gaza del 2014 alla narrazione biblica delle battaglie di Sansone contro i filistei, che terminarono con Sansone che a Gaza fece crollare un tempio sulla sua testa e su quella degli oppressori filistei, uccidendoli tutti. Anche innumerevoli rabbini sionisti religiosi hanno citato i palestinesi come nemici biblici dei nostri giorni, con la conseguenza che il loro destino finale dovrebbe essere, e sarà, l’annichilimento.

Eppure Yitzhar e la sua yeshiva sono un caso a parte, non solo per la frequenza con cui i suoi abitanti sono coinvolti o legati alla violenza dei coloni, ma anche per le loro caratteristiche ideologiche. Gli abitanti sono prevalentemente nazionalisti ultraortodossi – noti in ebraico come hardalim (un nome composto tra haredi, ultraortodossi, e leumi, nazionalisti). In questo senso Yitzhar rappresenta una sorta di passaggio generazionale del focolaio di azioni dei coloni estremisti sia contro i palestinesi che contro lo Stato.Tra gli anni ’70 e ’90 il terrorismo ebraico ha avuto origine da gruppi del sionismo religioso e da movimenti come Gush Emunim e il partito Kach, ed ha avuto la propria roccaforte a Kyriat Arba. Lo stesso Kahane è ricordato a Kyriat Arba da un parco con il suo nome, che è anche il luogo della tomba di Baruch Goldstein. Tuttavia gli anni 2000 e 2010 hanno visto emergere un movimento ancora più radicale, che rifiuta quasi integralmente l’autorità dello Stato e che nello scorso decennio è stato dietro ad alcuni degli attacchi più brutali contro i palestinesi. Il volto di questa nuova estrema destra è la gioventù della cima delle colline, per la quale Ginsburgh è la guida spirituale.

Lo stesso Ettinger è emblematico di questo passaggio generazionale, ideologico e geografico dell’avanguardia dell’estremismo di destra israeliano. Proprio come Ginsburgh è stato propagandato come il successore spirituale di Kahane, così Ettinger, nipote di Kahane, ha seguito l’insegnamento del suo mentore ultra-ortodosso più che del suo familiare (nel 2016, durante la detenzione amministrativa di Ettinger in seguito all’attacco incendiario di Duma che ha ucciso tre membri di una famiglia palestinese, Libby Kahane, la vedova di Kahane, ha manifestato il proprio rammarico per il fatto che a suo parere il nipote non abbia seguito le orme del suo defunto marito).

Non un’anomalia

Il governo israeliano ha fatto sporadici tentativi di contrastare il ruolo di Yitzhar nel fomentare la violenza in Cisgiordania. Ma, al di là di qualche azione penale senza seguito contro i leader della colonia, le autorità israeliane non hanno fatto seri sforzi per arginare questa violenza. I soldati israeliani, benché siano stati ripetutamente bersaglio dei coloni, sono stati persino filmati accanto ad abitanti di Yitzhar senza che intervenissero mentre questi aggredivano palestinesi che vivono nei villaggi che si trovano sotto la colonia.

Di tanto in tanto lo Stato ha chiuso temporaneamente le istituzioni della colonia. Ad esempio, alla fine del 2011, dopo che un certo numero dei suoi studenti sono stati collegati ad attacchi contro palestinesi in Cisgiordania, è stata disposta la chiusura della scuola superiore “Dorshei Yehudcha” di Yitzhar. Tuttavia la scuola — il cui responsabile per la formazione è Yosef Elitzur e il cui preside è Yitzchak Ginsburgh — ha tranquillamente riaperto e continua ad essere in funzione fino ad oggi. Nel 2014 le forze di sicurezza israeliane hanno occupato la “Od Yosef Chai”, piazzandosi nella yeshiva per un anno ed obbligandola a interrompere le attività. Tuttavia dopo che l’esercito se n’è andato la yeshiva ha ancora una volta riaperto.

In seguito a ripetuti episodi di violenza guidati dai coloni di Yitzhar, nel 2013 il governo ha tagliato centinaia di migliaia di shekel che versava ogni anno alla yeshiva attraverso il ministero dell’Educazione. Eppure la “Od Yosef Chai” continua a ricevere decine di migliaia di shekel all’anno dal Consiglio regionale della Samaria ed è stata in grado di conservare il suo status di associazione no-profit, consentendole così di ricevere donazioni esenti da tassazione in Israele. Ha ricevuto donazioni esentasse anche dagli Stati Uniti, benché il sito ufficiale della yeshiva (come quello di molte istituzioni di destra delle colonie) sia evasivo riguardo alla provenienza di questi fondi.

Tuttavia la vera questione non riguarda solo una singola colonia nella parte settentrionale della Cisgiordania. La crescente emarginazione sociale della gioventù della cima delle colline ha reso facile per il mondo politico israeliano puntare l’indice contro l’attuale violenza dei coloni – compresa quella di Yitzhar – come un’anomalia, guidata da un’ideologia che i dirigenti politici insistono nell’affermare non abbia posto nel Paese. Ma la farsa delle ormai usurate condanne che vengono esternate in seguito alle azioni più gravi del terrorismo dei coloni nasconde fino a che punto lo Stato consenta tale violenza.

Che si tratti della gioventù della cima delle colline condannata socialmente o dell’élite dei coloni con ottimi rapporti, l’ideologia sottesa della conquista della terra, della purezza etnica e delle leggi teocratiche imposte dalla Bibbia è passata da una generazione all’altra e attraverso le istituzioni dello Stato. La gioventù della cima delle colline sicuramente ha una dimensione più esplicitamente antigovernativa per la sua visione del mondo. Ma rimane il fatto che la sua ideologia è profondamente radicata in una società che dopo più di 70 anni è ancora incapace di affrontare, per non parlare di accogliere e sancire per legge, il concetto di uguaglianza, o di riconoscere i palestinesi come popolo nativo con diritti umani. Finché sarà così, il governo israeliano sarà incapace, e presumibilmente non disposto, a fare più di qualche gesto di facciata per bloccare l’estremismo dei coloni.

Informazioni sull’ideologia del rabbino Yitzchak Ginsburgh e dei suoi seguaci e sulla storia di Yitzhar sono state ricavate dai seguenti libri: Religious Zionism and the Settlement Project: Ideology, Politics, and Civil Disobedience [Sionismo religioso e progetto coloniale: ideologia, politica e disobbedienza civile] di Moshe Hellinger, Isaac Hershkowitz e Bernard Susser (2018); Jewish Fundamentalism and the Temple Mount: Who Will Build the Third Temple? [Fondamentalismo ebraico e il Monte del Tempio: chi costruirà il Terzo Tempio?] di Motti Inbari (2009); Baruch Hagever: Memorial Book for the Holy Dr. Baruch Goldstein, [Baruch Hagever: libro in memoria del santo dottor Baruch Goldstein] a cura di Michael Ben Horin e altri (1995); How Long Will Israel Survive? The Threat From Within, [Per quanto ancora sopravviverà Israele? La minaccia dall’interno] di Gregg Carlstrom (2017).

Natasha Roth-Rowland è dottoranda in storia presso l’università della Virginia, dove fa ricerche e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele/Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come scrittrice, redattrice e traduttrice in Israele/Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast, the London Review of Books Blog, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive con il suo vero cognome di famiglia in memoria del nonno, Kurt, che durante la Seconda Guerra Mondiale venne obbligato a cambiare il cognome in ‘Rowland’ per cercare rifugio in Gran Bretagna.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)