“Che Gaza bruci”: il diluvio di retorica genocida dei soldati israeliani

Younis Tirawi e Eran Maoz

13 giugno 2024 Zeteo

Dentro il genocidio-lampo di Israele, la seconda parte della nostra indagine su Zeteo

Il comandante militare israeliano Gur Rosenblat è esplicito: tutta Gaza, “non solo l’organizzazione di Hamas”, deve essere eliminata e i suoi 2 milioni di abitanti cacciati. La Striscia, scrive sui social, dovrebbe “cessare di esistere”.

Anche se Rosenblat, capo della Brigata di fanteria settentrionale israeliana e vicedirettore generale del Ministero dell’Istruzione del paese, chiarisce in un post su Facebook del 13 ottobre di non parlare in veste ufficiale, non tenta di mascherare i suoi appelli al genocidio. “Persone che sono bestie umane e i loro sostenitori devono pagare un prezzo altissimo, se non con la vita, almeno con l’espulsione”, scrive.

Solo tre giorni dopo un account Instagram con il nome utente @gvrrvznblt, che afferma di essere Rosenblat, ha pubblicato una foto con la didascalia: “Perché non uccidiamo dieci, ventimila gazawi al giorno bombardandoli per ogni giorno in cui i rapiti [gli ostaggi israeliani] non tornano? …follia”.

Nell’invocare una “vittoria decisiva” su Facebook il 20 novembre Rosenblat chiarisce che “soltanto la cancellazione completa e definitiva” di Gaza City, prima della guerra la città più popolosa dell’enclave palestinese, e il “trasferimento dei suoi abitanti nella parte meridionale della Striscia… può portare a qualche cambiamento”.

Una “specie di seconda o terza Nakba”, aggiunge. “Proprio come [il villaggio palestinese di] Sheikh Munis, sulle cui rovine fu fondata Tel Aviv [nel 1948], e molti altri insediamenti arabi furono cancellati, così anche la città di Gaza deve essere cancellata”.

Rosenblat non è solo. Dal 7 ottobre abbiamo trovato sui social media centinaia di post di personale militare israeliano, compresi i comandanti, pieni di odio, di retorica disumanizzante spesso genocida. I post contribuiscono ad accumulare una serie crescente di prove che certificano ciò che le associazioni per i diritti umani e altri hanno definito un modello sistematico di crimini di guerra commessi dalle forze israeliane nella Striscia di Gaza. Inoltre mettono a nudo il vero intento della guerra di Israele contro Gaza. Non è una “guerra difensiva” volta a garantire “il minimo danno ai civili”, come amano affermare Israele e i suoi alleati. Proprio le parole dei soldati suggeriscono che far danno ai civili con morte, distruzione e sfollamento sia, di fatto, l’obiettivo.

Nella prima parte della nostra indagine per Zeteo avevamo considerato le foto disumanizzanti che i soldati hanno condiviso da Gaza. Nella seconda parte documentiamo la retorica genocida che è diventata un tema davvero imperante tra i soldati israeliani, compresi quelli schierati a Gaza. Se non diversamente specificato, i soldati che hanno condiviso i post non hanno risposto alle nostre richieste di commento.

Un progetto per “ridurli in polvere”

L’8 ottobre, su una pagina Facebook, uno che afferma di essere il Colonello riservista Elad Schvartz aveva pubblicato un video con un messaggio per i leader israeliani. “Se entro quattro ore tutti gli ostaggi non verranno rilasciati…, inizieremo a bruciare Gaza”, dice l’ufficiale senior della 91a divisione, vestito con la sua uniforme militare. “Quartiere dopo quartiere.”

A circa 40 miglia di distanza soldati che sembrano appartenere al 5060° Battaglione di Riserva che opera nella città occupata di Hebron, in Cisgiordania, hanno lanciato il loro sentito appello a bruciare le città palestinesi nei territori occupati: “Che il vostro villaggio bruci, che il vostro villaggio bruci”, cantano diversi soldati in un video pubblicato su Instagram da un soldato israeliano.

Gli appelli che chiedevano la distruzione su vasta scala di un popolo e della sua terra non erano solo retorica. Come il mondo ha visto negli ultimi otto mesi sono serviti da piano per la distruzione, documentato non solo dai palestinesi di Gaza ma anche dagli stessi soldati israeliani sul terreno della Striscia che sembravano desiderosi di vantarsi con i loro follower di ciò che avevano pianificato di fare – e di quando lo hanno fatto.

