“Ci hanno buttati fuori come se fossimo spazzatura”: i palestinesi che hanno perso le proprie case a Gerusalemme.

Ihab Hassan Ali sulle macerie della sua casa di Shuafat. (Rachel Shor)
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Yuval Abraham 

29 aprile 2021 – +972 magazine

Nel 2020 Israele ha demolito un numero record di case palestinesi a Gerusalemme. Dietro ad ognuna di queste c’è una famiglia che ha perso tutto, e molte non sono in grado di ricostruire la propria vita.

Ci sono aridi dati statistici: secondo i numeri forniti dall’associazione per i diritti umani Ir Amim [Ong israeliana impegnata a garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini di Gerusalemme, ndtr.] nel 2020 un record di 140 famiglie palestinesi di Gerusalemme est ha perso la propria casa. Nel 2019 a Gerusalemme 72 famiglie palestinesi hanno assistito alla demolizione della propria abitazione, mentre nel 2018 questo numero era di 59. La maggior parte di queste persone, che hanno visto come i bulldozer sfondavano i muri della loro casa, sono invisibili agli occhi dell’opinione pubblica israeliana. Sono diventati una statistica. Ma ogni casa demolita porta con sé uno sconvolgimento complessivo per la famiglia, con ripercussioni che durano anni, molto al di là della demolizione in sé.

Ho incontrato tre diverse famiglie palestinesi subito dopo che, nel 2020, le loro case erano state demolite. Ho parlato con loro di nuovo alla fine dell’anno scorso per sentire quello che ne è stato delle loro vite da quando le loro abitazioni erano state distrutte. Non sono criminali, sono persone che hanno costruito le proprie case su terreni di proprietà privata che, per loro sventura, si trovavano in zone in cui in base a considerazioni demografiche Israele intende ridurre la presenza palestinese. E quando Israele vuole cacciare degli arabi dalle loro terre trova sempre il modo di farlo.

La famiglia Abadiya

Ismayil Abadiya è nato e cresciuto nel quartiere di Sur Baher, a Gerusalemme est. Quando ha voluto costruire una casa per i figli sulla sua terra ha scoperto che gli era impossibile ottenere una licenza edilizia dalle autorità israeliane. Si è scoperto che il piano regolatore di Sur Baher stilato dal Comune di Gerusalemme e da vari enti regolatori non aveva considerato edificabile il suo terreno.

È così che sono fatti i piani regolatori a Gerusalemme est: la maggioranza di essi non è stata aggiornata per 20 anni ed è molto difficile ottenere una licenza edilizia proprio perché sono stati predisposti per limitare l’ampliamento dei quartieri.

Ismayil non voleva correre rischi e costruire senza permesso, come fanno molti nella sua situazione, e ha deciso di comprare un terreno a Wadi al-Hummus, a soli 10 minuti di macchina dalla sua casa. Wadi al-Hummus si trova fuori dai confini del Comune di Gerusalemme per come sono stati delimitati nel 1967, quando [Israele] ha occupato la parte orientale della città. Vi ha costruito legalmente una casa ed ha ottenuto tutti i permessi necessari dall’Autorità Nazionale Palestinese, che è responsabile delle licenze edilizie nell’Area B della Cisgiordania, dove si trova il terreno.

Dopo che la casa era stata costruita, Ismayil ha scoperto dell’esistenza di un ordine militare che vieta di costruire nei pressi del muro di separazione, che Israele ha eretto a qualche decina di metri di distanza. Il tentativo di Ismayil di portare il suo caso nei tribunali israeliani non ha dato risultati. Ero con lui la notte in cui la sua casa è stata demolita nel 2019. “I soldati sono entrati ed ho immediatamente alzato le mani. Due dei miei figli erano in casa e non volevo violenze,” ha detto.

