Una Palestina post-Trump

Ahmed Abu Artema ,uno dei fondatori della Grande Marcia del Ritorno
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Ahmed Abu Artema

Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e un attivista per la pace.

17 gennaio 2021 – Al Jazeera

I palestinesi dovrebbero smettere di sperare in un cambio di politica a Washington e andare avanti con la loro lotta per la libertà.

Per decenni i palestinesi hanno sofferto sotto l’occupazione coloniale israeliana sostenuta e consentita dall’appoggio politico, finanziario e militare degli USA. Ciò ha permesso ad Israele di espandere progressivamente la sua occupazione e colonizzazione della Palestina, al punto che oggi solo circa il 5% della terra della Palestina storica è realmente controllato dai palestinesi.

Questo processo è proseguito per anni, pressoché indisturbato da un controllo internazionale, con la copertura del “processo di pace” di Washington e della sua autoproclamata posizione di mediatore tra le parti palestinese ed israeliana.

Tuttavia quando Donald Trump è diventato presidente USA nel 2017 ha interrotto questo processo di graduale colonizzazione accuratamente costruito. Ha adottato il programma israeliano più razzista ed estremista e ha cancellato la pratica consolidata di onorare formalmente i diritti dei palestinesi.

Al governo di destra israeliano è stato dato il via libera per fare ciò che voleva, mentre il presidente americano ha continuato a legittimare le sue azioni illegali e criminali. Questo ha di fatto accelerato la prassi di creare “fatti sul terreno” – cioè l’usurpazione della terra palestinese e la sovversione di ogni autorità politica palestinese, al punto che è diventato impossibile soddisfare le richieste dei palestinesi ed i loro diritti sono diventati irrilevanti.

Quindi che cosa significa per i palestinesi l’eredità di Trump?

Quattro anni di Trump

Anche se il Congresso USA nel 1995 approvò un disegno di legge che riconosceva Gerusalemme come capitale di Israele, le successive amministrazioni USA ne hanno rinviato l’applicazione a causa della mancanza di un accordo tra l’Autorità Nazionale Palestinese ed Israele sullo status della città santa.

Il 6 dicembre 2017 Trump ha trasformato in realtà ciò che era già sulla carta, emanando un ordine esecutivo di trasferimento dell’ambasciata USA in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Ciò è avvenuto il 14 maggio dell’anno seguente, che coincideva con il 70^ anniversario della Nakba e che Israele ha segnato con il massacro di decine di palestinesi a Gaza.

Qualche mese dopo Trump ha annunciato la cancellazione dei finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA). Questa non è stata solo una catastrofe per milioni di palestinesi che dipendono dall’agenzia per il cibo, l’istruzione e la sanità, ma è stato un tentativo di cancellare lo status di rifugiati dei palestinesi e, di conseguenza, il loro diritto al ritorno. Cercando di distruggere l’UNRWA, Trump stava eseguendo gli ordini del governo israeliano che per decenni ha fatto il possibile per impedire ai palestinesi colpiti dalla pulizia etnica di ritornare e rivendicare la propria terra.

Il diritto al ritorno è stato ulteriormente compromesso anche dall’ “accordo del secolo” proposto da Trump e da suo genero Jared Kushner. Mutuando il linguaggio delle precedenti “iniziative di pace” USA, la proposta prometteva “pace” e “prosperità” per i palestinesi, ma respingeva la maggior parte delle loro richieste, compresa l’autodeterminazione attraverso uno Stato palestinese sovrano. Intanto il 18 novembre 2019 il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha annunciato che il governo USA non considerava la costruzione delle colonie israeliane in Cisgiordania una violazione del diritto internazionale.

Nei suoi ultimi mesi da presidente, Trump non ha mancato di fare un altro generoso regalo ad Israele: la normalizzazione con gli Stati arabi. È stato un altro duro colpo per la causa palestinese.