Ciò è stato particolarmente vero per i combattimenti che hanno avuto luogo nel quartiere densamente popolato di Shuja’iyya, a Gaza City dove molti palestinesi avevano cercato rifugio all’inizio della guerra. Quando a dicembre l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella zona i blackout nelle comunicazioni hanno reso difficile sapere esattamente cosa stava succedendo. Sarebbe divampata una battaglia feroce.

Almeno due account Instagram che affermavano essere di soldati della brigata Givati hanno condiviso quello che sembrava essere il filmato di un drone che mostrava gli edifici del quartiere in fiamme. Nel video si sente una voce non identificata, presumibilmente un soldato dire che stanno partendo per “l’operazione ottava notte di Hannukah” per bruciare Shuja’iyya. “La faremo vedere ai nostri nemici, che imparino la deterrenza… Li ridurremo in polvere,” aggiunge la voce.

Mohammed Abo Al-Kombz, originario di Shuja’iyya, ha detto a Zeteo che intere parti del quartiere e delle aree vicine sono state date alle fiamme, ciò che sembra essere coerente con quello che si vede nel video.

L’esercito israeliano non ha risposto alle nostre specifiche domande sul filmato o se avesse effettuato un’operazione come quella menzionata nel video. Ma il fatto che il video sia stato caricato sui social media dai soldati israeliani sembra illustrare il messaggio che volevano inviare: “annientare” i palestinesi “riducendoli in polvere”.

Il 19 dicembre il capitano Roi Azran ha pubblicato su Facebook un video di Shuja’iyya che mostrava la distruzione del quartiere. “Ecco Gaza, figlia di puttana. Tutta Shuja’iyya andrà in fiamme”, dice qualcuno nel video.

A gennaio un account Instagram con nome utente alon_dayann che dichiarava essere del soldato israeliano Alon Dayan ha pubblicato un video con un linguaggio simile. “Buongiorno, figli di puttana”, si sente dire un soldato nel video prima di sparare contro quelle che sembrano essere case di civili. La didascalia del video recita in ebraico: “Possa Gaza bruciare con tutti i suoi abitanti”.

Sharon Ohana dei Corpi Combattenti del Genio militare dell’esercito israeliano, in un post di dicembre su Facebook, sembra prefigurare ciò che verrà. Il “destino” di Shuja’iyya, Khan Younis e Rafah “deve essere lo stesso destino della Striscia settentrionale [di Gaza] all’inizio della guerra: sporco e polvere, fuoco e macerie di cemento”, scrive Ohana a dicembre. “… Dobbiamo radere al suolo tutta Gaza!”

Davvero il post di Ohana è solo un brutto scherzo? Ohana chiarisce esplicitamente che non lo è. “ ‘Insieme la spianeremo’ non è uno scherzo ma una dichiarazione inequivocabile scritta con il sangue dai migliori ufficiali dell’IDF attenti alla sicurezza e non per niente…”

Mentre la battaglia infuriava a Shuja’iyya altre unità israeliane stavano invadendo la città di Khan Younis nel sud di Gaza. Il soldato israeliano Peleg Harush ha pubblicato un video su Instagram il 5 dicembre che mostra volute di fumo provenienti da quelle che sembrano essere case di palestinesi. “Ah… Gaza sta bruciando. Bruciate vivi, bastardi”, dice in ebraico una voce nel video.

In un altro post di gennaio dallo stesso account, un soldato che sembra essere Harush invia un messaggio ai residenti di Gaza in ebraico: “Tutto è in rovina, distrutto, bruciato, a pezzi. Non avete nessun posto dove tornare, gazawi. A tutti i cari abitanti di Gaza, non siete cari. Non valete niente… Vi faremo passare un brutto quarto d’ora… Soffrirete ogni secondo per quello che ci avete fatto… Morirete.”

Una cultura dell’impunità

Per un paese che definisce il suo esercito come “il più morale… del mondo”, si potrebbe pensare che tali post avrebbero suscitato dure azioni disciplinari nel tentativo di proteggerne l’immagine generale. Ma come mostra la nostra indagine l’esercito israeliano, almeno pubblicamente, ha adottato poche misure per impedire ai suoi soldati di condividere tali contenuti.

Ciò che abbiamo riscontrato invece è stata una cultura dell’impunità.