“In un primo tempo quando hanno bussato alla porta ci siamo rifiutati di andarcene perché quella era la nostra casa. Ma nel momento in cui hanno fatto irruzione, volevo prendere ogni cosa e uscire. Però sono entrati in modo violento e ci hanno buttati fuori come se fossimo spazzatura.”

Lo ricordo seduto sulla strada, con gli occhi gonfi vicino al suo figlio maggiore che tossiva a causa dei lacrimogeni sparati contro di loro solo qualche minuto prima. “Mi spiace, mi spiace,” mormorava Ismayil mentre guardava suo figlio. Ricordo la bicicletta di Hiba, la figlia di quattro anni, tutta rotta e sepolta tra le macerie.

Siamo rimasti in contatto per qualche mese. Mi sono sentito responsabile perché ho scritto di lui e l’ho fotografato per un articolo. Mi sono messo in contatto con ogni sorta di ente benefico, associazione di solidarietà e avvocati per avere un aiuto. Alcuni hanno promesso un aiuto legale, ma non hanno fatto molto. Non c’era veramente niente da fare.

Un mese dopo la distruzione, quando sono andato a trovarlo, Ismayil mi ha ospitato in casa di sua madre dove stavano vivendo lui e i cinque figli. Siamo andati insieme sul luogo in cui si trovava la sua vecchia casa, dove Ismayil va ogni giorno solo per dare un’occhiata. Le proprietà della famiglia erano ancora sepolte lì sotto un cumulo di pietre.

Nel corso del tempo abbiamo iniziato a comunicare sempre meno. Non volevo mollare, ho pensato che forse parlare a più persone di quello che era successo potesse aiutare.

Ho suggerito di iniziare una campagna di finanziamento, ma Ismayil ha categoricamente rifiutato. In un primo tempo ha detto che, poiché il Comune non rilascia licenze edilizie e di conseguenza non c’è per lui un posto in cui costruire legalmente, non sarebbe servito. Un’altra volta mi ha detto: “È qualcosa di fisico nel mio corpo. Non posso chiedere soldi a estranei.” Un po’ alla volta ho smesso di avere notizie da lui. A un certo punto ho anche smesso di chiamarlo.

Lo scorso luglio, proprio un anno dopo che la sua casa era stata demolita, Ismayil mi ha chiamato: “Sono in macchina,” mi ha detto. “Ho viaggiato parecchio. Non riesco più a respirare. Non ho più niente da perdere.”

Mi ha detto che la settimana prima sua figlia aveva festeggiato il suo quinto compleanno. “I suoi amici, dei bambinetti, sono venuti a visitarci. Ci hanno riso in faccia per come eravamo ridotti, dei miserabili, a vivere in una stanza della casa di mia madre. Erano vicino a me e lei gli ha gridato: “Non avvicinatevi a mio padre, è mio. È solo mio. Gli voglio bene.”

“Ha più paura per me di quanto io ne abbia per lei,” ha detto Ismayil. “Di notte si aggrappa a me. Di giorno sta seduta vicino a me in silenzio. Per tutta la mia vita ho cercato di occuparmi di lei, di essere un buon padre, e alla fine è lei che si occupa di me.”

Ho di nuovo offerto di lanciare una raccolta fondi. Ha rifiutato: “Se lo faccio, qual è la differenza tra me è un mendicante?”

“Voglio che tu mi metta in contatto con Ofer Hindi, il funzionario che ha firmato l’ordine di demolizione,” mi ha detto. “Voglio che mi conosca, che sappia chi sono. Gli chiederò di costruire una piccola casa sulla mia terra con una recinzione alta, in modo che non ci siano problemi di sicurezza dovuti alla vicinanza con il muro, qualunque cosa voglia. Mettici solo in contatto.”

