Sprofondate nella disperazione: le politiche di Israele colpiscono le famiglie di Gaza che vivono di pesca

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9 settembre 2020 – B’Tselem

Il 12 agosto 2020 Israele ha ridotto da 15 a 8 miglia nautiche [da 27 a 15 km, ndtr.] la zona di pesca nelle acque di Gaza, ufficialmente a causa dei palloni esplosivi lanciati verso Israele. Il 16 agosto 2020 ha poi interdetto totalmente l’accesso al mare di Gaza, ma il 2 settembre 2020 l’ha riaperto entro le 15 miglia. Questa restrizione va ad aggiungersi a varie altre forme di pene collettive inflitte ai pescatori palestinesi dall’inizio del blocco imposto da Israele sulla Striscia nel 2007. Israele ha arrestato pescatori e ne ha confiscato le imbarcazioni, proibito l’importazione di materie prime usate per le riparazioni e sparato ai pescherecci accusati di oltrepassare i limiti permessi. A oggi il fuoco israeliano ha ucciso sette pescatori, ferendone centinaia. Le restrizioni hanno quasi portato al crollo dell’industria ittica: al momento ci sono meno di 4.000 pescatori invece dei circa 10.000 di vent’anni fa. Chi è rimasto soffre per le pericolose condizioni di lavoro imposte da Israele e vive con la propria famiglia in povertà estrema.

Le seguenti testimonianze sono state raccolte sul campo per noi da Olfat al-Kurd fra mogli e madri di pescatori e pescivendoli a Gaza. Descrivendo la loro dolorosa realtà e il loro futuro incerto, le donne hanno parlato della costante paura per i loro cari e dei gravi problemi economici creati dalle restrizioni israeliane al loro sostentamento e destinate a peggiorare a causa della pandemia.

Nella sua testimonianza del 5 agosto 2020, Intesar a-Sa’idi (52 anni), mamma con sei figli che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, descrive le difficoltà economiche e la tragedia personale che affliggono la sua famiglia:

Quando Muamen va a lavorare sono preoccupata perché penso che non ritornerà, mi tranquillizzo solo quando è di nuovo a casa.

Agli inizi del 2018, Muamen era andato a pesca e non era tornato per molto tempo. Ho avuto paura per la sua vita quando ho saputo da altri pescatori della nostra famiglia che i soldati l’avevano arrestato. Ero terrorizzata e in lacrime. All’epoca i soldati avevano in custodia anche suo fratello. Avevo paura che non sarebbe tornato a casa. Nostro figlio Muhammad aveva solo sette mesi.

Per tre settimane non abbiamo saputo dove lo tenessero e non ho quasi dormito o mangiato. Finalmente l’hanno liberato. Quando è entrato in casa, quasi non credevo ai miei occhi, piangevo e ridevo, l’ho abbracciato, ero così felice.

Dopo l’arresto, nonostante i rischi, è tornato a pescare, è l’unico lavoro che sa fare. Fra il 2013 e il 2017 i soldati hanno confiscato tre dei pescherecci della famiglia e finora ne hanno restituito solo uno. L’anno scorso i fratelli di Muamen hanno comprato una barca e lui ha ricominciato a lavorare con loro, 5 fratelli in una barca. Ogni fine-settimana riceve 150 shekel (circa 40 euro), ma non è abbastanza per noi quattro, specialmente perché i bambini sono piccoli e hanno bisogno di pannolini e latte ogni giorno. La mia vita gira intorno a prestiti e debiti con famigliari e amici. Mia suocera ogni tre o quattro mesi prende 750 shekel (185 euro) dal Ministero del Welfare e li divide fra i figli. Mio marito li usa tutti per saldare i nostri debiti. Qualche volta fa dei prestiti per comprare reti e remi e quando vende il pesce usa tutti i soldi per ripagare i debiti.

Quando sento che i soldati hanno aperto il fuoco contro i pescatori chiamo immediatamente i miei cognati per sapere di Muamen e non sono tranquilla finché non è a casa. Anche lui ha paura di essere arrestato o ucciso, questo mi rende ancora più agitata. Gli chiedo di non dire cose così e di tornare sano e salvo, se dio vuole.

Qualche volta dico a Muamen che spero cambi lavoro per i pericoli che vengono dal mare e dall’esercito israeliano. Gli chiedo di cercarsene un altro e di smettere con la pesca, ma lui dice che la situazione a Gaza è difficile e non c’è nient’altro. Mi chiede di essere paziente e sperare in tempi migliori.

Prego dio che tenga I’esercito israeliano lontano da mio marito e dagli altri pescatori. Prego che la nostra situazione economica migliori, per un futuro sicuro per i nostri figli e perché mio marito rimanga sano e salvo e che non venga ferito.

Anche ‘Ula a-Sa’idi (36), mamma di nove bambini che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, parla delle difficoltà di dipendere dalla pesca:

Mio marito (42 anni) ha fatto il pescatore fin da quando ci siamo sposati 18 anni fa. È un lavoro impegnativo e non mi piace perché è molto pericoloso, anche se tutti i miei parenti sono pescatori. Ma è la nostra sola fonte di reddito, così dobbiamo vivere con questo rischio.  Abbiamo dei problemi economici. Dall’inizio del blocco, il guadagno di mio marito è crollato a 700 shekel (~170 euro) al mese. Adesso, anche se lavora duro, guadagniamo al massimo 500 shekel (~120 euro). È piuttosto poco e non basta per le nostre necessità. Prendevo un sussidio di 1.800 shekel (~445 euro) dal Ministero dei servizi sociali ogni tre o quattro mesi. Dopo quattro anni è sceso a 700 shekel che non bastano per vivere e qualche volta neppure per i bisogni giornalieri o per comprare dei vestiti nuovi ai bambini per le vacanze.