Se non diversamente specificato l’esercito israeliano non ha risposto alle domande di Zeteo su soldati o post specifici. Ma un portavoce militare israeliano ha detto a Zeteo in una dichiarazione che “tutti i video, le immagini e i post sui social media” che gli abbiamo segnalato “non sono coerenti con i valori dell’IDF e non riflettono la sua politica”.

Nei “numerosi casi esaminati sembra che l’espressione o il comportamento dei soldati nei filmati siano inappropriati e che altrettanto impropriamente siano stati maneggiati”, ha detto il portavoce, sottolineando, tuttavia, che “l’atto documentato con la dichiarazione che lo accompagna è stato eseguito per scopi militari e in conformità con gli ordini” come nel caso della distruzione di “infrastrutture nemiche”.

“Le autorità competenti erano a conoscenza di molti degli incidenti elencati nella contestazione, ed erano stati esaminati e trattati a livello disciplinare e di comando prima della presentazione della contestazione”, ha detto il portavoce. L’esercito israeliano non ha spiegato cosa comportasse nello specifico l’azione disciplinare.

“I casi che non erano già noti sono stati subito trasferiti per un ulteriore esame e procedura”, ha aggiunto il portavoce. “Nei casi in cui sorga il sospetto di un reato che giustifichi l’apertura di un’indagine, l’indagine viene aperta dalla Polizia Militare.”

Il portavoce militare israeliano Daniel Hagari ha dichiarato ad ABC News all’inizio di quest’anno che l’esercito israeliano è “l’esercito del popolo. E rispettiamo l’essenza, i valori e il diritto internazionale”.

Molti dei post scoperti dalla nostra indagine rimangono online, nonostante le prove che contravvenissero alla politica militare relativa ai social media.

Nel caso di Harush che in un post ha detto: “Figli di puttana possiate bruciare vivi”, l’esercito israeliano ci ha detto a febbraio che il comportamento del soldato era inappropriato ed è stato gestito di conseguenza, senza fornire ulteriori dettagli. Eppure in un post di metà aprile Harush ha scritto “Gaza siamo tornati”, senza aver cancellato gli altri suoi post.

In molti modi i post riflettono in gran parte la società israeliana dopo il 7 ottobre. Una “febbre da genocidio” ha invaso le onde radio, l’industria dell’intrattenimento, i negozi di alimentari e i quartieri del paese, ha scritto a maggio Diana Buttu, collaboratrice di Zeteo. All’inizio dell’anno la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani intervistati per un sondaggio ha affermato di ritenere che l’esercito stesse usando “una forza adeguata o troppo scarsa” a Gaza. Molti dei post sui social media trovati nell’ambito di questa indagine avevano ricevuto decine di commenti e like di sostegno.

Post per il genocidio nonostante l’ordine della Corte Interazionale di Giustizia

La decisione dell’esercito israeliano di consentire, anche indirettamente, l’esistenza di questi posti si è già rivelata decisiva. A gennaio la Corte mondiale ha ordinato al governo israeliano di adottare misure per prevenire e punire qualsiasi “incitamento diretto e pubblico al genocidio”, che è punibile ai sensi della Convenzione sul Genocidio. Il Sudafrica, che ha portato il caso contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, ha citato diversi post simili di soldati israeliani, incluso almeno uno di quelli da noi precedentemente riportati, come prova di incitamento al genocidio.

L’ordinanza specifica della Corte Internazionale relativa alla prevenzione dell’”incitamento al genocidio”, che faceva parte di un pacchetto di misure provvisorie emesse dalla Corte, era una delle due che ha ricevuto il sostegno dell’allora giudice israeliano Aharon Barak. Eppure, nonostante l’ordinanza della Corte, continuano ad emergere nuovi post dal linguaggio genocida.

Ad aprile un account Instagram che affermava essere di Yehuda Ben Moha, co-fondatore di Eyal Battalion, ha condiviso un video che mostrava quelli che secondo lui erano camion che trasportavano farina, con la didascalia: “Avrei messo del veleno per i ‘non coinvolti’. Anche i camionisti egiziani non li sopportano”. Ben Moha ha rifiutato di commentare il post e l’account è stato reso privato dopo che abbiamo chiesto un commento.