La famiglia Ali

Lo scorso giugno le autorità israeliane hanno demolito la casa di of Ihab Hassan Ali nel campo profughi di Shuafat. È stata la terza volta che è stato espulso. “Prima del 1948 vivevamo vicino ad Abu Ghosh (un villaggio arabo nei pressi di Gerusalemme), in un villaggio chiamato Beit Thul. I miei genitori vennero deportati da lì durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica operata dai sionisti, ndtr.], la casa venne demolita e da allora siamo stati una famiglia di rifugiati,” dice. “All’epoca i miei genitori si spostarono nella Città Vecchia (di Gerusalemme). Ma nel 1967 nelle settimane successive all’occupazione [da parte di Israele, ndtr,] vennero cacciati anche da lì. Per questo siamo venuti nel campo di Shuafat.”

Negli ultimi anni molti palestinesi di Gerusalemme sono stati obbligati a vivere nel campo, che si trova dall’altra parte del muro di separazione, dopo che Israele ha negato loro le licenze edilizie all’interno della città o ha demolito le loro case, proprio come nel caso di Ihab.

Il Comune di Gerusalemme non fornisce praticamente alcun servizio allo spaventosamente affollato campo profughi di Shuafat. La costruzione avviene in modo pericoloso, senza supervisione o permessi. Ihab lì ha costruito una casa più di 30 anni fa, quando il campo era scarsamente abitato. Vi abita con i suoi figli e nipoti.

Negli anni ’80, quando Ihab costruì la sua casa, cercò di ottenere una licenza edilizia, ma ricevette la seguente risposta di una sola frase dall’Organismo Municipale e Unità di Monitoraggio di Gerusalemme: “Nessun progetto approvato e nessuna licenza edilizia può essere ottenuta per l’area in questione.” Ihab dice che, come molti palestinesi in città, aveva solo due possibilità: lasciare Gerusalemme o costruire la sua casa senza permesso.

Ihab Hassan Ali sta sulle macerie della sua casa nel campo profughi di Shuafat, Gerusalemme Est. (Rachel Shor)

Più di 30 anni dopo sono arrivati tanti poliziotti ed hanno demolito la sua casa. Era un grande edificio di due piani accanto al supermercato della famiglia. Un rappresentante del Comune ha detto a Ihab che la demolizione era avvenuta allora perché la casa era troppo vicina al muro di separazione.

“Ho costruito questa casa per la mia famiglia molto prima che venisse eretta la barriera,” afferma. “I muratori che l’hanno edificata avrebbero potuto riposarsi nel mio giardino, gli avrei offerto del tè. Se la barriera è vicina alla mia casa è perché Israele l’ha costruita vicino a casa mia.”

Quando l’ho chiamato alla fine dell’anno scorso mi ha detto: “Né io né la mia famiglia ci siamo ripresi dal punto di vista psicologico. Abbiamo cercato di immaginare cosa fare economicamente. Quando ero giovane ho lavorato come muratore, ma ho smesso quando avevo una quarantina d’anni. Ho preso tutti i miei risparmi ed ho aperto un piccolo supermercato. Ora sono tornato a lavorare come manovale senza uno shekel in tasca, ma il mio corpo non è più quello di una volta e alla fine di ogni giornata di lavoro le gambe mi bruciano.”

“Non faccio vedere ai miei figli e nipoti quanto sia difficile, “continua Ihab. “Dico loro di non preoccuparsi, che le cose vanno così, che in futuro compreremo un altro appezzamento di terra, vivremo come gli altri, costruiremo una casa con gli stessi pavimenti e finestre che avevamo prima. Non li lascio andare alle macerie, che sono ancora lì nel campo. Passo per altre strade, ma è difficile perché la loro scuola è lì vicino.”

“Sulla carta sono un cittadino, ma non ho diritti. Le autorità arrivano nel campo ogni giorno. Consegnano solo multe e ordini di demolizione per fare in modo che lasciamo la città. Questo processo non ha fatto che aumentare negli ultimi 20 anni. Prima di Oslo non era così, iniziò a cambiare tutto nel 1994. A Gerusalemme si sono accaniti con imposizioni contro la costruzione da parte dei palestinesi, senza fornire piani regolatori che consentissero di costruire legalmente.”