Dallo scoppio del coronavirus, le cose sono persino peggiorate perché la situazione economica a Gaza è pessima e la gente compra meno pesce, ci sono meno stranieri, meno grandi eventi e ordinazioni.  

Mio marito lavora con il fratello sulla sua barca. Va in mare alle tre del mattino e torna dopo le tre del pomeriggio. Quando va a pesca, prego dio che lo tenga lontano dai soldati e dai loro proiettili. Non sono tranquilla fino a quando non torna a casa o mi chiama. Quando è fuori, sono molto in ansia, specialmente quando sento che sparano ai pescatori. Divento nervosa e lo chiamo immediatamente per controllare che stia bene. Anche i miei bambini stanno in ansia quando sentono degli spari e si chiedono quale dei pescatori è stato arrestato e sperano non sia papà. Io cerco di calmarli, dico di essere pazienti, che papà tornerà a casa. Quando mio marito è in ritardo, nostro figlio Anas di 9 anni è così preoccupato che va al porto ad aspettarlo.

Per una moglie avere un marito pescatore è la cosa peggiore. D’inverno mio marito soffre per il gran freddo e così mi preoccupo anche di quello, oltre ai pericoli del mare e più di tutto delle sparatorie contro i pescatori. Ogni volta che qualcuno mi dice che i soldati hanno sparato contro i pescatori, sento che sto per perdere mio marito. Prego dio che ce lo riporti sano e salvo.

I soldati hanno arrestato mio marito varie volte, l’ultima nel 2018. Nel 2007 è stato in prigione per sei mesi. Avevano anche confiscato due delle nostre barche e quattro motori e li hanno bloccati nel porto di Ashdod. Di solito l’esercito non li restituisce dopo la confisca.

Spero che un giorno la nostra situazione migliori. Vorrei che ci restituissero i nostri pescherecci, così mio marito avrebbe la sua barca, e che allarghino la zona di pesca. Voglio vivere dignitosamente, sicura per il futuro dei bambini e in grado di soddisfare i loro bisogni e desideri. Spero che non diventeranno pescatori, è un lavoro duro e pericoloso.

A.M. (49 anni), sposata e con nove figli, vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, il cui marito è un commerciante di pesce, in una testimonianza rilasciata il 9 agosto 2020 dice:

Mi sono sposata nel 1989. Mio marito ha lavorato nel settore del pesce da quando aveva 12 anni. Lavorava con il padre pescivendolo e con altri parenti. Ho nove figli dai sei ai 29 anni. Viviamo vicino alla costa e molti dei nostri parenti sono in questo settore.

Nei primi anni di matrimonio c’era un sacco di pesce e poca concorrenza. Mio marito andava al mercato alle 3 del mattino e portava a casa grandi quantità di pesce, lo puliva e lo portava al mercato. Di solito lo vendeva tutto nel giro di due ore e tornava a casa. Avevamo un buon reddito di circa 3.000-4.000 shekel mensili (~ 740-990 euro).

È andata avanti così per anni e avevamo un alto livello di vita, ci siamo comprati la casa e avevamo tutto quello che ci serviva, mi ero persino comprata dei gioielli d’oro. Abbiamo allevato i nostri figli in un momento in cui le nostre finanze erano ottime, non gli è mancato niente, vivevamo felici e tranquilli.

Circa 13 anni fa, quando Israele ha cominciato il blocco su Gaza, le cose sono cambiate. Gli affari ne hanno sofferto, la zona di pesca è stata limitata e talvolta la pesca è stata completamente vietata. Il pesce era scarso e caro per i commercianti e i consumatori. D’estate quando ce n’era tanto, la gente ne comprava 4/5 chili, adesso uno o due.

Qualche volta mio marito deve portarsi a casa un po’ o quasi tutto il pesce. Sta al mercato tutto il pomeriggio e la sera cercando invano di venderlo. È impossibile tenere al fresco il pesce per la scarsità di energia elettrica e qualche volta va a male.    

Dall’inizio del blocco le nostre finanze sono peggiorate. Mio marito non possiede una bancarella al mercato e così affitta uno spazio largo un metro o due a circa 10 shekel (~2,50 euro) al giorno. I bambini lavorano con lui, ma in totale non guadagniamo più di 1,500 shekel (~ 370 euro) al mese e siamo in 14 in famiglia. Due figli sono sposati e uno ha dei bambini, ma viviamo tutti nella stessa casa. Anche se siamo una famiglia numerosa, non prendiamo sussidi perché mio marito lavora in proprio. Per saldare i debiti e pagare per i matrimoni dei nostri figli ho venduto tutto il mio oro e 250 mq di terra che avevo comprato. Uno dei nostri figli ha abbandonato l’università perché non potevamo continuare a pagare le rette. Dall’inizio della crisi da coronavirus la situazione è peggiorata: ristoranti e hotel non comprano quasi più pesce perché restano chiusi per lunghi periodi e a Gaza non ci sono visitatori perché i confini sono chiusi. La crisi ha veramente danneggiato il lavoro di mio marito al mercato.  

È molto dura non essere in grado di soddisfare le necessità dei miei figli. Non ho potuto comprare i vestiti per le vacanze da festa e per l’inizio dell’anno scolastico. Devono usare vestiti, zainetti e persino scarpe dell’anno scorso. Mi fa male al cuore perché avrei veramente voluto dar loro delle cose nuove! Ma non possiamo permettercelo e quando chiedono qualcosa, come andare in gita, ogni volta devo rimandare. Mi fa male perché mi piacerebbe vedere i loro occhi riempirsi di gioia.

La situazione è deprimente e opprimente, ma so che non c’è un altro lavoro per mio marito o per i nostri figli. Spero che la nostra situazione migliori.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)