Il 17 aprile un account Facebook che affermava di essere del tenente colonnello Maoz Schwartz del battaglione 7007 ha pubblicato una foto che sembrava mostrare palestinesi sfollati con la forza che fanno il bagno in mare. “Sono su una spiaggia e i nostri ostaggi stanno deperendo in cattività?? Che possano [i gazawi] soffocare! Niente spiaggia, niente piscina, niente!” scrive. “[Tutta] Gaza è una grande area di terroristi, compresi quelli che nella foto fanno il bagno in mare”.

La narrazione militare cade a pezzi

I nostri sforzi investigativi non solo hanno messo in luce gli allarmanti comportamenti dei soldati israeliani, ma hanno anche avuto un ruolo nella causa legale intentata dal Sud Africa contro Israele presso la Corte Internazionale. Tuttavia, il nostro lavoro ha anche attirato la sgradita attenzione dei media israeliani, che hanno rivolto il loro fuoco non contro i soldati impegnati in comportamenti barbari ma contro di noi per averli denunciati.

Portare alla luce quei materiali non è stato facile. Il nostro lavoro non solo ha attirato l’attenzione internazionale sulla situazione reale, ha anche innescato importanti discussioni sulle responsabilità e la giustizia, evidenziando la necessità di un esame più approfondito e completo delle pratiche e delle politiche di fatto all’interno dell’esercito israeliano. Man mano che emergono prove sempre più evidenti, la necessità dell’assunzione di responsabilità diventa sempre più pressante.

In definitiva i post che abbiamo scoperto rivelano un netto contrasto con la narrazione attentamente curata che Israele cerca di diffondere. Nonostante l’esercito israeliano abbia ripetutamente affermato di prendere precauzioni per ridurre al minimo i danni ai civili, le testimonianze di soldati e ufficiali sul campo raccontano una storia decisamente diversa, caratterizzata da distruzione indiscriminata e da una pervasiva cultura dell’impunità che, a nostro avviso, ha fornito ai soldati essenzialmente una tacita approvazione a continuare con le loro azioni senza timore di conseguenze. Le prove raccolte finora sono solo una piccola parte di ciò che c’è.

Ma “l’incitamento al genocidio” è ormai evidente a tutto il mondo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 

 




ESCLUSIVO: “Sei stato avvertito”: i senatori repubblicani minacciano il procuratore della Corte Penale Internazionale

Redazione Zeteo e Mehdi Hasan

06 maggio 2024 – ZETEO

Nella lettera, ottenuta da Zeteo si minacciano sanzioni in difesa di Netanyahu.

Un gruppo di influenti senatori repubblicani ha inviato una lettera al procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Karim Khan diffidandolo dall’emettere mandati di arresto internazionali contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e altri funzionari israeliani, e minacciandolo di “severe sanzioni” se lo fa.

In una concisa lettera di una pagina ottenuta in esclusiva da Zeteo e firmata da 12 senatori repubblicani tra cui Tom Cotton dell’Arkansas, Marco Rubio della Florida e Ted Cruz del Texas, Khan viene informato che qualsiasi tentativo da parte della CPI di spiccare mandati di arresto per Netanyahu e i suoi colleghi perché rendano conto delle loro azioni a Gaza sarà interpretato “non solo come una minaccia alla sovranità di Israele ma anche alla sovranità degli Stati Uniti”.

Prendi di mira Israele e noi prenderemo di mira te”, dicono i senatori a Khan, aggiungendo che “sanzioneremo i tuoi dipendenti e collaboratori e escluderemo te e la tua famiglia dall’accesso agli Stati Uniti”.

In modo piuttosto minaccioso, la lettera conclude: “Sei stato avvertito”.

In una dichiarazione rilasciata a Zeteo il senatore democratico Chris Van Hollen del

Maryland ha affermato: “Va bene esprimere opposizione a una possibile azione giudiziaria, ma è assolutamente sbagliato interferire in una questione giudiziaria minacciando gli ufficiali giudiziari, i loro familiari e i loro dipendenti di vendetta. Questo bullismo è qualcosa che si addice alla mafia, non ai senatori americani”.

Sebbene né Israele né gli Stati Uniti siano membri della CPI, i territori palestinesi sono stati ammessi con lo status di Stato membro nell’aprile 2015. Khan, un avvocato britannico, è stato nominato procuratore capo della CPI nel febbraio 2021, e una settimana prima la Corte aveva già deciso, a maggioranza, che la sua giurisdizione territoriale si estendeva a “Gaza e Cisgiordania”.