All’inizio del 2020 il Comune ha inviato a Ihab una convocazione, informandolo di una multa che avrebbe dovuto pagare per la demolizione della sua casa. “Calcolo che la multa sarà attorno al mezzo milione di shekel [circa 127.000 euro], so che c’erano un sacco di soldati e mezzi pesanti. Capisci? Mi verrà a costare come la casa. Compri da loro quello che hanno distrutto.”

La famiglia Abu Diab

Le autorità hanno demolito la casa di Ahmad Abu Diab, nel quartiere di Silwan, lo scorso giugno. Per qualche ragione il piano regolatore della zona ha destinato il suo terreno a “spazio pubblico aperto” in cui è vietato costruire. “Cosa pensano, che questa sia un’area per coltivare aranci, limoni?” chiede. “Questo è un piccolo appezzamento di terra privata di mia proprietà. Non ho nessun altro posto al mondo su cui costruire una casa.”

“Ho chiesto al Comune perché non cambiano la destinazione d’uso,” afferma Ahmad. “Dicono che me ne dovrei occupare io stesso e mi hanno chiesto di pagare un ingegnere, un avvocato, utilizzare un velivolo per fotografare tutte le case del quartiere dall’alto, e poi mappare la terra dei vicini. Questo, dicono, è l’unico modo secondo loro di verificare se sia possibile aggiornare il piano regolatore. Ma questa è responsabilità loro! Dove vado a prendere centinaia di migliaia di shekel per fare una cosa del genere?”

“Se fossimo ebrei potremmo costruire ovunque. E non è solo un problema mio, tutta Silwan è piena di ordini di demolizione per gente che ha costruito sulla propria terra senza permesso perché non se ne può ottenere uno. Quelli che hanno ricevuto un ordine di demolizione e hanno abbastanza soldi possono pagarsi un avvocato e presentare appello. In questo modo rimandano la demolizione più e più volte. Ma alla fine dovranno comunque demolire (la casa). È un modo per prendere tempo. Non ho neppure i soldi per un avvocato, quindi non posso guadagnare tempo.”

“Dopo la demolizione ci siamo spostati nel soggiorno di una casa vicina di parenti,” dice Ahmad. “Abbiamo vissuto lì per un mese, tutti in una stanza.”

“Degli amici mi hanno offerto di andare dall’altra parte del muro di separazione, nel campo profughi di Shuafat, ma non ho voluto. Sono di Silwan, il nonno di mio nonno è sepolto qui. Sono le mie radici, tutta la mia famiglia vive qui vicino, nei giorni di festa mi ci vuole solo un’ora per visitare chiunque. Non me ne voglio andare. Ho cercato un’abitazione in affitto, ma è molto difficile perché non ci sono case. Quando ho trovato qualcosa, i proprietari si sono rifiutati perché ho cinque bambini piccoli e avevano paura che distruggessimo la casa. Alla fine ho trovato un appartamento a Silwan, dove viviamo adesso.”

“La vita di tutta la mia famiglia è cambiata tanto da non riconoscerla più,” continua. “Soprattutto quella della mia figlia maggiore, Manal, che fa la seconda elementare. Gli altri sono troppo piccoli, non parlano della demolizione. Ma lei sì, ricorda la stanza e il bagno che aveva nell’altra casa. Tutte le nostre cose sono state distrutte. Sono rimaste troppo tempo al sole sotto le macerie. Ho ricomprato tutto.”

“Parlando di soldi, ce la caviamo a malapena. Ho dovuto mettere i miei figli in una scuola diversa per ragioni economiche e da allora i loro voti sono nettamente peggiorati. Un mese fa il Comune mi ha mandato una multa di 27.000 shekel [circa 6.800 €] per la demolizione e per pagare quelli che sono venuti a farla.”

Yuval Abraham è uno studente di fotografia e linguistica.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

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