In seguito alla seconda Intifada la Lega Araba – su iniziativa del defunto re saudita Abdullah – si era impegnata a normalizzare le relazioni con Israele solo in cambio della creazione di uno Stato palestinese sui confini del 1967, del ritorno dei rifugiati e del ritiro di Israele dalle Alture del Golan.

In agosto [2020] gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno firmato accordi di normalizzazione con Israele, sotto l’egida dell’amministrazione Trump, senza pretendere alcuna concessione sulla questione palestinese del ritorno: il Marocco e il Sudan poco dopo hanno fatto altrettanto. E’stata una palese rottura con l’accordo arabo su “terra in cambio di pace”.

Così, alla fine della presidenza Trump, i palestinesi appaiono spogliati di tutto ciò di cui potevano esserlo.

Una Palestina post-Trump

La vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali USA di novembre sembra aver portato un certo ottimismo in alcuni ambienti palestinesi rispetto al fatto che gli USA modificheranno la propria politica verso i palestinesi. Non dimentichiamo che la politica di Trump non è mai stata in contraddizione con la tradizionale posizione di Washington sulla Palestina, che mostrava pieno e incondizionato appoggio allo Stato di Israele.

Aspettarsi che Biden cambierà qualcosa o rimedierà ai danni del suo predecessore è una follia. Di fatto lui e la sua squadra hanno ampiamente chiarito che non ribalteranno le decisioni di Trump, incluso il trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. La sua amministrazione non appoggerà la lotta dei palestinesi per la giustizia; non si adopererà per la loro liberazione, per la fine dell’occupazione israeliana, per lo smantellamento del regime di apartheid israeliano o per il ritorno dei rifugiati palestinesi nella loro patria.

La lezione che i palestinesi dovrebbero imparare dai quattro lunghi anni della presidenza Trump non deve poggiare sul fatto che un’amministrazione USA possa mai sostenere i loro interessi e diritti o diventare un arbitro obiettivo. L’élite politica americana è fautrice dell’occupazione e della colonizzazione israeliana della Palestina, tale è sempre stata e tale rimarrà in futuro. E, proprio come Trump, continuerà a concedere a Israele tutto quel che vuole, che sia la legittimazione dei suoi illegali furti di terra o un’illimitata fornitura di sofisticati armamenti da usare contro i palestinesi.

Appoggiato in pieno dagli USA, Israele continua a creare “fatti sul terreno”, a stabilire un dominio assoluto su tutta la Palestina storica e a rendere impossibile uno Stato palestinese. Ma c’è una cosa che Israele non è assolutamente in grado di fare, nonostante la sua potenza militare, le sue risorse finanziarie e l’illimitato sostegno da parte di una superpotenza: non può cancellare i palestinesi.

Sei milioni di palestinesi – privati della loro libertà e della loro patria – continuano a vivere nella Palestina storica. Milioni di altri palestinesi vivono nei vicini Paesi arabi e nella diaspora. La loro identità, la loro mera esistenza erodono giorno dopo giorno l’inganno che Israele ha usato per mascherare il proprio apartheid e presentarsi al mondo come un “modello di democrazia”. Più importante ancora, la vita e lo spirito dei palestinesi minano attivamente l’occupazione e l’apartheid israeliani.

I palestinesi subiscono terribili deprivazioni e soprusi da parte degli israeliani, ma sono tenaci. La loro stessa esistenza è diventata resistenza. E il tempo non è dalla parte del loro aguzzino. In questo momento Israele può sembrare un colonizzatore vittorioso, avendo eliminato quasi tutti gli ostacoli all’annessione della Cisgiordania. Ma la lotta palestinese sta facendo progressi. In un futuro non troppo lontano la giustizia prevarrà e i palestinesi otterranno la loro libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e un attivista per la pace. È autore del libro “Caos organizzato” e di numerosi articoli ed è uno dei promotori della Grande Marcia del Ritorno. È un rifugiato del villaggio di Al Ramla in Palestina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)