In seguito agli attacchi del 7 ottobre 2023 Khan ha annunciato che la Corte aveva giurisdizione su qualsiasi potenziale crimine di guerra commesso sia dai militanti di Hamas in Israele che dalle forze israeliane a Gaza. La Corte Penale Internazionale, secondo lo Statuto di Roma del 2002, può accusare individui di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio – e recenti rapporti suggeriscono che i funzionari israeliani sono sempre più convinti che la Corte Penale Internazionale stia preparando mandati di arresto per Netanyahu e altri alti funzionari di gabinetto e militari.

Venerdì l’ufficio del procuratore capo con sede all’Aja ha pubblicato una dichiarazione senza precedenti su Twitter, in cui si chiede la fine delle minacce di ritorsioni contro la Corte Penale Internazionale e dei tentativi di “ostacolare” e “intimidire” i suoi funzionari. La dichiarazione aggiunge che tali minacce potrebbero “costituire un reato contro l’amministrazione della giustizia” ai sensi dello Statuto di Roma.

La tempistica di questo inusuale avvertimento pubblico ora ha più senso: la lettera dei senatori statunitensi era stata inviata a Khan una settimana prima, il 24 aprile.

Nella loro lettera i dodici senatori repubblicani ricordano a Khan che gli Stati Uniti “hanno dimostrato nell’American Service-Members’ Protection Act [ASPA, legge di protezione degli americani in servizio] fino a che punto siamo disposti a spingerci per proteggere la [nostra] sovranità”.

L’ASPA, convertito in legge da George W. Bush nel 2002, da allora è diventato ampiamente noto come “L’atto di invasione dell’Aja” perché autorizza il presidente degli Stati Uniti “a utilizzare tutti i mezzi necessari e appropriati” per ottenere il rilascio non solo di cittadini americani, ma anche di alleati imprigionati o detenuti dalla CPI.

Il gruppo di senatori repubblicani – che comprende anche il leader della minoranza Mitch McConnell del Kentucky e Tim Scott della Carolina del Sud, che si ritiene siano nella lista dei candidati alla vicepresidenza di Donald Trump – afferma che l’emissione di eventuali mandati di arresto per i leader di Israele da parte della Corte Penale Internazionale sarebbe “illegittima e priva di base legale”, oltre a “dimostrare” “l’ipocrisia e i doppi standard” della Corte. I senatori sottolineano che Khan non ha emesso mandati di arresto per i leader di Iran, Siria, Cina o Hamas. Non menzionano, tuttavia, il fatto che i tre paesi elencati non sono membri della CPI, né sono accusati di aver commesso crimini di guerra sul territorio di un membro della CPI. Per quanto riguarda i funzionari di Hamas, è stato riferito che il procuratore capo sta, di fatto, anche “valutando mandati di arresto per i leader di Hamas”.

Se Khan emetterà un mandato di arresto per Netanyahu nei prossimi giorni non sarà la prima volta che perseguirà un controverso leader mondiale per presunti crimini di guerra – o sarà sanzionato per questo. Nel marzo 2023, la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato d’arresto nei confronti del presidente russo Vladimir Putin per la sua presunta responsabilità “per il crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini)”. Il governo russo ha risposto inserendo Khan nella lista dei “ricercati”.

All’epoca il presidente Biden definì “giustificato” il mandato d’arresto per Putin e affermò che era un “ottimo risultato”. E, due anni prima, nell’aprile 2021, Biden ha revocato le sanzioni statunitensi che erano state imposte dall’amministrazione Trump al procuratore della Corte Penale Internazionale sulla scia di un’indagine sull’azione militare statunitense in Afghanistan.

Venerdì l’addetta stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha detto ai giornalisti che l’amministrazione si oppone a “qualsiasi minaccia o intimidazione nei confronti di funzionari pubblici… compresi i funzionari della Corte Penale Internazionale” ma che il presidente “non sostiene questa indagine investigativa.” La Casa Bianca ha rifiutato di commentare per Zeteo la lettera dei senatori, così come l’ufficio del procuratore capo della Corte Penale Internazionale dell’Aia.

La senatrice Katie Britt dell’Alabama, una delle firmatarie repubblicane della lettera, ha detto a Zeteo che “non si tratta di una minaccia, ma di una promessa”. Gli altri 11 senatori repubblicani che hanno firmato la lettera non hanno risposto alle richieste di commento di Zeteo al momento della pubblicazione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)